La Donna e i suoi rapporti sociali/La donna in faccia al diritto

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La donna in faccia al diritto

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La donna e la scienza La donna nell'esclusione del diritto

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LA DONNA IN FACCIA AL DIRITTO



Tutti gli uomini hanno diritto di concorrere a quei beni che sono atti a conservare ed a perfezionare il proprio individuo.

Il diritto più eccellente dell’uomo è la libertà e l’indipendenza. Questa libertà comune, è una conseguenza della natura dell’uomo.

..... giunto all’età della ragione, diviene egli solo giudice dei suoi mezzi e padron di disporne. Non può l’uomo cessar d’essere uomo, per divenire una cosa.

Un particolare che aliena la sua libertà è folle; e la follia non può dare un diritto. Un tal atto è illegittimo e nullo.

Tutti gli uomini sono uomini; che vuol dire; tutti hanno la stessa natura e gli stessi attributi essenziali; onde nasce per tutti l’identità dello stesso fine e degli stessi doveri.

L’eguaglianza degli uomini in natura è la sorgente della benevolenza e dell’ amore. L’uomo si porta ad amar sè stesso nei suoi simili. Se tutti gli uomini sono naturalmente eguali, niuno può nascere con un diritto di comandare ad un altro.

TAMBURINI, Corso di Filosofia Morale. [p. 174 modifica]Se il dovere che ci sforza all’abnegazione ed al sacrificio, che ci grava di peso e di responsabilità, che c’impone talora di camminare a ritroso delle nostre tendenze ed aspirazioni rimorchiando fin la natura; se il dovere, dico, non facesse capo al diritto, egli non sarebbe che un sentiero senza meta, un indirizzo senza scopo, un tiranno che del tiranneggiare si fa gioia e sollazzo, godendosi di curvare l’umana fronte sotto un giogo ingeneroso, che tutte le nobili facoltà ne sfiacca e consuma in una tremenda quanto inutile lotta.

Ma no; il dovere che la legge suprema della morale (che è in altri termini la legge dell’ordine) ci indica siccome necessità, non è che mezzo a raggiungere l’ordine, l’armonia, lo equilibrio sociale, donde il benessere e la perfettibilità universale, altissima meta che provvidenza ebbe additata ad ogni ragionevole esistenza.

Ora, siccome il viandante che cammina alla patria, col desiderio a quella rivolto e colla mente di quella solo preoccupato, necessariamente sollecita il passo e dal suo sentiero il piede non ritorce, nè sedotto dalle bellezze incantatrici del paese che percorre, nè allettato dal mormorio dei ruscelli, nè dall’ombra ospitale delle quercie secolari, ed instancabile batte la sua via, benchè grondante sudore e dardeggiato dal sole, ripensando in cuor suo per aggiungersi lena il domestico letto, e il desco famigliare e il casto amplesso della sua donna e la giuliva e trepida corona de’ suoi bambini; ogni essere umano così, incontra coraggioso il difficile e penoso dovere, quando a capo di quello veda ampia e proporzionata mercede.

E gridi pure a suo senno la stoica filosofia, che proclama esser la virtù premio e corona alla virtù; che vuole accumuli l’uomo buone azioni a buone azioni, e lotte e sacrificii a sacrifica e lotte in [p. 175 modifica]stancabilmente aggiunga, senza vuoto lasciarvi mai, e questo chiami felicità suprema e massimo piacer della vita. In quanto a me, ammirando la forza invitta di quei filosofi che lo eroismo si bevvero siccome l’acqua, odo tuttora la voce del moribondo Bruto, che lagnasi dell'error suo. «Infelice virtù, esclama egli, oh quanto mi sono ingannato nel seguirti! Io credea pure che tu fossi un ente reale, ed in questa convinzione mi ero attaccato a te stessa; ma ora m’aveggo, che tu non eri che un nome vano, ed un vano fantasma, misera preda, e schiava tu pure della fortuna!»

E Bruto, così desolandosi, era logico; egli era veramente la vittima di un errore, egli scambiava il mezzo col fine. La virtù importa sforzo e violenza; e se questa violenza può riescire di compiacimento massimo allo intelletto, quando sovratutto ad alti fini s’ispira, esser non può mai gioia e piacere- a quella parte dell’uomo che trovasi violentata, epperò è per sè stessa insufficiente a darci felicità.

È duopo dunque, che noi vediamo nella virtù un mezzo che ci guida alla conquista del bene, e non già l’ultimo fine dell’uomo.

Nè crediate già, mie gentili, ch’io così voglia ridur la virtù ad un mercato, strappandole dal capo quell’aureola luminosa di cui seppe lo stoicismo incoronarla per poi presentarla all’umana schiatta, siccome sola divinità alla quale piegare il ginocchio ed ardere incenso, mai no; la virtù deve farsi sublime ed eroica nel vincolo solidale che legar deve gli uomini d’ogni regione; laonde il bene universale cerchi e procuri prima ed a preferenza dello individuale, e reputi degna ed invidiata mercede al proprio lavoro il bene altrui. Questo è la logica della virtù ed il suo eroismo: lo stoicismo è assurdo e follia. [p. 176 modifica]Il gratuito non è degno mai dell’essere razionale, e non mai indicato, nè tollerato mai dalla natura, la cui sete continua è l’ordine e l’equilibrio; epperò l’uomo, che oggi combatte sè stesso senza prefiggersi a ciò fare un utile scopo, cadrà domani irremissibilmente, e la sua caduta sarà tanto più funesta, in quanto che non terrà nessuna ragione di rialzarsi.

Ma lo scopo, al quale camminano l’umanità e l’individuo, è egli fatale? — Certo che sì. E questa fatalità è potentemente espressa dal tormentoso istinto del progredire, che descrive allo spirito umano un cammino eternamente ascendentale. Ora dov’è un istinto, là v’è una legge; dov’è una legge, là v’è un dovere; dov’è un dovere, là è tracciato un diritto; questo diritto non essendo che la legittima pretesa d’ogni essere al possedimento autonomico, ed al libero esercizio dei proprii mezzi, da natura diretti al compimento del fine. — Ed egli è in base a questo concetto, che la ragione mi presenta, ch’io posso asserire senza tema d’errare, che là dov’è un diritto senza dovere, od un dovere senza diritto, là v’è squilibrio e disordine, donde immoralità, essendo l’uno rispettivamente all’altro nei rapporti di compito e d'arnese.

L’essere umano, dotato d’intelligenza e di volontà, è perciò stesso responsabile, sendogli il bene ed il male di libera scelta. Tale fu egli da Dio creato, nè puossi rapirgli questo primo fra i doni, di cui va altero, senza ledere la legge fondamentale della virtù, senza uccidere l’ente morale. Laonde, se l’affermazione di questa legittima pretesa di ciascun essere al libero esercizio delle funzioni, che gli fanno raggiungere il suo fine, è una necessità pratica, noi troviamo poi la ragione teorica e filosofica del diritto nella facoltà stessa dell’essere, per cui deve a questa ragione [p. 177 modifica]unica, a questa base incontrovertibile d’ogni diritto ispirarsi ogni filosofia, che aspiri ad imporsi alle umane generazioni coll’occhio intento al loro meglio.

Certo non è senza ragione e senza verità, che molti filosofi cercarono e viddero in Dio la ragione del diritto, siccome in prima fonte d’ogni giustizia; ma oltrechè il giudizio di Dio non ci perviene se non attraverso oracoli umani, questi stessi oracoli, per fralezza di mortale natura, troppo spesso s’ispirarono ad interessi ed a passioni; laonde pur ritenere volendo, che in Dio trovisi ogni diritto siccome necessario autore d’ogni giustizia, qui come dovunque, deve l’uomo travagliarsi colla sua ragione, poichè gli è questa la leva, che Dio gli poneva fra mani a sollevare ogni ingombro dal suo cammino, a diradarsi dagli occhi ogni tenebra, a trovare ogni unità.

Procedendo nell’arduo compito potrà egli per avventura trovarsi in faccia colossali edificii, lavoro di cento secoli, e pur tuttavia su mobile arena fondamentati; e sentirà fors’anco cadersi stanche le braccia, e l’anima scoraggiata, di trovarsi così lungi dalla meta, e vedersi ad ogni tratto fra piedi lavoro fatale di demolizione. Ma pure coraggio ed avanti! La leale ricerca della verità, è guida cortese ed amica, che ci ripone spontanea sulla via; e lo schietto amor della giustizia ci porta pei due terzi di cammino.

Il sentimento di giustizia, amo crederlo, trovasi per lo meno latente in ogni cuor d’uomo; ma non potendo l’uomo produrle atto morale senza concorso della volontà, e non potendo questa essere determinata nella sua azione se non in forza delle ragioni che lo intelletto le presenta, così risulta, che l’estrinsecamento del sentimento di giustizia sia sovente imperfetto, anche presso uomini di buona volontà; laonde più [p. 178 modifica]non deve meravigliare il vedere affermata talora l'ingiustizia anco là dove gli uomini si furono accinti di proposito a far della giustizia.

E davvero, se egli è difficile trovare la verità allora quando una falsa idea ci ha fuorviati, quando poi trovasi falso od oscuro il punto di partenza, allora è impossibile moralmente il trovarla.

Epperò la giustizia che ripeteva la ragione sua da Dio, subiva i moltiformi concetti che le nazioni si facevano di Dio medesimo; e certo la giustizia scaturita da Giove non poteva essere esattamente quella scaturita da Maometto, nè quella di Brama conciliarsi assai poteva con quella di Cristo; e sempre il maggiore o minore traviamento dello intelletto portò con sè frutto funesto la depravazione del cuore; ed amando anche l’uomo lealmente la giustizia, come l’avrebbe egli trovata cercandola allo infuori del suo solo possibile e vero posto?

