La guerra del vespro siciliano/Capitolo XII
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Opere della corte di Roma contro Pietro d’Aragona. Concessione di quel reame a Carlo di Valois. Protestazioni e pratiche di Pietro. Contese di lui con le Corti di Aragona. Lega di que’ baroni; grande esercito e armata che apparecchiansi in Francia. Invasione del Rossiglione, poi della Catalogna. Straordinaria fortezza e perseveranza di re Pietro; assedio di Girona. Morìa nel campo francese. Pietro ripiglia le offese. Fazioni di mare. Loria con l’armata siciliana riporta segnalata vittoria su i Francesi. Ritirata di re Filippo, e sua morte. Carlo lo Zoppo mandato prigione in Catalogna. Morte di Pietro. 1282-1285.
La guerra sopra Aragona, pensata al primo fallir dell’impresa di Sicilia, per avviluppar Pietro in tal briga nel suo antico reame, che lasciasse la difesa del nuovo, si macchinò poco men che tre anni, tra Carlo, papa Martino e Filippo l’Ardito. Di leggieri crederò a Martino, che parecchi baroni francesi stigavano a quella il re, dicendo insopportabili ormai le offese di Pier d’Aragona, e vergogna al sangue reale e a tutta la nazion francese, se non ne pigliasse vendetta1; perchè par che il risentimento della strage del vespro tutto si fosse volto contro il re d’Aragona, quando si vide ch’ei ne raccoglieva i frutti, e incalzava e sfregiava sempre più la casa d’Angiò, e facea scorrer nuovo sangue francese ne’ combattimenti di Calabria. Le arti de’ grandi infiammaron certo il sentimento pubblico; menando tanto romore del duello; gridando Pietro codardo perchè lo schivava, e traditore perchè avea assalito Carlo in Sicilia senza disfida. D’altronde la corte di Francia, sollecitata e piaggiata assiduamente da casa d’Angiò2, e allettata dall’onore di ristorarla in Italia, ben potea desiderare una impresa, che insieme promettea larghi acquisti oltre i Pirenei. La nazione, pronta per indole alla guerra, v’era anco sospinta dalle condizioni sociali, e dall’uso alle crociate: chè perfetta crociata fu questa, sì alle bandiere, e sì all’intento de’ crocesegnati, divenuto sì basso e profano nel secolo decimoterzo. È notevole che nel trattare tal impresa detta sacra e suscitata dalla corte di Roma, si manifestò ne’ consigli di Filippo una insolita gelosia e diffidenza contro lei, un desiderio a spillare i danari ecclesiastici, un accorgimento e contegno di cui Martino si maravigliò, si adontò, ma gli fu forza sopportarlo. I principî d’ordine monarchico, prevalsi nel regno di san Luigi e messi già in opera contro la feudalità, si sollevavan contro la potenza papale; e preparavano la lotta di Bonifazio con Filippo il Bello.
Il primo divisamento in Francia fu di muover la guerra senza frasi: volean le decime delle rendite ecclesiastiche, ed eran pronti a pigliare le armi: il vescovo di Dol e Raoul d’Estrées, maresciallo di Francia, portarono al papa questa ambasceria di Filippo sul fin dell’anno ottantadue. Ma quegli rispose che volea meglio colorire la cosa; aspettar che Pietro persistesse nella occupazione della Sicilia fino a un termine dato; e poi con forme di giustizia e gravi sentenze compilar l’atto della disposizione del regno d’Aragona: e così fece, scrive egli, con molta prestezza, fidando in Dio e nella Francia, che fosse pronta sempre ad eseguir con le armi il giudizio della corte di Roma3. Ad accrescere il premio, mise fuori un’altra bolla che spogliava Pietro del reame di Valenza4. Volle impedire l’ingrandimento della Francia nella guerra che si dovea sostener col suo sangue, dichiarando contro il voto di parecchi
cardinali5 che concederebbe que’ reami a un de’ figliuoli di Filippo l’Ardito, a scelta del re o della santa sede s’ei tardasse, eccetto il primogenito sempre. Nè lasciò occasione d’allungar la mano nei patti fondamentali della nuova dinastia; pretendendo immunità ecclesiastiche larghissime, omaggio e censo a Roma6. A trattar queste e le altre condizioni dell’impresa, avea già inviato legato pontificio Giovanni Chollet, cardinal di Santa Cecilia; che venne a corte di Francia con Carlo d’Angiò innanti il dì del duello7; e con quell’autorità, scrive Montaner8 che dalla terra annoda e scioglie ne’ cieli, annullò i giuramenti della lega di Filippo con Pier d’Aragona. Durò assai più fatica a vincer le opinioni de’ consiglieri del re, dette di sopra e accettate da’ prelati e baroni, che componeano il parlamento, non scaduto per anco a mera corte di giustizia, e rappresentante, com’or direbbesi, gl’interessi della nazione, o delle classi privilegiate che se ne arrogavano il nome.
Nè credo confondere i nomi e le idee d’oggidì con quei del secol decimoterzo, se dico che non solo la corte di Francia volle far patti accorti con Roma, ma che anco il parlamento non amava gittar su la nazione tutto il peso d’una guerra che a lei nulla giovava, ma a Carlo d’Angiò, alla corte di Roma e ad alcun de’ figli di Filippo l’Ardito. Perchè nel primo disegno detto dinanzi si chieser le sole decime per tre anni in quel ch’era allora il reame di Francia; ma trattandosi l’investitura come voleala il papa, si domandarono le decime per tutta cristianità, o almeno per quattro anni nella più parte del territorio francese d’oggidì; e le prime annate dei beneficî ecclesiastici nuovamente provveduti; i legati pii, e altri sussidi; oltre le indulgenze, l’autorità della commutazione de’ voti; e alcune condizioni che mantenessero la dignità del re verso la corte di Roma; e si sostennero le libertà ecclesiastiche de’ popoli d’Aragona: ma soprattutto si pretesero tai favori del papa sia che il parlamento consigliasse il re, sia che lo sconsigliasse, che è a dire se la nazione concorresse o no alla impresa in favor del figliuolo del re. Adirossene il papa; rispose a Filippo il nove gennaio dell’ottantaquattro, chiamando scandalosa l’inchiesta delle annate dei beneficî; orribile a udirsi quella delle concessioni nel caso che il parlamento sconsigliasse; assurda l’altra delle decime in tutta cristianità; e in bel modo rimproverò Filippo e il parlamento di mala fede, d’incostanza, d’ignavia, d’abbandonar la santa sede e la casa d’Angiò, di macchiare il nome francese e dar argomento alle lingue de’ suoi nemici. Ma, come fa chi ha maggior voglia, cominciò a piegarsi alle stesse inchieste di cui lagnavasi9; mandò al legato, in tante lettere diverse, l’assentimento alle varie condizioni; e gli commise che persistendo il re, gli cedesse10. Queste concessioni e le arti del legato conseguiron l’intento.
