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Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. II/Capo XVIII

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Capo XVIII.

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Vol. II - Frontespizio Vol. II - Capo XIX
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BIOGRAFIA

DI

FRÀ PAOLO SARPI




CAPO DECIMOTTAVO.


(1608). Ho detto altrove che morto il patriarca Matteo Zane gli fu dal Senato sostituito Francesco Vendramin, cui il papa non volle riconoscere; e sopragiunte le turbolenze dell’interdetto, l’affare restò pendente finchè fu ripreso nel 1607 e conchiuso ai 20 febbraio del seguente anno. Pretendeva il pontefice che il Vendramin andasse a Roma per esservi esaminato: materia di lungo carteggio fra i due governi. Dal veneto interpellato Frà Paolo, rispose: che il papa non può fare alcuna eccezione quando il vescovo abbia i requisiti voluti dai canoni; non può addurre ragionevolmente l’esempio del Zane, perchè fu un caso eccezionale e neppure fu esaminato secondo le regole stabilite dalla bolla di Clemente VIII, ma solo per forma; la patriarchia essere un jus patronato della Repubblica confermato dal tempo e dall’incontrastabile possesso riconosciuto dai pontefici. Conchiudeva che stante questo il papa [p. 2 modifica]non potendo de jure ricusare il patriarca proposto dal Senato, l’esame non riusciva di alcun pregiudizio ai diritti della Repubblica, e si poteva benissimo lasciare che gli facesse quanti esami voleva.

Questo scriveva Frà Paolo prima dell’ottobre 1607, onde si vede che non era peranco tanto avverso a Roma, che, a procurare una perfetta concordia fra i due governi, non inclinasse a compiacerla in tutto che non compromettesse le ragioni della sua patria. E se la Curia avesse saputo moderare il proprio fanatismo, avrebbe potuto se non affezionarselo, almeno non renderselo quel formidabile nemico che lo provò poi sempre per diciasette anni; e lo spirito di cui, sopravvivendo alla persona, continuò a percuotere colla invisibile sua forza la Santa Sede, tendendo a ridurla a quel solo spirituale che i Curialisti chiamano un niente.

Ma quando appunto si trattava questa contesa del patriarca, accadde l’assassinamento del Consultore, e il Senato, pieno di sdegno per l’alta ingiuria, si mostrò inflessibile agli accomodamenti e dichiarò di voler persistere nella conservazione de’ suoi diritti; finchè per interposizione della Francia, concordarono lo stesso mezzo termine come nel Zane. Ma la Corte, per connivenza del patriarca medesimo, mancò agli accordi; e alla mala fede aggiungendo l’insulto, fecelo esaminare da un gesuita: strano ripiego per conciliare gl’Ignaziani colla Repubblica. Paolo V accortosi della indecenza, a rimedio onorò il Vendramin quanto più potè, e gli consegnò un Breve che esonorava d’ora in poi i patriarchi di andare a Roma. Sotto il velo delle blandizie era un’astuzia [p. 3 modifica]romana, intendendo che quella esenzione non era un diritto della Repubblica, ma una concessione del papa. Il Senato si querelò dell’uno e dell’altro; finse gradire il Breve, ma protestò l’inviolabilità de’ suoi diritti, e che per l’avvenire, il papa voglia o non voglia, nissun patriarca sarebbe mai più andato a Roma: e così mantenne.

Finita appena una questione, la corte romana, scaltra e tenace delle sue massime, ne suscitò un’altra, chiedendo che a levare ogni reliquia delle passate discordie e stabilire una piena e sincera pace, proibisse il Senato le opere pubblicate in quella occasione e ne impedisse lo smercio. Domanda insidiosa, a cui ove fosse accondiscesa, Venezia confessava implicitamente di avere avuto torto. Ne fu commesso l’esame a Frà Paolo, il quale in un consulto che è a stampa fece sentire la finezza dell’artifizio, i pregiudizi che avrebbe portato ai diritti della Repubblica, e le conseguenze perniciose che ne avrebbe tirato la Corte in suo favore. Espose le massime sostenute in quei libri conformi alle ragioni messe in pratica dalla Repubblica, e le mise a confronto colle massime contrarie sostenute dai Curiali di cui fa un lungo estratto usando le precise loro espressioni.

Il quale catalogo di solenni eresie spacciate come articoli di fede dagli avvocati della Curia, e più di tutti dal Bellarmino, tornò funesto alla gloria di quest’ultimo; imperocchè il cardinale Passionei avendolo riprodotto a tempi di Benedetto XIV, quando si trattava la beatificazione di quel gesuita, ciò bastò per escluderlo dalla aristocrazia celeste. [p. 4 modifica]

È ancora da sapersi che verso il 1600 sotto il ponteficato di Clemente VIII era stata eretta una congregazione di cardinali e teologi deputati alla correzione dei libri, cioè a dire a levare dai rituali, e dalle opere de’ più riputati autori che scrissero di diritto canonico tutte quelle espressioni che non tornavano giovevoli alla Curia, e sostituirvene altre più accomodate. Ora Frà Paolo nel suo discorso fa osservare che dal solo libretto intitolato Practica Papiensis del Ferrario furono levati più di dieci luoghi che difendevano la libertà ed autorità temporale dei principi. «È noto a tutti, dice, che papa Leone IV circa l’850 compose un’orazione in cui si diceva: Deus, qui Beato Petro Apostolo tuo collatis clavibus regni cœlestis, animas ligandi atque solvendi Pontificium tradidisti etc. (cioè: Dio che nel conferire le chiavi del regno de’ cieli al tuo apostolo Pietro, hai dato al papa la facoltà di legare e di sciogliere le anime ecc.). E così è stato letto nella Chiesa da quel tempo fino al nostro per 750 anni, e stampato anco in tutti i messali e breviari. Adesso dopo il mille seicento, il cardinal Baronio è stato l’autore di levare il vocabolo animas, e vuole che si dica assolutamente ligandi atque absolvendi etc., pretendendo con questo di estendere quella potestà alle cose temporali; poichè con la parola animas non poteva abbracciare se non che le cose spirituali, e così hanno comandato che si stampino tutti i messali e breviari, il che si eseguisce. Quando sarà passato qualche anno, guai a chi dirà che il vocabolo animas vi fosse; sarà subito notato per [p. 5 modifica]eretico». Finisce con dire che la domanda potrebbe essere giusta, se i ponteficii proibissero anch’essi i libri scritti da loro, ma sostenendoli per ortodossi, e quegli degli altri per eretici non possono essere giudici in causa propria: è piuttosto materia da rimettersi ad una conferenza di persone dotte e pie, a scelta reciproca; il qual partito, ove piaccia ai contrari, si può accettare.

Questo partito fu dalla Corte ricevuto come un nuovo affronto, il papa ne fu irritatissimo, e i cortegiani non sapevano più contenersi. Il nunzio Gessi nel settembre si presentò al Collegio, parlò risentitamente contro i libri in causa e contro Frà Paolo, e che quei libri erano eretici e che bisognava risolversi a non più tenerli; e infine mostrò una lettera, non so di chi, per la quale pretendeva che così era stato raffermo per lo passato. Il Collegio rispose con una solenne negativa. E il diverbio andò tant’oltre che il nunzio sdegnato nel partire disse: Se pensate volerla così, potete richiamare il vostro ambasciatore. Già le cose inclinavano a manifesta rottura: Frà Paolo forbiva le armi, e non era scontento di vendicare colla penna il sanguinoso affronto ricevuto l’anno innanzi.

Così continuando i rancori, Roma e Venezia si querelavano a vicenda: quella di continue immunità violate, questa di sempre rinascenti ingiuste pretese. I preti e i frati che avevano parteggiato per la Repubblica, alcuni dotti, altri licenziosi, timenti tutti i rigori del Sant’Uffizio, altronde esacerbati da incessanti persecuzioni continuavano le ardite loro prediche; e benchè il Senato non se ne [p. 6 modifica]accontentasse del tutto, s’infingeva e lasciava fare affine d’incuter paura alla Corte e farle paventare una separazione. E quella quantunque di ciò temesse non poco, e non ne dissimulasse i pericoli e le conseguenze, cieca per ambizione e per desiderio di vendetta, andava esacerbando gli umori. Le pareva un bel tratto se poteva mettere la diffidenza tra il governo e quei cherici, e una bella soddisfazione per lei se poteva indurre i principali a fuggire a Roma e farli ritrattare. Il nunzio Gessi ebbe ordine di spendere danari e promesse all’avvenante della qualità della persona. Intanto che esso e i suoi agenti si maneggiavano di dentro, i gesuiti di fuori movevano ogni pietra; e più particolarmente il padre Possevino, cui l’età più che settuagenaria non aveva punto ammollito quello spirito intrigatore onde si distinse nell’affaccendata sua vita.

