Centoventi sonetti in dialetto romanesco/Un nuovo poeta romanesco

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Un nuovo poeta romanesco

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UN NUOVO POETA ROMANESCO.1


I.


Il Belli, ne’ duemila e più sonetti che scrisse in dialetto, intese a ritrarre il carattere e la vita del popolo, o, a dir meglio, della plebe di Roma. Ciò che lo distingue da tutti gli altri scrittori di dialetto, compresi quelli che prima di lui tentarono il romanesco, è questo: che gli altri si servono della lingua del popolo per esprimere, quasi sempre, sentimenti e pensieri propri, ed egli invece se ne serve per esprimere sentimenti e pensieri del popolo stesso, mettendolo addirittura in scena e facendo parlar sempre lui. E come si sarebbe guardato bene di alterare solo d’un ette la [p. 2 modifica]lingua, così stava sempre all’erta per non uscir dai confini del pensiero popolare. Dimanierachè, se tutto quel ch’egli dice non fu detto dal popolo, non c’è però nulla che il popolo non potesse dire; e da ciò nasce quella fusione maravigliosamente perfetta, che tutti ammiriamo in lui, tra la materia e la forma.

Chi ha dimorato in Roma, e legge il noto sonetto della Poverella,2 gli pare d’aver sentito mille volte chiedersi l’elemosina proprio con quelle stesse parole. Eppure, nessuna accattona ha mai parlato [p. 3 modifica]in versi, e molto meno in versi legati in quell’ardua forma! Ma il poeta ha potuto produrre questa illusione, appunto perchè da ciò che anche lui aveva realmente udito, ha indovinato felicemente ciò che in altri casi simili avrebbe potuto udire: dal fatto reale è asceso al probabile, dando sempre rigorosa unità alle sue scene, e scolpendo i caratteri con tanta sicurezza, che spesso fin dalle prime parole si rivelano interi.

Questa perfetta verisimiglianza s’incontra in tutti i sonetti del grande poeta. Solo in alcuni, e particolarmente di quelli politici, il concetto è troppo studiato o troppo alto, e ci si sente un poco la personalità dell’autore. Nè deve recar maraviglia che, ciò non ostante, i sonetti politici siano più noti e ammirati degli altri; perchè, prima di tutto, il difetto da noi notato si trova in pochissimi, e poi è ben naturale che, specialmente ai non romani, paressero più belli questi sonetti in cui il poeta si eleva, qualche volta anche per conto proprio, a un ordine d’idee comuni e ben accette a tutta Italia, che non quegli altri in cui ritrae fedelmente il sentire e il pensare speciale della plebe romana, e che non offrono un immediato raffronto col vero, se non a chi abbia ben conosciuto quella plebe. Il difetto dunque giovò, anzichè nuocere, alla fama del poeta, ed è anche una prova incontrastabile che egli, quando concepiva e [p. 4 modifica]scriveva i sonetti politici, era tutt’altro che clericale.

L’elezione che il Belli fece del sonetto e della forma dialogica per attuare il suo vasto disegno, non fu di certo fatta a caso. Scelse il sonetto, perchè esso è il più adatto per allogarvi piccole scene, potendo anche allungarsi con la comoda coda, se la scena si allunghi. Scelse la forma dialogica, perchè la richiedeva il soggetto stesso. Il Romano, come tutti i meridionali, non cerca il pensiero nella solitudine e nel silenzio, ma nella compagnia e nella conversazione; e se non può parlar co’ suoi simili, parla col cane, col gatto, con l’asino, col canarino, col tempo cattivo, co’ santi, con la Madonna. Anzichè studiarsi di recare nella parola prodotti della riflessione, egli si studia piuttosto di far nascere la riflessione dall’uso della parola.3

[p. 5 modifica]Volendo dunque rappresentare un tal popolo, la forma dialogica è quasi una necessità; perchè [p. 6 modifica]questo popolo, basta lasciarlo parlare, e si rappresenta da sè. A Roma (come, del resto, in tanti altri luoghi), anche la predica religiosa assume spesso codesta forma. Io da bambino ho visto delle vere commedie o farse, rappresentate sopra una specie di palcoscenico costruito in mezzo alla chiesa di San Rocco a Ripetta. Un gesuita, grasso e rubicondo come un caratterista, recitava la parte del miscredente, e ne diceva di tutti i colori; mentre un altro gesuita, che pareva un San Luigi Gonzaga, si sbracciava per convertirlo. A certi punti le risate del pubblico andavano alle stelle proprio come in teatro; e la farsetta finiva, già s’intende, col ravvedimento dell’incredulo

Ma con quanta varietà il Belli ha saputo servirsi della forma dialogica! la quale, mantenuta in così straordinario numero di componimenti, sarebbe diventata monotona. In un sonetto avete un dialogo tra due o più persone che parlano tutte il [p. 7 modifica]romanesco; in un altro invece, uno degl’interlocutori usa l’italiano o, se straniero, qualche cosa che gli somiglia. Ora incontrate un vero e proprio monologo; ora parla una sola persona, ma con altre, e riferisce discorsi di terzi, spesso in lingue straniere o in italiano, romanescamente spropositati. Infine, in molti sonetti parla pure una sola persona; ma (cosa mirabile!) dalle sue parole voi capite subito, senza nessunissimo sforzo, le risposte dell’altro o degli altri interlocutori, e perfino i gesti, le mosse, tutta insomma la controscena. Quest’ultima specie di dialogo, se non può dirsi che l’abbia inventata il Belli, perchè forse se ne incontra brevissimi e fuggevoli esempi in quasi tutti gli autori, è certo però che nessuno ha saputo adoperarla come lui, in componimenti interi, e tanto spesso, e con tanta maravigliosa evidenza. E, adoperata così, a me pare la più efficace; perchè tien desta l’attenzione del lettore, solleticandolo continuamente con quel piacere di leggere tra le righe, d’indovinare da sè tante cose: quel piacere che spesso ci fa ammirare le opere de’ grandi artisti, più per quello che sottintendono, che per quello che dicono.

II.

Benchè il numero de’ sonetti del Belli sia stragrande, pure la vita e la lingua d’un popolo come [p. 8 modifica]il romano, son sempre tanto varie, ricche e mutabili, che è ancora possibile ritrarle da nuovi aspetti, anche continuando la maniera del Belli. Ma, prima di tutto, questa maniera bisogna impararla, ed è cosa difficilissima; poi, bisogna scansare il pericolo che il modello ti faccia violenza e usurpi il luogo delle impressioni immediate e vergini; e infine, quando siano vinte queste due difficoltà, ne resta sempre una terza, vale a dire, che il modello faccia violenza al giudizio de’ lettori, i quali spesso lo vedono anche dove non è. In questi scogli naufragarono fin qui tutti quelli che, dopo il Belli, scrissero in romanesco. Uno solo accenna di voler arrivare in porto felicemente, e, per una singolare combinazione, è l’ingegnere Luigi Ferretti, fratello della defunta moglie dell’unico figlio, pur esso defunto, del Belli, e tutore degli orfani nipoti di questo.