Chiamati in Parigi i prelati e i baroni, il venti febbraio milledugentottantaquattro, il re lor significava le ultime negoziazioni; e metteva il partito della guerra. Presero tempo d’un giorno a deliberare, di tre a rispondere; e il dì ventuno assai per tempo adunavansi nel palagio reale; divisi in due sale i prelati da’ baroni, e assente il re. Il legato che non era lontano nè si rimase a man giunte, fingea poi gran maraviglia della ispirazione per cui virtù le due camere, lontane e ignare de’ procedimenti l’una dell’altra, deliberassero la guerra in un medesimo istante. La camera de’ baroni mandò prima il messaggio a’ prelati; il legato non tardò a far venire il re co’ suoi cortigiani; e il medesimo giorno in pien parlamento, innanzi a gran moltitudine l’arcivescovo di Bourges e Simone de Nigel annunziavano a Filippo la deliberazione; Filippo ringraziava, e assentiva l’impresa: il giorno appresso, convocato di nuovo il parlamento, fe’ intender la scelta fermata in persona di Carlo di Valois, suo secondo figliuolo11. Giurò per costui il padre; il cardinale conferì al fanciullo l’investitura de’ regni d’Aragona e Valenza e del contado di Barcellona12 con istrano rito di porgli in capo un cappello; onde, perchè la terra poi non ebbe, re del cappello il motteggiavano13. Ratificò il papa a dì primo marzo; die’ la bolla di concessione in buona forma il tre maggio14. Lo stesso giorno trasferisce al cardinal di Santa Cecilia piena autorità in Francia, Navarra, Aragona, Valenza, Maiorca, e tutt’altre province ov’era intendimento di levar genti, o portar la guerra; concede per quattro anni le decime dei beni ecclesiastici nel reame di Francia, e nelle province del Viennese, Lione, Liege, Metz, Verdun, Toul, Besançon, Tarantaise, Embrun; e fino in città appartenenti allo impero e altre lontane contrade15. Indi commette al legato di predicar la croce; accorda le indulgenze come in guerra di luoghi santi16; e oltre le decime, anco i legati pii17, e un prestito su le somme già raccolte per l’impresa di Gerusalemme, e altri favori che il re domandava, uno dei quali era richiesto da’ baroni, dichiarando tenuti i crociati a pagar loro le taglie e prestazioni solite18. Ebbe anche le decime ecclesiastiche ne’ suoi dominî Giacomo re di Maiorca e conte del Rossiglione, fratello di re Pietro. Ei volendosi scioglier dall’omaggio feudale alla corona aragonese, avea colto il destro di voltarsi contro il fratello, mostrando d’ubbidire alla Chiesa19. Fu di tanto più vile, che dissimulò a lungo lo accordo co’ nemici della sua schiatta, fermato nell’ottantatrè, riconoscendo anco tener dal re di Francia Montpellier e Lans; e che promise per solenne scritto di dargli i passi della Catalogna, vittuaglie, fortezze, e di combatter contro il fratello: patti d’empietà che giurò sul vangelo20, e che attiraron su la sua patria le più atroci calamità.
Ma Pietro saputa la prima sentenza del papa, e preparandosi a renderla vana coi fatti, volle combatterla anco nelle forme. Richiamossene prima per ambasciadori; dei quali altri dal nimico fu preso, alla romana corte pervennero Arnaldo di Rexach e Bernardo de Orlè21; che esposte le ragioni del re, per lui chiedean sicurtà a difendersi in persona innanti il sacro collegio; e proponean compromesso in cinque principi di cristianità; ma rispinti dal papa assai duramente, protestarono, e della sentenza appellaronsi, scrive il Montaner, a Dio e a san Pietro, con uno scritto in buona forma per man di notaio22. Fantasia che bene sta ai tempi; e nascea da un giusto argomento di re Pietro, comune a’ più alti ingegni di quell’età, e fortemente scolpito in tutte le memorie nostre d’allora, ch’era, distinguer sempre la religione dalla Chiesa; lagnarsi ove occorresse del papa, ma esaltar sempre la fede cristiana. Nè da altro forse fu dettato il motto degli agostali d’oro battuti in Sicilia con l’aquila siciliana nel dritto, e il nome della regina Costanza e sopra quello il motto «Cristo vince, Cristo regna, Cristo comanda;» e nel rovescio l’armi d’Aragona, il nome di Pietro, e su quello «La somma possanza in Dio è23.» Apparecchiavasi come ultimo capo di difesa, per ischivar anco la quistione del dritto della corte di Roma, quella donazione de’ reami ad Alfonso, di cui parlammo di sopra24; ma Pietro non l’usò perchè la lite si trattò poi con la spada. Anzi sentendo la propria sua forza nel navilio, e negli ordini d’entrambi i reami d’Aragona e Sicilia, scherzava su la sentenza del papa, chiamandosi non più re, ma Pier d’Aragona, cavaliere, padre di due re, e signor dei mari25. Con la stessa non curanza e col brio d’un cavalier trovadore, ei poetò in provenzale: turbarlo sì questa mostra de’ gigli; ma si vedrebbe alle prove se gli torrebbero il baston giallo e vermiglio, o se troverebbe la perdizione in Ispagna chi verrebbe a cercarvi la perdonanza: per sè ei non chiedeva armadura in questa guerra, sol che la sua donna lo confortasse con un sorriso26.
Un’altra ambasceria inviò in Francia a dolersi della rotta fede; ove ai suoi legati non pur fu dato di vedere il re27: e lo stesso avvenne alla reina Margherita, madre di Filippo, che parlar volle di pace28. Indarno ancora ne mosse pratiche Eduardo, re d’Inghilterra, prima per suoi ambasciadori in Guascogna, poscia per lettere all’abate di San Dionigi; perchè il legato, ben trascelto da papa Martino, sturbò ogni mite consiglio29. Nondimeno non potè Pietro portar l’Inglese alla guerra contro Francia, che pur non ne mancavano altre cagioni. Non altrimenti gli tornò il chieder soccorsi all’imperatore Ridolfo, profferendo cedergli suoi dritti sulla contea di Savoia, e aiutarlo in Italia contro parte guelfa30. Più assegnamento facea sopra Sancio di Castiglia, da lui favoreggiato nella ribellion contro il padre; il quale or morto, e usurpato il reame da Sancio, venne Pietro con esso lui a spessi abboccamenti, e fermarono aiuto scambievole, e larghe promesse n’ebbe, ma all’uopo non sel trovò31. Nei quali maneggi affaticatosi indarno il re d’Aragona da giugno dell’ottantatrè infino allo entrar dell’ottantacinque, vedea già le armi di Francia alle porte, nè era un sol potentato straniero che si levasse per lui.
Nè meglio avea da sperare in casa, ove a que’ liberi spiriti spagnuoli forte increbbe l’impresa di Sicilia, cominciata senza voler delle corti, compiuta senza pro del reame: che anzi per aver Pietro occupato gli altrui, vedeano in tanto rischio i propri lor focolari; e frugavali anco la paura del cielo32, perchè papa Martino, sapendo non osservato l’interdetto, ribadillo per aspri comandi all’arcivescovo di Narbona33; ond’or vedeansi serrate le chiese, furtiva e tetra celebrar una sola messa ogni settimana, null’altro sagramento che il battesimo ai nati, la penitenza ai moribondi, maledetta miseramente la terra che i lor maggiori aveano bagnato di tanto sangue per la cristiana fede. Perciò in lor dispetto, chiamavan Sicilia l’isola del dolore34. Adontavali inoltre quel cupo governar di Pietro, senza consiglio delle corti nè di uomini del reame, ma d’usciti italiani o sudditi di Sicilia. Ma sopra tutto doleansi delle non osservate franchige, o, come suonano in lor idioma, _fueros_ del paese; della negata restituzione dei beni occupati una volta a torto da re Giacomo; della _quinta_ ossia balzello sugli armenti, che assentito per la guerra di Valenza, ma riprovato dalle corti d’Exea, tuttavia si levava; dell’autorità del _Justiza_ tenuta in non cale; delle turbate giurisdizioni de’ magistrati, e somiglianti abusi. Rinnaspriali il timore di molto scempio in questa guerra; perchè da re Filippo s’aspettavano audacissimi fatti, e spaventava l’oro e la riputazione di Roma35.