La rivelazione di Dio è eterna ed universale avendola egli incarnata nella natura, per lo che, non nelle molteplici modalità religiose deve l’uomo cercare la ragione del suo diritto, ad uniformare i criterii d’ogni nazione, ed a gettare le solide basi di un Diritto mondiale; sibbene nella facoltà insita all’essere umano, che prepotentemente gli indice il fine cui è vocato, e di cui la facoltà stessa è mezzo e ragione; ed allora sì, che le nozioni del diritto e del dovere saranno più lucide e salde, e non più eternamente oscillanti, ed esposte alle eventualità che ad ora ad ora minacciano, spostano e modificano le credenze.





Ma seguiamo lo svolgimento di queste nozioni nella coscienza umana; e vediamo, come dapprima vaghe e latenti, dovessero poscia avvertirsi e determinarsi. [p. 179 modifica]Queste due nozioni non erano nè necessarie, nè possibili al primo uomo, il quale, solo in mezzo al creato, non sentivasi limitato in nessun modo, per cui non dovettero essere che in progresso vagamente sentite, poi formulate, quindi più o meno imperfettamente applicate. Scaturite dapprima dai bisogni e dai rapporti che il solo spirito umano è in grado di constatare, in un colle leggi che li reggono, il filosofo trovò poscia la loro affermazione meditando sullo scopo della sua creazione e sui proprii destini; e come vide il soddisfacimento di quei bisogni in armonia con quello scopo e con quei destini, vide eziandio necessità di quel soddisfacimento a raggiungere il suo fine; e sorse in lui la coscienza del diritto, cioè, come dicemmo, la legittima pretesa d’ogni essere, allo sviluppo ed allo esercizio delle sue facoltà, epperò a tutti quei mezzi che eccitano, favoriscono e conseguono questo sviluppo e questo esercizio.

Riconosciuta questa legge, prima ed anzi tutto nell’essere umano, era impossibile ad ogni logica, non estenderla a tutta la specie; epperò ogni essere non può, nè deve, riconoscere altra legittima limitazione al proprio diritto, che quella necessariamente stabilita dal diritto altrui, ed ecco la giustizia.

Chi infatti troverebbe a ridire di quell’uomo che, trovandosi solo in vasta regione, se l’appropriasse ed estendesse la proprietà sua illimitatamente, senza scrupolo? Colui non farebbe che usare del diritto di proprietà, che il supremo fattore gli conferiva sulle cose, diritto, d’altronde, ch’egli divide con altri esseri viventi. Ma se costui, estendendo la sua proprietà, trova segnati i confini d’un altra, là egli trova eziandio il confine del suo diritto nel diritto del suo simile, ch’egli deve al par del suo proprio rispettare, siccome basato sulla stessa ragione. [p. 180 modifica]Riconosciuto dall’uomo il fine della sua creazione, e trovata l’aprezziazione dei mezzi da natura consociativi, ecco emergere spontaneo il dovere di applicarli, in proporzione dell’individuale potenza in vista di quello; epperò necessità di una sociale organizzazione che a questo principio si ispiri, ponendo ogni legislazione a propria base, che tutti i diritti legali esistenti, non esistono se non in forza di quel primo fondamentale diritto e per garantirlo, non essendo questo che lo sviluppo e l’applicazione di quello; laonde sarà più o meno filosofico il diritto parziale quanto più vedrassi ispirato, indirizzato e corrispondente allo scopo finale della esistenza umana.

Non altrimenti, tutti i doveri parziali esistenti, debbono rivolgersi a raggiungere attivamente il nostro fine, ed a rispettare e favorire l’altrui attività allo stesso fine diretta.

Vedo che questa dottrina ci conduce ineluttabilmente ad un’acerba censura delle nostre istituzioni e dei nostri costumi, ma ciò non mi riguarda, non essendomi io mai proposta di trovarmi d’accordo nè con pochi nè con molti, ma sentendomi io stessa nel mio pieno diritto, con quella perfetta coscienza che raccomandavo così caldamente alle mie lettrici.

Ma qual è dunque l’umano destino, a raggiungere il quale, di tanti mezzi ha natura l’uomo arricchito, e di cui fin qui non parlavamo che vagamente e per sola incidenza?

Egli ci vien insegnato da questi mezzi istessi. La rivelazione della natura è potente; e non può disobbedirsi nell’ordine fisico che incontrando il dolore e la morte, nell’ordine morale che colla degradazione del contravventore. Analizziamo con due parole questi mezzi, e la loro potente eloquenza.

La insaziabile curiosità dello spirito superstite [p. 181 modifica]al decadimento della materia lo spinge fatalmente al progresso; essenzialmente socievole, l’uomo è chiamato all’amor de’ suoi simili, donde la solidarietà e l’associazione, che sono la moltiplicazione indefinita della sua potenza; dotato di favella, solo, fra tutta la sterminata serie d’esseri viventi, questo dono diviene l’affermazione di quelle vocazioni, per la pronta comunione delle idee che sì potentemente lo sviluppano, ed utile e piacer sommo gli procurano nella conversazione de’ suoi simili. Fornito del sentimento di giustizia e di commiserazione, sentendo bisogno supremo e tormentoso d’attività materiale e morale, egli vede nell’applicazione di queste facoltà tracciato lo scopo della sua vita. Egli deve dunque lavorare perchè attivo, con lavoro progressivo perchè istintivamente ansioso di progresso; lavorare di concerto co’ suoi simili perchè socievole; farsi virtuoso perchè intimamente giusto; e così sviluppando con assiduo esercizio le sue facoltà, aggiungersi forza e potenza, coll’occhio fisso alla perfettibilità materiale, morale, intellettiva; egli deve in una parola crear l’ordine in sè stesso, nell’umanità, nel globo, armonizzando i rapporti coi bisogni, donde il benessere e la felicità, ultima e necessaria scaturigine della morale e della sapienza.

Ora, la somma di potenza, che ciascun individuo porta a questo collettivo lavoro, è si svariata ed indipendente da ogni forma esterna, che sfugge alla più minuta, come alla più lata classificazione. D’altronde non ci è possibile classificare logicamente la natura, dacchè non ce ne sono note tutte le leggi; sicchè facendolo, arrischieressimo forte di porre al posto della natura delle ottiche illusioni, delle erronee prevenzioni, o la deplorevole risultanza di pessimi sistemi.

Dalla mania delle classificazioni nacquero le più [p. 182 modifica]strazianti ingiustizie che hanno desolato l’umana progenie, e gli errori più cubitali della filosofìa. Le classificazioni crearono i pregiudizii; i pregiudizii a loro volta generarono i Paria e gli Iloti; consigliarono lo sprezzo dello schiavo; suggerirono false ed inique prevenzioni sulle diverse razze colorate, che sgraziatamente perdurano presso molti che fanno anche professione d’intendersi alla giustizia. Dalle classificazioni donde i pregiudizii, nacquero gli odii profondi, e le lunghe ire internazionali, quasi l’uomo che abita l’altra sponda di un fiume, o l’altro versante di una montagna, essenzialmente differisca dall’uomo che abita la prima sponda ed il primo versante. Ora queste classificazioni vogliono bandirsi, siccome funeste cause d’isolamento fra gli uomini, siccome tendenti a ledere il diritto primitivo di ciascun uomo al giudizio dei proprii mezzi ed alla libera loro applicazione; siccome prepotenza che impone leggi alla natura e la sforza e violenta, con danno dell’individuo e dell’umanità.

Infatti qual classificazione è egli possibile in faccia alla dimostrazione imperativa dei fatti?

V’hanno criteri i quali, fortissimi nella speculazione filosofica, sono affatto inetti in qualsiasi elemento di scienza esatta, e viceversa.

Un artista sublime non saprà fare la più semplice aritmetica operazioné; un tale è campione nella fisica e nell’astronomia che è affatto insuscettibile e profano alla filosofia; e sarà quell’altro un Socrate od un Platone, senza che gli sia però possibile confezionare due versi.

Nè è più facile, nè più possibile, classificare nelle loro morali idoneità i due sessi. Si disse l’uomo è forte, la donna è debole, ma vi hanno uomini debolissimi e donne fortissime; più, sì educa l’uomo all’attività fisica e morale, e la donna all’inerzia fisica ed alla passività morale. [p. 183 modifica]Si disse, l’uomo soverchia la donna in intelligenza, e la donna supera l’uomo in sentimento. Sonvi però molti uomini che superano molte donne in sentimento, e molte donne che superano molti uomini in intelligenza; più, l’educazione che si sforza di favorire e di sviluppare la intelligenza nell’uomo, fa tutto il suo meglio per isfavorirla ed atrofizzarla nella donna.

Si disse, l’uomo è fatto per l’attività, la donna per la quiete; è una gratuita asserzione, è una prevenzione locale. Parlandosi della donna e della famiglia, dovete aver letto i costumi di pressochè tutte le nazioni barbariche, che gravano la donna di tutte le fatiche, e dove le è imposta la massima attività, mentre gli uomini passano oziando la vita; più, anche fra noi vediamo i due sessi sobbarcarsi ad eguali fatiche nelle classi agricole e manufatturiere. E così via dicendo, quando vogliansi confondere le risultanze dell’applicazione dei nostri sistemi, colle leggi della natura che l’uomo non istudiò mai con ispirito vergine da criterii preconcetti, coll’animo emancipato dalla segreta ispirazione degli interessi; noi troveremo sempre le nostre classificazioni in faccia a sì sterminato numero d’eccezioni, da persuaderci essere quelle troppo poco attendibili.

Dalla impossibilità di classificare ne emerge l’incompetenza d’un arbitrato qualunque a determinare le funzioni dell’individuo in faccia al lavoro sociale; e da quella incompetenza ne emerge a sua volta il diritto spettante all’individuo solo di determinarsi ad un genere di lavoro, dietro le attitudini ch’egli sente prepotenti in sé stesso, donde la varietà delle vocazioni, e la libertà della scelta dei mezzi ad assecondarle.