Durante ancora la controversia scrivendo lettere sopra lettere, mandando mezzani e danari, era riuscito a far fuggire alcuni frati che si erano chiariti in pro della Repubblica; e a’ 17 ottobre del 1606 scrisse da Bologna al padre Capello, uno dei sette teologi, esortandolo con stile pietosamente ipocrita a fare lo stesso, offrendogli asilo, protezione sicurezza, comodi ed onori. Il Capello più franco, fece stampare la lettera del Possevino, e vi aggiunse in data del 3 novembre un’assai vigorosa, ma pur modesta risposta, dove ribatte le ragioni del gesuita e giustifica le proprie, e il procedere della Repubblica. Ma tosto dopo finita la lite, citato a Roma, sicuro della sua innocenza, e fidando nei patti dell’accomodamento, vi andò, malgrado l’età sua [p. 7 modifica]vecchia e le dissuasioni degli amici: fu arrestato, soggettato a processo, e colle minacce pretendevano una ritrattazione, e vantarono anco di averla ottenuta. Fatto è che il Capello fu tenuto prigione per qualche tempo, ma trattato con dolcezza; chè i papali vollero far mostra di mansuetudine. Il Capello essendo vecchio e amico di riposato vivere, fece una abiura secreta, dopo la quale fu liberato, e gli fu assegnata una provvisione pe’ suoi bisogni a ricompensa di quanto perdeva in Venezia.

Ciò fu stimolo ad altri preti e frati d’imitarlo, perocchè la Curia offriva sempre agli ambiziosi speranze di avanzamenti che Venezia non dava. Ma meno incauti del Capello, e di lui più avidi, patteggiarono col nunzio i guadagni della fuga. Fra quelli di maggior fama furono Frà Fulgenzio Manfredi francescano e l’arcidiacono Ribetti.

Fulgenzio fuggì agli 8 agosto del 1608 ben provveduto di danari e salvocondotto da monsignor Gessi. In Roma fu accolto quasi in trionfo, ebbe trattamento splendido, e lunghe e famigliari udienze col pontefice. Gli fu proposta pubblica abiura, e non consentendo, si contentarono, per mostrare indulgenza, di una secreta.

L’arcidiacono già vecchio, molto riputato in patria, provvisionato dalla Repubblica, ma spaurito dalle minacce e guadagnato dalle promesse e dai modi cortesi con cui veniva trattato Fulgenzio, si lasciò anch’egli indurre alla fuga ai 3 dicembre 1608. Fu accolto in Roma con eguale, anzi maggior festa, per la qualità del grado, di Frà Fulgenzio. Ebbe impiego in Corte, provvisione di 500 ducati ed [p. 8 modifica]altre larghezze: tutte arti usate al fine di adescare Frà Paolo. Al qual uopo i Curiali sparsero per Venezia che quelle fughe gradivano alla Repubblica, contenta di sgravarsi degli stipendi e degli incomodi del patrocinio; onde a smentirli il Senato aggiunse altri 200 ducati di più alle pensioni di cui godevano già i restati. Frà Paolo ricusò di accettarli.

Tal cosa saputa a Roma, fece scorti i Curiali che dal lato dell’interesse non avrebbono mai potuto prenderlo. Tornarono a quello dell’amor proprio. Intanto che a Parigi il cardinale Barberini, poi papa Urbano VIII, diceva che acquistava l’indulgenza chi ammazzava Frà Paolo, e che a Roma si cospirava per acquistare una tal indulgenza, altri astuti fingendo la sua difesa facevano suonar alto l’ingiustizia di Clemente VIII di non averlo fatto vescovo o cardinale, e che fu gran male l’avere trascurato uomo di tanto merito. Le quali cose ripetevano in Venezia i secreti agenti del nunzio, e parlavano della stima per lui del cardinal nipote (ne portava sulla faccia le prove), ed anco del pontefice, di cui lodavano la bontà e la giustizia; biasimavano il tentato assassinio; dicevano, la Corte non averci avuto parte, ma pure che il Sarpi doveva sempre temere di qualche fanatico. Vantavano la cortesia con cui erano accolti Frà Fulgenzio e l’arcidiacono, gli onori ricevuti, la clemenza con loro usata, e se Frà Paolo voleva imitarli, molto più poteva aspettarsi, e lui solo con quella andata poteva stabilire una piena concordia tra la Repubblica e la Corte. Ma il frate che era stato a Roma, e non era meno scaltro di loro, conosceva il senso delle parole. [p. 9 modifica]

Intanto che usavano le apparenti gentilezze per accalappiarlo vivo, abbiamo già veduto che non omettevano le macchinazioni occulte per farlo assassinare; e poichè l’esperienza di due anni d’insidie di ambe le specie mostrò che nella prima non era più da sperarsi, risolsero di sfogare almeno la loro vendetta su quelli che ebbero la imbecillità di fidare nelle promesse romane. Frà Fulgenzio francescano fu improvvisamente arrestato, consegnato all’Inquisizione e impiccato a’ 5 luglio 1610. A’ 27 novembre dello stesso anno, l’arcidiacono invitato a pranzo da monsignor Tani cameriere intimo del pontefice, e tornato a casa fu soprapreso da colica accompagnata da violente dissenteria e dolori acutissimi che in poche ore lo tolsero di vita; e il Tani alcuni anni dopo, caduto in disgrazia della Corte, morì anch’egli per veleno ministratogli; altri più oscuri furono abbandonati nella miseria e sorvegliati dal Sant’Offizio, di cui per lo più finirono ad esser vittima. Marco Antonio Capello, a cui era stata tolta la sua provvisione, ammaestrato da questi esempi e temendo anco per sè, ricorse al ripiego di difendere nel 1610 la causa del papa contro il re d’Inghilterra, il che gli conciliò benevolenza. Egli era ancora vivo nel 1625 quando pubblicò un assai dotto trattato sulla Pasqua di Gesù Cristo.

Premeva molto alla Curia di aversi anco Giovanni Marsilio; nè avendo potuto, riusci finalmente a farlo avvelenare. Io non so come il Grisellini ne accusi il gesuita Possevino morto in Ferrara a’ 26 febbraio 1611, quando il Marsilio morì a’ 3 marzo del seguente anno. [p. 10 modifica]

Per legame di storia ho anticipato questi avvenimenti: ora torno al filo.

Frà Paolo metteva, e non immeritamente, una specie d’orgoglio nei successi dell’interdetto e nei modi con cui era stato conchiuso, e lo rodeva il vedere come i Curiali diramassero a penna o a stampa, con clandestino artifizio, scritture in cui la verità era radicalmente offesa e che tornavano in onta alla Repubblica. Ad istruzione de’ suoi amici di Francia che ne lo avevano richiesto, aveva steso un commentario delle cose occorse e stava per mandarlo; ma in pari tempo incalzava acciocchè il Senato si prendesse a cuore l’onor pubblico offeso dalle menzogne de’ gesuiti; e tanto disse, finchè nel mese di giugno fu presa la deliberazione di pubblicare una particolare e veridica istoria dell’interdetto, e a Frà Paolo ne fu commessa la cura. Il quale ripreso in mano il suo manoscritto, vi lavorò con tanta sollecitudine che al mese di ottobre l’opera era già compiuta, e la intitolò Istoria particolare delle cose passate fra la repubblica veneta e il pontefice Paolo V negli anni 1605, 1606 e 1607; divisa in sette libri. Lo scopo dell’autore essendo di dare una circostanziata relazione de’ negoziati complicati, varii e lunghissimi, occorsi in quel memorabile avvenimento, la narrativa è semplice ma soverchiamente diffusa, e non sempre dilettevole. È certo che ai contemporanei dovettero piacere moltissimo quelle minute particolarità di maneggi diplomatici intorno ad un’affare che interessò tutta l’Europa; ma a noi, lontani più di due secoli, riescono fastidiose e ameremmo piuttosto di vedere le cose di una [p. 11 modifica]medesima natura raccolte in gruppo, e, dove non è essenziale, abbandonato l’ordine cronologico e seguìto quello delle materie. Il lettore non deve cercare in essa dipinture di caratteri istorici; il solo che vi campeggia, ed è tratteggiato maestrevolmente, è quello del protagonista, il papa; vi sono altri tratti luminosi e degni del Sarpi; ma nel totale è ben lontana da quella perfezione a cui hanno un giusto diritto altre opere di lui. È però da avvertirsi che molti difetti e forse i più non sono sua colpa. Avendo egli scritto per comando pubblico, dovette conformarsi alla varietà delle teste quante erano nel Collegio, e qui ampliare una cosa e là un’altra; e si vede ancora che non è lavoro di una sola mano. Infatti egli stesso ci avverte che molte cose furono aggiunte dal suo amico Domenico Molino, specialmente la lunga e noiosa trattazione dei negoziati fatti dalla Repubblica coi Grigioni e gli Svizzeri che il Sarpi aveva narrato in poche parole. Del resto questa istoria oltre al fornirci le più copiose notizie intorno ai fatti dell’interdetto, ha il merito della veracità, che non gli fu mai conteso neppure dai Romani: e veramente il Sarpi, quand’anco non fossevi stato indotto da propria ingenuità di natura, vi era obbligato dalla freschezza dei casi essendo vivi tuttora gli autori di quel dramma ecclesiastico. Conchiude con un’appendice sui patti dell’accomodamento conforme appieno a quanto ho letto nelle deliberazioni del Collegio e Senato, dove il Sarpi dimostra che i Veneziani non vollero mai riconoscere nel pontefice alcuna autorità d’intervenire negli atti di governo; non vollero [p. 12 modifica]accondiscendere a sommessione alcuna, intendendo di non avere fallato, e che nissuna assoluzione fu chiesta o data. Il Senato non credette opportuno per allora che si pubblicasse a stampa, ma permise che divulgasse per manoscritto, che aveva per que’ tempi un’aria misteriosa e di minaccia. La prima edizione comparve a Venezia con data di Lione nel 1624, un anno dopo la morte di Frà Paolo.