Poco appresso l’avventura di Bordeaux questi umori parver fuori, a una prima scorrerìa che re Filippo movea in segno d’animo ostile dal finitimo regno di Navarra, già da lui occupato36. Molte migliaia di cavalli e pedoni francesi entraron per quattro leghe a dare il guasto in terra d’Aragona; nè pur ciò bastava a spuntare gli Aragonesi che al re ubbidissero, sopraccorso in Tarragona, e chiamanteli alle armi. Indi ei convocò le corti a Tarragona. Dove baroni e cavalieri e popolani, con meraviglioso accordo, prepostisi di troncare i passi alla usurpazion del potere, faceano il dì primo settembre milledugentottantatrè gravissimi richiami; conchiudendo, consultasse il re con loro intorno l’imminente guerra. Altero rispose, non reggersi a consigli altrui; richiederebbe le corti al bisogno. Ripigliaron dunque, riparasse gli aggravî; ed ei, che tempo era non a disputare, ma a combattere. A ciò le corti, addandosi che le parole erano niente, secondo lor esempi antichi, strinsersi in una lega, o _giura_, come si chiamava dal giurar tutti, che le libertà della nazione manterrebbero con avere e persone; chi fallasse tal giuramento sarebbe sfidato a duello da tutti gli altri, come fedifrago e vile; tutti difenderebbero i perseguitati dal re senza condanna del _Justiza_ e de’ pari; se Pietro s’ostini, chiamisi al regno il figliuolo; si sforzi con l’arme chiunque ripugni alla lega. Allor Piero con vaghe promesse differì le corti al tre ottobre, in Saragozza: e quivi, trovandole anzi più salde e disposte a qualunque sbaraglio, piegossi a confermar le franchige, sperando pur farsene gioco ne’ fatti; e pronto alle frontiere di Navarra volò. Ma que’ della lega che il conosceano, pria di tornarsi a lor case, adunati nel tempio del Salvadore a Saragozza, rinnovano il giuramento; rafforzanlo con istaggir ville o castella a guarentigia comune; e trascelgono lor deputati col nome di conservatori, che veglino al ben del paese, e richieggano gli altri di entrar nella legaD’Esclot, cap. 132. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 38 e 39, Bart. de Neocastro, cap, 91. Carbonell, Chron, fog. 76. Carbonell scrisse nel secolo XV, ma con gli archivi d’Aragona a sua disposizione. Ei dice che i Catalani furono men baldanzosi verso Pietro, «così ne ottennero maggiori concessioni, o per dir meglio la restituzione di quelle franchige che Pietro avea annullato per collera e naturale avversione. Il Carbonell narra in quest’incontro un fatto assai bizzarro: che i Catalani chiamati al servigio militare, vi si presentarono con le lance senza ferri e le guaine senza spade né pugnali; e richiesti di tale strana apparenza, risposero umilmente: esser così venuti per non fallare il giuramento al re, che avea bruciato lor carte di costituzioni, libertà, e privilegi; e che a rischio di perder beni e persone il seguirebbero così inermi dovunque ei volesse. Pietro, mitigato a tal sommissione, rese le franchige per un diploma dato di Barcellona a dì 11 gennaio 1283 (1284 secondo il nostro computo dell’anno che comincia dal 1º gennaio). Veg. anche Feliu, Anales de Cataluña, lib. 11. cap. 17. L’autor delle Geste de’ conti di Barcellona (nella Marca Hispanica del Baluzio), che è catalano assai caldo, si lagna de’ nobili e comuni d’Aragona che negarono gli aiuti al re, ma non fa parola delle dissensioni civili di Catalogna, che in vero furono men aspre. Del rimanente io ho ritratto più particolarmente quest’abbozzo delle discordie di Pietro coi sudditi dal diligentissimo Surita, il quale, ancorchè non contemporaneo, compilò gli annali su’ documenti e scritti de’ contemporanei; perchè il Neocastro le accenna appena ancorchè con candore; il d’Esclot sa di troppo cortigiano. Montaner, cap. 110, con manifesta bugia loda il grande accordo delle corti di Saragozza col re, e la loro prontezza alla difesa. A un di presso dice il medesimo a cap. 112, per le corti di Barcellona.</ref>.
Queste civili dissensioni d’Aragona non ritrarrò più largamente, perchè fuor del mio disegno sarebbe. Giova sol ricordare, che il medesimo confermamento di franchige assentì Pietro al reame di Valenza; e più volentieri a’ Catalani, quando nel richiesero all’entrar dell’ottantaquattro, assembrate lor corti a Barcellona; perchè lì vedea pronti a seguirlo in tutte imprese, e a’ fatti di Sicilia pensava. Ma sforzato da’ bisogni o dalla sua propria natura, indi a poco raccese gli sdegni con la lega d’Aragona, richiedendo anzi tempo la moneta delle tasse: onde i collegati, spagnuoli quant’esso, adunavansi in arme, spregiavano i comandi del re, da sè trattavano col governador di Navarra e col papa. Più volte poscia, costretto dalla lega, ei con Alfonso erede del trono, ripromesse por fine agli abusi; più volte le promesse eluse. Tardi e male perciò l’aiutarono gli Aragonesi, nella guerra che fuor di loro confini in Catalogna si combattè37. E intanto alle discordie senz’armi si mescolavan turbamenti d’altra indole. Stigato da Francia, ribellossi don Giovanni Nuñez di Lara signore di Albarazzin, ma non ebbe seguito; tantochè quella città dopo lungo assedio s’arrese38. Entratovi il re, aduna quante forze ei può; passa l’Ebro; cavalca a sua volta terra di nimici; e tornane con molto bottino. Indi accomiatatosi con mal piglio dai collegati in Saragozza, sopraccorre a Barcellona, poco men che repubblica, ove macchinava pericolosi movimenti contro i nobili un Berengario Oller, popolano: e i seguaci di costui sperde Pietro con la riputazione del venir suo; dissimula con Berengario; il cattura egli stesso; e lo fa con altri sette impiccare per la gola il dì di Pasqua dell’ottantacinque39. Repente poi tolta con se picciola mano d’uomini d’arme, che non sapeano dove si andassero nè a che, valica i Pirenei; piomba su Perpignano, ov’era il re di Maiorca, già pronto a scoprirsi per Francia, e darle passaggio per lo Rossiglione, terreno di gran momento nella guerra che sovrastava. Occupata da Pietro la città; guardato per lui il castello; Giacomo fuggì da una fogna, lasciando prigioni moglie e figliuoli; e senz’altro aspettare passò a’ nimici40.
I quali, deliberata che fu in Francia la impresa, adunarono da mezz’Europa forze smisurate. Correano al bando della croce e del soldo, Francesi, Piccardi, Provenzali, Guasconi, Borgognoni, Tolosani, Brettoni, Inglesi, Fiamminghi, Alemanni, Lombardi; e più fu l’italica gente nell’armata, di navi pisane e genovesi, oltre quelle di Provenza e Guascogna. Cencinquanta galee, navi di trasporto assai più, e nell’esercito noveraronsi diciassettemila uomini d’arme, diciottomila balestrieri armati da capo a pie’, sopra centomila fanti, e più numero di guastatori, saccomanni, e bagaglioni, e ottantamila vetture; nel che accordansi a un di presso gl’istorici tutti dei tempi, e il grave d’Esclot aggiugne non potersi credere da chi non l’avesse visto con gli occhi. Tardamente questa gravosa moltitudine si adunò alfine a Tolosa, nelle feste di pasqua del l’ottantacinque. Ivi la mostra si fece41; si spiegò l’orifiamma: e la seguiano con molta baronia lo stesso re Filippo e’ figliuoli Filippo il Bello e Carlo, col re di Maiorca, e il legato. Primo stigatore di crudeltà fu costui in tutto l’esercito, quasi ereditando le passioni di papa Martino; e innestavale a natura inflessibile ed efferata. Filippo il Bello, al contrario, da ammirazion di re Pietro fratel della madre, o invidia di Carlo novello re d’Aragona, veniva di mala voglia, guardando bieco il legato. Cominciò l’astio a scoppiare un dì a corte; ove lacerandosi il nome di Pietro, come autor di scandali e più ladrone che re, il giovane aspramente dava sulla voce al legato; e ne bisticciò col padre e col fratello, costui nel calor della disputa chiamando re del cappello, e che sol questo guadagnerebbe dalla concessione del papa. All’entrar di maggio irruppe la formidabil oste in Rossiglione42.