Ora, una gran parte delle nullità morali, che ingombrano l’umana società, non possono ad altro accagionarsi che a questo incompetente arbitrato [p. 184 modifica]che si esercita dall’un individuo sull’altro, e da tutta la società su tutto un sesso.

Si vollero classificare le morali idoneità dei sessi, e si vollero assegnare a ciascuno d’essi funzioni proprie dietro un tipo ideale escogitato in anticipazione; ma queste diverse attribuzioni parte scaturirono dalla poesia e dalla immaginazione; porzione molta è artificiata dalla forza prepotente dell’educazione, che a tutto riesce sendo l’essere umano eminentemente educabile; pochissime fondamentate dall’osservazione. E tutto questo teorico e gratuito edificio si fece pratico, senza che uomo si curasse di rilevarne le falsità e di deplorarne le conseguenze, mentre nessun filosofo s’attentò mai, ch’io mi sappia, di trovar differenze di carattere e di idoneità fra il maschio e la femmina nelle altre specie d’animali, dal processo della riproduzione all’infuori, nel quale fatto solo formano serie distinta; nè mai alcuno sognò di negare forza alla lionessa, o vietar la preda alla tigre, o di disconoscere nella volpe gli astuti accorgimenti, o di trovar l’aquila meno sublime dell’aquilotto.





È evidente che l’uomo, ignaro tuttavia di molte leggi naturali, e completamente al buio del concetto sintetico della creazione, non poteva derivare le sue classificazioni che dagli interessi suoi e dalle sue passioni. Egli adunque, con un comodissimo a priori, stabilì sè stesso centro e fine dell’universo, ed a sè convergendo gli esseri tutti e tutte le cose, ne statuì il valore, ne assegnò le funzioni, ne affermò l’importanza in base all’utile od al diletto che queste gli arrecavano.

La donna, che gli è così vicina, e nella quale si giace tanta parte della sua miseria e della [p. 185 modifica]sua felicità, dovea necessariamente esser la prima a subire le conseguenze di un così ingenuo egoismo.

Riconoscendo perciò l’uomo i vantaggi dell’iniziativa, volle vedere la donna, passiva più assai che non l’abbia mai fatta la natura. Avido di dominio e di signoria, imaginò di trovare in lei, bella l’umiltà, e perfino la viltà. Avendo scoperta la superiorità che dà la coltura sull’ignoranza, trovò buona cosa serbare a sè il privilegio dell’intelligenza, e vide nell’ignoranza della donna un vezzo ed un’attrattiva. Amante egli dell’impero e del comando, si figurò che per la donna sia gloria l'ubbidire. Cupido di possesso, si aggiudicò la donna siccome proprietà; e si persuase dovere la buona moglie credersi seriamente cosa del marito; e così via di trotto procedendo, egli trovò d’aversi confezionato un tipo femminile di tutta sua convenienza, e su questo tipo elaborò le leggi, i costumi e l’educazione della donna; e questo è tutto il lavoro che la filosofia compì rispettivamente alla donna in sessanta secoli. Nè potrebbe dirsi certamente che noi calunniamo l’uomo!

Chi non ha letto nell'Ecclesiaste il tipo ideale femminile che si era creato il più savio degli uomini?

Chi non ricorda la condotta che S. Paolo comanda di tenere alla donna (vedi cap. II) della prima epistola a Timoteo; e (cap. II) della prima ai Corinti?

Chi non sorride vedendo Rousseau sollecitarsi che le qualità, i vezzi, e fino le debolezze di Sofia calzino a cappello coi- gusti e la natura d’Emilio?

E perfino fra i moderni filosofi, che pretendono alla fama di novatori, non vediamo noi lo spirito medesimo? Leggo in Auguste Comte che, il [p. 186 modifica]comandodegrada radicalmente la donna; che una savia apprezziazione dell’ordine universale farà comprendere al sesso affettivo, quanto la sommissione importi alla dignità... Che il sacerdozio (dell’avvenire) farà sentire alla donna il merito detta sommissione, sviluppando quest’ammirabile massima d’Aristotile «la forza primaria della donna consiste nel superare la difficoltà dell’obbedire» e l’educazione l’avrà preparata a comprendere, che ogni dominio, lungi dallo elevarla realmente, la degrada necessariamente.

Leggo Proudhon, ed a traverso i suoi mille paradossi, ed alla sua non interrotta serie di contraddizioni, veggo affacciarsi tratto tratto questi concetti: Affinchè il tipo femminile conservi le sue grazie ed i suoi vezzi, deve la donna accettare la potestà maritale (sic!). L’eguaglianza di diritti la farebbe odiosa, e trascinerebbe con sè delle deplorevolissime conseguenze, e, fra le molte a mo’ d’esempio, la piccola bagatella della perdita del genere umano!!! (Lettrici mie, non ve ne impressionate di troppo!).

Leggo Michelet ed a traverso torrenti di poesia e di sentimento, in un impeto d’amore per la donna egli, la vede fatta dall’uomo e per l'uomo. Dolente di vederla sofferente e malata (la donna di Michelet è sempre malata) egli vede la necessità d'isolarla, di custodirla, di medicarla. Bambina non conoscerà che le sue poppattole; maritata, non vedrà che il marito ed i figli; vedova, gl’infermi e gli orfanelli. E di coltura? Non se ne parla. Il sapere la invecchia. E di lavoro? Nessuno. Si romperebbe tutta. D’altronde la manutenzione della cosa tocca al proprietario della cosa. E di funzioni? Non ne è questione. La donna di Michelet è una donna che adora suo marito, che è fatta da lui, che vive per lui, per lui solo, e che finisce poi probabilmente per morire di [p. 187 modifica]congestione al cuore in seguito ad una serie di emozioni tenere troppo frequenti.

Bisogna confessare che, se l’uomo è egoista, lo è poi anche senza nessuna velleità, e di tutto cuore! Non v’è altro commento possibile a siffatte teorie.

Ora, sia che si neghi alla donna ogni funzione, sia che le si assegni un lavoro, ella fu sempre fin qui in balìa dei capricci d’ogni filosofo, il quale le dà, o le toglie, la eleva, o la abassa, la invita o lo respinge in base al tipo ideale che ciascun di loro se ne forma. Ma al dì che corre deve la filosofia aver capito, che la soluzione di un problema sociale non può esser nella testa d’un uomo, ma se ne sta latente nella natura, la quale non potrà mai rivelarsi fino a che sarà interrogata coll’animo preoccupato da pregiudizii o da interessi veri o supposti.

E dico veri o supposti, perchè tutto ciò che è fuori dell’ordine e del giusto, se può per avventura favorire un piccolo e precario interesse, deve però alfine chiarirsi ineluttabilmente incompatibile ed ostile ai grandi e duraturi interessi dell’individuo e dell’umanità; per cui, se a mo’ d'esempio oggi trovava assai acconcio il forte il diritto di conquista, trovandosi domani in faccia un più poderoso avversario, era pur costretto a confessare essere ingiusto e precario il diritto della forza.

Ma questi riflessi sendo stati fatti dall’uomo un po’ tardi, anzi da pochi uomini fatti anco al dì che corre, ne avvenne che le istituzioni di tutti i tempi si risentirono di quelle prevenzioni e pregiudizii a cui accennavamo; ed al tempo in cui viviamo è pur doloroso dovere confessare che ancora la forza è in onore, che diritti e doveri sono più che parzialmente distribuiti, e che con una logica degna degl’interessi, più assai che [p. 188 modifica]della ragione, si aggiunge debolezza al debole gravandolo di doveri, si aggiunge forza al forte circondandolo di diritti.

Laddove poi si consideri avere la legislazione come ogni altra istituzione ormeggiato lo sviluppo dei popoli ed i procedimenti delle civiltà, andranno necessariamente crescendo le meraviglie, trovandoci in grado e necessità di constatare la universale incoscienza della giustizia.

Ma poteva egli essere altrimenti, dacchè la filosofia non cercò e non istabilì una base generale di diritto, che soggiogando gl’interessi, ed ispirandosi ai principii, s’imponesse prepotentemente alla ragione, e si erigesse a coscienza universale? Epperò i legislatori, privi di luce ferma e costante a dirigersi, dovettero meschinamente ispirarsi ad interessi puri e semplici di luogo e di tempo, imponendo così all’opera loro il marchio fatale della caducità.

Infatti veggiamo apparire evidente dalla storia della legislazione questa enorme lacuna ch’ella è la nessuna base del diritto, risultando per lo appunto le istituzioni le voci dei bisogni di un giorno e di un paese, anzichè i logici corollarii di un concetto unico e fermo.

Ed invero, in faccia ad una base filosofica del diritto, che cosa avrebbero significato i diritti feudali?

Dove si sarebbero fondate la signoria e la schiavitù personale?

Sopra di che avrebbe potuto giustificarsi la patria e la maritai potestà dei romani, per le quali la repubblica non riconosceva a cittadini che i capi di famiglia, non tutelando neppure la vita e la libertà delli altri membri?

E qual logica analogia troviamo fra la forma reppubblicana del governo e la fama autocratica della famiglia romana? [p. 189 modifica]Ed ai nostri tempi (parlo di paesi civilizzati e progressisti) che cosa significano, in faccia al principio filosofico del diritto, l’ostracismo degli ebrei?

Che cosa, le barriere elevate alla libera associazione dalla diversità di credenze?

La diseredazione del figlio che ha lasciato la religione paterna?

La frase comune a molti codici, tolleranza dei culti?

La schiavitù delle razze colorate?

La soppressione dell’intelligenza e dell’attività femminile?