Padre del nostro Ferretti fu quel Giacomo, che scrisse una quantità straordinaria di prose e poesie d’ogni genere e più di ottanta melodrammi per il Rossini, il Donizetti, il Coppola, i fratelli Ricci, il Mayr e altri maestri, e che Massimo D’Azeglio4 mette tra gli «alti e belli ingegni» della società sveglia, piena di vita e di movimento,» che fioriva a Roma nel 1814. «Alla generazione di [p. 9 modifica]quell' epoca,» dice argutamente il D’Azeglio, «Napoleone aveva fouetté le sang; e non rassomigliava punto a quel tipo lumaca che ha fiorito poi per tanti anni tra noi, all’ombra dei cappelloni dei gesuiti, e dei troni e tronini e tronucci dei principotti austro-borbonico-italiani; che Dio conceda pace all’anima loro. Ed io,» continua il D’Azeglio, «in quest’ambiente gaio, bevevo avidamente, come dice non so che poeta, l’aura d’una vita nuova tutta immaginosa, e mi pareva finalmente d’esistere. In questa gaia società, il Ferretti padre si strinse col Belli in tale amicizia, che durò più di quarant’anni e non finì neppur con la vita. Nato nel luglio del 1784, il Ferretti aveva sett’anni più del Belli, e morì il 6 marzo del 1852, undici anni prima di lui. Un mese dopo, il Belli lo rimpiangeva in un sonetto, che è de’ migliori che abbia scritto in italiano, e che forse lesse al l’Accademia Tiberina, della quale, insieme con l’amico suo, era stato uno de’ fondatori.

In morte di Giacomo Ferretti.

     È già compiuto il quadragesim’anno
Dacchè l’uom ch’io rimpiango e benedico
Tutto di cuor mi si profferse amico,
Non pur con labbra siccome altri fanno.

     Però fra quanti di sua morte al danno
Vi condolete io qui vengo e vi dico
Che, degli amici suoi forse il più antico,
Più in me risento del comune affanno,

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     Nè sol d’amico il santo nome e bello
Corse fra noi, ma per bontà di Dio
Poi mi divenne e lo chiamai fratello,

     Quando con rito venturoso e pio
Entrò sposa nel mio povero ostello
La sua dolce figliuola al figliuol mio.


Malinconici versi, ben differenti da altri che in più lieti tempi il poeta aveva composto per la famiglia Ferretti! Quando nacque il nostro Giggio, la gioconda musa romanesca del Belli accompagnò i suoi primi vagiti. Al rifresco fatto per il battesimo, si vede che intervenne, non invitata, una di quelle matrone ficcanaso e spropositate che abbondano in Roma; e il poeta che era lì a partecipare le gioie dell’amico, la colse a volo, com’era solito suo, e ne incorniciò il tipo in questi quattordici versi:

Er rifresco der sor Giachemo.

(22 febbraio 1836.)

     Serva sua, signor Giachemo. È premesso?5
Se pò entrà?6 Come va la partoriente?
Oh manco male, via, nun sarà gnente.
Dio la consoli co’ mill’antri7 appresso.
     E er pupetto? Che nome j’hanno messo?
Perché, insomma, vedènno tanta gente,
Me vojo figurà naturarmente
Che l’hanno, dico, battezzato adesso.

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     E chi ha aùto,8 s’è lecito, l’avvanto9
D’èsse er compare?... Ih, guardi, er sor Casciano!10
Me n’arillegro tanto, tanto, tanto.
     Dunque lei je lo dàssivo11 pagano,
E lui cór un po’ d’acqua e d’ojo santo,
Eccolo lì, ve l’aridà cristiano.

E siccome la puerpera, avendo dovuto dare a balia fuori di casa er pupetto, stava, come tutte le mamme, in gran pena; ecco che viene a rassicurarla la commare, un tipo simile a quello stupendo rappresentato tanto bene dalla signora Moro - Lin ne’ Recini da festa di Riccardo Selvatico:

Er baliatico de Giggio.

(24 febbraio 1836.)


     L’ha sentito er sor Giachemo ch’ha detto?
Je12 poteva parlà mejo un profeta?
Dunque sur pupo suo lei vivi quieta,
Come si lei se lo tienessi ar petto.
     La stanzia è granne e nun è fatta a tetto:
Er coso de la cùnnola13 è de seta....
Via, quer ciumaco14 sta, signora Teta,15
Com’un fijo de re, com’un papetto.
     Bast’a di’ si in che mano s’aritrovi,16
Che infinamente17 un par de vetri rotti
So’ stati giubbilati e messi novi.

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     Quanno ce so’ de mezzo ommini dotti,
Sora commare mia, questo j’approvi18
Che quer che fanno nun pò annà a cacchiotti.19

Nato sotto questi auspici e cresciuto poi nella dimestichezza de’ due poeti, parrebbe che il nostro Ferretti si fosse dovuto mettere a far versi fin dall’infanzia. Eppure non fu così. Egli è arrivato alla quarantina, senza mai commettere peccati poetici. Io però avevo notato in lui un gusto veramente squisito, per il modo inarrivabile con cui recita i sonetti del Belli, che richiedono mille modulazioni di voce e atteggiamenti di fisonomia e mimica variabilissima, e tutto dal vero. Questo modo il Ferretti lo imparò forse dal Belli stesso, il quale era sempre nobile e contegnoso, ma nel recitare i propri sonetti si trasmutava in tante forme diverse, che il barone Achille Sansi, dotto e arguto ingegno spoletino, lo andava assomigliando al cappello d’un pagliaccio.

Del recitar bene questo genere di componimenti allo scriverli ugualmente bene, non c’è che un passo; e se la ragione non ne fosse per sè stessa evidente, lo proverebbe il fatto che nessuno li ha mai recitati con tanta maestria come il Belli medesimo, che perciò era desideratissimo perfino da monsignori e cardinali! Il nostro Ferretti ha fatto [p. 13 modifica]sto passo per caso, quasi senza addarsene: ottimo segno, che indica una vocazione vera e matura. Riferisco, parola per parola, un brano d’una lettera che egli mi scrisse il 4 decembre del 76: «Accadono giornalmente nel mondo alcune cose che, pur troppo, non si spiegano . Io non avevo, posso quasi dirlo, scritto mai due soli versi nel corso della mia vita. Ma sui primi di luglio, per una faccenda tutta scolastica,» egli è soprintendente delle scuole municipali di Roma, «e che pareva non potesse dare appiglio a nulla, e nella quale fu causa di retta l’amico comune Santini, mi venne fantasia di rispondere a questo con un sonetto in vernacolo .... Be’, da quer giorno in poi, sor Giggio mio, per dirtela propio talecquale, ho incominciato a scriver sonetti in vernacolo, e scrivendo senza interruzione in tutti i momenti che raccapezzo fra le varie occupazioni scolastiche, ho già fatto, in cinque mesi, un trecento sonetti. Ne vo leggendo di quando in quando al Santini e a qualche altro amico buon intendente; e tutti m’incoraggiano a seguitare. E io séguito. Già seguiterei, quand’anche non mi s’incoraggiasse a farlo; tanto mi ci sento spinto! Mi parrebbe davvero d’aver perduto la mia giornata, se non avessi trovato il modo di buttar giù un paio di sonetti. I primi furon tutti diretti al Santini; ma tentai ben presto di camminare sopr’altra via, e procurai di trattare argomentini non [p. 14 modifica]trattati dal Belli. Un mese fa mi venne in capo un’idea che, se non foss’altro, avrà, come spero, il merito della originalità, e che per ora taccio, poichè dei cento sonetti che svilupperanno questo tema, ne mancano ancora una trentina. Ma ci sto sopra continuamente, e fra dieci giorni, spero, il lavoro sarà compiuto.... ))

Infatti, dieci giorni dopo, i cento sonetti erano già bell’e pronti per la stampa, e venivano poi pubblicati in Roma dalla tipografia Barbèra, sotto il titolo: La Duttrinella.

III.

Che cos’è questa Duttrinella? Un poemetto satirico in forma dialogica, sopra il piccolo catechismo diocesano di Roma, che è un compendiuccio di quello del Bellarmino, e che i Romaneschi chiamano la Duttrina, ma più spesso la Duttrinella, e qualche volta anche er Bellarmino.

Gl’interlocutori del poemetto, ossia Quelli che parleno, sono: don Ghetano, curato; Caterina, serva der medémo; Peppe e Pippo, regazzi grannicelli.