Spartita mosse in sei schiere o piuttosto eserciti; un dei quali col gonfalon della Chiesa ubbidiva al legato. E prima inviperito costui, perchè la sola Elna resistesse nell’occupazion di Perpignano e di tutto il contado, raccende i soldati a metter tutti gli abitatori al taglio della spada; chè contro nimici della Chiesa o non era peccato, o ei l’assolvea. Quindi nè ad età, nè a sesso, nè a religione perdonaron entro la misera villa le genti crociate: e violaron le suore ne’ monisteri, e trucidarono i sacerdoti, e le donne dopo averle sforzate, e infransero a’ muri i tenerelli bambini43, perchè Pier d’Aragona non potesse aiutar la Sicilia, e restasser soddisfatte le voglie di casa d’Angiò, di parte guelfa, della romana corte in Italia. Ma dopo il facil conquisto del Rossiglione, l’esercito forza fu che s’arrestasse alle chiuse de’ Pirenei, sotto il colle di Paniças, donde valicar disegnava, per non discostarsi gran tratto dall’armata e dal mare. A tal intoppo la immensa moltitudine si disordinò: tutti doleansi; molti partiansi dall’oste; i quali a dileggio andavan prima a pie’ del colle con tre sassi, e scagliandoli, «Questo, diceano, per l’anima di mio padre, questo di mia madre, questo alla mia:» e preso un pugno di terra spagnuola, riponendoselo in tasca, «Questo, aggiugneano, guadagnerammi la perdonanza.» Donde il legato, impaziente e inesperto di guerra, tanto peggio sbuffava. Garrì una volta di poco animo i capitani francesi; al che re Filippo non potè starsi, che non rispondesse brusco: gran parlar militare ei facea; prendesse le sue schiere e salisse ei primo le chiuse. Un’altra ne toccò il legato da re Pietro, quando ingiuntogli per messaggio superbamente di sgombrare dalla terra della Chiesa e di Carlo re d’Aragona: «Poco, Pietro lor disse, poco questa terra costa e a chi donolla e a chi l’accettò: i miei maggiori la guadagnavano col sangue; chi la vuole, comprila adesso a tal prezzo44.»
Nè millantavasi il grande, il quale con maravigliosa costanza, audacia, e intendimento di guerra si resse tra cotanta rovina, ancorchè da tutti abbandonato, in pena della sua violenza troppa al comando; chè nè esercito avea per sè, nè flotta, nè danaro, nè zelo de’ popoli. Com’adunata seppe l’oste di Francia a Tolosa, ma non qual via terrebbe, fidando pur nell’indole de’ suoi, che a niun patto non avrebbero sofferto dominazione straniera, chiama all’armi i nobili e le città d’Aragona, che guardino lor confini; ingiunge lo stesso in Catalogna alle città e a’ cavalieri del Tempio e di san Giovanni; a Barcellona con la campana a martello, com’era usanza, leva il popol all’arme. Indi, agli avvisi dell’occupato Rossiglione, corre a quelle frontiere; quivi dà ritrovo a ragunarsi le genti; ed egli, soprastato alquanto a Junquera per esser senza forze, penetrando che il nemico presenterebbesi la dimane, gittasi il dieci maggio a prevenirlo alle chiuse, o almeno morirvi re: con ventotto cavalli soli e settanta pedoni, monta sul colle di Paniças, che risguarda da un canto il golfo di Roses, dall’altro sovrasta a una stretta gola di monti, aspra sì, ma la meno in quelle giogaie. Quivi la notte fe’ porre sparsi e molti fuochi per finger grand’oste; e guadagnati con tale stratagemma uno o due dì, attendovvi poi le genti di Catalogna che s’andavano ragunando; la gola afforzò di ridotti, e munizion di botti piene di sabbia, e massi da rotolare dall’alto. Gli altri passi guardò con le poche forze che tor si potea d’allato; più tosto velette che schiere. Al campo di Paniças veniano a Pietro gli ambasciatori di Bohap, re di Tunis; e quivi stipulossi il due giugno un trattato di tregua e commercio per quindici anni, che dava reciprocamente sicurezza e favore alla navigazione e al commercio de’ sudditi dei due re, compresi espressamente in que’ di Pietro i Siciliani; e fruttava a Pietro il pagamento dell’antico tributo di Tunis alla corona di Sicilia, co’ decorsi di esso non pagati a Carlo d’Angiò. Con tal sicuro animo il re d’Aragona affrontò l’immensa ruina che gli sovrastava! Tenne ben tre settimane a pie’ de’ Pirenei l’esercito di Francia, che una volta fe’ prova a sforzar le chiuse, e funne respinto45.
Ma, come avviene, non mancò (e fu questa volta dei monaci d’una badia tra que’ monti) un traditore che mostrasse altro passo al nemico46 per burroni asprissimi, e però men guardati; pei quali alfine traghettava di mezzo giugno l’oste francese. Allor Pietro, lasciata l’inutil postura di Paniças, muta secondo necessità i modi e gli ordini della guerra; licenzia le genti; vieta consumar le forze a difesa di picciole terre; egli stesso abbandona dietro breve avvisaglia Peralada, che i suoi bruciarono; mal si ritrae se per antivenir nel saccheggio i nemici, o da eroico pensiero del visconte di Rocaberti, signor della terra, ch’altro modo non vedea d’arrestare per poco il Francese. Indietreggiò dunque Pietro per Castellon e Girona; chiamò frettoloso i rappresentanti delle città. I quali vedendo presi dallo spavento ch’erasi sparso per Catalogna, sì che molti si rifuggiano in Valenza, li riconforta con franco volto; spiega ad essi il disegno di spossare il nemico con guerra guerriata; chiede poca moneta per tener insieme poche forze. Avutala, munisce Girona alla meglio di viveri; comanda che sgombrila in tre dì la gente da non portar arme; l’afforza di bastioni e spianate, e d’un picciol presidio di cento cavalli e due mila cinquecento tra almugaveri e balestrieri, sotto il comando di Ramondo Folch, visconte di Cardona. E re Filippo con tutto l’esercito, innondata la Catalogna settentrionale che i popoli abbandonavan dassè, pose il campo a Girona; e, come se fosse compiuto il conquisto, il legato coronò Carlo re d’Aragona; a’ cavalier di lui fu spartito in feudi il paese. Al medesimo tempo tutte le costiere infino a poche miglia sopra Barcellona furono ingombre dallo immenso navilio collegato47, segnalatosi solo per enormezze al capo di San Filippo; ove l’ammiraglio richiamò i miseri abitanti fuggiti al venir suo, e li fece arder vivi ne’ lor casolari.48
Pietro in questo tempo affortificò Barcellona con molta cura; armovvi undici galee; e dava principio a colorire i suoi disegni, richiedendo il militare servigio del reame d’Aragona. Ma dinegatogli per le stesse cagioni dette dianzi; ei fa sembiante di non curar nè ciò, nè i Francesi, nè la corona o la vita: dà a sollazzarsi spensierato in desinari e cacce; sdegnando venirne a più umil patto coi sudditi, e aspettando che l’insulto nimico facesse ciò che il comando suo non potea. E per vero i cavalier catalani, maneggevoli d’altronde, e or più per sentire il fuoco in casa, tra non guari vennero disperati a pregarlo un dì a Barcellona che li conducesse pur contro il nimico; ai quali Pietro fermo rispondea: stare in questa guerra ei solo da una parte, tutto il mondo dall’altra; e con tutto ciò potrebbe da’ presenti danni lampeggiar fuori più viva gloria, se gli uomini non poltrissero. Non era, no, aggiugnea, vergogna di Pier d’Aragona tal nemico guasto di tutta la Catalogna. Ei, sol che avesse un destriero e una spada, saprebbe viver lieto quanto niun cavaliere; e nulla era il regno a lui, ma molto a’ Catalani lo giogo straniero: però non comandava, non isforzava; se voleano, s’armasser pure, ed ei mostrerebbe come farsi la guerra. Ubbidito, ordinolli in due grosse poste a Besalu e ad Hostalric, a fianco del nemico. Talchè punti dagli atroci oltraggi del Francese, adescati dal bottino, i Catalani diersi a infestar tutto il paese intorno intorno all’esercito. La lega d’Aragona pur si mosse a mandar qualche picciolo aiuto. E Pietro a poco a poco levandosi, e pensando anco al mare, inanimito dagli audacissimi fatti de’ suoi corsari, lasciò salpar di Barcellona l’armatetta regia, capitanata da Ramondo Marquet e Berengario Mallol49.