L’individuo, vivendo nella famiglia, e nella società, porta alternativamente in quella le impressioni ricevute in questa, ed in questa i sentimenti e le idee in quella assorbite: ed è però sommamente necessario che l’organizzazione politica armonizzi coll'organizzazione della famiglia, e lo spirito stesso e l’eguale indirizzo all’una ed all’altra simultaneamente s’imprima.

Senza questa congiura, per dir così, di tutte le istituzioni contro i facili eccessi delle passioni, non potrà mai l’uomo informarsi ai precetti della giustizia, nè mai potrà avvertirne la somma importanza. L’incoerenza conduce al gratuito, il gratuito all’arbitrio, l’arbitrio all’egoismo, l’egoismo all’ingiustizia.

Ma in appoggio di questo mio concetto mi cadono in acconcio, e vi spiegheranno meglio assai ch’io non sappia l’importanza di questa coerenza di principii, le riflessioni del gran Beccaria sullo spirito delle famiglie, nel suo libro Dei delitti e delle pene. Ecco le sue parole:

«Quante funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche più illuminati, ed esercitate anche dalle repubbliche più libere, per aver considerato la società piuttosto come [p. 190 modifica]un’associazione di famiglie che come una unione d’uomini?»

«Vi siano 12,000 uomini ossia 20,00 famiglie, ciascuna delle quali sia composta di cinque persone compresovi il capo che la rappresenta. Se l’associazione è di famiglie vi saranno 2,000 uomini ed 8,000 schiavi; se l’associazione è di uomini vi saranno 10,000 cittadini e nessuno schiavo. Nel primo caso vi sarà una repubblica, e 2,000 piccole monarchie; nel secondo lo spirito repubblicano, non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura ove sta così gran parte della felicità e della miseria degli uomini.

«Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, ossia dei capi di famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà poco a poco nella repubblica medesima, e i di lui effetti non saranno frenati che dagl’interessi opposti di ciascheduno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed eguaglianza.

«Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i principii generali e li condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte.

«Nella repubblica di famiglia, i figli rimangono potestà del padre finchè vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avvezzi a piegare e temere nell’età più verde e vigorosa, quando i sentimenti sono meno modificati da quel timor d’esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno dessi agli ostacoli che il vizio sempre pone alla virtù, nella languida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti? [p. 191 modifica]«Quando la repubblica è di uomini, allora la famiglia non ha una subordinazione di comando ma di contratto, ed i figli, quando l’età li trae dalla dipendenza di natura, che è quella della debolezza e del bisogno di protezione e di difesa, divengono liberi membri della città, e si assoggettano al padre di famiglia per parteciparne i vantaggi, come uomini liberi nella grande società.

«Nel primo caso i figli, cioè la più gran parte e la più utile della nazione sono alla discrezione del padre: nel secondo non sussiste alcun altro legame comandato, che quello sacro ed inviolabile di sommistrarsi reciprocamente i necessari soccorsi, e quello di gratitudine per i beneficii ricevuti, il quale, non è tanto distrutto dal cuore umano quanto da una male intesa soggezione voluta dalle leggi.

«Tali contraddizioni fra le leggi della famiglia, e le leggi fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente d’altre contraddizioni fra la morale domestica e la pubblica, epperò fanno sorgere un continuo conflitto nel cuore di ciascun uomo. La prima morale ispira soggezione e timore, la seconda, coraggio e libertà; quella, insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta; questa, ad estenderla ad ogni classe di persone; quella, comanda un continuo sacrificio di sè stessi ad un idolo vano che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene di nessuno che la compone; questa insegna, di servire ai proprii vantaggi senza offendere le leggi, ed eccita ad immolarsi alla patria col premio dell’entusiasmo che previene l’azione.

«Tali contrasti fanno che gli uomini si sdegnino di seguire la virtù che trovano inviluppata e confusa, ed in quella lontananza che nasce dalla oscurità degli oggetti così fisici che morali». [p. 192 modifica]Fin qui Beccaria, e noi facendo plauso alla sua equità aggiungiamo, che una legislazione, che non considera a cittadini tutti indipendentemente ed egualmente i membri della sua società, e non garantisce a ciascuno i mezzi di perfezionamento e la libera autonomia, perde il diritto al rispetto ed alla obbedienza, e dove punisce non esercita, che una fredda violenza; poiché non l’uomo è fatto per la legge, ma la legge è fatta per l’uomo, e dove ella non raggiunge il suo bene ed il suo meglio non ha nessuna ragione d’esistere.

Se la legge vuol essere amata ed obbedita, è duopo sia tale che ogni cittadino d’ogni età, d’ogni condizione, d’ogni sesso, vi trovi il suo conto, e l’affermazione d’ogni giusta libertà, d’ogni onesto diritto; è duopo ch’ella non crei neppure alla metà della umana popolazione una condizione, che assomiglia forte a tutte quelle dalle quali le nazioni col sangue si sono sottratte.

La donna che, con sagrificio d’oro e di figli, con tanta forza d’entusiasmo e di devozione, si è associata nell’opera della politica redenzione, non può certo tollerare per altri secoli la sua servitù personale. Ella sente che tutte le libertà e tutti i diritti si danno fraternamente la mano, epperò come propugnando la libertà della nazione mostrava di sentire il principio della libertà e di esser matura alla propria, deve ora, ad essere coerente e logica, rivendicarla, non potendo lo spirito pubblico non degenerare se non in quanto lo fortifichi il privato.





Dovendo, siccome abbiamo visto, consonare l’organismo politico coll’organismo interno della famiglia ad unificare negli uomini il principio della giustizia, vediamo ora come ciò avvenga ai [p. 193 modifica]nostri giorni, in cui l'atmosfera è tutta pregna delle luminose idee del diritto e dell’eguaglianza, in cui si mostra dalla pubblica opinione spregiarsi il brutale diritto della forza; in cui le classi altra volta peste e conculcate dalla aristocrazia feudale, forte della divina predilezione, se trovansi tuttora alle prese colla miseria, più non veggonsi almen contrastato il diritto naturale e la dignità umana.

Entriamo, dico, nella famiglia, e veggiamo se avvi analogia fra l’atmosfera esterna e la interna; se il giovine che rispetta la dignità umana ed il diritto ingenito nel cenciaiuolo, che incontra per via, è educato a vederlo anche in sua madre; se il marito, che rispetta l’autonomia d’ogni vivente, non guarda per avventura la moglie siccome cosa e proprietà; se l’uomo, che si crede obbligato a leali procedimenti verso l’uomo, non crede forse poter darsi maggior libertà ne’ suoi rapporti colla donna.

Produttrice dei germi fisici, riconducendo continuamente col suo recondito lavoro la specie al suo tipo, sola nel lungo e penoso travaglio della gestazione, sola nella terribile crisi che dà alla luce l’uomo, fornita sola da natura del solo alimento conveniente alla sua prima età, estremamente affettiva, attaccata alla sua fattura colla fatalità dell’istinto, eminentemente analitica ed intuitiva, la donna è veramente la creatrice e la conservatrice della specie. E la natura, ponendo in tanta evidenza la maternità, non lasciava alcun dubbio sulla sua legge; cioè, la tutela della prole è devoluta alla madre, che in tutte le specie è creazione, conservazione e provvidenza.

Che cos’è la paternità? In faccia alla natura è un semplice impulso, in faccia alla legge è una ancor più semplice ipotesi, dovunque e sempre è ombra e mistero.

Da ciò ne risulta, che se la madre ha sempre [p. 194 modifica]diritto innegabile al rispetto ed all’amor della prole, alla quale la natura la indice con evidenza; il padre non partecipa a questi diritti, se non in quanto siasi egli stesso incaricato di provare al figlio la paternità sua, tutti verso di lui compiendo quei doveri di alimentazione e di educazione che la ragione gli suggerisce.

Tanto ci insegna semplicissima riflessione sulla logica dei fatti. Ma gli uomini sono eternamente inclinati a costruire gli edificii loro sulle ipotesi, ed anche qui preferirono meglio fondar sull’ipotesi che sull’evidenza; ed innalzarono la patria potestà che, come piramide partita da larga base, col diritto di morte e di vendita sui figli, andiede in appresso assottigliandosi; ma ne rimane oggi stesso pur tanto da non lasciarci credere di troppo posteriori alla antica Roma.

La paternità legale è la prima ragione della schiavitù della donna. Infatti, perchè fossero duratori questi rapporti artificiati, era duopo dar qualche corpo alla ipotesi, qualche esattezza all’induzione. Da qui la reclusione della donna; e cessata questa nel modo assoluto colla civiltà dei tempi, perdura tuttavia nel suo spirito e nel suo scopo nelle mille limitazioni della sua libertà. Da qui il diritto di comando, di sorveglianza, il supremo arbitrio del marito; la signoria dell’uomo insomma, e la servitù della donna.

Sì, la madre dell’uomo non ha altro diritto che quello di soffrire per lui, di formarlo del suo sangue, di nutrirlo del suo latte, di sagrificarsi completamente, se vuole, ai suoi interessi, e basta. La legge non riconosce nessuna maternità; ed in mancanza del padre non ha la madre neppur diritto di preferenza alla tutela della prole; laonde, rompendo così la legge ogni legame fra la madre ed i figli, dà a questi la prima lezione di immoralità e di ingratitudine, mentre strappa dalla [p. 195 modifica]fronte della donna la luminosa e simpatica aureola della maternità, insegnandole a far poco conto d’un carattere, ch’altro non può darle che triboli e spine.

Apro infatti il codice Albertino e trovo, che il § 211 dichiara essere i figli sotto la potestà del padre fino alla loro emancipazione, o se egli sia morto non emancipato, son essi sotto la potestà dell’avo paterno.

Col § 212 vieta al figlio di allontanarsi dalla casa paterna prima dei 25 anni compiti, senza il permesso del padre.

Il § 215 dà al padre il diritto di far tenere in arresto il figlio non ancora quadrilustre, sulla sua semplice domanda.