(1609). Ma passarono in Francia molti esemplari a penna, e di colà a Roma; dove appena veduti, il papa se ne accese di sdegno, i Curiali ancor più, l’Inquisizione citò di nuovo Frà Paolo, e a sfogo di stolta vendetta voleva farlo ardere in effigie; ma si oppose l’ambasciatore di Francia. Succedevano rappresaglie a Venezia, e pareva che da piccioli pettegolezzi fosse per riuscirne una rottura peggiore della prima. Un frate negò l’assoluzione ad un patrizio perchè si confessò che aveva letto il libro del Querini: i Dieci lo bandirono, pena la forca se tornava. Il povero frate dovette umiliarsi, supplicare, domandar perdono: fu confinato in un convento. Il nunzio se ne querelò, ma i Dieci per risposta procedettero collo stesso rigore con altri confessori che invece di medicare le colpe spirituali volevano spiare i secreti dello Stato e metter screzio nelle coscienze de’ cittadini. Alcuni preti furono imprigionati per essere complici della fuga dell’arcidiacono; altri per altri motivi: più di 40 abitarono il carcere in men di due anni, e nel 1610 salivano a 100. Prima dell’interdetto se ne contava uno in dieci anni: questi sono i guadagni, diceva il Sarpi, della corte di Roma dopo i moti suscitati da lei. Un prete convinto [p. 13 modifica]di delitto capitale fu mandato alle forche; un abate Cornaro, di casa patrizia, assalì una gondola, fece saltare il marito in acqua, si rapì la moglie, e dopo lo stupro fuggi nello Stato Ecclesiastico: fu condannato a morte in contumacia. I Decemviri coglievano ogni destro per provare, essere risoluti a mantenere i loro diritti. Si arrabbiavano a Roma, il nunzio non sapeva che farsi.

Non osando comparir egli in iscena, ebbe l’astuzia di far muovere il vicario patriarcale; il quale pretese per diritto di dover intervenire agli esami degli ecclesiastici processati dal Consiglio dei Dieci. Interrogato Frà Paolo rispose: Veramente esservi tale consuetudine pei processi degli Avvogadori nella Quaranzia, ma che non si poteva estendere ai Decemviri, tribunale supremo; ed era neppure da ammettersi la novità, perchè sarebbe stato il primo anello di altre pretese. Se il Vicario, diceva, sarà ammesso per grazia, col tempo pretenderà di esservi per diritto; e se prima fu per gli esami, dopo vorrà anco per la sentenza, e in ultimo finiranno i cherici con voler esser i soli giudici. Era anco pericoloso pel secreto quando si trattasse cosa che volevasi tenere occulta. Conchiudendo che la intervenzione del Vicario supponeva quella del fôro ecclesiastico, e questa quella del papa, cosicchè l’autorità del tribunale sarebbe diventata nulla, e surrogatavi quella dei preti.

Svanito un disegno ne suscitavano un altro, simili a colubri che si piegano e ripiegano per tutti i versi e si maneggiano col capo e colla coda. Un cherico condannato a morte, dicevano non può [p. 14 modifica]essere suppliziato se prima il vescovo non lo ha degradato degli ordini sacri: nuovo appicco per intromettersi sordamente nelle cause di criminale e inciampare il libero andamento della giustizia secolare. Anco questa difficoltà fu proposta a Frà Paolo, che rispose: La degradazione essere un trovato moderno a similitudine de’ capitani che degradavano i cavalieri e i soldati per stabilire l’idea di onore che non si fa morire il soldato, ma un uomo comune; secondo la legge canonica non essere necessaria. Pure potersi permettere se il vescovo vuole farla; e non volendo, il giudice non debbe restare dalla sua sentenza; a quello stesso modo che non resta se il reo non vuole confessarsi, o non vuole confessarlo il prete, quando è chiaro che la confessione è più necessaria della degradazione ecclesiastica.

Altro soggetto di controversia insorse tra il finire del 1608 e il principiare del seguente anno. I preti e i frati onde allettare colla pompa delle luminarie molto concorso, e buscarsi più larghi guadagni, avevano fatto prevalere il pessimo costume di protrarre nelle feste solenni fino a tarda notte gli uffici vespertini: onde le chiese erano diventate conventicole di amoreggiamenti tra meretrici e giovani dissoluti, e scuole di corruttela alle vergini, e teatri di schermaglie dove spesso i rivali venivano alle armi. Il governo proibì quelle divozioni, e comandò che le chiese al tramonto fossero chiuse. Il papa lodando quel provvedimento di polizia, lo biasimò come contrario alla libertà ecclesiastica, e sostenne che il magistrato era incorso nella scomunica. Poi diceva che voleva impugnare quella novità se non [p. 15 modifica]altro perchè Frà Paolo non potesse dir più che la tolleranza del papa era diventata un diritto nei secolari. Ma Frà Paolo se ne rideva, dicendo: Bella libertà da preti quella che tende a profanazione della Chiesa!

Nella quaresima del 1609 Frà Fulgenzio servita predicò con grande applauso e concorso meraviglioso, contandosi fino 60 patrizi in una volta; e perchè omesse le dispute dogmatiche e i racconti di leggenda che per un mal vezzo o per ignoranza od avarizia de’ predicatori volgari comunemente si usa, trattava in spezial modo la morale, e puntava forte sugli insegnamenti della Scrittura, il nunzio se ne dolse, dicendo che quel frate era infetto di eresia e voleva che fosse impedito. Anco il papa querelandosi coll’ambasciatore veneto disse che stare attaccato alla Scrittura è lo stesso che diventare eretico.

Frammezzo a questi piccioli avvenimenti e a questi sdegni reciproci la vita del Consultore, nel marzo del 1609, corse un nuovo pericolo. Alcuni frati del suo Ordine furono i macchinatori. Sorpreso il carteggio e portato a Frà Paolo, ei voleva sì per propria mansuetudine e sì per decoro di religione che un tanto atroce proponimento fosse messo a tacere. Ma Frà Fulgenzio, compreso nello stesso pericolo, o che almeno lo supponeva, non ebbe tanta pazienza e portò le carte agli Inquisitori di Stato. Se dobbiamo credere a lui, erano implicati nella congiura il papa, il cardinale Borghese, il generale dei Serviti, e più altri prelati e cardinali. Per il papa non è verosimile, ma può ben essere che gli altri ed anco il cardinal nipote, dico il Borghese, [p. 16 modifica]spendessero la sua parola. Maneggiatore per parte di quest’ultimo era un Frà Bernardo di Perugia suo intrinseco e assai famigliare; corrispondente di Frà Bernardo era un Frà Gianfrancesco pure di Perugia ma che dimorava nel convento de’ Serviti a Padova; esecutore del misfatto doveva essere frate Antonio, barbiere, scrivano e molto domestico di Frà Paolo. Si promettevano 900 scudi alla mano e 12,000 ad opera finita. Tre erano i progetti: o che frate Antonio lo assassinasse egli stesso e ne aveva frequente l’opportunità, perchè il Sarpi per quel suo incomodo all’intestino retto si teneva assai mondo, e ogni otto giorni si faceva radere da quella parte, e in tal caso il frate non aveva che a tirargli un buon colpo di rasoio; ma non gli bastò l’animo. Perciò gli proponevano per secondo di avvelenarlo, al qual uopo gli avrebbono mandato da Roma un eccellente cordiale; ma questo neppur piacque. Frate Antonio voleva bene favorire il delitto, ma non commetterlo; e gli premeva di salvare la pelle, senza di che nulla fruttavano i 12,000 scudi. Si venne dunque all’ultimo progetto di levare le controchiavi delle camere di Frà Paolo, e il religioso Gianfrancesco avrebbe egli introdotto di notte due o tre sicari a finire la festa.