Ma ne’ vasti comprendimenti di Pietro, le fazioni navali, non che restarsi a tal corseggiare, eran parte principalissima di questa guerra; perchè sul mare avrebbe meglio bilanciato le forze l’armata siciliana, sulla quale ei facea molto assegnamento, per le fresche vittorie di Malta e di Napoli, e le genti audacissime, pratiche, leste, la straordinaria virtù dell’ammiraglio. Sapea inoltre il re, spezzata la flotta francese in varie squadre, a guardia di porti o convoglio delle navi, che di Provenza recavan vittuaglie all’esercito: talchè le galee di Sicilia potrebber ferire alla sprovveduta qualche gran colpo; e, intercetti i sussidi del mare, l’esercito affamerebbe nella Catalogna, diserta e infestata per ogni luogo dalle masnade paesane. Perciò Pietro con lettere e messaggi incalzava l’infante Giacomo, incalzava l’ammiraglio, perchè venisse incontanente la flotta; e ad una volta mandò tre spacci, per una galea e due legni sottili, divisi, affinchè se l’uno mal capitasse, non mancasse un altro: sendo in tutte le imprese di Piero, e massime in quest’ultima guerra, maravigliosa la cura ch’ei ponea nell’ordinare e grandi e picciole cose dassè. Comandava ancora al figliuolo d’inviargli il prigione principe di Salerno, come pegno di salvezza nelle sue estreme fortune. Ma Giacomo, ormai tenendosi in Sicilia come re, e non amando privar sè stesso della flotta nè del principe per accomodarne il padre in Aragona, indugiava; nè fu senza comandi più gravi del re, o forse voler dello stesso ammiraglio, che al fine la flotta partì. Eran da quaranta galee, siciliane la più parte, che osteggiando sull’Adriatico, avean preso Taranto e altre città, e speravano acquisti maggiori, quando fu forza voltare per Catalogna. Di questo viaggio narra Speciale, che la vigilia dell’Assunzione della Vergine, navigando presso la Goletta di Tunisi, festeggiavano i nostri con luminarie, com’era costume in Sicilia, ed è anch’oggi. In quel brio avvennesi nel navilio un altro messaggio del re: e, facendo da ciò buon augurio, confortate dall’ammiraglio, più alacri volaron le ciurme a quelle estranie guerre50
[52]51.
Tutta la state tenne fermo in Girona il visconte. Re Filippo moveagli assalto ogni dì; percotea le mura coi gatti, la città coi tiri delle briccole, dava scalate, fea scavar le cortine; ma il presidio punto non se ne mosse, opponendo ingegni agl’ingegni, armi alle armi; e in sortite bruciò le macchine, e i balestrier saraceni con mirabili colpi imberciavano, non pure gli scoperti, ma i riparati dietro macchine o case, e gli infermi per li spiragli delle finestre, e chi che fosse a gittata d’arco con due dita di luce da ficcarvi un quadrello52. E l’oste francese era già scompigliata e consunta. Arsevi, da disagi o aer malsano, una cruda morìa; infierita per la corruzion delle carogne dei cavalli, che a migliaia morivano da punture di tafani velenosi, ingombranti a nugoli la campagna, usciti la prima volta, così il volgo favoleggiò e qualche isterico con esso, dal sepolcro del beato Narciso, profanato dalla nimica rabbia53. Appigliossi la pestilenza al naviglio sì fieramente, ch’entro poche settimane le ciurme s’ammezzarono, e poi scesero al terzo, e più basso54. I Catalani intanto dalle poste di Besalu ed Hostalric scorrazzavano per tutto il paese; rapiano i traini delle vittuaglie, in quella carestia portate per mare a Roses, indi su vetture a Girona; sorprendeano le picciole schiere francesi; tagliavano a pezzi gli sbandati; s’arricchivano delle spoglie; vendeano i prigioni; saziavansi del sangue: infaticabili, pratichi, arrisicatissimi, e crudeli. Il mare stesso non era più sicuro ai nemici, poichè le undici galee di Barcellona, disperatamente investite venticinque delle francesi, rotto aveanle e preso; e indi i privati corsali, inanimiti, uscivan in maggior numero a tentar la fortuna55. Allor Pietro manda intorno la grida della misera condizione dell’oste, e ch’uno sforzo la metterebbe al nulla: fa bandir da Alfonso la levata in arme in Aragona: ei stesso chiamavi i Catalani; da tutti con maggiore alacrità ubbidito, come portava la rivoltata fortuna. Cavalca indi al santuario di santa Maria di Monserrato, famosissimo per tutta Spagna: passavi una intera notte a pregare all’altar della Vergine: e la dimane uscendo la prima volta in campo, come se avvalorato dal Cielo, conduce cinquecento cavalli e cinquemila fanti dritto a Girona; e con quel pugno di gente, in faccia al nimico volteggiò, senz’altro schermo che le acque del Tar. Poggia indi al vicin monte di Tudela; e, abbandonatolo per non parergli opportuno, movea alla volta di Besalu, quando con poche forze trovossi in una terribile zuffa56.
Solo con dodici cavalli, uscito di schiera e di via, la notte innanzi il quindici agosto, andava a dar dritto in una torma di cinquecento cavalli francesi; se non che una parte de’ suoi uomini d’arme e poche centinaia d’almugaveri, che lui smarrito cercavano, s’accorsero de’ nimici. Senz’arnese il re cavalcava. Ma come di qua, di là correr vede e venirsi alle mani, sprona nel mezzo, e grandissime prove fe’ della sua persona. Leggiamo che recisegli le redini del cavallo, accerchiato da molti cavalieri, si sviluppò fieramente, uccidendone molti con la mazza; e che un lanciotto vibratogli da presso, si piantò nell’arcion della sella: che d’Esclot vide con gli occhi suoi l’arcione e la spezzata punta. Aspro l’affronto delle altre genti anco si travagliava: almugaveri leggieri contro gli uomini d’arme, cavalli contro cavalli; dove sopra tutti i bravi lodati di parte catalana veggiamo quel siciliano Palmier Abate, giovane che non avea visto unquemai battaglia, rapito fuor della diletta patria per astuzia del re, e segnalatosi or tanto in sua difesa, che il catalano Montaner lasciandosi portare all’estro della cavalleria, gli altri prodi agguaglia a’ Lancilotti e a’ Tristani, e lui ad Orlando. Straziatisi con tal disperato coraggio Francesi e Spagnuoli, stracchi alfine lasciarono il campo; ed entrambi poi vantaron vittoria. Errore è d’alcuni istorici, che ivi fosse ferito re Pietro. Venne anzi battendo a Besalu, e alle altre poste; continuò a dar gangheri, porre agguati, saltar qua e là intorno allo estenuato esercito di Francia: e pensava anco qualche stratagemma per vittovagliare Girona; quando il ventiquattro agosto, lasciato ogni altro pensiero, a spron battuto volò a Barcellona per lietissimo annunzio57.
E fu questo l’arrivo della siciliana flotta: onde sfavillò Pietro in volto, a vedere nel porto di Barcellona trenta galee, schierate in bell’ordine, dipinte intorno intorno con le armi d’Aragona e Sicilia, luccicanti di scudi e balestre, parate di bandiere, pennoncelli, tende di seta vermiglia su i castelli di poppa; che non s’era più vista, continua il d’Esclot, armata in migliore arredo. Un lietissimo grido misero le ciurme siciliane al vedere il re; che montò su le galee, soppravvide ogni cosa, e si strinse a consiglio con Ruggier Loria. Questi, posato tre dì, sciolse pel golfo di Roses58: e mandonne avviso all’armatetta catalana, che era uscita assai prima a ritrovar briga in quei mari, e le dava caccia la flotta francese.