I § 216 e 217 permettono al padre di chiedere la detenzione del figlio per sei mesi, purchè sia quatrilustre e fino a 25 anni inclusivi. Nell’uno e nell’altro caso non gli è imposta nessuna formalità o scrittura giudiziaria. L’ordine d’arresto sarà spiccato in iscritto senza essere neppur motivato.

Ecco una potestà discretamente romana, e nella quale si dispone in tutti i sensi di una creatura umana senza neppure supporle una madre, la quale non ha in tutto ciò nemmeno un voto consultivo.

Ma la madre non è ella almeno una limitazione del patrio diritto in forza del diritto incontestabile e solenne che le dà la natura, che affida la prole alle sue cure, e non a quelle del padre?

Signore no. La madre legittima non esiste; e se qualche cosa può limitare la patria potestà sul figlio, non sarà mai la madre, bensì la proprietà; e non sarà questo il solo caso in cui vedremo la legge fare assai più stima della proprietà che della persona, principalmente se questa [p. 196 modifica]persona è una donna; ed eccone la prova nel § 220... «se il figlio ha beni proprii ed esercita una professione, non potrà aver luogo il di lui arresto se non mediante istanza nella forma prescritta nell’articolo 216, quand’anco il figlio non fosse giunto all’età d’anni 16».

Ma la madre non ha essa mai in nessun caso dei diritti sulla prole?

Oh sì; ma la legge nel concederli non riconosce già, nè apprezza il suo carattere materno ed il natural diritto che ne conseguita, ma rispetta e riconosce esclusivamente la volontà del defunto consorte. Il padre ha il diritto di nominare un tutore ai figli soggetti alla sua potestà; lo stesso diritto compete all’avo sui nipoti soggetti alla sua potestà (§ 245).

§ 246. Se il padre o l’avo, rispettivamente come sopra, avrà nominato la madre tutrice, potrà destinarle un consulente speciale, senza il cui parere ella non possa fare alcun atto relativo alla tutela.

La madre adunque non può esser tutrice, se non nominata tale per esplicita volontà di chi dovrebbe da lei ricevere un tale mandato, secondo ragion naturale; essendo a lei sola possibile l’indicare con certezza a chi competa; più, l’azione sua è così totalmente invalidata che il nome di tutrice diviene una derisione.

Vedete infatti come la legge quando vuole s’intenda benissimo alle limitazioni.

Epperò potrà la madre fare arrestare il figlio non soggetto alla potestà dell’avo, ma purchè vi concorra l’assenso di due prossimi parenti paterni (§ 221); e nel caso che manchi l’assenso dei parenti richiesto dal § 221, supplisce l’art. 223. raccomandando al prefetto di supplire con quelle maggiori informazioni che crederà del caso.

Può la madre tutrice, nel caso di morte, [p. 197 modifica]eleggere un tutore ai suoi figli minori, ma la sua elezione dovrà essere confermata dal consiglio di famiglia (§ 248).

Se la madre tutrice vorrà rimaritarsi dovrà, prima del matrimonio, far convocare il consiglio di famiglia, il quale deciderà se la tutela debba esserle conservata.

In mancanza di questa convocazione, essa perderà di pien diritto la tutela, ed il suo nuovo marito sarà solidariamente responsabile della tutela esercitata dalla madre per lo passato (!!?), ed in appresso indebitamente conservata (§ 253).

(Mi dispenso dal commentare questo paragrafo, non sentendomi capace di scrutare il profondo abisso della mente del legislatore).

Quando la madre conserva la tutela, o vi sarà stata riammessa, il consiglio di famiglia le darà necessariamente a contutore il secondo marito, il quale diverrà solidariamente responsabile unitamente alla moglie, dell'amministrazione posteriore al matrimonio (§ 254).

Come ognun vede, un padrigno ed una madre rispettivamente alla prole, nel sentimento del legislatore, sono equivalenti.

La legge però, con una tenerezza tutta parziale per la madre, le accorda un diritto che se oltraggia la natura, ed è per la donna una lezione immorale, sente però in compenso una condiscendenza tutta cavalleresca. Coll’art. 252 non vuole che si obblighi la madre ad accettare la tutela dei suoi figli, e s’accontenta che ella ne adempia i doveri fino alla nomina di un tutore.

Del resto poi, in difetto dei genitori o di un tutore esplicitamente eletto colle forme volute, la tutela spetterà all’avo paterno, in difetto di questo all’avo materno, e collo stesso ordine risalendo la linea ascendentale, deve sempre preferirsi al materno il paterno (§ 257). [p. 198 modifica]

Quando poi concorrano alla tutela due bisavoli della linea materna, questi, subendo solidariamente colla madre lo spregio della legge per lei, vengono abbandonati all’arbitrio del consiglio di famiglia, che eleggerà fra i due (§ 259).

Ed ecco come la legge onora il carattere materno! Ella non suppone neppure spontaneamente che la madre sia capace di tutelare i suoi figli (chè in quanto a diritto ne è ben raro questione quando degna occuparsi della donna). Ella accetta la decisione del marito defunto, o dell’avo, o del bisavo, che tutti camminano innanzi alla madre, e la tollera tutrice, purché però a sua volta tutelata. Nell’azione sua la madre tutrice inciampa ad ogni passo nei meticolosi se e ma del leguleio. Fra lei ed il suo pupillo la legge pone costantemente od il consulente speciale, od il consiglio di famiglia, o i due prossimi parenti, o le informazioni del prefetto.

Ed ecco in qual modo la legge sa appoggiare i suoi stessi precetti! Davanti alla disistima che voi fate della maternità, davanti alla sanzione della materna incapacità che voi suggellate ad ogni paragrafo dei vostri codici, davanti alla spogliazione d’ogni diritto primitivo ed ingenito sulla persona della donna madre, chè cosa significa, di grazia, o legislatori, quell’art. 210 nel quale dite al figlio; «in qualunque età, stato e condizione ti trovi, onora e rispetta i tuoi genitori?»

Dite da senno, signori miei? E chi sono i vostri genitori? Voi certo intendete il padre, l’avolo, il bisavolo, e l’arcavolo paterno, non già la madre, che non vedo che in rapporti indirettissimi e fortuiti con questi figli, dei quali si dispone in ogni verso senza nessuno intervento suo.

L’allievo dei vostri codici non conosce sua madre! Ella non è, e non può essere per lui che [p. 199 modifica]un oggetto di erudizione, una miseria, una incapacità incarnata; e se, volgendo lo sguardo sulla civil società, vedrò ancora talvolta ascoltata la voce potente della natura, ed onorata in qualche parte la maternità, dovrò esclamare: a cattive leggi, uomini migliori!

Se non che il disdegno, che i codici mostrano per la donna, non è che uno dei corollarii di quel principio così lucidamente impugnato dal Beccaria, che cioè, quel legislatore che considera la società come una associazione di famiglie, non deve necessariamente riconoscere a membri attivi che i capi di esse e lasciar gli altri tutti nell’ombra ed in balìa dei capo, sopprimendo così ogni diritto ingenito, sul quale si eleva prepotente il diritto parziale.





Se la legge tratta così la donna che, pel venerando carattere materno, si presenta all’uomo coll’autorità della causa sopra lo effetto suo; non è più a meravigliare che affatto la cancelli dal novero delle unità nei rapporti coniugali.

Il marito legale è per la donna la evirazione intellettuale, la minorità perpetua, lo annichilamento della sua personalità.

Infatti, se la donna è qualche cosa davanti alla legge, lo è quando è maggiore e libera; che, sebbene il legislatore tiri giù per conto suo dei tagli cesarei attraverso i diritti competenti a ciascun membro della civil società, la lascia almeno padrona di sè stessa, e le suppone la capacità di amministrarsi. Ma si marita essa? Da quel momento ella diviene incapace e minore, perde col suo nome anche la proprietà di sè medesima, e vi sfido a trovarmi un atto legale ch’ella possa fare senza il consenso del marito. Ma lasciam parlare la legge. [p. 200 modifica]

Riapro il codice sardo ove tratta dei rispettivi diritti e doveri dei coniugi, e trovo al § 125: «I coniugi hanno il dovere di reciproca fedeltà, soccorso ed assistenza».

Senz’altro va ad essere un paradiso terrestre! si tratta di una perfetta eguaglianza! Di una completa fraternità! È il matrimonio tipico! È l’ideale del coniugio! È l’androgino umanitario che fonde due esseri in una sola unità! Adagio, vediamo come s’intendono di reciprocanza e mutualità i nostri legislatori.

§ 126. «II marito è in dovere di proteggere la moglie, la moglie di obbedire al marito». Ecco i primi albori della reciprocanza legale; discutiamoli un momento.

Chè cosa sia la protezione che il marito deve alla moglie; qual logica analogia ella abbia coi costumi d’una civil società; qual fatica costi al marito questo fantasma di dovere, non si saprebbe definir veramente, circondati come siamo da leggi ed agenti d’ordine pubblico. Egli lavora siccome un re, i cui ministri fanno tutto, ed al quale pur tuttavia i beati popoli governati debbono innalzare inni di riconoscenza e d’ammirazione. Così la moglie vive sicura all’ombra della protezione maritale esattamente come viveva sicura sotto l’egida dei provvedimenti di pubblica sicurezza, il giorno prima d’aver aquistato il protettore.

Ma niuno forse ardirà toccare alla moglie per timor del marito?

Vi domando scusa. È più che dimostrato, che tutti i delitti sono possibili.

Ma nel caso che la moglie venga insultata, sarà per lo meno dal marito vendicata?

Neppure. La giustizia personale è vietata; essa è fatta esclusivamente delle leggi. Il legislatore, che prescindesse da questo principio fondamentale d’ordine pubblico, esporrebbe la sua società a [p. 201 modifica]terribili disordini e distruggerebbe la sicurezza personale.

Chè cosa intende adunque la legge nello imporre al marito questa protezione?