Peppe, che ha quindici o sedici anni, ed è sve glio la sua parte, ma di fondo bonissimo, va in casa del curato a sentire la spiegazione della dottrina cristiana. Pippo si accompagna con lui qualche volta, ma per mera curiosità, e presto si stufa [p. 15 modifica]e smette. L’altro invece ci piglia gusto, perchè il libretto della dottrina gli suscita in mente dubbi sopra dubbi, ed egli, per averne la soluzione, tormenta il povero don Ghetano, che il più delle volte non sa, o non può, o non vuole dargliela. La serva entra in scena di rado, ma sempre inviperita contro la dottrina cristiana, che fa perder tempo a lei e al curato, e le tira in casa tanti regazzacci.

Per rendere la finzione affatto verisimile, l’autore ha seguito scrupolosamente l ’ordine del catechismo, studiandosi di ricavar pensieri e parole sempre da questo; e per fare a meno di note dichiarative, ha stampato addirittura in testa a ogni sonetto il passo del catechismo cui si riferisce. In un sonetto poi, che serve di proemio, dà così ragione, argutamente, dell’opera sua:

A chi vò lègge.

    V’aricordate che da regazzino
Tenévio20 sempre i’ mano sto libbretto,
Che Dio sa quante vorte avete letto
Fino che sete stato piccinino?

    Be’, arïècchelo qua sto librettino,
Ma.... stampato ’gni paggin’ un pezzetto,
E sotto poi pe’ soprappiù un sonetto
Che serve a spiegà mejo er Bellarmino.

    Ah! quanto costa? Aspettate u’ momento.
Vo’ sapete contà, pe’ cristallina!?
Be’, sti sonetti quanti so’? So’ cento .

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    Du'centemisi l'uno.... e so' pe' gnente.
Vo' direte: – Va be', ma la duttrina?
La duttrina nun val' un accidente.

E che la dottrina non valga più che tanto, lo provano le domande di Peppetto e le risposte del curato.

Peppetto, per esempio, vorrebbe sapere che cosa sia il mistero, e il curato risponde:

    Lassa stà ste faccènne, fijo caro:
È 'na risposta un po' pericolosa,
E pe' capilla se' troppo somaro.
    Ma simmai vòi sapé come finisce,
Te posso dì ch'er mistero è 'na cosa
Che più se spiega.... e meno se capisce.

(Sonetto iii.)

Peppetto non intende la Comunione de’ santi, e il curato gli dice:

    Che vòi fà, fijo mio? te compatisco,
Perché se tratta de 'na certa storia,
Ch'io, be che prete, poco ce capisco.
    Ma tu fa' puro come l'artra gente:
Dàje 'na letta e imparel' a memoria:
Si nun capischi, nun importa gnente.

(Sonetto xxv.)


Ma il ragazzo si ostina a voler capir quel che legge; e don Ghetano, sebbene qualche volta s’impazientisca e minacci di finirla a sganassoni, perchè

    Er tempo è curto e nun è robba questa
Da poté fà tutte ste rifressioni,

(Sonetto x.)


(x. ) [p. 17 modifica]ordinariamente però prende la cosa per il suo verso: si ristringe, cioè, a ripetere sott’altra forma lo stesso consiglio, o, per tagliar corto, smette la lezione.

Il ragazzo ha letto che Gesù Cristo confermò nella legge nova i comandamenti di Dio, e osserva:

                    Me parerebbe già ’na buggiarata,
               Che Gesù Cristo ch’er’un bon cristiano
               Nu’je piacessi quer ch’annava a Tata.21
                    Voi che ne dite?
D. G.                                        Eh, via!
Peppe.                                                  Fursi22 ch’ho torto?
D. G.     No, ma ste cose è mejo annàcce piano.
               Per oggi abbasta, che so’ stracco morto.
                                                                           (li.)

La dottrinella parla sul serio degli «stregoni e fattucchieri, che tengono il demonio per loro Dio;» e Peppetto naturalmente domanda:

               . . . . . . . . . . . . . ma, padre mio,
               Questi chi so’? ch’io nu’ l’ho visti mai.
D. G.     Tu nu’l’hai visti? E figùrete io!
Peppe    Ma dunque, dico io, padre curato,
               Dite, che so’?
D. G.                                Ma, corpo d’un giudio!
               Ce vò poco a capì che m’hai seccato.
                                                       (liv e lv.)

E passa oltre.

Arrivato poi alla spiegazione della prima delle virtù teologali, la fede, e del come essa appartenga [p. 18 modifica]a Dio, don Ghetano rimette fuori il principe de’ suoi argomenti, ma in una forma così comica, che fa del sonetto un vero capolavoro:

D. G. . . . . . . . . . . . . . . . . come va
             Ch’è robba sua de Dio puro la fede?
Peppe.       Perché la fede fa che s’ha da crede
             Nun solo quer che se pò vede, ma
             Puro l’artro, ch’a dì la verità,
             Nun ciarïèsce mai de poté vede.
D. G. E tu ce l’hai sta fede?
Peppe.                    Eh! tanto quanto...
D. G. Ma si è poca, nun basta pe’ sarvàsse.
Peppe. Voi dite be’, ma nun so’ mic’un santo,
                  E quanno ch’arifrètto ....
D. G.                     E che? nun sai
             Si quer che s’ha da fà pe’ nu’sbajàsse?
             Quer che fo io: nun arifrètte mai.

(lxxxi.)


Quelle crudeli parole della dottrina, in questo caso tutt’altro che cristiana: «i soldati nella guerra giusta (?) non peccano mentre feriscono o ammazzano,» Peppetto le espone così:

     E nun pèccheno poi manco p’er c....
Li sordati a ammazzà l’artri sordati,
Ché tanto quella è carne da strapazzo.

(lviii.)

E, un’altra volta, dopo aver raccontata la passione di Gesù Cristo,

Sotto quer porco de Ponzio Pilato,

[p. 19 modifica]Peppetto, impietosito, esce a dire:

     Ma invece Dio de mannà er fijo a morte
Pe curr’appresso ar monno che scappava,
Perché, dich’io, nu’l’ha tenuto forte?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
     Pe’ me, s’a un fijo je volessi bene,
Io nun potrebbe condannàll’a morte,
E mannàllo a suffrì tutte ste pene.

(xv e xvi.)

E neppure il curato sa dargli torto.

A queste e altre simili considerazioni morali, che si affacciano alla mente di chiunque legga col lume della ragione il catechismo del Bellarmino, e che l’autore ha saputo presentarci, come richiedeva il suo assunto, in modo affatto popolare, altre ancora se ne aggiungono tutte ridicole, che servono benissimo a variare e rallegrar la materia, per sè stessa alquanto monotona. A tal fine, il nostro poeta ha cavato eccellente partito dalle qualità proprie de’ Romaneschi, e particolarmente da quella tanto spiccata in essi, di ravvicinar bruscamente le cose più disparate, senza punto badare ad alcuna legge di luogo, spazio, tempo o convenienza. Così, per esempio, Peppetto, leggendo nella dottrina che Gesù «in cielo era nato di padre senza madre,» ci resta intontonito, e osserva:

     ’Na donna sì.... nun è ’na cosa rara
Che facci un fijo senz’avé marito,
Com’è successo lì a la sora Sara
Che jeri a l’improviso ha partorito

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                       Co’certi strilli....
D. G.                                            Bada che te tocca!23
Peppe.       Ma un omo, dico io!
D. G.                                             Dico, Peppetto,
                   Famm’er piacere, attùrete la bocca....

(xiv.)


E sentendo che la cresima «ci fa diventare soldati veri del Salvatore,» egli domanda non senza malizia:

     Ma fàmos’a capì:24 sordati veri,
Sordati propio co tanto de baffi,
’Na spece insomma de sti bersajeri
     Quanno entròrno er settanta a porta Pia?...