Frate Antonio era già da qualche tempo sorvegliato perchè s’intratteneva con sospette fisionomie, a colloqui misteriosi, e il Sarpi gli diede anco qualche ammonizione; pertinace nel male, continuò il suo disegno; ma gli accadde che nel consegnare i modelli in cera delle chiavi, si lasciò, senza avvedersene, cadere di tasca alcune lettere, e furono le [p. 17 modifica]vedute e lette dal Sarpi, da Frà Fulgenzio e poi dagli Inquisitori.

Gianfrancesco e il suo complice furono chiusi nelle carceri decemvirali. Il Sarpi adoperò le più calde suppliche, fino a mettersi in finocchio innanzi al Consiglio dei Dieci per ottenere il loro perdono; e l’inesorabile tribunale mosso dalle sue preghiere sentenziò Gianfrancesco alla forca, con riserva, se rivelava ogni cosa, che sarebbe dannato a un anno solo di prigionia e al bando perpetuo. Gianfrancesco accettò il partito, confessò, consegnò il suo carteggio, scritto in cifra e nascosto nel suo convento a Padova, così che i Decemviri vennero in chiaro di tutta quella abbominevole trattazione, nella quale, dice Vittorio Siri, si trovò apertamente compromesso il cardinale Lanfranco segretario del papa. Di questa congiura parlando Frà Paolo in una lettera del 30 marzo 1609, usa queste nobili e moderate espressioni: «Io ho fuggita una gran cospirazione contro la mia vita, intervenendovi di quelli propri della mia camera. Non ha piaciuto a Dio che sia riuscita; ma a me ben molto dispiace di quelli che sono prigioni. Per questa cosa non mi è grata la vita, che per conservare veggo tante difficoltà».

Lessi nella epistola di San Giacomo che la fede senza le opere è cosa morta; e se talun dice io ho la fede e tu hai le opere, uom può rispondergli, mostrami la fede tua senza opere, ed io mostrerotti la mia dalle opere mie. Se la morale del Nuovo Testamento non fosse spesso contraria a quanto insegnano i teologi, sarebbe qui il luogo di fare un [p. 18 modifica]parallelo istorico tra un frate ed un papa. Nol farò dunque, limitandomi a porgerne la materia al lettore, ed avvisandolo che ove inclinasse a confronti e fosse per sentenziare a favore del frate, non dimentichi che era eretico ed ipocrita.

Un Bartolomeo Lanceschi di Siena ciurmatore e venturiero, capitato a Parigi, si spacciò nipote di Paolo V. Teneva magnifico alloggio, ricco treno, tavola sontuosa e splendida corte. Aveva danari, gli spese, e trovò credito a prestanzarne altri. Accreditavano le menzogne un domenicano ed un altro complice. Il nunzio lo seppe, se ne querelò al re Enrico IV, ne scrisse a Roma. Il papa ne concepì tanto sdegno che riscrisse al re pregando che fosse punito di morte il furbo che disonorava la sua casa. Non credeva Enrico che meritasse tanto, ma il Santo Padre instando calorosamente, sollecitò il processo, mandò memorie e accuse, aggrandì il fatto, dicendo che l’impostore era mago, alchimista, e che aveva molti partigiani, e che era sovvenuto dai nemici della Santa Chiesa, e che col sangue solo e’ poteva lavare un tanto delitto. Insomma tanto disse e fece che il povero Lanceschi a’ 22 novembre 1608 fu impiccato; de’ due complici, il secolare fu dannato alla galera, il domenicano chiuso in un convento del suo Ordine.

Ma la nuova cospirazione contro Frà Paolo non servì ad altro che a sempre più alterare gli umori in Venezia, e a confermare il governo nella risoluzione di reprimere ad ogni costo la licenza ecclesiastica. Laddove in Roma lo sdegno della vendetta sempre più si aspreggiava dagli stessi frustanei sforzi [p. 19 modifica]per conseguirla; e se prima dell’interdetto i Curiali dicevano che a Venezia i preti erano a peggior partito che non gli Ebrei sotto Faraone, s’immagini il lettore che dovevano dire dopo tanti preti impiccati, carcerati, o banditi, o propulsate pretese, e leggi nuove sui cherici, e aggravi sui loro beni, e il rigore di una mano di ferro che gli frenava e da cui indarno tentavano di svincolarsi. Suonavano alto le accuse contro il papa, cui tacciavano di debolezza nel passato negozio, e poco mancava non lo dicessero eretico. Almeno lo incolpavano di avere avvilito nella polvere il gran manto di San Pietro, e discoperto l’arcano che faceva audace e potente la Curia romana. «L’animosità della quale contro la Repubblica, scriveva l’ambasciatore Contarini, è così fatta, che non vi è cardinale, eccettuato il Delfino per essere veneziano, che formi una parola in favore di lei. Tutti vogliono carrucolare il pontefice in nuovi e più fastidiosi accidenti dei passati. Attizzano il popolo con calunnie e modi artificiosi, sì che il nome veneziano è diventato odioso». Paolo V anch’egli sentiva di amaro, e davvero parevagli d’essersi di troppo umiliato, e anelava a qualche azione luminosa che servisse a ristorare il suo credito, e a far sentire il peso della papale autorità sull’orgogliosa Repubblica. Quel Frà Paolo gli dava un gran fastidio, e non lo dissimulava: era uno spauracchio che gli stava dinanzi agli occhi e lo inseguiva come l’ombra del proprio corpo. «Sono superbi, diceva spesso coll’ambasciatore di Francia de Breves, perchè hanno quel frate loro teologo; ma farò vedere che la sua dottrina è erronea, che non se [p. 20 modifica]ne intende, che è un scismatico, lo darò all’Inquisizione, gli farò fare il processo».

L’ambasciatore cercava di acquietarlo, ma in sè rideva. Infine si appresentò al pontefice un’occasione che parve opportuna ai suoi disegni, ma che poco mancò non lo versasse in maggior precipizio.

Nel tempo che accadevano i narrati dissidi moriva Francesco Loredano abate di Santa Maria della Vagandizza, ricco beneficio di 12,000 ducati all’anno, nel contado di Rovigo a’ confini del ferrarese; Paolo V disse che era un boccone da nipote di papa, e senza neppure farne motto al Senato, lo conferì in commenda il cardinal Borghese, il quale già a quell’ora possiedeva una rendita di 140,000 scudi di camera (circa un milione di franchi, e a ragguaglio di valori, il doppio); il che indusse Frà Paolo a un curioso confronto. «Ai miei tempi, scriv’egli, Pio V in 5 anni conferì al nipote 25,000 scudi; Gregorio XIII in 13 anni conferì ad un nipote 30,000 scudi, ad un altro 20,000, Sisto V (in 5 anni e mezzo) all’unico nipote 9000; Clemente VIII in 13 anni ad un nipote 30,000, ad un altro 20,000; e Paolo V in soli 4 anni ne conferì 140,000. A quanto sommerà col tempo? Lo sa Dio». Infatti si accrebbe di assai l’immensa fortuna di casa Borghese, perocchè questo cardinal Scipione possiedette egli solo più di 200,000 scudi di rendita, investiti in più di trenta beneficii. Così a Roma si osserva il concilio di Trento. Dall’anzidetto confronto risulta un’altra verità, forse un po’ eretica, ma provata dall’evidenza delle cifre. Ed è [p. 21 modifica]che di cinque papi il meno santo fu il più economo amministratore dei beni della Chiesa.