Menomata dalla mortalità delle genti, e ignara del tutto della sorvenuta armata di Sicilia, la francese avvennesi in lei agli scogli delle Formiche, sotto il capo di San Sebastiano; e Loria la scoperse senza essere riconosciuto da quella: nè altro aspettò, ma spiccata una punta delle sue galee a tramettersi in mezzo la terra e ’l nimico, ei l’investe di fuori col grosso del navilio; ordinate molte fiaccole per ogni galea, perchè non si desser d’urto tra loro, e spaventassero il nimico con la paruta di maggior numero. Ed ecco entrati a gitto di balestra, d’un subito accendon le fiaccole i nostri, levano il grido «Sicilia, Aragona, Maria delle Scale di Messina;» e l’ammiraglio con la prora urta di costa sì fieramente una galea provenzale, che ribaltandola, da cinque o sei uomini in fuori, tutta la gente sbalzò in mare. Poco ressero gli sprovveduti a tal furia d’assalto. Dodici galee scamparono, contraffacendo i segnali de’ fuochi e il motto Aragona e Sicilia; delle altre, qual fu presa, qual diè in secco; restando compiuta la vittoria a’ nostri. In questi fatti a un di presso accordansi tutti gli istorici del tempo, con qualche divario nel numero delle navi e negli ordini della battaglia. Ma le espresse parole degli uni, lo stesso silenzio degli altri, e i fatti seguenti dan fuori ogni dubbio che l’armata siciliana distruggesse quella notte il nerbo delle forze marittime di Francia. Meglio che cinquemila tra Provenzali e Francesi caddero in questo abbattimento delli scogli delle Formiche; e furono pur più felici de’ prigioni, per la spietata rabbia che portavano i tempi, e l’accanimento tra Spagnuoli e Francesi. Prendendo a scernere i cattivi, Ruggier Loria ne tolse cinquanta cavalieri di paraggio, che potean pagare grosso riscatto; gli altri mandò in Barcellona a Pietro: e questi fa legare a una gomena trecento feriti, accomandare il capo della gomena a una galea; e la galea vogò allora, trasse dietro a sè la funata de’ prigioni, e consumò l’orrendo supplizio, a veggente di chi veder volesse, scrive freddo il d’Esclot. Dugentosessanta non feriti fur tutti accecati, d’uno all’infuori al quale re Pietro fe’ cavare un sol occhio perchè guidasse la brigata a Filippo; infermo dell’epidemia, straziato dallo sterminio che la morte in tante orrende guise facea del suo popolo59. Ruggier Loria entro pochi giorni spazzò il rimagnente della flotta nemica, mandate le galee catalane a raccorre quante reliquie se ne ritrovavano a Palamos e a San Filippo; ed ei difilandosi al golfo di Roses, bruciò e prese venticinque più navi; e ponendo a terra, stormeggiò il castello per impadronirsi delle molte vittuaglie serbatevi60. Raro esempio in quell’età di sostenersi da fanti ignudi lo scontro di grave cavalleria, intervenne allo sbarco di Roses. Perchè movendo da vicina terra contro le ciurme di Loria il conte di Saint-Pol con un grosso di cavalli, si circondano i nostri di fossi mascherati, e intorno intorno di gomene tese su’ piuoli, e con l’arme da gitto li aspettano. Piombarono a briglia sciolta i Francesi; e parte ne’ fossi precipitarono, parte respinti da’ ripari si scompigliaro: saltaron fuori i nostri e finirono lo sbaraglio. Il conte, abbattutoglisi il cavallo, fu ucciso; e troncagli una mano, che i nemici poi ricomperavano per settemila marchi d’argento. Rimbarcatosi l’ammiraglio, fece altre ricche prede su i mari; tagliò tutti sussidi di vittuaglie allo esercito61. E allor fu che andato a lui il conte di Foix, chiedendo tregua a nome di re Filippo, negolla Ruggiero superbamente. Disse che, pur accordata dal re d’Aragona, a Provenzali e Francesi ei non osserverebbe tregua giammai; e ripigliando il conte, non salisse in tanta superbia, perchè la Francia potrebbe metter in mare trecento galee: «Vengano, ei riprese, e trecento e duemila; con cento delle mie fidereimi tener tutti i mari; nè legno solcherebbeli senza salvocondotto di re Pietro, nè pesce v’alzerebbe la testa senza lo scudo delle armi regie d’Aragona62.» In questo mentre Ramondo Folch, ch’avea fatto tai prodigi alla difesa di Girona, e a gran pezza non s’era curato della fame, non che delle minacce e promesse del nimico, venuto a stremo di penuria, cominciò ad ascoltar parole d’accordo; di voler anco di re Pietro, il quale nè potea far levare l’assedio per battaglia, nè vedea cagione di gettarsi a tal rischio63. In questa pratica narra una cronaca francese, ch’ito al campo degli assedianti l’arcivescovo di Saragozza, il legato troncavagli ogni parola, fremendo: «Non misericordia, non patti,» quando Filippo il Bello, bruscamente il domandò, che farebbe de’ bambini e delle donzelle prendendo Girona d’assalto? «Muoian tutti,» il cardinale riprese; e il giovin principe a lui: «Niuno muoia, che non può difendersi colla spada.» Indi all’arcivescovo segretamente palesò travagliar peggio gli assedianti che gli assediati; perciò tenesse fermo nel chiedere i patti64: e chi sa quanto operarono sul giovanil animo queste prime ire contro la romana corte, per disporlo all’offesa di Anagni? Il visconte pattuì venti giorni per arrendersi, se non gli giugnesse soccorso; e non avendone, il dì sette settembre uscì con armi e bagaglio e tutti onori di guerra, e ammirazione grandissima de’ nemici65.
Ma nè gioia nè comodo ne tornò a’ Francesi in tal tempo, perchè perduto il mare, la fame finiva già l’esercito, straziato dalla pestilenza e dalla spada nemica; e l’ansietà crescea per trovarsi in pericolo lo stesso re Filippo, che preso dalla morìa nel campo di Girona, per mutar sito non rinfrancossi, e sopraggiunto il disastro della flotta, il sangue gli si rivelenì per tutte le vene. Tra questi travagli comandava Filippo la ritirata, lasciando presidio a Girona. Intanto di Catalogna, d’Aragona, di tutto il reame traeano a gara armati alle bandiere di Pietro; il quale rinfiammò tal zelo con far dassè ciò che per altezza d’animo ostinatamente avea negato nelle più dure strette; ed ora nel montar della fortuna gli era tanto maggior lode. Assembrati i baroni in concione pubblica, egli accetta: queste calamità pubbliche esser fattura sua, e della maligna sorte che gli fe’ chiuder gli orecchi a’ leali consigli de’ baroni: Iddio aver punito il superbo, e trattener ora il flagello levato sul suo capo: ond’ei ripentito, vedendo la man del Signore, chiedea perdono a’ suoi sudditi; consigliava loro di temperarsi nella vendetta sopra i nemici sbaragliati e fuggenti, a’ quali gli Spagnuoli avessero misericordia poichè Dio l’avea avuto di loro: così ei pensava, dicessero lor sentenza i baroni. Col medesimo accorgimento accarezzò gli Aragonesi sopra tutti; e fe’ piangere, dice d’Esclot, di tenerezza quegli animi sì indocili, a tal umile e benigno parlare.
Adunato un giusto esercito, marciando di costa alle reliquie del nemico, giunse al passo di Paniças; e nol contese, dicon gli storici di sua parte, per pietà del re infermo a morte, e preghiere di Filippo il Bello; ma forse perchè metter non volle a disperazione il nemico, tuttavia più poderoso di lui. Ed ecco il trenta settembre66 quattromila cavalieri, che sol tanti ne rimaneano montati, e inutili turbe di fanti, e confusione di salmerie, lasciandosi a dietro, per falta di vetture, tanti doppi più d’arnesi e robe e argenterie, anelanti e mesti ripassavan le chiuse: stretti a schiera i cavalieri intorno all’orifiamma e alla barella del re moribondo, co’ principi del sangue, il legato, e’ principali dell’oste. Ardeano gli almugaveri di dar dentro, e li trattenne il re finchè fur valicati gli uomini d’arme; poi su fanti e bagaglie sbrigliaronsi. Di là dai monti, in Rossiglione, il medesimo scempio nel sangue e nella roba de’ fuggitivi facea Loria, sbarcato con le feroci genti dell’armata; talchè per gran tratto di paese non fu che cadaveri e moribondi di ferite, di morbi, di fame, e assalti, e ladronecci; salvandosi a pena il forte nodo de’ cavalli. Il sei ottobre morì re Filippo a Perpignano: non riportarono in Francia i rimagnenti che lutto, pestilenza, ferite, e peso gravissimo di debito pubblico67.