Onde il curato, colpito dove gli duole, risponde brusco:

Si nun t’azzitti, sai, te do du’schiaffi.

(lxxii.)

Sugli effetti del sacramento del matrimonio, il quale, secondo il Bellarmino, fa «procreare i figlioli» e vivere gli sposi «con pace e carità,» il ragazzo osserva:

                       Che facci fà li fiji, oh! questo sì;
                   Questo se vede, ma me pare a me
                   Che su sta pace ce sarebbe dì;
                       A sentì mamma e tata....
D. G.                                                  Abbad’a te!
                   Lassa sto tasto, e torna venardì....

(lxxix.)


[p. 21 modifica]La fuga di Gesù fanciullo da casa sua per andare a disputar co’ dottori nel Tempio, richiama alla mente di Peppetto una fuga propria per andar a fare il birichino sotto il portico del Panteon, e gli fa avvertire la diversità di trattamento che ebbe dal babbo:

. . . . . . . . . . . Furtuna ch’era Cristo!
Ché si era un artro, v’assicuro io
Ch’er padre suo j’avrebbe dato un pisto,25
Come tata me fece a la Ritonna....

(xcviii.)

Nè queste uscite comiche le ha solamente il ragazzo: anche il curato, da buon Romanesco, ci ha le sue. Quando Peppetto gli domanda che cosa significa la parola adulare, egli, conoscendo i suoi polli, dice:

. . . . . . .Eh, questo qui è ’n affare,
Che nu’ lo so manch’io si sia peccato;
Anzi, si t’ho da dì er pensiero mio,
Qui er Belarmino dev’avé sbajato.

(lxii.)

E dopo aver detto col catechismo che l’estrema unzione aiuta anche a riacquistare la sanità del corpo, se Dio crede che questa sia utile alla sa lute dell’anima; siccome Peppetto vuol sapere che [p. 22 modifica]cosa accade se Dio crede diversamente, egli, seccato, risponde:

. . . . . . . . . . E allora poi st’untata
Je dà ’na spinta pe’ morì più presto. (lxxvii.)

Ad accrescere varietà e ridicolo vengono gli spropositi. Quel vizio comune a tutte le plebi, di sforzar le parole che non intendono, per farne tutt’una cosa con altre notissime, somiglianti di suono ma non di significato, e creare così etimologie cervellotiche, le quali poi spesso diventano legge nell’uso; un tal vizio, dico, è in sommo grado ne’ Romaneschi, e proviene forse principalmente da una certa loro superbia, onde non vogliono rassegnarsi a confessare a sè stessi e agli altri di non capire quel che non sanno. Perciò, il nostro Peppetto muta l’eucaristia in carestia; e leggendo la parola fornicazione, vuol saper dal curato come c’entri er forno. Ancora: i misteri gaudiosi del rosario sono per lui misteri da ride; sente chiamar novissimi ha morte, il giudizio, l’inferno e il paradiso, e afferma con gran sicurezza che qui il Bellarmino ha sbagliato, perchè queste cose so’ più vecchie der brodetto; legge nel catechismo che Dio «ci vuole.... mondi, non solo nell’esteriore, ma anche nell’interiore,» e lui intende:

Che nun abbasta de lavàsse er viso,
Ma s’ha d’avé pulite le budella,
P’annà, che Dio ne scampi, in paradiso. (lxii.)

[p. 23 modifica]Come si vede anche da questi pochi saggi, al Ferretti non manca una ricca vena satirica; e se teniamo conto delle gravi difficoltà che avrà dovuto superare per comporre cento sonetti sopra un solo argomento (il Belli stesso non ce ne fece mai più di quattro o cinque), possiamo giustamente salutarlo poeta. Ma io non devo nascondergli che nella Duttrinella mi par che ci sia un grave difetto: il personaggio sbiadito e inconcludente di Pippo, il quale, o non doveva entrare in scena, o, entratovi, doveva farci qualche cosa, e non starci per mero riempitivo. Bello invece per tutti i versi è il carattere di don Ghetano, che si rivela intero in quelle parole: Si sapessi che noja a fà er curato!... e che non si smentisce mai. Bello del pari quello di Caterina, la quale comparisce poche volte, ma è sempre lei fino all’ultimo, la serva padrona e miscredente, appunto perchè serva di prete. E a lei, con felice pensiero, il Ferretti ha riserbato l’onore di chiudere il poemetto. - La spiegazione della dottrina è terminata, e il ragazzo dice:


                    E mo c’è ’r Fine.
D. G.                               Aringrazziam’ Iddio,
                Che se la sémo levata datorno.
Cat.         Don Ghetano, è sonato mezzoggiorno.
D. G.        Nu’ l’ho sentito.
Cat.                                  L’ho sentito io:
                Sbrigàteve .
D. G.                               Mo vengo. — Fijo mio,

[p. 24 modifica]

Cat.         Don Ghetano, è sonato mezzoggiorno.
                Làssem’annà.
Peppe.                               Ma diteme: аritorno?
D. G.      Sì, pòi tornà sicuro.... un artro giorno.
Cat.        Be’, je la famo?26
D. G.                                     Nu’ la senti?... Addio:
                     Saluta Pippo, sai? e ’n’artra vòrta
                 Poi, t’arigalerò ’na coroncina.
Peppe.     V’aringrazzio.
D. G.                           E de che? Chiudi la porta.
Cat.    Oh! mancomale!
D. G.                           E che c’è, Caterina?
Cat.    C’è ch’er riso se scòce,27
D. G.                                     E che m’importa?
Cat.    M’importa a me. - Accidenti a la duttrina!

      Lo scopo del poemetto a molti è parso affatto inutile, perchè, dicono, combatte un morto; ad altri invece dannoso, perchè scalza la fede. Nella contradizione di questi opposti giudizi, l’autore trova giustificata l’opera sua, che a me pare, non solo bella, ma anche buona e utile. Se molti se ne sono scandalizzati, è segno che il preteso morto è più vivo di prima; e a queste anime timide che si scandalizzano della verità, che è Dio stesso, e le antepongono la pia impostura, che non può esser che il male, il Ferretti risponderà con l’epigramma di Luciano Montaspro, dove c’è insieme [p. 25 modifica]un rimpianto e un rimprovero, entrambi giustissimi:


    La fede è morta! (dice don Clemente):
Si corre all'ateismo di galoppo!
— O preti, è vero! non crediam più niente,
Perchè voleste farci creder troppo.


IV.

Ma il pregio principale del nuovo poeta sta, secondo me, nella forma. Egli ha studiato a fondo e conosce perfettamente il suo dialetto, il quale, come ogni altro, per diventar lingua scritta non ha bisogno che d’esser messo in carta; quando per lingua scritta non s’intenda una cosa che, col passare dalle labbra alla penna, abbia da trasformarsi. Essendo dunque una lingua, il dialetto ha parole e locuzioni e leggi grammaticali proprie, le quali, finchè durano nell’uso, non si possono violare o al terare impunemente. Dopo il Belli, il Ferretti è il solo scrittore romanesco che abbia inteso bene questa verità, e siasi proposto di conformarvisi a puntino. Tutti gli altri (eccettuato il Chiappini, il quale però, per soverchia modestia, si ostina a rimanere inedito) han creduto di poter trattare il povero dialetto, come i più han trattato e trattano la lingua fiorentina, cioè come una cosa da potersi rimpastare a capriccio, senza avvertire che neppure [p. 26 modifica]l’autorità di Dante Alighieri è bastata per mutare il cosa fatta capo ha in capo ha cosa fatta.28

«Sarebbe,» ha detto un valentuomo, il professore Ferdinando Santini, «sarebbe il compito più facile del mondo (laddove è difficilissimo) lo scrivere in dialetto, quando ne fosse lecita ogni trasposizione di parole, ogni sorta di aggiunti, d’epiteti, d’accessorii ed ogni piegamento di costrutto; e il vernacolo riponesse tutto il suo carattere nello storpiare delle parole, e nelle uscite da trivio. Il popolo va sempre, e in tutto, diritto a fil di logica, e fa talora qualche trasposizione, ma là solo dove la forza del suo sentire lo richiegga, non dove la rima o il rito e la convenzione rettorica lo voglia e lo conceda. Al primo apparire di questi difetti, il popolo col suo vernacolo sparisce, e vien fuori la meschina rachitica figura dell’umanista, in tanto men sopportabile, in quanto che non parla in quel caso il linguaggio di nessuno.»