Torno alla Vagandizza. Oltre alla bruttezza del fatto pieno di cupidità e di avarizia, vi era anche violazione di diritto, perocchè la nomina dell’abate si apparteneva ai monaci camaldolesi di Venezia, i quali per un abuso passato in consuetudine solevano dare quell’abazìa in commenda ad alcuno de’ loro monaci, purchè suddito veneto, solo obbligo che avessero verso il governo. E infatti senza badare al papa, elessero abate e secondo i riti loro installarono un padre Fulgenzio da Padova. Il papa gridava che i privilegi de’ monaci erano ciancie, e fossero anco veri, egli era papa e poteva disfarli; che Fulgenzio era un abate intruso, scomunicato da lui per essersi impossessato dell’abazìa senza suo permesso, e che bisognava scacciarlo. Il governo veneto, per vero, si teneva estraneo alla contesa, e solo fece intendere al papa, essere lui indifferente chi si fosse l’abate della Vagandizza; se al pontefice non piaceva Fulgenzio, un altro ne eleggesse, semprechè fosse suddito veneziano, e del resto se la intendesse coi monaci. Ma l’orgoglioso pontefice, in un impeto di collera a cui per sua mala ventura era di troppo soggetto, parlando all’ambasciatore Contarini si lasciò inconsideratamente fuggire di bocca: I Veneziani prima di domandar grazie devono meritarsele. Un altro avrebbe dissimulato quest’imprudenza, ma il Contarini amico al Sarpi, niente alla Curia, la scrisse tosto a Venezia, nè vi volle altro per rimescolare la bile. Il Senato dichiarò di voler sostenere la causa dei monaci. Molti senatori [p. 22 modifica]dicevano, non aver domandato grazia ma giustizia; non aver bisogno di grazie, bene essi averne fatte al papa, ricorrendo a lui per cose che non sarebbe bisognato; che era un accattabrighe, che finita una questione ne tirava in campo un’altra; che quel suo detto era un’ingiuria, che i Veneziani non erano eretici per aver demeritata la grazia della Santa Sede, e che bisognava finirla. Anco i meno caldi si sentivano offesi. Il pontefice si accorse della sua imprudenza; cercò; ma invano, di dare un altro senso alle sue parole; incolpò il Contarini di averle prese in sinistro; ed alteratele; e fingendo di voler procedere coi metodi ordinari della giustizia, chiamò il generale de’ Camaldolesi, lo invitò ad esporre le ragioni de’ suoi monaci di Venezia, chè egli ne rimetteva la causa alla decisione della Ruota romana. La quale, com’era dovere, decise che i monaci non avevano alcun diritto, i loro privilegi essere caduchi, e che il pontefice padrone di tutti i beneficii del mondo, poteva disporre anco di quello della Vagandizza. I monaci per promesse o minaccie rinunciarono, ma il Senato stette fermo nelle sue ragioni, e non volendo che così pingue beneficio passasse in mano di un estranio, ne sequestrò le rendite. Egli è per altro singolare che i desiderii del papa trovassero questa volta oppositori anco in Corte. Veggendo come egli tutto dava al nipote, molti prelati indispettiti dalla troppa felicità di lui, promovevano quella discordia e applaudivano in secreto alla resistenza dei Camaldolesi e del Senato; il che facera ridere Frà Paolo, e dire: Così anco l’invidia ha luogo tra i santi. [p. 23 modifica]

Suppongono già i lettori che in questo negozio egli vi avesse una parte attivissima. Per più di otto mesi di quell’anno 1609 fu egli occupato a scrivere ora a pro del governo, ora a pro dei monaci, a disterrare dagli archivi i documenti, a informare il Senato delle pratiche della giurisprudenza romana, e del modo d’incamminare la causa nel tribunale della Ruota; e poichè le ragioni di quella abazìa secondo il jus canonico, politico e feudale di quel tempo erano molto imbrogliate e soggette a controversia, egli ebbe licenza di consigliarsi anco con giureconsulti francesi, ed è su questo proposito che versano varie sue lettere scritte a Jacopo Leschassier. I molti suoi scritti sulla Vagandizza, comechè sparsi di varia erudizione, sono per l’età presente di scarsa importanza, e fanno increscere che quell’uomo fosse obbligato a consumare il tempo e l’ingegno per oggetti di un interesse locale. Ciò che vi ha di meglio è una relazione istorica sulla origine, i progressi e l’abuso delle commende, dove spicca colla solita brevità quell’ampiezza di cognizioni che in simili materie egli possedeva: inedita ancora, e che pubblicata sarebbe una utile appendice alla sua Storia dei beneficii ecclesiastici, di cui parlerò in appresso.

Il terribile frate, cui le offese avevano inasprito contro la Curia, sperava con questa occasione di vibrare un nuovo colpo agli interessi romani, e mirava a niente meno che a insterilire le fonti sacre da cui i pontefici traevano le immense loro rendite: non erano le indulgenze, non il purgatorio, ma la collazione de’ beneficii ecclesiastici che il Sarpi [p. 24 modifica]avrebbe voluto ridurre tutta in mano del governo civile, e al medesimo assoggettare il corpo ecclesiastico e i loro beni. In Francia, in Spagna, scriveva egli, l’onnipotenza pontificale nella collazione dei beneficii è frenata da leggi: arbitraria è solo in Italia; ma se questa lite procede, spero bene di restringerla. Non potè effettuare i suoi pensieri, chè i tempi non erano maturi; ma a lui sopravvissero le sue dottrine, e fruttificarono.

La corte di Roma a forza di premere la Repubblica si era fatta odiosa e increscevole. La parte più illuminata e più coraggiosa dei patrizi e cittadini, stracchi di un giogo che gli travagliava incessantemente, e di una corte avida, indiscreta e che copriva di religione i fini disonesti dell’interesse, desiderava di emanciparsi da un imperio prepotente a cui il passato non serviva di memoria e pareva sfidasse i propri precipizi, e con cui non era contingibile nè pace nè tregua. Il volgo ancora si era spregiudicato; a che, oltre i successi dell’interdetto, contribuirono le recenti leghe coi Grigioni eretici, e il frequente concorso di loro nella città. Da prima quel nome di luterano o di calvinista gli era così esoso, da stimar quei settari a ragguaglio dei Turchi; ma in appresso trovandoli nella pratica uomini buoni, trattosi e pii, e udendo ripetere contro sè que’ medesimi nomi, cominciò a persuadersi che eretico volesse significare tutti coloro che non patiscono le ingiurie dei preti. Così i Curiali per loro mal senno accreditavano quello che appunto screditare volevano. A sì fatta credenza dava nella plebe fondamento quel sentire di continuo contrasti [p. 25 modifica]col papa e attentati contro il suo Frà Paolo. Scandalizzavano i primi, perocchè la corte di Roma aveva sempre lo svantaggio di farsi la protettrice di quanto v’ha di più iniquo; scandalizzavano i secondi, perchè ammirandosi da ciascuno la virtù e la pietà del Sarpi, vedendo palliati di religione i tentati assassinii, si offendevano le opinioni pubbliche e la religione cadeva.

Non però mancavano i suoi partigiani alla Corte: molti consentivano con lei per interessi propri o dei congiunti e per le ottenute o sperate dignità della Chiesa, avendo quale il figlio, quale il fratello, quale il cugino ecclesiastico; e stavano ancora con lei la solita inerzia, le vecchie abitudini, la ripugnanza alle cose nuove, e gli spiriti deboli o superstiziosi che nei cherici vedono l’abito, non i costumi, o gli ipocriti a cui la pietà è un’arte.

Ma Frà Paolo, tenace ne’ suoi propositi e pratico de’ governi e più ancora di quei di repubblica, sapeva i modi con cui per vie indirette si guidano le moltitudini a deliberazioni impensate ed anco inevitabili. L’acuto suo colpo d’occhio politico, discorrendo vastissimi spazii, vedeva la Spagna potente, ma bisognosa di pace; la Francia potente, ma bisognosa di guerra; il re d’Inghilterra inteso a controversie teologiche; i principi d’Italia fiacchi e non buoni a conservare la pace nè a fare la guerra; il solo duca di Savoia, forte nelle armi, ma incostante e pieno di astuzie, delle quali, a dir vero, aveva bisogno per destreggiarsi tra Francia e Spagna: ma il troppo noceva a lui e agli altri; il pontefice ambizioso della grandezza ponteficia e di quella della [p. 26 modifica]sua casa, non curante delle cose d’Italia; la carboneria de’ gesuiti (uso questa frase non trovandone una più idonea a significare quella sêtta) diffusa, potente, faceva prevalere la sua politica in quasi tutte le cose, e inspirava, per così dire, i movimenti diplomatici e sociali di quel secolo: argine invero ai progressi della Riforma, ma inciampo alla civiltà, corruttela, come tutte le sêtte, della morale pubblica, inquietudine dei popoli. In mezzo a tante contrarie passioni la repubblica veneta stava timorosa dei Turchi, sospettosa degli Spagnuoli, in niuna concordia col pontefice, avversa al gesuitismo, sollecita della quiete d’Italia, ma incapace da sè sola a procurarla e a tenere la bilancia nella penisola. Enrico IV, che covava disegni di conquista, allettava il duca di Savoia promettendogli lo stato di Milano, e pressava la Repubblica perchè anch’essa pigliasse parte alla guerra. Ciò non garbava a Frà Paolo: «Ei non vuole uguali, diceva, non inferiori, ma servitori. Averlo nemico non è bene; ma tanta amicizia quanta c’è al presente, basta, finchè le cose non vanno più in là. Quando poi si desse mano a quella caccia di Milano, allora sarà forza dichiararsi o per Francia o per Spagna». Non gli piaceva una lega colla prima per motivi di conquista in Italia, ricordando le sventure della Repubblica quando per togliere lo stato di Milano a Lodovico il Moro si confederò con Luigi XII, conseguenza di cui fu la famosa lega di Cambrai che pose Venezia a due dita della sua perdita; e più diffidava di Enrico per essere ambizioso e guerriero, e perchè obbligato da molti fini a mantenersi bene [p. 27 modifica]edificati i gesuiti, non solo gli favoriva nel suo regno, ma gli raccomandava eziandio alla Repubblica. È la favola della volpe, diceva lo scaltro frate, che avendo perduta la sua coda nella trappola, persuade le altre a moncarsela; e previde i futuri effetti di quell’impolitico favore, che durante i regni seguenti fu cagione di tante turbolenze alla Francia e in particolare di quella sgraziata bolla Unigenitus che costò la pace d’infinite coscienze, e più di ottanta mila persone furono arrestate. Frà Paolo nutriva anco poco buona opinione dei concetti di Enrico, ad eseguire i quali dovendo concorrere tanti elementi eterogenei, papa, gesuiti, cattolici, protestanti, e ciascuno con interessi occulti, era impossibile che sortissero un felice disegno.