Ma Pietro, non tardo a usar la vittoria, strignea d’assedio Girona; e voltavasi anco all’isola di Maiorca, dicea, non per vendetta contro il fratello, ma per aver meglio di che fermar la pace con Francia e Roma. Con pratiche tra gli abitatori dell’isola si spianò la via; cinquecento cavalli apprestò con l’armata di Loria, sotto il comando di Alfonso. Erano in ponto a salpare, quando il re partendo da Barcellona per Saragozza il ventisei ottobre, colpito dal freddo del mattino, e preso di violenta febbre a San Clemente, dopo breve fermata, ostinavasi a rimontare a cavallo; ma vinto dal morbo, recaronlo in lettiga a Villafranca di Panadès68. Quivi temendosi già di lui, venne ansioso Alfonso; e il re che non pensava alla propria vita, ma all’impresa di Maiorca, sgridavalo: «A che lasciare l’armata? Or se’ tu medico da stare attorno al mio letto! Di me sia ciò che Dio vorrà, ma tanto più preme occupar di presente Maiorca69.»
Andò dunque l’infante, e se n’insignorì tra pratiche e forza d’arme, con picciol contrasto70. Risplendeva in quello incontro il valore de’ nostri; perchè fortificatisi in una rilevata chiesa fuor la città i più fedeli al re di Maiorca, con Francesi e Provenzali, avean ributtato i replicati assalti della gente catalana e dell’isola: ma quando Alfonso, per pensiero dell’ammiraglio, fece sottentrar nel combattimento i Siciliani dell’armata, «Viva Sicilia» levan essi il grido; danno nelle trombe, e montando su per scale e remi, d’un solo stormo impetuoso fur dentro, e finirono la guerra71.
Nel medesimo tempo navigava que’ mari Carlo II d’Angiò, mandato di Sicilia dall’infante, dice il Neocastro, pe’ comandi risoluti di Piero, e’ consigli di Procida, che ammonialo a posporre a’ doveri verso il padre ogni utilità sua propria e dell’isola; ma piuttosto fu che Giacomo col re fortuneggiante avea disputato, al vincitore ubbidiva
72. Perciò dopo alcune pratiche, che son da supporsi e forse ancora con l’intesa di Roma (ritraendosi data licenza dalla romana corte d’aprile milledugentottantacinque a due frati inglesi Ugone di sant’Edmondo e Gualtiero di Seggefelt di venire in Sicilia per lo re Eduardo a visitare e consolare il prigione73), affrettavasi Giacomo a fare per sè, pria che il prigione gli escisse di mano. Va a trovarlo egli stesso a Cefalù; ottien promessa da lui per impazienza del carcere o saputa degli eventi d’Aragona, che cederebbegli ogni ragione su l’isola, darebbegli sposa Bianca sua figliuola, e con altri parentadi strignerebbersi le due case d’Aragona e d’Angiò. I quali patti, quanto men valeano per la prigionia di Carlo e ’l dubbio diritto di Giacomo a fermarli, tanto più Giacomo volle rafforzar di giuramenti sul vangelo e doppio scritto, l’un per sè stesso, l’altro per ispacciarlo al padre. Allor trascelti i fidatissimi cavalieri Ramondo Alamanno, Simone de Lauro, e Guglielmo de’ Ponti, si fa dar sacramento, che la persona di Carlo rassegneranno a re Pietro; e avvenendosi nel viaggio in forze nimiche, a lor potere difenderansi, ma, sopraffatti, troncheranno il capo al prigione, e gitteranlo in mare, perchè nè anco il cadavere riavessero i nimici. Di Cefalù a Palermo; quindi coi tre cavalieri Carlo s’imbarcò per Barcellona; e giunsevi nelle ore estreme di Pietro74.
Il quale, poichè Alfonso si partì da lui, sentendo la mortal forza del morbo, lasciar volle solenne discolpa della guerra contro il papa, sì come Carlo d’Angiò fatto avea in punto di morte per la guerra suscitata dal papa. Chiamati dunque l’arcivescovo di Tarragona, co’ vescovi di Valenza ed Huesca e altri prelati e baroni, attestò: non ad offesa della santa sede, ma secondo sue ragioni aver preso il reame di Sicilia; le scomuniche acerbe di Martino non aver meritato, ma sì come cristiano osservatole; ed or presso al divin giudizio, chiedeva all’arcivescovo l’assoluzione, promettendo che s’ei campasse, e qui ripigliava le ambagi, obbedirebbe secondo giustizia al pontefice sommo, al quale rappresenterebbesi di persona o per legati. Il giurò; e l’arcivescovo ribenedillo. Consigliato a perdonare i nimici, fe’ liberare prigioni, non però que’ d’alto affare; non mutò il testamento dettato a Port Fangos nell’ottantadue; ad alta voce si confessò a due frati; e poi a grande sforzo surse di letto, mal reggentesi e tremolante, vestissi, s’inginocchiò lagrimando e pregando dentro da sè, ed ebbe l’Eucaristia. Seppe indi arresa Girona; venuto di Sicilia Carlo, che gli restava appena un barlume di sensi, nè potè profferire risposta; ma fe’ croce delle braccia, levò gli occhi al cielo, e il dieci novembre spirò 75. Questo fine ebbe di quarantasei anni, verde di forze, nel maggior vigore della mente, nel colmo della fortuna; vedendo dissipata l’oste di Francia; confuso il re di Maiorca; mancati Carlo, Filippo l’Ardito, papa Martino; il novello re di Napoli nelle sue forze; scompigliato quel reame; la Sicilia sicura e obbediente; la sua flotta signoreggiante il Mediterraneo; per sè la riputazion della vittoria, da por freno in ogni luogo agli stessi suoi sudditi. Grande fu e ben fatto della persona, robusto di braccio, d’animo audacissimo, perseverante, ingegno da abbracciare gran disegni e non saltar le minuzie, scaltrito, chiuso, infaticabile; tutte le parti ebbe di capitano egregio. Gli furon queste nelle cose di stato or vizi or virtù, secondo la giustizia dell’intento, a che mai non attese. Indi la discordia, non da savio, con le corti d’Aragona; le dubbie vie contro i baroni di Sicilia; le frodi e gl’inganni che macchinò con arte profonda; le vendette efferate ne’ suoi nemici, alle quali proruppe per l’atrocità de’ tempi, per la fierezza dell’animo, non curante strazio e morte nè in sè nè in altrui, per la crudeltà della mente assorta negl’intenti politici, fatta cieca alla conoscenza de’ veri beni propri ed altrui, miscredente a’ dritti degli uomini, ghiacciata contro ogni alito di lor carità. Avventurosa la Sicilia che sel trovò nel pericolo, e sen disfece tosto; perchè era di tempra da agognar sempre o fuori o in casa. Gli uomini poi scordarono i danni di quella molesta fortezza, e diergli il meritato soprannome di Grande76. Per questa ragione medesima gli scrittori del tempo, anco i nostri, e fin il sommo poeta d’Italia77, che di tanto fu più grande di quei re combattenti, esaltavano a canto all’Aragonese, l’emolo Carlo d’Angiò, lodato per valor pari e più chiare vittorie, biasimato al paro di slealtà, ma senz’arte alla violenza nè alla frode, onde Pietro, che meglio se n’intendea, lo raggirò e vinse. Più pesante tiranno fu Carlo, invidioso e uggioso ne’ costumi privati, e nello stato avarissimo, connivente ai suoi sgherri, inumano, spregiator delle genti italiane78, calpestator d’ogni dritto, nimico fin dalla prima sua dominazione di Provenza a tutte franchige, anzi odiatore de’ suoi stessi sudditi; e punito del maggior martiro che il Cielo serbar poteagli, mancando di lenta morte, nella rabbia di veder lieta e forte quella Sicilia che straziata lo maledisse, gli rese onte per onte, sangue per sangue, spezzò il suo scettro, troncò il corso alle sue esterne ambizioni, la sua schiatta per due secoli combattè.
Invano ad aiutar questo Carlo intendea con tutto lo sforzo del pontificato, Martino, la cui vita e la morte non sarebber da istorie, se non che preoccupato da umori di nazione e di parte, e ritenendo sotto il gran manto gli antichi ossequi, proruppe ai narrati scandali, onde le due penisole bagnò di sangue, espilò tutte le chiese d’Europa, profanò l’armi della croce.