Ecco qui, per esempio, il dott. Augusto Marini, che ha pubblicato da poco Cento sonetti in vernacolo,29 e che avrebbe eccellenti qualità, specialmente [p. 27 modifica]nella satira politica; ma per sua e nostra disgrazia, egli scrive una lingua che, per lo più, non è nè il romanesco nè l’italiano, ma un’informe mescolanza dell’uno e dell’altro, così nelle parole e nelle frasi, come nella sintassi.

È vero che il Marini ci avverte che «in questi sonetti non ha voluto seguire in tutto e per tutto la dicitura antiquata del dialetto romanesco, affinchè anche i non romani potessero più facilmente comprenderli;» ma questa toppa è peggior dello strappo. Infatti, se per dicitura egli intende quel che realmente significa, io dico che ha fatto malissimo a seguire, anche solo in parte, la dicitura antiquata, servendosi, per esempio, a tutto pasto dell’antipaticissimo suffisso pleonastico ne (mene, tene, tune, giune, quane, none, fane, riuscine, ec.), che andava già cadendo in disuso fin da’ primi tempi del Belli, il quale non l’adopra quasi mai, e che oggi potrà sentirsi, per caso, in bocca di qualche umbro o marchigiano romanizzato, ma non mai dei veri Romani de Roma. Se poi, com’è più probabile, il Marini chiama dicitura antiquata quelle forme particolari che vivono solamente tra ’l po polo, io dico che ha fatto malissimo a scartarle, perchè esse appunto dànno fisonomia e carattere speciale al dialetto, e non è lecito svisare un idioma per comodo di quelli che non l’intendono. Se non l’intendono, lo studino: non c’è altro rimedio.

[p. 28 modifica]Del resto io non vedo che difficoltà avrebbero incontrato i non romani a intendere: addrittura, lezzione, cariera, roppe, fussi, tutt’in un tratto, muntura, forme proprie e vive del romanesco, invece di quelle corrispondenti che il Marini adopra ne’ primi quattro sonetti: addirittura, lezione, carriera, rompe, fossi, tutt’in un tempo, montura. Ciò è tanto vero, che il Marini stesso, due altre volte che gli fa comodo per la misura del verso, scrive addrittura (pag. 65 e 68); ma un’altra volta, per lo stesso motivo, torna a scrivere addirittura (62). Nè questa è la sola contradizione in cui cade.

Per comodo de’ non romani egli avrebbe potuto abbandonare, come ha fatto il Ferretti, alcune forme puramente ortografiche usate dal Belli, per esempio l’ sc per c, la z per s, e il frequente raddoppiamento delle consonanti iniziali; quantunque l’ortografia belliana, ch’io seguii scrupolosamente nell’edizione de’ Duecento Sonetti, e che molti non approvano, sia stata giudicata da uno de’ primi filologi d’Europa, la più acconcia a rappresentare il dialetto romanesco, «finchè non sorga su fondamenta scientifiche un sistema di scrittura uniforme per tutti i dialetti italiani. nota»


30 [p. 29 modifica]Avrebbe anche potuto, come in realtà ha fatto, abbandonare quasi del tutto codesta ortografia; ma non doveva mai e poi mai alterare tanto spesso la sostanza medesima del dialetto.

Egli usa frequentemente voci e maniere che, se non sono inventate da lui, sono però certo di quelle che solo qualche volta, per caso o capriccio, escono di bocca a qualcheduno, e che perciò hanno tanto diritto di appartenere al vero dialetto, quanto i forestieri che passano per una città, di appartenere alla vera cittadinanza . Per esempio: antipatico (41 ) in vece di simpatico (i Romaneschi dicono, sì, indegno per degno, insalubbre per salubre, indifficile

[p. 30 modifica]per difficile, e simili; ma l’equivoco cade sempre sull’affisso in negativo), pe’ cristallino (53) in vece di pe’ cristallina, bizzocchi (57) per bizzochi, arifacémo (79) in luogo di arifàmo, intradettanto (83) per trattanto o intanto, e parecchie altre.

Spesso poi si lascia sfuggire de’ versi così duri e stentati, che a tirarli su ci vorrebbero due paia di buoi:

... Perchè se Cristo, che poi era er Padrone .... (3)
... Fece io allora a un che stava tra la gente ... (76)

(In quest’ultimo verso c’è anche da notare che il Romano non direbbe mai: a un che stava, ma sempre: a uno che stava.)

Più spesso ancora, anzi nella maggior parte di questi sonetti, s’incontrano costrutti stiracchiati e artifiziosi, affatto contrari alle leggi sintattiche del romanesco, come sono i seguenti che cavo da’ primi quattro:

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . e ’no scaccione
De dàje apertamente ha un po’ paura ...
... Mai la lezione m’imparavo a mente ...
... Incomincio der ladro la carriera ...
... Indóve t’arivòrti dì te senti ...
... Ma p’imità de Cristo la passione ...
Traversàmio de Febo er vicoletto ...31
Sapènno allora, io antico der mestiere,
Che de sarvà l’onore a la montura .
D’un sordato fedele era er dovere ...

[p. 31 modifica]Insomma, il Marini non ha una conoscenza sicura del suo vernacolo. Costretto dal governo papale a vivere per molti anni lontano da Roma, egli non ha potuto e non si è curato acquistarla, perchè non l’ha reputata necessaria. Ha badato solamente ad aguzzare gli strali satirici contro il nemico suo e della sua patria, non riflettendo che, o si scriva in lingua o in vernacolo, non c’è pensiero perfetto senza forma perfetta. Errore funesto, che io ho voluto combattere, perchè l’esempio del Marini potrebbe essere contagioso; e staremmo proprio freschi se l’artifizio rettorico, che ci ha guastato tanta parte della lingua e della lettera tura comune, ci guastasse ora anche i dialetti e le loro letterature, che con l’esempio continuo della verità e naturalezza possono, e in parte già l’hanno fatto, ricondurre anche la lingua e la letteratura nazionale a’ loro veri princìpi.

Devo però dire, e lo dico con tutto il piacere, che alcuni de’ sonetti del Marini, e specialmente di quelli che ha scritto dopo il suo ritorno a Roma, vanno quasi affatto immuni da difetti di forma, e per vena satirica sono in tutto degni di stare alla pari con quelli del Belli. Si veda, per esempio: La vita del Prigioniero, Il miracolo della Madonna in Trastevere, Il Sarto e il Deputato, L’Oste fedele all’indulto del Cardinal Vicario per l’osservanza della quaresima (bruttissimo titolo, ma [p. 32 modifica] stupendo sonetto!),32 e La Scomunica. Se la forma de sonetti non politici, che il Marini ci promette, [p. 33 modifica]corrisponderà a quella di questi cinque (che a me paiono i suoi migliori), come è certo che vi corrisponderà la vis comica, egli avrà senza dubbio un bel posto nella storia delle nostre letterature dialettali.


V.