Comunque si fosse, non gli pareva sicurezza che in mezzo a tanti moti politici e trattazioni diplomatiche la Repubblica se ne stesse isolata, e nel caso di dover prendere un partito si trovasse sprovvista di amici; e girando gli occhi dove trovarne di opportuni, gli parve che tali dovessero essere i protestanti, amici di libertà, e perciò del paro gelosi di Francia e di Spagna. Gli Olandesi, dopo una lunga guerra con questa ultima, erano riusciti a stabilire la propria independenza. Frà Paolo fece sentire ai primi del Collegio e del Senato, e agli altri suoi amici, tutti de’ più influenti nei maneggi dello Stato, l’utilità che ridonderebbe da un’alleanza fra le due repubbliche, così pel commercio come nelle vicende di guerra o di pace; ma non essendo dignità della veneta di essere la prima, essa antica e conosciuta, a far aperture e spedir ambasciatori a [p. 28 modifica]Stato nuovo e tuttavia precario, ebbe il frate commissione secreta di predisporre le cose: ed egli ne scrisse a Filippo Duplessy Mornay, celebre calvinista, suo amico, assai potente in Francia e in molta considerazione appo Barnevelt e il principe di Nassau, principali indrizzatori della nuova repubblica. Da’ quali persuasi gli Stati Generali d’Olanda mandarono ambasciatore a Venezia Cornelio Vander Myle, genero del Barnevelt, accompagnato da un figlio di lui e da sei altri qualificati personaggi. Questa novità non piaceva molto alla Francia, meno ancora alla Spagna, faceva gelosia al papa, e ne gridavano i gesuiti. Gli ambasciatori di quelle due potenze, il nunzio, i loro partigiani dimenarono assai perchè l’Olandese non fosse ricevuto, o per lo meno ricevuto senza onore; ma Frà Paolo e i partigiani suoi, più potenti, ottennero il contrario. Sull’incertezza Cornelio si fermò lungamente a Parigi, ma infine assicurato parti e giunse a Venezia a’ 13 novembre di quest’anno. Colle cerimonie che si usavano a’ regii ambasciatori fu incontrato da’ senatori, alloggiato in palazzo pubblico, trattenuto a spese pubbliche, datogli a compagnia uno dei più illustri patrizi, divertito con feste e spettacoli all’uso veneziano, e regalato di superba collana; ebbe udienza dal Collegio e dal Senato, e molte conferenze, ora pubbliche, ora private con Frà Paolo al quale portò lettere e complimenti del principe di Nassau, del gran pensionario Barnevelt che gli raccomandava suo figlio, e di altri signori d’Olanda e Francia: chiese anco una conferenza privata col doge, al quale voleva proporre in secreto patti di commercio e di [p. 29 modifica]alleanza; ma per gli ordini veneziani non gli fu concesso. Gli espose a Frà Paolo che ne parlò al Collegio, ma Vander Myle non avendo commissione di trattarne pubblicamente, e il Collegio non potendo trattarli da sè, furono rimessi ad altri tempi, e in particolare a Tommaso Contarini destinato a corrispondere cogli Stati Generali. Il frate promise di maneggiarvisi, e infatti alcuni anni dopo fu conchiusa fra le due Repubbliche una lega difensiva che tornò molto utile a Venezia. Cornelio partì a’ 10 del decembre, essendosi due giorni innanzi trattenuto a lungo e segreto colloquio di affari pubblici col Consultore.

Il quale, di questa ambasceria parlando: «Non v’ha dubbio, scriveva, che il favore fatto da questa repubblica a quella in ricevere il suo ambasciatore a par d’un ambasciator regio è di molta riputazione per quella repubblica che nasce al presente. Ed in contraccambio, sebben questa non può ricevere onore di là, può ben ricever officii non meno necessari così nelle cose della navigazione, come in altre occorrenze. Certo è che se non fosse stato un ambasciator veneto in Inghilterra, ed un inglese in Venezia nelle passate turbolenze, non si avrebbe avuto in favore quella dichiarazione del re, che forse fu tra le principali cause dell’accordo che seguì onorevole per le cose pubbliche».

Intanto che trattava le narrate cose coll’Olanda, il vivido frate attento a tutti gli accidenti politici, e al modo di utilizzarli a pro della Repubblica, volse i pensieri ad un’altra regione. [p. 30 modifica]

In quell’anno 1609 era morto senza prole il duca di Giuliers, Berg e Cleves; e nacque gara tra i principi di Germania pei diritti di successione, donde si formarono due partiti: l’uno de’ cattolici sostenuto dalla casa d’Austria e favorito, sotto pretesto di religione, dal papa e dal re di Spagna; l’altro più potente, spalleggiato dal re di Francia e dagli Olandesi, si componeva dei principi e città libere protestanti, che allegando lo stesso pretesto si unirono in lega ad Halla, essendo capi di essa, come primi tra i pretendenti, il marchese di Brandeborgo e il palatino di Neoborgo. In questa unione vide Frà Paolo una circostanza favorevole alla situazione della Repubblica e si adoperò perchè ella vi prendesse qualche interesse. Sua massima era che più dei Francesi si doveva pregiare l’amicizia di quei popoli tedeschi, perchè più leali, ed estranei alla tortuosa e ingannevole politica degli altri principi. Altronde gelosi della loro libertà e religione, le difendevano con coraggio, non avevano interessi in Italia, ed essendo poveri, l’amicizia colla Repubblica che aveva denari e gli poteva spendere tornava utile ad entrambi. Tese adunque le sue fila per mettere i Tedeschi riformati in corrispondenza colla Repubblica; ma la lega di Halla, pei varii interessi di chi la componeva, essendosi dalle divisioni infiacchita, non ne ottenne alcun utile risultato. Il palatino, quasi nel medesimo tempo che vi era il Vander Myle, mandò a Venezia Leonardo Butten con lettere al Senato, dove esponeva le sue ragioni alla eredità di Giuliers e pregava di assisterlo. Ma questa missione così isolata non piacque nè a Frà Paolo [p. 31 modifica]nè a’ suoi partigiani, e Butten, mandato via con buone parole e proteste di amicizia, se ne tornò disconcluso.

L’anno appresso 1610 (anticipo questo fatto per nesso di storia) il marchese di Brandeborgo e il palatino di Neoborgo, temendo per la seguìta uccisione di Enrico IV e la debolezza in cui era perciò caduta la Francia, che le due case austriache si unissero per opprimerli, mandarono a Venezia Giovanni Battista Linck a significare le ragioni della lega di Halla, i loro diritti alla eredità di Cleves, e pregare il Senato, non permettesse pe’ suoi Stati il passo di truppe spagnuole verso la Germania; ma il poco accordo che passava tra quegli alleati e la incertezza della politica europea trattennero il Senato dal pigliar parte in quei lontani dissidi; e Link ebbe anch’egli belle parole, vaghe promesse, e null’altro.

Quì è il luogo di ricordare un aneddoto di cui parla Pietro Daru nella sua Istoria di Venezia, ignorato da tutti quelli che scrissero del Sarpi, e cui egli trasse dal Magazzino istorico del professore Lebret di Lipsia. Dice adunque che il Linck fece amicizia con un avvocato veneziano per nome Pessenti, il quale gli confidò, esservi in Venezia un’associazione secreta di oltre mille persone disposte a separarsi dalla corte di Roma, che il numero aumentava ogni giorno, che vi erano da 300 de’ più distinti patrizi ed eranne alla testa i due serviti Frà Paolo e Frà Fulgenzio.