Intende di gravare il marito di un dovere, ma di un dovere da marito; tuttochè illusorio, però le serve per giustificare tutti i diritti di cui vuole circondarlo. Dichiarato protettore, epperò responsabile, ogni misura, od intorno o sopra il suo protetto, divien logica ed equa, e la legge ha ribadito così l’arbitrio maritale.

Quella legge stessa però così vaga, così laconica, così speciosa sui doveri del marito, è quella stessa che sa molto bene determinarsi, amplificarsi e dimostrarsi nei doveri della moglie; e per primo le impone obbedienza, senza assegnare a questa obbedienza limite o confine, cosicché, in faccia a tanta completa passività imposta alla metà della popolazione, io non so più chè cosa si voglia intendere il legislatore, dichiarando irrito e nullo ogni contratto, che stipuli l’alienazione personale.

Ed invero, un rapido sguardo ai doveri della moglie ed ai diritti del marito, basterà per toglierci alla taccia d’esagerazione. Veniamo perciò ai logici corollarii della illimitata obbedienza.

§ 127. La moglie è obbligata ad abitar col marito, ed a seguirlo dovunque egli crede opportuno di stabilire la sua residenza. (Notate ch’egli solo giudica dell’opportunità locale del suo domicilio).

§ 128. La moglie deve concorrere al mantenimento del marito, quando egli non ne abbia i mezzi bastanti.

§ 129. La moglie non può stare in giudizio senza il consenso del marito. Se questi non voglia o non possa prestarlo, il Tribunale può autorizzarla. [p. 202 modifica]

Notisi, che v’ha però un caso, nel quale può stare in giudizio senza il consenso del marito, e questo caso eccezionale, benchè assai logico e giusto, non è fatto per portar luce sull’astruso problema della protezione maritale; quando cioè è inseguita dalla legge per delitti o contravvenzioni.

§ 130. La moglie non può donare, nè alienare, nè ipotecare, nè aquistare a titolo sia gratuito sia oneroso, nè obbligarsi per nessuno degli atti eccedenti la semplice amministrazione, senza che il marito, personalmente od in iscritto, presti a ciascun atto il suo consenso.

Dopo tutto ciò non sarà soverchio notificare alle mie giovinette lettrici, che la legge ammette anche nella donna il diritto di proprietà, tutto che, questi paragrafi non siano fatti per farlo credere.

Nel § 137, la legge si mette una mano al cuore, e prova un palpito d’incertezza e d’apprensione pel marito. Egli lo vede circondato da pericoli e superchierie, e si trova in dovere di proteggere e tutelare il forte contro i verosimili eccessi del debole; epperò pone per lui le mani avanti e decreta in anticipazione che «l’autorizzazione od il consenso in genere, non sono validi, ancorchè stipulati nel contratto di matrimonio».

Coll’articolo 139 poi, la legge ridona alla donna il diritto pratico di proprietà, riconosce per un’ora di tempo la sua autonomia, permettendole di fare il suo testamento, senza autorizzazione o consenso del marito. Confessiamo che la legge è generosa, peccato che sia un po’ tardi!





Che il vedovo marito si crucci o meno, per il decesso della sua consorte, che più o meno presto la scordi, poco importa alla legge; ma ciò che le sta a cuore sommamente si è, che la [p. 203 modifica]vedova non troppo facilmente si consoli del perduto protettore, ed a ciò efficacemente provvede nel § 145, dov’è disposto che «la vedova, contraendo nuove nozze, prima che siano trascorsi dieci mesi dopo la morte del marito, incorre nella pena della perdita di tutti i lucri nuziali stabiliti dalla legge, o stipulati col primo marito, non che di tutte le liberalità, che a lei fossero pervenute dal medesimo».

Notisi che quel vocabolo pena, di cui si serve la legge, supponendo una colpa, dichiara implicitamente criminose nella donna le seconde nozze; mentre il vedovo marito, erede della sposa defunta, è abilitato a scordarla innanzi sera.

Ecco come s’intende la legge alla reciprocanza ed alla mutualità; ed ecco come ella è coerente al suo paragrafo 125.

Ovunque vedesi la personalità della donna maritata affatto eclissata, ella non è che l'ombra del marito che la invalida, che la assorbe, che la annichila e dal quale non è emancipata neppur per la sua morte, non che pel caso di separazione di corpo e d’abitazione, nel qual caso, avendo ella la semplice amministrazione de’ suoi beni, non può tuttavia senza il di lui consenso ed autorizzazione nè alienare, nè obbligare i suoi beni immobili, nè stare in giudizio per azioni riflettenti li stessi suoi beni.

Quando si rifletta che, cessata colla legale separazione la comunanza degli interessi fra i coniugi, possono questi diritti del marito attraversare ad ogni tratto gl’interessi della moglie, subordinati quali sono ad ogni suo capriccio, ben si vedrà quanto la legge si solleciti del benessere della donna.

E separata e non separata non può la moglie, senza consenso ed autorizzazione del marito, accettare incarico di esecutrice testamentaria; non può [p. 204 modifica]accettare nessun mandato; non può accettare nessuna donazione; non può validamente accettare nessuna eredità; non può assumersi fideiussione; in una parola, civilmente non esiste. Dove il marito si rifiuti all’assenso, il Tribunale di prefettura assume i suoi diritti, e conferma il rifiuto di lui, oppur prescinde secondo che gli pare; e questa specie di difesa, che la donna ripete dalla legge che controlla il rifiuto del marito, non è che un incoerenza di più in faccia al suo spirito, una oscurità di più ch’ella apporta a quell’oscuro busillis che è la protezione maritale, un fatto di più che prova alla donna sposa, ch’ella è sempre minore od interdetta.

Se non che, potrebbero per avventura, questi esorbitanti diritti maritali, se non certo giustificarsi, almeno spiegarsi sopra ciò, che, dovendo il consorte nutrirla, in caso di dissipazione ella cadrebbe a tutto suo carico.

Ma, signori no, anche qui la legge ha provvisto per non aver ragione, col sopraccitato paragrafo 128, nel quale è disposto che, «la moglie debba alimentare il marito, quando egli non ne abbia i mezzi bastanti» per cui, soggiacendo ambedue allo stesso peso, qui, come dovunque, la legge si sollecita affinchè non vi soccomba che il debole. Il marito perciò potrà sciupare i beni suoi e quelli della consorte, ch’egli solo amministra senza controllo, eppoi dovrà esserne alimentato.

Cosicché riassumendomi, abbia il marito torto o ragione, sia egli o non sia in buon accordo colla moglie, sia egli onesto od immorale, sia egli accorto e prudente, oppure stupido od incapace, la legge ha già deciso in anticipazione, che il matrimonio deve produrre nella donna l’evirazione delle sue facoltà; per cui deve divenire essenzialmente incapace, mentre nel marito deve aggiungere onestà ed intelletto, senza eccezioni e senza limitazioni. [p. 205 modifica]

Ma se la legge fatta dall’uomo, è necessariamente altresì fatta per l’uomo, essendogli pressochè impossibile astrarre dal personale interesse; per lo meno, essendo la morale una, ed inalterabile, saranno in caso di contravvenzione strettamente pareggiati nella penalità?

Ciò non potrebbe essere, senza che la legge cadesse in una delle più grosse incoerenze. Distribuiti parzialmente i doveri, ne risulta una disparità di situazione, donde relativa dev’essere la colpa, epperò relativo il castigo.

Il § 486 del Codice penale, decreta che «la moglie, convinta d’adulterio, sarà punita col carcere, non minore di tre mesi, estensibile a due anni»; e che «il marito convinto di concubinato, sarà punito col carcere da tre mesi a due anni».

Per quanto giusta vi sembri questa disposizione non v’andate a credere, che stabilisca almeno in un punto un po’ d’eguaglianza. La legge ha trovato modo di sciogliere il marito da ogni pericolo, e togliere alla moglie ogni diritto di querela coi § 482 e 483, dichiarando che, la moglie può essere adultera dapertutto, mentre il marito non lo è, per lei, che quando si abbia tenuto la concubina sotto il tetto coniugale.

Ma forse che la legge ha così disposto nella impossibilità di constatare più chiaramente il concubinaggio per parte del marito? Domando scusa.

Quando la legge ammette la sorpresa in flagrante, dovunque, contro la moglie, non v’ha equità che possa vietare sul conto del marito la stessa ipotesi. Più. se contro la moglie, la legge ammette prove risultanti da lettere o carte dal complice scritte; non si vede equa ragione, per la quale le prove reputate legali contro la donna, non si reputino egualmente legali contro il marito. [p. 206 modifica]La legge considera ella nell’adulterio l’offesa al diritto coniugale? Or bene, questa davanti alla natura, davanti all’equità, davanti al suo medesimo §125 è la stessa in ambo i coniugi. — O considera dessa le conseguenze? Allora l’elemento eterogeneo, che l’adulterio della donna arrischia d’introdurre nella famiglia del marito, è quello stesso, che il marito porta in un’altra famiglia; con quella maggior reità, che porta con sè davanti ad ogni sano criterio e davanti allo stesso codice penale, la provocazione e l’iniziativa. Più, il marito amministrando solo, le sostanze sue e della moglie, più funeste sotto ogni aspetto riescir debbono alla famiglia i suoi disordini. Egli può detrarre il patrimonio dei figli, egli può spogliare la moglie, per arricchire l’amica.

Finalmente, giudicate da ciò, se il codice divide il pregiudizio degli onesti che la morale sia una, e quanto si solleciti d’essere seco stesso coerente ricordandovi dell’edificante §125, al quale or ora accennavo: «I coniugi hanno dovere di reciproca fedeltà».