Tornando al nostro poeta, io posso affermare con piena sicurezza, che ne’ molti sonetti di vario argomento che ha composti prima e dopo della Duttrinella, egli continua sì, e fedelmente, la maniera del Belli, della quale conosce tutti i segreti; ma tratta soggetti affatto nuovi, o che il Belli ha trattato sott’altro aspetto. In altri termini, egli si serve dell’arte stessa del maestro, del quale par che possieda anche la fecondità prodigiosa; ma non pesca le sue impressioni nelle opere di lui, bensì le riceve dalla vita reale in cui vive e che in tante e tante cose non è più quella de’ tempi del Belli. Vedete, per esempio, che fior di partito ha saputo cavare dalla nova usanza di andar vendendo i giornali per le strade:

[p. 34 modifica]

CXIII.

ER SERVITORE A SPASSO.


     A me? me pare d’avé vinto un terno
De nu’ stà più a servì quel’assassino
De l’avvocato. Na vita d’inferno
Da méttecese a letto ’gnitantino.
     Quer che m’ha fatto faticà st’inverno!
Manco m’avessi33 preso pe’ facchino.
E po’ ’n’ aria, perdio, ch’er Padreterno
Appett’a lui divent’u’  regazzino.
     Adesso?! Già ciò34 quarche cosa in vista,
Ma casomai che fussi un po’ spallata,
C’è la cariera mo der giornalista,
     Le cianche35 ce l’ho svérte, un bèr vocione,
S’ariccapézza ’na bona giornata,
E poi, si nun fuss ’ artro, la struzzione!


Qui non c’è nulla di rubacchiato al Belli, è c’è tutta l’arte sua. C’è l’unità rigorosa del componimento, il quale vi sta davanti come un piccolo

tutto, armonico e compiuto, col suo principio, il suo svolgimento, il suo fine. C’è la metà del dialogo felicemente sottintesa, poichè alle prime parole voi capite subito che un amico del servitore, [p. 35 modifica]incontrandolo, gli ha domandato se gli sia rincresciuto che il padrone l’abbia cacciato via; e quando il servitore dice: Adesso?! capite del pari, che l’altro deve aver detto: — E adesso, che farai? Il carattere del protagonista, fuggifatica e presuntuoso, è lampante. Lingua e costrutti perfettamente romaneschi; e romaneschi e bellissimi i particolari che dan vita al quadretto, come il ravvicinamento del Padreterno col regazzino, la gravità comicamente misteriosa di quel Già ciò quarche cosa in vista; il doppio senso della parola cariera; lo sproposito, malizioso per conto dell’autore, ma popolarissimo, del giornalista, che ricorda il piccolo Oreste della Quaderna di Nanni; e finalmente il tono serio della ridicola chiusa, fatta anche più ridicola dallo storpiamento struzzione, il quale par che derivi non da istruire, ma da struggere, e così ferisce quei giornali che non rispettano nulla.

Badi però il Ferretti che ne’ versi 3º, 4º, 5º e 6º di questo sonetto, a me pare ci sia qualcosa di superfluo; e credo che il Belli, in tal caso, avrebbe trovato altri nuovi particolari, che li rendessero più variati e concettosi. Questo difetto, che qui si vede appena, coperto com’è abilmente dai differenti modi onde fu toccata la medesima corda, io ho voluto notarlo, perchè mi pare visibilissimo in qualche altro sonetto del nostro autore, e perchè son sicuro che egli può emendarsene.

[p. 36 modifica]Ecco a buon conto, e per rallegrare un poco queste mie chiacchiere, altri cinque sonetti sopra argomenti vecchi e toccati in parte anche dal Belli, ma che il nostro poeta ha saputo ringiovanire, guardandoli da lati nuovi e pensandoli col proprio cervello senz’ombra d’imitazione:


CXIV.

LA POVERELLA.36


     Oh! be’ levata, signorina mia....
So’ io, nun ve sovvie? So’  propio quella
Che vostra madre, benedetta sia,
Quanno ch’annav’in chiesa, poverella,
     Me dava sempre quarche cosa.... Eh via!
M’ajuti un po’, signorina mia bella;
Ch’io pregherò la Vergine Maria
Che nu’ la facci arimané zitella.
     Nun cià gnente? Ma propio nun cià gnente?...
(Va be’, sempre le solite canzone,
Ma io mica ce credo un accidente.
     E si dura cusì ’na sittimana,
Pe’ me la lasso annà sta professione:
Guadambio più si faccio la roffiana.)



[p. 37 modifica]

CXV.

ER VANTAGGIO DELL'ARIA CATTIVA.


     Nun cià qutrini? chi? don Severino?!
Ma statte zitto un po’! Certe persone,
A sentì loro, nun ciànno un qutrino,
So’ spiantate, e po’ campeno benone.
     Nun sai quer che je frutta er collarino?
Nun fuss’artro, la messa, Spiridione,
Ch’ortre ch’ariccapézza er fujettino,37
È capace a pijà più d’un testone.38
     E poi cià la risorsa der rosario;
E poi li morti, e t’assicuro io
Che, sibbè dice che lo fa pe’ svario,39
     A sto paese, senza fàje torto,
Co’ la cosa de st’aria, grazziaddio,
Quasi ’gniggiorno je ce scappa er morto.

CXVI.

TUTTI LI GUSTI SO’ GUSTI.


     Tu l’hai da vede, Sarvatore mio,
Lì a la toletta quanno lei s’aggiusta!
La mejo cosa, te lo dico io,
Sarebbe quella de pijà ’na frusta,

[p. 38 modifica]

     Eppoi dà giù senza timor de Dio
E fàlla rossa come ’na ragusta....40
Ma quer che me fa spece, è quer giudio
Der tu’ padrone! — Embè, si a lui je gusta,
     Che ce vòi fà? — Ma si je s’avvicina,
Nun vede ch’è dipinta cor pennello?
Ch’ha er grugno tutto pieno de farina?
     — Lo vede sì, ma t’hai da fà capace
Che qui a sto monno nun è mica bello
Quer ch’è bello, ma è bello quer che piace.


CXVII.

ER TESTAMENTO DER PADRONE.

     Er mi’ padrone è bono, e te lo giuro.
Fu giusto jeri: lui me fa:41 - Giuvanni
(Dice), venite qua . — Dico: - Commanni.
— Co’ voi posso parlà. — Parlate puro,42
     Je faccio io. Lui fa: — Già me figuro
Che sapete ch’ho più de settant’anni,
E che so’ tutto pieno de malanni
Da cap’a piedi. — E io je fo: — Sicuro
     Che lo so. — Allora lui: — Voi stat’attento
(Dice) a fà er dover vostro, ch’ho pensato
A voi quanno ch’ho fatto testamento....

[p. 39 modifica]

     Ecco.... io nun so’mica interessato,
Ma puro, Toto,43 nun ved’er momento
De sapé un po’ si quer che mi ha lassato.


CXVIII.

SU DU’ PIEDI.


     Sì, fu propio accusì, sora Teresa:
Io lui l’ho visto pe’ la prima vorta
U’ mese fa che stava su la porta
Der forno, quann’entravo a fà la spesa .
     Er giorn’appresso, lì pe’ la Ripresa,44
Me dimannò si io me n’ero accorta.
Sicuro, j’ arispose.... e a fàlla corta
Jerammatina avémo dett’in chiesa.
     Eh! a discurre co’ lui, ve par un santo:
Dice che me vò bene com’ u’ matto;
Ma io.... nu’ lo conosco più che tanto.
     Ma mo ch’avrìa da fà, sora padrona?
Nun c’è rimedio; quer ch’è fatto è fatto,
E ch’er Signore me la manni bona!


Benissimo poi riesce ne’ soggetti patetici, di cui il Belli ci ha lasciato splendidi ma pochi saggi. — Siamo in una povera cameruccia. Una [p. 40 modifica]giovine sposa è in letto agli estremi. La madre viene a visitarla, con l’angoscia nel cuore, ma

«Dissimulando l'appressar del fato45»


alla moribonda. E ne nasce questo commovente dialogo:

CXIX.