A sapere il vero, Linck si volse all’ambasciatore d’Inghilterra che dopo averlo accertato lo condusse [p. 32 modifica]a render visita ai due frati. Dopo i primi complimenti al Sarpi sulla sua fama oltre l’Alpi, gli dissero desiderargli che Dio benedicesse i suoi sforzi. Rispose Frà Paolo, recarsi ad onore che il suo nome fosse pervenuto agli uomini che primi avevano veduta la luce. Poi parlò della poca armonia che passava fra i teologi, segnatamente intorno le parole hoc est corpus meum. E Linck avendogli chiesto per qual modo sperava di ottenere il successo del suo disegno, replicò il Servita che sarebbe opera di Dio; doversi desiderare che la riforma si stabilisse nelle Provincie tedesche contermini allo Stato veneto, massime nella Carinzia e Carniola, perocchè sono tra l’Istria ed il Friuli veneto; importare altresì che i principi protestanti avessero più intime relazioni colla Repubblica, e accreditassero agenti presso di lei i quali esercitassero il proprio culto, perocchè le predicazioni de’ ministri sortirebbero un ottimo effetto, aprendo gli occhi al popolo che nissuna differenza faceva tra luterani e maomettani. «Altre volte, aggiungeva, gl’Inglesi non erano qui considerati come cristiani, ma dopo che vi hanno un ambasciatore le idee del vulgo sulla loro religione mutarono. Le controversie colla corte di Roma non sono così quietate che non restino ancora risentimenti di cui sarebbe facile di cavar vantaggio».

Fin qui l’aneddotto. Il Daru ha sospette due cose: l’autenticità di esso e la buona fede del relatore. Io non guarantisco nè l’una nè l’altra; imperocchè se alcuni tratti del colloquio mi sembrano naturali a Frà Paolo, alcune altre circostanze e del colloquio [p. 33 modifica]e di tutto il racconto insieme sono o inverosimili o false. Per esempio quella società secreta di mille protestanti e quella confessione così franca del Consultore riescono assai difficili allo storico francese, nè io saprei digerirle meglio di lui; e so nemmanco come Frà Paolo potesse contare sulle prediche dei ministri riformati, sapendo egli meglio di ogni altri che in Venezia il culto pubblico de’ riformati fu sempre impedito da leggi severe: potevano ben fare i loro esercizi religiosi, ma in casa, in luoghi appartati e a porte chiuse. I protestanti dopo l’interdetto erano molto prevenuti sul conto di Venezia, e sperando di vederla o luterana o calvinista, si erano avvezzati a giudicarla dai loro pregiudizi, davano fede ai più strani racconti, o ne inventavano, o gli aggrandivano. Per quello riguarda Frà Paolo, maggiori ancora erano le loro prevenzioni. Tutti volevano avergli parlato, e conosciutine le opinioni e i pensieri; e intanto era pur questi il medesimo uomo così occulto, artifizioso e dissimulatore che i Curiali in tanti anni di assidue esplorazioni non hanno mai potuto penetrare: a giudizio degli uni era un frate dabbene che apriva il suo cuore al primo sconosciuto che gli capitava innanzi; a giudizio degli altri era un fintone doppio che velava i propri sentimenti con una profonda e non mai convinta ipocrisia. Fra le due contrarie opinioni questo è certo che il Sarpi in fatto di teologia pensava liberamente, senza badare a cattolici o a protestanti; ma se in punti delicati e controversi veniva richiesto del suo parere, era solito esprimersi per termini così generali che o lasciava intatta la [p. 34 modifica]questione o incerto quale fosse il suo parere. Così può essere che il Linck lo abbia interrogato sulle parole hoc est corpus meum, pietra di paragone con cui si distinguevano i seguaci delle varie sêtte; e Frà Paolo avrà risposto seguendo l’usato suo stile, adducendo le opinioni degli uni e degli altri senza dire la propria. Sarebbe dunque meraviglia se un luterano, caldo per la sua sêtta, lo abbia inteso a modo suo, e aggiuntovi, per aggrandire il racconto, particolarità chimeriche? Per quante indagini io abbia fatto per trovare altrove indizi di questo aneddoto, sono riuscito a nulla; ma dagli altri di simil genere che ho potuto dilucidare, e che riferirò in appresso, vedrà il lettore che debba credere e qual giudizio fare anco di questo.

Ripigliando indietro il filo della storia, prima ancora che l’ambasciatore olandese arrivasse a Venezia, le difficoltà principali tra questa e la Santa Sede si erano appianate.

Enrico IV capo di un popolo potente uscito pur ora da una lunga guerra civile, e in conseguenza armigero, inquieto, e per soprassoma diviso di religione, a contenerlo di dentro pensò al solito rimedio convenevole a’ Francesi di guidarli a sfogarsi di fuori, e disegnava di prostrar l’Austria e di cacciar dall’Italia gli Spagnuoli. A tal fine fece convenzioni varie con l’Inghilterra, l’Olanda, i principi protestanti di Germania, il duca di Savoia; ma gli abbisognavano anco Venezia ed il papa. I quali divisi pei loro dissidi ed egli affaticandosi per metterli in concordia, poichè vide le contese rinascere l’una dall’altra, se ne stancò, dando torto ad ambe [p. 35 modifica]le parti; finchè pressato dalla necessità, ripigliò seriamente la mediazione e col mezzo de’ suoi ambasciatori, Champigny a Venezia, e Savary de Breves a Roma fece intendere al Senato; che pensasse alla concordia, non fosse così sofistico, prestasse la debita obbedienza al pontefice e la pace con lui coltivasse; e al pontefice, non cercasse brighe se non ne voleva, moderasse i suoi desiderii, considerasse i pericoli della Santa Sede e quanto le fosse necessaria l’amicizia della Repubblica: che quell’insistere perchè Frà Paolo comparisse a Roma, o il volerne fare abbruciare l’effigie era fatto enorme, riprovevole, massime dopo il brutto scherzo delle stilettate; e che non era decoro nè giustizia il volersi egli far giudice in causa propria: contenesse la foga de’ suoi cortegiani, impedisse gli scandali che assai e troppo erano sortiti a detrimento della sua fama e della religione.

Il papa metteva in campo un mondo di querele: I veneziani non volerlo compiacere di un’abazìa vacante, abusare della sua bontà paterna, spregiare il suo nunzio, imprigionare molti preti, far insomma cose che non farebbono gli eretici. «Che più? sclamava egli, stipendiano tre o quattro teologi per scrivere contro di noi. Ma gli castigherò. E quel Fra Paolo? Ho fatto esaminare i suoi libri e vi ho trovato entro otto eresie formali. Frà Fulgenzio anch’egli ha predicato questa quaresima, non dirò eresie, ma almeno nel senso di un vero scismatico. Il Senato non vuol proibire i libri de’ suoi teologi, e permette che si vendano pubblicamente; anzi so e son certo che hanno fatto venire assai [p. 36 modifica]libri eretici fin da Ginevra. L’ambasciatore inglese e i suoi famigliari praticano alla scoperta coi principali patrizi, e con loro tengono discorsi di religione e parlano senza orrore di Lutero e Calvino. Oimè! finiva il papa, parlando coll’ambasciatore de Breves, una volta quella Repubblica viveva bene secondo le regole cristiane; ma adesso a poco a poco vedo che va a rischio di esser dannata. Io spenderei il mio sangue per ricuperarla; ma che fare, se essi non me ne danno il modo? Bisogna dunque prendere un’altra risoluzione e trar vendetta di tanti insulti e di così ostinata disobbedienza. Non nacqui tra l’armi, non so nemmanco maneggiarle, ma pure sono deciso di mettermi alla testa di un esercito, convinto in me stesso che Dio vorrà favorire la sua santa causa». Queste cose, narra l’ambasciatore di Francia ne’ suoi dispacci, le diceva con tanto calore che pareva fuori di sè, e la collera gli fece forse dire più che non voleva.