Ma dandosi il caso che un uomo, nel quale il sentimento d’equità predomini lo innato egoismo, e porti alla sua sposa riverenza, siccome ad essere umano, ed in lei però considerando l’ingenito principio del diritto, non dipende egli dalla sua ragione, dal suo cuore, dalla sua volontà il riabilitarla, deponendo spontaneo i non equi diritti?

Rispondo. Sapete voi come, i legislatori della Carolina del sud, impediscono gli assembramenti delli schiavi neri, la loro istruzione e la loro privata industria, che padroni coscienziosi potrebbero favorire con animo di avviarli all’emancipazione, il qual risultato sembra a quei signori un notevole inconveniente? Punisce insieme il padrone e lo schiavo.

Con poche varianti il nostro codice, prevedendo [p. 207 modifica]questo caso appunto, che il marito possa voler riabilitare la sua compagna, dichiara anticipatamente nel § 1509, che gli sposi, nel loro contratto, non possono in alcun modo derogare ai diritti risultanti sopra la moglie dall’autorità maritale, ecc., «e nel § 1511, avverte, che è egualmente vietato agli sposi di stipulare in modo generico, che il loro matrimonio verrà regolato da alcune delle leggi, statuti, consuetudini che non siano attualmente in vigore in questi Stati, e ciò tutto, sotto la responsabilità del notaio, che incorrerà in una pena od anche nella deposizione della carica.





Si può contrarre matrimonio sotto diverse forme di regime, ben inteso, che queste modificazioni non riguardano che la proprietà, restando in tutto e sempre la persona della moglie completamente alienata.

E per primo, v’ha il regime della comunione dei beni, nel quale s’intende coniugato chiunque non abbia fatto convenzioni speciali; v’ha il regime della separazione dei beni; v’ha il regime dotale.

Nel primo l’amministrazione dei beni comuni è devoluta al marito solo; i quali beni si compongono di tutti i mobili ed immobili, frutti ed interessi d’ogni natura, acquisiti anche dopo il matrimonio.

Oltre il diritto di amministrare, egli solo può stare in giudizio per azioni riflettenti i beni della comunione.

Egli può inoltre vendere, alienare, ipotecare questi beni senza concorso della moglie, non essendo richiesto il suo esplicito consenso, per la legale validità d’ognuno di questi atti.

Ora, laddove si consideri che se abbia la donna [p. 208 modifica]posto dei beni in comunione, o col proprio censo, o col proprio personale lavoro, o col lento e penoso risparmio, deve pur sempre stendere al marito la mano per averne in tutto od in parte ciò che vuole ogni equità le sia dovuto, fortunata ancora se una cattiva amministrazione del marito, od i debiti da lui incorsi, od i suoi vizii e disordini non l’hanno spogliata di tutto, vedrassi chiaramente quanto un simile regime sconvenga alla donna.

Nel popolo, i cui matrimonii si fanno senza contratto generalmente, non è raro vedere un marito beone, brutale, o giuocatore, sciupare in assidue gozzoviglie il più che modesto mobiliare raccolto della misera consorte, colle lunghe notti vegliate nel lavoro, o con indicibili economie, che spesso le costarono la salute.

Bisogna perciò persuadere le donne del popolo a fare un contratto nuziale, ed a voi tocca, signore mie, ad accorrere in soccorso della loro improvvida ignoranza, in nome di quel vincolo solidale che unir deve la donna di tutti i ranghi sociali, poiché tutte sono egualmente oppresse dalle istituzioni; e passiamo ora a vedere come la legge tratta la donna nel contratto.

Un secondo regime matrimoniale è il regime dotale. I beni dotali debbono esplicitamente dichiararsi tali; tutti gli altri sono detti parafernali o estradotali.

I beni dotali sono inalienabili in regola generale. Il marito solo li amministra; i frutti sono destinati a concorrere al peso delle spese domestiche.

La moglie può ricevere annualmente sopra sua semplice quietanza una parte delle rendite di essa dote, dietro esplicita convenzione nel contratto di nozze.

Un terzo regime è la separazione dei beni. In [p. 209 modifica]questo caso la moglie ha il dominio non solo, ma anche l’amministrazione de’ suoi beni parafernali, uniformandosi, in quanto all’esercizio dei suoi diritti, alle restrizioni citate più sopra, che la riducono all’impotenza d’ogni atto legale senza consenso esplicitamente prestato dal marito, od in caso di suo rifiuto, dal tribunale.

Come ognun vede, la donna in qualunque regime coniugale, è schiava o minore.

Per avere un diritto materno, ella non dovrebbe esser madre che di prole illegale, e per avere il reale possesso di sè stessa e delle cose sue, mai non dovrebbe piegare il collo al giogo del matrimonio; e così facendo ella non farebbe che ridurre a pratica le immorali lezioni, che le dà il codice con tanta eloquenza; donde poi la corrutela massima dei costumi; la origine incerta delle famiglie; la moltiplicazione allo infinito degli orfani e degli esposti, non potendo la donna, priva del diritto industriale, bastare all’alimentazione di numerosa prole; e ci darebbe così, delle generazioni degenerate dal punto di vista fisico, depravate, dal punto di vista morale, miserabili, dal punto di vista economico, e dal punto di veduta politico, terribile ed eterna minaccia all’organismo sociale.

Se le cose, la Dio mercè, non sono ancora a questo punto (benchè i grandi centri già mostrino prepotenti gli elementi, che vi ci debbono condurre più o meno presto, se non si pensa al riparo), gli è perchè, e unicamente perchè, l’umanità, migliore assai delle demoralizzatrici legislazioni che la reggono, nell’intima vita delle famiglie non applica e non osserva le leggi. Egli è perchè generalmente la donna, più morale assai che non la vorrebbero i codici, preferisce incatenare sè stessa e le sue sostanze, e piegare il collo sotto il giogo che vede e sente iniquo [p. 210 modifica]ed ingiusto, perchè, ed unicamente perchè, le guarentisce un po’ d’onore; quell’onore che la legge non cura e calpesta, dando al marito il diritto di disconoscere il figlio; ed indulgente quale ell’è alle seduzioni, le cui conseguenze abbandona tutte intere al debole che tiene nell’ignoranza, e perdona al forte che istruisce, e che non vuol manco conoscere — § 185. Le indagini sulla paternità non sono ammesse — § 186. Le indagini sulla maternità sono ammesse.

Questi due paragrafi fanno sorgere spontanea più d’una riflessione.

L’egregio professore Albini, ne’ suoi Principii della filosofia del diritto, ammette il diritto d’educazione dei figli siccome diritto non solo morale, ma anche giuridico — (§ 92 e 65). Più lungi egli vede nel padre solo le attitudini fisiche e morali, che ne fanno il necessario capo della famiglia; e su queste attitudini egli fonda la patria potestà, e con lui la legge, ch’egli ormeggia riverentemente, permettendosi talora delle timidissime osservazioni.

Ma se la legge è davvero convinta, che il padre solo basti a reggere la famiglia, e provvedere i figli materialmente e moralmente, secondo è diritto loro morale e giuridico, epperò si crede in obbligo di circondare il padre di tanta autorità, come dunque, smentendo a sè stessa, abbandona alla madre sola la prole naturale, col vietare la ricerca della paternità? O la legge adunque non crede necessaria tutta l’autorità di cui circonda il padre, o non crede la madre incapace, come sempre l’afferma, ma anzi assai più atta del padre, dacché dà lo stesso compito senza gli stessi mezzi, o che disconosce nel figlio naturale il diritto morale e giuridico, che il professore Albini vede così lucidamente servir di base alla patria potestà. [p. 211 modifica]

Non sarò io certo che mi darò il fastidio di sgarbugliare questa aruffata matassa di incoerenze.





Procediamo ora ad un rapido sguardo sulle condizioni della donna maggiore, vedova o nubile ch’ella sia.

Libera dai pesi della famiglia, non vincolata ad ogni ora e momento ai più minuti capricci d’un consorte, vivendo o della propria industria, o del proprio censo, non v’ha ragione nessuna che la debba, in faccia alla legge, inferiorizzare nei diritti competenti ad ogni cittadino.

Eppure non è così. La legge assume sulla donna per conto suo una seconda edizione della patria potestà, e ne limita ad ogni tratto l’autonomia ed i diritti, con un’aria di sollecitudine che tutta rivela la sua profonda convinzione dell’incapacità femminile. Ed a ciò non si accontenta, ma con patente ingiustizia si dà premura eziandio di diminuire per lei anche quella porzione di beni, che l’ordine della natura le assegna, e vo’ dire delle disposizioni della legge nelle successioni ab intestato.

Il codice Albertino dedica un apposito capitolo alla consacrazione di questa flagrante ingiustizia, fondata sul vieto diritto feudale, il quale avea saputo imaginare, come ognun sa, a maggior bene e gloria delle famiglie, l’oppressione di tutti i suoi membri, quale forzatamente coniugato, quale violentemente monacato, tutti, meno uno, snaturatamente spogliati.

Ora, nel secolo decimonono, il codice Albertino conserva fresche fresche le sue velleità feudali, e fa ancor dell’amore col passato trapassato.

In grazia che l’umanità ha un secolo di più, si rassegna ad emancipare tutti i suoi membri maschi, [p. 212 modifica]chè, in quanto ai membri femmine, non c’è mai premura; ed egli trova d’altronde, che il diritto scritto fa molto bene d’emanciparsi un po’ dal diritto naturale, troppo più democratico che non comportino certi interessi; per cui: «Trattandosi di successione paterna, o di altro ascendente paterno maschio, la porzione di successione che spetterebbe alla femmina, o suoi discendenti, eredi o non della medesima, sarà devoluta, a titolo di subingresso, e secondo le regole, di successione, ai suoi fratelli germani, o loro discendenti maschi da maschi, ove esistano; e in difetto di fratelli germani o loro discendenti maschi, ai fratelli consanguinei e loro discendenti maschi da maschi come sopra».