PROPIO ALL’URTIMI!


     Bon giorno, Nina.46 — Oh, mamma, mancomale!
— Come te senti, fija, stammatina?
Dimme.... — Sempre accusì. — Povera Nina!
Sempre lo stesso? — Sempre talecquale....
     — Poi guarirai. — Macché, mamma, sto47 male
Nun passa più. Senti, viemme vicina:
Pijem’un po ’ .... — Che vòi? — La coroncina ....
— Dove sta? — Ved’un po’, drent’ar zinale....
     L’hai trova? — Ècchela48 qui — Dammela; senti:
Quanno.... mamma viè qua.... quanno so’ morta....
— Ma che discursi! — Eh, artri pochi momenti ....
     Tu tiella, mamma, e t’aricorderai
De Nina tua .... — Sta’zitta .... — Eh, me so’ accorta
Ch’ho da morì.... — Ma no. — Be’.... lo vedrai!


Anche il titolo di questa impareggiabile miniatura mi pare felicissimo, come, del resto, sono quasi tutti gli altri; poichè il Ferretti, seguendo anche [p. 41 modifica]in ciò il suo maestro, vuole che il titolo abbia pur esso una forma artistica e armonizzi con tutto il componimento.

Ma se egli ha saputo appropriarsi l’arte del maestro perfino in così minuti particolari, si tiene però tanto lontano dal copiarlo servilmente, che tra’ suoi sonetti ce n’è alcuni che il Belli non avrebbe neppur concepito. Questo, per esempio:


CXX.

’N’ANTRA LEZZIONE DE MAMMA.49


     Curre, curre, viè qua, Crementinella.
— Che c’è, mamma? — Viè a vede sta formica.
— Dove? — Lì sotto a quela pianticella.
— Quela de marva? — No, quela d’ortica.
     Vedi come s’aina,50 poverella!
Varda51 lì si che razza de fatica
Che fa, pe’ tirà su ’na mollichella
De pane; va’,51 povera bèstia, e mica
     Se ferma.... E mo’ perché vòrti la schina52
Ma dite, mamma: che ciavét’i’ mente?
Me volévio53 pe’ questo?! ... — Eh, Crementina ....
     Pe’ fàtte ved’un po’ come quarmente
’Na bèstia, be’ che bèstia e piccinina,
Lavora sempre.... e tu nun fai mai gnente!



[p. 42 modifica]

Insomma, il Ferretti non è un imitatore, nel senso che comunemente si dà a questa parola; bensì un libero continuatore della maniera del Belli.54 Quindi l’opera sua non è un’inutile ripetizione; ma aggiunge nuove scene all’immenso e pur sempre incompiuto dramma, composto dal poeta romano.

Novembre 1877.

Luigi Morandi.




Note

        Ah .... mo la stella je se fa contraria
    A sti Tajani, e quanti qui se troveno
    La dovranno pijà l’erba fumaria! *
        Ste smosse d’occhi, Checco mio, te proveno
    Che quarche cosa certo c’è per aria! ...
    - Si, ce so’ li filetti che li moveno.

    • Cioè: «dovranno far fagotto e scomparir come il fumo.»

  1. Questo scritto fu pubblicato nella Nuova Antologia del 15 aprile 1878, e per la presente ristampa è stato riveduto dall’autore, il quale crede che possa servire di complemento all’altro da lui premesso ai Duecento Sonetti del Belli; giacchè gli pare che, uniti, diano un’idea sufficiente del Belli stesso e della sua Scuola.
  2.     Benefattore mio, che la Madonna
    L’accompagni e lo scampi d’ogni male,
    Dia quarche cosa a sta povera donna
    Co’ tre fiji e ’l marito a lo spedale.

        Me la dà? me la dà? dica, eh? risponna;
    Ste crature * so’ignude talecquale
    Ch’el Bambino la notte de Natale;
    Dormìmo sott’a un banco a la Ritonna .**

        Anime sante! *** se movessi un cane
    A pietà! Arméno ce se movi lei,
    Me facci prènne un bocconcin de pane.

        Signore mio, ma propio me la merito,
    Sinnò, davéro, nu’ lo seccherei....
    Dio lo consoli e je ne rènni merito.****


        * Queste creature: i tre jigli che ha co: sè.

        ** «Presso il Panteon, chiamato volgarmente la Rotonda, veggonsi de banchi di venditori di commestibili, aperti solo sul davanti in modo da poter offerire un ricovero.» (Nota del Belli.)

        *** Sottintendi del Purgatorio. È un’esclamazione di dolore.

        **** «Le pitocche non estremamente plebee, così sogliono accattare. Le parole di questo sonetto debbono articolarsi con prestezza e querula petulanza.» (N. d. B.) – Per la diversità tra l’ortografia dei Belli e quella usata da noi in questo e in tutti gli altri sonetti contenuti nel presente volume, si vedano le Avvertenze intorno al Dialetto romanesco, a pag. 45 .

  3. Cfr. Schuchardt, G. G. Belli und die römische Satire (Beilage zur Allgemeinen Zeitung. Anno 1871, dal n. 164 al 167).
        A proposito dello Schuchardt e di questo suo scritto, poichè qui me ne càpita l’occasione, voglio dire alcune cose che non sono prive d’interesse.
        Nel maggio del 69, mentre io stavo preparando per il Barbèra i Duecento Sonetti del Belli, lo Schuchardt me ne mandò da Gotha dieci, quasi tutti politici, non pubblicati nella mia prima edizioncella fatta dal Corradetti, e tutti forniti di preziose varianti da lui raccolte con diligenza tedesca, e con cognizione così perfetta del romanesco, che anche molti Romani gli potrebbero invidiare. Di quelle varianti io mi giovai molto; poichè per i sonetti politici, esclusi naturalmente dall’edizione romana, mi mancavano gli autografi, i quali dal Belli stesso, qualche tempo prima di morire, erano stati affidati a monsignor Tizzani, che con altri amici lo aveva consigliato di non distruggerli. Pare che il Belli pensasse: - Se un giorno o l’altro qualcheduno li pubblica, io non ci ho colpa . — E con questa curiosa restrizione mentale, voleva salvar capra e ca voli. Poco dopo la sua morte, il Tizzani ebbe il buon senso di restituire il prezioso deposito al figlio di lui, Ciro, cancellando soltanto in pochi sonetti qualche parola che gli era parsa troppo acerba contro la religione. E credo che fosse il Tizzani stesso quello che si prese la cura di ridurne ad usum Delphini parecchi altri, affinchè la censura permettesse che si pubblicassero nell’edizione romana. Ora gli autografi sono in mano di Luigi Ferretti .
        Nello scritto precitato, lo Schuchardt esamina da par suo il volume de’ Duecento Sonetti, e in un punto solo dissente da quanto io vi discorsi intorno al Belli e alla Satira in Roma. Egli ammette che il Belli, da giovine, non fosse reazionario; non crede però che fosse un nemico ardente del Papato temporale e spirituale: suppone piuttosto che avesse un po’ di quella indolenza politica, comune a quasi tutti i Romani, e che somigliasse a’ suoi trasteverini, com’io li ho descritti, cioè che portano nella stessa tasca coltello e corona, bestemmiano la Madonna e si cavano il cappello alla sua immagine, mettono in ridicolo il papa e al tempo stesso gli s’inginocchiano da vanti. Lo scopo del Belli fu di ritrarre il popolo romano con fedeltà scrupolosa. Dunque, dice lo Schuchardt, i sonetti politici e tutti gli altri non provennero immediatamente dal poeta, bensì dal popolo stesso. Se non ci fosse stato fuori di lui chi pensava e parlava a quel modo, il Belli non avrebbe mai scritto quel che scrisse. «Quando il frutto proibito della satira politica gli pende vicino sul capo, egli, senza scomodarsi, lo coglie; ma se per coglierlo dovesse arrampicarsi, lo lascerebbe stare,» È chiaro che l’illustre filologo, ragionando così non ha tenuto nel debito conto l’elemento soggettivo che è in tutti i sonetti del Belli, e che in alcuni dei politici, come ho accennato qui sopra, passa perfino il segno e rompe un poco l’armonia tra il pensiero e la forma. Del resto, che il Belli da giovine fosse un nemico ardente del Papato temporale e spirituale, io non lo dissi. Dissi anzi, che mentre scriveva quelle satire, andava a confessarsi: e di questa contradizione del suo spirito e del successivo suo mutamento, addussi parecchie ragioni, che furono giudicate verissime da quelli che lo avevano conosciuto intimamente. Forse io non feci rilevare con troppa chiarezza che anche i sonetti politici son parte integrale del gran disegno di ritrarre il carattere e la vita della plebe romana in tutte le loro manifestazioni; quantunque il poeta, come ho detto, in alcuni di questi sonetti sconfini un poco, non già dal sentimento politico del popolo, ma dal suo modo di concepire su tale argomento.
  4. I Miei Ricordi, cap. IX.
  5. È permesso?
  6. Si può entrare?
  7. Con mille altri figli.
  8. Avuto.
  9. Il vanto.
  10. Il cav. Luigi Casciani.
  11. Glielo daste (deste).
  12. Gli, per le
  13. Il coso della culla. «Coso,» annota il Belli, «è parola di ogni significazione presso il volgo.» Qui, pare che voglia dir la cortina.
  14. Vezzeggiativo che si dice ai bambini.
  15. Teresa.
  16. Per mostrare in che mani si ritrovi, basti dire che, ec.
  17. Infino, perfino.
  18. Gli (le) provi.
  19. Non può andar male. Cacchiotti, eufemismo, in vece di cazzotti.
  20. Tenevate.
  21. Quel che piaceva al Babbo.
  22. Forse.
  23. Bada che ne tocchi! Bada che te le do!
  24. Ma facciamoci a capire, intendiamoci.
  25. Pisto (da pistà, pestare), bastonatura.
  26. Gliela facciamo? Cioè: «ci sbrighiamo, si o no?»
  27. Si scòce: passa di cottura; s’impancòtta, dicono nelle Marche e nell’Umbria,
  28.     Gridò: Ricordera’ti anche del Mosca,
    Che dissi, lasso! Capo ha cosa fatta,
    Che fu il mal seme per la gente tosca .