Nè ai Veneziani mancarono le lamentanze; dicevano che erano stati dal papa ingiuriati con un detto pieno di dispregio; ch’e’ voleva proteggere tutti i preti ribaldi, con scandalo del popolo e pregiudizio del buon costume e della giustizia; che il suo nunzio e il loro patriarca usavano tutti i mezzi illeciti per mettere la discordia nella Repubblica; che con denari e provvisioni facevano disertare quelli che avevano scritto in favor del governo; che comandavano ai confessori di non assolvere quelli che leggessero i libri scritti in difesa di esso; che corrompevano i predicatori, che tentavano la fedeltà dei sudditi e mille altre cose simili. [p. 37 modifica]

Il papa diceva che sarebbe condisceso a tutto, purchè proibissero i libri, e Frà Paolo obbedisse alla citazione del Sant’Offizio. Il Senato ricusava assolutamente l’ultimo partito, bene si contentava di proibire i libri, semprechè il pontefice facesse prima lo stesso dei suoi. Pareva non vi fosse via di concordia; ma in sostanza ambidue la desideravano: la Repubblica timorosa che da picciole cagioni nascesse qualche importuno turbamento all’assetto d’Italia, molto più stante i continui preparativi di guerra che faceva Enrico IV, e il bisogno di attendere a questo assai più importante negozio; e il papa sapeva che quel re non avrebbe voluto assisterlo, nè voleva commettersi alla discrezione della Spagna, perocchè, diceva, di papa sarebbe diventato cappellano: gli davano anco non lieve apprensione quelle mene coll’Olanda, e l’imminente arrivo di un suo ambasciatore a Venezia; e le altre coi protestanti di Germania, e gli affari della lega di Halla e di Cleves cui maneggiava che non cadesse in mano di principi riformati. Con tutto ciò lo pungeva continuo il rovello di aversi nelle unghie Frà Paolo. Benchè le astuzie fossero tante volte tornate infruttifere, volle ancora farne la prova. Col mezzo del suo nunzio a Venezia fece figurare l’ambasciatore di Francia Champigny, il quale, assunto il carattere di paciere, fece dire al Consultore che il pontefice era disposto a voler buona amicizia colla Repubblica, a che solo ostava la causa colla Corte, e che bisognava risolversi ad un componimento. Rispose il frate, che non poteva trattarne senza il consentimento del suo principe, e che a quello [p. 38 modifica]bisognava rivolgersi. Tornò Champigny replicando, saperlo benissimo, ma prima di trattarne in pubblico, volerne udire la sua opinione; che ne parlava da benigno chirurgo, voglioso di guarire quella vecchia piaga dell’interdetto. Alla sciocca proposta rispose il Sarpi con acuto motteggio, velandoci sotto minaccia: «che quando una piaga è incurabile e legata e coperta sì che l’infermo la sente poco, il volerla scoprire, non avendo medicamento sufficiente per guarirla, è un’irritarla e offender l’infermo. Pensasse bene, ed avvertisse che in luogo di far cosa grata al papa, non gli facesse offesa mortale».

Sicuramente che non dovette soddisfar molto questa risposta, ma Paolo V non volendo esperimentarne la conclusione, si decise di metter fine a’ litigi. Contarini era stato richiamato, e fu mandato in sua vece Giovanni Mocenigo amico ai preti, grato alla Corte, e perciò dal Sarpi chiamato papista. Scopo del Mocenigo si era di ottenere la tanto combattuta abazìa della Vagandizza pel figliuolo di un suo amico, e perchè ciò conseguisse, sacrificare nel resto le ragioni e il decoro del suo governo; ma in Venezia vi era chi conosceva i suoi disegni e sapeva attraversargli. Il Sarpi faceva di tutto perchè l’accomodamento seguisse a modo suo, cioè onorevole a Venezia. Dopo proposte varie, il papa si ridusse a questa: il Senato riconoscesse l’abazìa in commenda nel cardinal nipote, e questi pagherebbe all’abate eletto dal Senato una pensione conveniente. Simonia per simonia. Ma il Senato non fu contento, e concordò: restassero vive le ragioni dei monaci [p. 39 modifica]per lo avvenire, e per questa sol volta eleggerebbe egli l’abate commendatario, e questi pagasse al Borghese una pensione vitalizia di 5000 ducati. Così salvi i diritti degli uni e appagata l’avarizia degli altri, fu eletto Matteo Priuli.

Per le altre differenze, il miglior mezzo di accomodarle fu quello di non parlarne. Così per i buoni ufficii del re di Francia si mitigarono di nuovo gli sdegni tra Venezia e Roma; e benchè sorgessero in appresso altri dissapori, non furono di alcuna conseguenza. Paolo V, tutto intento a far denari e ad arricchire la sua famiglia, non pensò più al Sarpi; anzi col tempo riuscì (cosa meravigliosa per un papa) a concepirne qualche buona opinione.

Prima di chiudere questo capo voglio narrare un altro aneddoto a prova del modo con cui da alcuni si scrive la storia, e come finora fu scritta quella di Frà Paolo. Userò le parole di Voltaire che lo cita e confuta in una nota al capo 174 del suo Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni. «Daniel (gesuita francese) racconta una particolarità che appare molto strana, ed è il solo che la racconta. Pretende che Enrico IV dopo avere riconciliato il papa colla repubblica di Venezia, guastasse egli stesso l’accomodamento comunicando al nunzio a Parigi una lettera intrapresa di un predicante di Ginevra, nella quale questo prete vantava che il doge di Venezia e molti senatori erano protestanti in cuore, e non aspettavano se non se l’occasione favorevole di chiarirsi; che il P. Fulgenzio, servita, compagno ed amico del celebre Sarpi, si adoperava efficacemente in questa vigna. Aggiunge [p. 40 modifica]che Enrico IV col mezzo del sua ambasciatore fece vedere quella lettera al Senato, togliendovi solo il nome del doge. E dopo che Daniel ha riferito il tenore di quella lettera in cui non è parola di Frà Paolo, dice non pertanto che esso Frà Paolo fu citato e accusato nella copia di lettera mostrata al Senato. Non nomina il pastore calvinista che l’ha scritta, e si osservi ancora che ivi si trattava di gesuiti, i quali erano banditi dalla Repubblica. In ultimo Daniel usa di questo ripiego che imputa ad Eurico IV, come una prova dello zelo di lui per la religione cattolica. Ma singolar zelo di Enrico sarebbe stato cotesto di mettere la discordia nel Senato, il migliore de’ suoi amici, e mescolare la parte spregievole dell’imbroglione e del delatore al personaggio glorioso del pacificatore. Può essere che siavi stata una lettera, vera o supposta, di un ministro di Ginevra; che essa abbia prodotto alcuni piccioli intrighi indifferentissimi ai grandi oggetti della storia; ma è affatto incredibile che Enrico IV sia calato alla bassezza di cui Daniel gli fa onore. Il quale aggiunge che chi ha relazione con eretici, o è della loro religione, ovvero nessuna ne ha. Riflessione odiosa anco contra Enrico IV che fra tutti i suoi contemporanei ebbe più di ogni altro relazioni con riformati. Sarebbe da desiderarsi che il P. Daniel ci avesse ragguagliato della amministrazione di Enrico IV e del duca di Sully, anzichè entrare in queste inezie che mostrano più parzialità che giustizia, e rivelano sgraziatamente un autore più gesuita che cittadino». [p. 41 modifica]

Nel recitato racconto di Daniel evvi un fondo di verità, ma talmente sfigurato che non serba più effigie della originaria sua forma. Ecco il fatto.

Pendenti le narrate controversie Frà Paolo aveva scritto lettere a varii amici di Francia, tra i quali alcuni erano calvinisti; e le lettere per mezzo dell’ambasciatore Foscarini furono ricapitate. Ma una di esse, per non so qual via, pervenne in mano del nunzio a Parigi Roberto Ubaldini che la mandò a Roma, e da Roma a Venezia. Veramente non conteneva cosa alcuna d’importanza, ma vi erano alcuni tratti pungenti contro la Corte, e altri dove facendo qualche biasimo al Collegio, lodava al confronto il Senato; ma sarebbe stato nulla di nulla se altre passioni non avessero dato valore all’accusa. La lettera fu presentata quando appunto si trovava in Venezia l’ambasciatore di Olanda; e quella missione maneggiata particolarmente da Frà Paolo e dallo scaduto Collegio, spiaceva singolarmente agli Spagnuoli, ai pontificii, a Champigny, e a quelli tra i patrizi che consentivano con loro. Nè i membri che componevano il Collegio attuale erano tutti favorevoli al Consultore; il quale sopraffatto da così inopinata tempesta, non fu mai tanto vicino alla sua perdita, e forse anco sarebbe seguìta se altri innumerevoli, tra i primi dell’ordine patrizio, complicati nella stessa causa, non avessero estimato loro interesse di sostenerlo. Perocchè non potendo convincerlo di eresia, volevano accusarlo di delitto di Stato; ma non fondandosi l’accuse sopra alcun fatto certo, sì solamente sopra induzioni e sospetti suggeriti da animosità, si dilatava troppo, e complicava [p. 42 modifica]soverchio numero di persone potenti: il doge non ne era esente. Il Consiglio de’ Dieci si mise in mezzo, ritirò la lettera, diede per forma un rimbrotto a Frà Paolo, e impose silenzio a tutti; e il frate fatto più cauto, d’allora in poi non scrisse più di sua mano, se non raramente, a persone eterodosse. Il re Enrico di questo pettegolezzo fu al tutto ignaro, e Champigny che per favorire il nunzio vi si era assai maneggiato mandò tosto dopo a fare le sue scuse al Consultore per mezzo dell’ambasciatore di Olanda, e chiedendogli un abboccamento per giustificarsi, che lo sdegnoso frate gli ricusò.