Il §944 decreta la stessa disposizione riguardo alla successione d’un fratello germano e consanguineo, se la donna trovasi qui pure in concorrenza con maschi, o con loro discendenti maschi da maschi, come sopra.

Il §945 conferma la stessa disposizione riguardo alla successione materna, esclusa solo la concorrenza dei fratelli consanguinei.

La donna sorella, è l’elemento sul quale fa, assai generalmente, le sue prime armi la petulanza virile; e queste disposizioni sembravano fatte per apporre la legale ratifica a questo comunissimo fatto; ma, cessato il feudalismo, gli uomini della legge sentono benissimo di non potere in alcun modo, non che giustificare, neppure spiegare, non fosse altro, con ragioni di coerenza siffatta ingiustizia.

D’altronde la dottrina del diritto è oggidì abbastanza sentita dalla coscienza delle masse, perchè si possa più oltre procedere in un ordine di cose ormai divenuto impossibile. Nè ci riconosciamo noi stessi il diritto di più oltre insistere su questo proposito, dacché siamo informati, che la commissione incaricata di rivedere i codici dal [p. 213 modifica]Parlamento nazionale, ba già compreso questo articolo fra quelli, ch’esser debbono oggetto di riforma.

Se la pubblica opinione è il movente di questa riforma, lodiamo altamente il suo tatto politico dei tempi: se è il sentimento di giustizia, lo lodiamo ancora più. Si ricordi tuttavia il Parlamento italiano, che queste anticaglie barbariche, ed altre ancora, disparvero già da tempo dai codici delle nazioni, che dall’Italia ricevettero la civiltà; e faccia però, che più d’una provincia nel bel paese ripensando alle teutoniche istituzioni non le rimpianga!

Ma procediamo innanzi nell’esame delle condizioni della donna maggiore.

Riguardo alla tutela vi sono titoli di dispensa, titoli di rimozione, titoli d’esclusione.

Va senza dire, che i titoli di dispensa, per l’uomo sono gloriosi. Essi sono, od un privilegio annesso alle regie onorificenze, od un’impossibilità prodotta dalle grandi cariche dello Stato. Per la donna non è questione di tutto ciò, dappoichè l’uomo nel suo ingenuo egoismo, e nella beata convinzione della sua esclusiva eccellenza, non decreta che a sè stesso titoli e cariche; per cui la cosa è a riguardo di lei assai più semplificata.

Il titolo di dispensa per la donna è il suo semplice rifiuto. Notate, che in questo caso non può essere che la madre od una ascendente.

Il titolo di rimozione è un nuovo matrimonio, come quello che è sempre destinato a colpir di paralisi la sua vita morale.

Il titolo d’esclusione in regola generale è per la donna, l’essere donna.

La donna adunque, anche maggiore, è appena riputata capace d’amministrarsi; benchè nel caso di certi atti legali, che la riguardano tutta sola, come a mo’ d’esempio l'atto di donazione fra i [p. 214 modifica]vivi, sia più inceppata assai che l’uomo. Oltre all’esplorazione della sua libera volontà, per parte del prefetto o del giudice di mandamento, debbono essere sentiti in proposito due parenti della donante; od in difetto di quelli, due amici della sua medesima famiglia. Più, delle donazioni, che non importano l’obbligo d’omologazione, è più ristretto il numero dei casi per la donna, che non per gli altri cittadini. Le sue donazioni debbono tutte corredarsi della ratifica legale, non eccettuate che quelle fatte nella cerchia della famiglia e discendenti, a titolo di dote od aumento di dote.

Esclusa, in regola generale, la donna dalla tutela ed anzi tutelata eternamente ella stessa, non deve meravigliare il vederla esclusa dal consiglio di famiglia, per cui, anche davanti a questo tribunale intimo, davanti al quale si agitano gl’interessi più cari al suo cuore, e dove la voce di una madre, di un’ava, di una sposa e di una sorella sembra reclamata dalla natura, trovasi la donna annullata dalla legge.

Non dite più, che la donna è fatta per la famiglia: che nella famiglia è il suo regno ed il suo impero! Le son queste poetiche iperboli e vacue declamazioni, come mille altre di simil genere. Ella esiste nella famiglia, nella città e dovunque in faccia ai pesi ed ai doveri; da questi all’infuori ella non esiste in nessun luogo.





Partendo dal principio della assoluta nullità femminile, che la legge afferma nella prima sua pagina, snaturalizzando la donna, che sposa uno straniero, lieta si direbbe di trovar plausibile pretesto a sbarazzarsene, e che sancisce ad ogni articolo che la riguardi, dovrebbe, ad essere conseguente, non riconoscerle la responsabilità. [p. 215 modifica]Farà egli bisogno di ricordare al legislatore, che quell’essere è responsabile che porta nell’azione sua piena intelligenza, perfetta avvertenza e libera volontà; e che però, quella creatura, alla quale voi negate la pochissima intelligenza che basta a saper reggersi dietro la norma de’ suoi stessi materiali interessi, tanto più dev’essere ottusa nelle nozioni tutte astratte e speculative del bene e del male, del giusto e dell’iniquo?

In base a questo sillogismo, la cui logica soluzione si presenta spontanea all’occhio di chiunque, noi saremmo in diritto di credere, che la donna è riconosciuta incapace di contravvenzione, epperò altresì di castigo.

Ma no; la legge che si ispira agli interessi e non ai principii è condannata per l’ordine fatale delle idee a contraddirsi.

Leggo nel codice penale, che la donna è dichiarata a 18 anni perfettamente responsabile di sè stessa, epperò egli più non si crede in dovere di rivendicarne l’onore.

Che se nuova, semplice, ignara, come pressochè tutte le giovinette, delle consacrate immoralità del codice, crede tuttavia alla santità della parola ed alla inviolabilità del giuramento e si lascia sedurre, allora la legge, come la plebe romana in faccia ad un cadavere sanguinoso, che rivela un assassino, domanda tenera e sollecita s’è salvato lo poveretto? Senza pur sognare della vittima, la legge così si affretta d’informarsi se la vittima è diciottenne, e trovatala tale tira un gran fiato, ed accocolandosi ripete soddisfatta, non è ammessa la ricerca della paternità.

Ma e se la misera giovinetta non trova più pane neppure a prezzo di penoso lavoro?

Se pesa sopra di lei una farisaica opinione, che dai codici educata conosce due morali, una rigida pel debole e pel sedotto, un’altra dolce e [p. 216 modifica]larghissima pel forte e pel provocatore, chi toglierà dalla sua giovine fronte quell'angoscioso rossore?

Come potrà, se povera, prender cura del frutto delle sue viscere che se è dalla legge ripudiato, è però accolto e benedetto dalla natura?

Chi? Come? Forse che la legge s’intende a tutto ciò? L’onore? Ma la legge ha ella mai riconosciuto un onore? Se ne è ella mai preoccupata?

Mi ricordo ch’ella si è preoccupata delle diffamazioni; ma avreste voi per avventura la semplicità di credere che i fatti, che tolgono l’onore, siano tanto gravi e decisivi quanto le parole che l’insidiano?

La legge si sollecita della proprietà più che della persona, delle parole più che dei fatti, quando degna occuparsi della donna.

Ella si trova l’obbligo di tutelare la sua proprietà perchè si tratta di limitarla, e fa con lei della galanteria perchè voglia rinunciare a’ suoi diritti sulla prole; ma non si trova in obbligo di tutelare la sua persona oltre i 18 anni, e non crede, per esempio, dovere spingere la galanteria fino a sottrarla al patibolo.

Il giudice od il prefetto non le troveranno tanta intelligenza e piena coscienza di sè, da apporre ad un suo atto la legale sanzione; ma il rappresentante del pubblico ministero saprà mettere alla luce del sole così bene il suo ingegno, la sua finezza, la sua perfetta coscienza nell’azione, la sua piena responsabilità, che si dovrà riconoscere il suo pieno diritto a vent'anni di reclusione.

Che importa alla legge di smentire a sè stessa ad ogni pagina, ad ogni riga? Ella vi si rassegna, perchè già sa filosoficamente, che ella è questa la sorte fatale d’ogni dispotismo, che, mentre spregia lo schiavo come nullità, fa ogni sforzo per mantenerlo tale, come partisse da un criterio diametralmente opposto. [p. 217 modifica]Ognun sa che la testimonianza dello schiavo negro non pregiudica il bianco, nè vantaggia sè stesso; ma quella stessa testimonianza, riputata fallace od imbecille se diretta a danno dell’oppressore ed a proprio vantaggio, è però creduta veridica ed autorevole se rivolta a proprio danno o de’ suoi compagni di sventura.

Quando l’ingiustizia mai non venisse con sè stessa in contraddizione, quando il diritto offeso nel suo principio e nella sua ragione non manifestasse in ogni sua parte profonda lesione alla logica ed alla giustizia, noi saressimo tentati di credere che il diritto e la giustizia non sono verità, che la mente umana delira sulle loro traccie dietro larve e fantasmi, e che la filosofia non ha per anco escogitato neppure l’alfa della base necessaria all’organismo sociale.

Passiamo ora a disaminare le condizioni della donna in faccia ad altre istituzioni e ad altri diritti.

Dovunque la troveremo martire, dappertutto la vedremo annichilata od interiorizzata; pure, noi lo dichiariamo altamente, a dispetto dei mille ostacoli e delle cento ingenerose barriere che si elevano fra lei e la libertà, non disperiamo della sua sorte e portiamo profonda la fede de’ suoi futuri destini.

Come al popolo, che ha scosso il giogo di secolare oppressione, guardano ansiose le ancora oppresse nazioni; così i dolori tuttora spasmodici della misera umanità, le viete sue piaghe incancrenite, cercano la donna, che veggono lentamente svilupparsi dal funebre sudario e scostarsene ad una ad una le pieghe, che tali sono per lei appunto le pagine dei nostri codici.