    Inf. xxviii.

    Si vedano a questo proposito le giuste osservazioni che fa lo Zendrini, nel suo Discorso Della lingua italiana (Palermo, 1877).

  29. Roma, E. Perino editore, 1877.
  30. Hugo Schuchardt, nello scritto citato, § II. – Tra coloro che non approvano l’ortografia del Belli, c’è è anche il mio amico Vittorio Imbriani, il quale se la piglia particolarmente con le doppie consonanti iniziali, e dice che «anche in Ita liano ci abbiamo queste reduplicazioni delle consonanti iniziali, anche altre lingue le hanno; ma non perchè sono nella pronunzia, s’hanno da indicare nella ortografia, la quale non si propone solo di notare la pronunzia.» (Appunti Critici; Napoli, 1878; pag. 126.) A quest’osservazione io potrei rispondere che non è punto vero che l’ortografia italiana non si sforzi d’indicare il raddoppiamento delle consonanti iniziali; giacchè spessissimo scriviamo dappoco, sibbene, appiedi, ammodo, e tantissime altre parole di simil forma; e anzi, ricordo che una volta lo stesso Imbriani diede dell’asino, o giù di lì, a un povero diavolo che aveva scritto (e secondo me aveva scritto bene) contradire e contradizione con un d solo . Ma poichè io devo presentar qui ne’ sonetti del Ferretti l’ortografia romanesca dimolto semplificata, mi preme di dichiarare che non lo fo perchè mi abbiano persuaso gli argomenti addotti contro l’ortografia del Belli, ma perchè il Ferretti ha voluto così, e perchè credo anch’io che il dialetto romanesco presentato in questa forma avrà maggior numero di lettori, specialmente tra i pigri . Del resto, per salvare, quant’era possibile, quelle ch’io credo le ragioni del dialetto, ho indicato, d’accordo col Ferretti, nelle Avvertenze che si troveranno più avanti, le diversità tra l’ortografia usata da lui e quella del Belli.
  31. A pag. 80, lo stesso autore scrive: Passàmo ar vicoletto der Cancello, e questo è il costrutto vero.
  32. Eccolo. Ma per gustarlo bene, mi par necessario figurarsi che, sotto il governo pontificio, in un venerdì di quaresima, che potrebbe anche essere il venerdi santo, un ferro di polizia (un trommetta, un pifero, una minosa, dicono i trasteverini) si presenti a un oste di Roma, e, fingendo di sentirsi un po’ male, gli chieda da mangiare di grasso. L’oste, che sa d’essere in voce di frammassone e ha l’odorato fine, capisce subito chi è l’amico, e risponde:

        Bèr fio, io so’ cattolico, e l’editto
    Der Cardinal Vicario parla chiaro;
    Nun sete, pare a me, tanto somaro
    De nun vede da voi quer che c’è scritto.
        Si volete du’ trije, un porpo fritto,
    Er merluzzo in guazzetto, lo preparo;
    Ma la carne nun posso, fijo caro:
    Annerebbe all’inferno dritto dritto.
        Si state male, annate ar Vicariato,
    Fateve fà du’ righe de licenza
    Colla passata dietro der curato.
        E portatela a me, che quanno ho visto
    De poté stà tranquillo de coscienza,* 1
    Metto in padella puro Gesù Cristo.

    Ecco anche il Miracolo della Madonna in Trastevere, scritto nel 1872:

        - A volémme intignà che quell’immaggine
    Della Madonna, drento ar tabbernacolo,
    Che va smovènno l’occhi pe’ miracolo,
    Sia un’impostura, è proprio cocciutaggine.
        Ma er Vicariato doppo tante indaggine,
    Dimme, cià forse trovo quarche ostacolo?
    Ma er popilo che approva lo spettacolo,
    Siconno te, lo fa pe’ cojonaggine?

    1. Cuscenza, doveva dire; e così, poco sopra, Co’ la passata e non Colla passata; e nel sonetto seguente, De la Madonna e non Della Madonna, propio e non proprio.
  33. M’avesse.
  34. Ci ho.
  35. Le gambe.
  36. Si confronti questo sonetto con quello famoso del Belli, che ho riportato a pag. 2, in nota.
  37. Fujettino, dim. di fujetta (foglietta), la quarta parte del boccale, circa mezzo litro. Detto così assolutamente, s’intende sempre di vino.
  38. Moneta che valeva tre paoli, ossia una lira e mezza e qualche centesimo.
  39. Svago, passatempo.
  40. Aligusta, specie di gambero di mare.
  41. Mi dice.
  42. Pure.
  43. Antonio.
  44. La Ripresa è l’estremità meridionale del Corso, e si chiama cosi, perchè vi si riprendono (vorrei poter dire: vi si riprendevano) i barberi nelle corse del carnevale.
  45. Leopardi, Consalvo.
  46. Caterina.
  47. Questo.
  48. Eccola.
  49. La prima di queste lezioni è nel sonetto xli, a pag. 89.
  50. Si sforza, s’affatica.
  51. 51,0 51,1 Guarda.
  52. Volti la schiena?
  53. Mi volevate.
  54. Altrettanto può dirsi anche del Fucini, il quale ha saputo applicare la maniera del Belli al dialetto pisano, che ha molta somiglianza col romanesco.