Da costui suscitato e da volgar vanità e cupidigia, Filippo terzo di Francia corse oltre i Pirenei a guerra disutile e ingiusta; lasciovvi sessantamila vite d’uomini, e la sua stessa; smentì il nome d’Ardito79 con gli smisurati preparamenti e l’esito miserando, e fatto notevol nessuno, se non furon gli ammazzamenti d’Elna e di San Filippo.
Sotto questi quattro principi, mezz’Europa s’agitò per la siciliana vendetta del vespro. Mantennela con vittoria il più debol tra loro, contro le unite forze dei tre potentissimi; tutti mancarono nel medesimo anno ottantacinque; e dalle loro ambizioni altre ambizioni, indi altri mali rinacquero. Ma la Sicilia, sciolta dal legame della comune signoria con Aragona, sola ne restò a guerreggiar contro il reame di Napoli e ’l papa; e s’ordinò con migliori leggi; e per maggiori fatti d’arme rese chiaro il suo nome.
FINE DEL PRIMO VOLUME.
Note
- ↑ Veg. il docum. XIV.
- ↑ In questo tempo stesso Carlo I e la vedova regina di Francia, fecero compromesso per le questioni insorte tra loro, intorno la eredità di Ramondo Berengario conte di Provenza. Diplomi del 10 novembre 1283, e 23 marzo 1284, negli archivi del reame di Francia, J. 511. 3.
- ↑ Docum. XIV.
- ↑ Raynald, Ann. ecc., 1283, §§. 34 e 35.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 394.
- ↑ Bolla del 27 agosto 1283, in Raynald., Ann. ecc., 1283, §§. 25 a 32; e in Rymer, Atti pubblici d’Inghilterra, tom. II, pag. 252 e seg.
- ↑
- Nangis, Vita di Filippo l’Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 542.
- Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 12, in Muratori, R. I. S., tom. XI.
- Veg. anche Saba Malaspina, loc. cit., e Geste de’ conti di Barcellona, cap. 28.
- ↑ Montaner, cap. 79.
- ↑ Docum. XIV.
- ↑ Brevi del 10 gennaio 1284, in Rymer, op. cit., tom. II, pag. 263.
- ↑ Bolla di Martino IV, in Rymer, loc. cit., pag. 267. Nangis, Vita di Filippo l’Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 542, contro i documenti allegati da noi, porta questo parlamento di Natale dell’83.
- ↑ Raynald, Ann. ecc., 1284, §. 5 e seg. Rymer, loc. cit., p. 267.
- ↑ D’Esclot, cap. 136, il quale trasporta questa investitura al 1285, aggiugnendovi del rimanente con grande esattezza quanto sopra si è ritratto dai documenti di Raynald e Rymer. Montaner, cap. 119 e altrove, chiama Carlo di Valois «re del cappello.» Surita, Ann. d’Arag., lib. 4, cap. 41.
- ↑ Raynald e Rymer, nei luoghi citati.
- ↑ Raynald, Ann. ecc., 1284, §§. 4 e 10. Bolla del 5 maggio 1284, negli archivi del reame di Francia, J. 714. 6. Saba Malaspina, cont., pag. 394. Nangis, loc. cit., pag. 542. Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap 12, in Muratori, R. I. S., tom. XI. Le decime estese in Alemagna si ritraggono da un breve d’Onorio, in Raynald, Ann. ecc. 1285, §. 23. Veggansi ancora Nic. Speciale, lib. 2, cap. 1. Bart. de Neocastro, cap. 70, 71 e 91, per questi preliminari dell’impresa d’Aragona.
- ↑ Brevi di Martino IV, dati d’Orvieto, il 10 e il 26 maggio 1284, trascritti in un diploma del cardinal di Santa Cecilia, dato di Vaugirard il 7 luglio seguente, negli archivi del reame di Francia. J. 714, 6. Raynald, Ann. ecc., 1283, §§. 24 e 35.--1284, §. 4. Saba Malaspina, cont., pag. 394.
- ↑ Breve dato d’Orvieto, il 25 giugno 1284, negli archivi del reame di Francia, J. 714, 7.
- ↑ Breve dato di Perugia, il 30 ottobre 1284. Ibid. J. 714, 8.
- ↑ Raynald, Ann. ecc. 1285, §. 25. In questa bolla forse è errato l’anno, o il nome del papa.
- ↑ Diplomi di Giacomo, re di Maiorca, dati di Palayrac, il 16, e di Carcassonne, il 17 agosto 1283, negli archivi del reame di Francia, J. 598, 4, 5.
- ↑ Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 42.
- ↑ Montaner, cap. 104.
- ↑ Lello (Michele del Giudice) Descriz. del tempio di Santa Maria di Morreale, parte 2, pag. 21. Maurolico, Hist. Sic., lib. 1, pag. 15, ed. Messina 1716; il quale aggiugne ch’eran d’eccellente oro, e n’entravan 72 in una libbra. Paruta, Numismatica Sic. in Burmanno, Thes. Ant. Sic., tom. VI, pag. 1231. Vero egli è che nel secol XIII la leggenda «Cristo vince» fu posta in varie monete siciliane, costantinopolitane, e di altri stati; ma sembra che da Pietro fosse scelta apposta all’intendimento che io ho detto; e la rincalzò con quell’altra più significativa «La somma possanza in Dio è.»
- ↑ Veg. il cap. 8.
- ↑ Gio. Villani, lib. 7, cap. 87. Accenno senz’altro una diceria di papa Martino su la deposizione di Pietro d’Aragona, e una risposta di Pietro, scritte in versi leonini, che ho trovato nei Mss. latini della Bibl. reale di Parigi, 2477, fog. 83. Quattordici di questi versi son regalati al papa, quattordici al re; e tutto è manifestamente la fattura d’uno dei più ottusi ingegni del tempo, senza una sola frase che possa meritare attenzione, sia istorica, sia letteraria.
- ↑ Le Parnasse Occitanien, ou Choix de Poésies originales des Troubadours, Toulouse, 1819, pag. 290, 291. Ivi si leggono questi versi di Pietro d’Aragona, e le risposte del trovadore Pietro Selvaggio e del conte di Foix.
- ↑ D’Esclot, cap. 108 e 109. Montaner, cap. 104.
- ↑ Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 52.
- ↑ Diploma del 12 gennaio 1284, in Rymer, Atti pubblici d’Inghilterra, tom. II, pag. 264. La politica d’Eduardo è spiegata in un’altra lettera del 12 gennaio 1283, presso Rymer, loc. cit. Edoardo rispondeva alla regina Costanza, che governando l’Aragona in assenza di Pietro, avea caldamente pregato il re d’Inghilterra a intervenire in suo favore contro le minacce di Filippo l’Ardito. Eduardo promettea di fare a ciò ogni sforzo con le negoziazioni; nessuno con le armi.
- ↑ Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 52.
- ↑ Montaner, cap. 102 e 120. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 34, 47, 51, 59.
- ↑ Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 37.
- ↑ Raynald, Ann. ecc., 1284, §§. 11 e 12.
- ↑ Geste de’ conti di Barcellona, cap. 28, nel Baluzio, Marca Hispanica. «_Quae recte doloris insula nuncupatur_,» scrive della Sicilia il frate cronista, a proposito delle scomuniche e guerre che per cagion di lei erano piombate addosso al suo paese.
- ↑ Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 37, 38.
- ↑ D’Esclot, cap. 106. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 83, 85. Nangis, Vita di Filippo l’Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script. tom. V, pag. 542. Montaner, cap. 111.
- ↑ Surita, Ann. d’Aragona lib. 4, cap. 39, 40, 41, 45, 54, 58, 63.
- ↑ D’Esclot, cap. 117 e 118 Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 44 e 46.
- ↑ D’Esclot, cap. 130, 132, 133. Bart. de Neocastro, cap. 91. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 53 a 55. Montaner, cap. 111, riferisce solamente la scorreria degli Aragonesi in Navarra. In tutti gli altri fatti che gli parean disonorevoli al re, o tace o mentisce.
- ↑ D’Esclot, cap. 134, 135, 136. Geste de’ conti di Barcellona, cap. 28. Bart. de Neocastro, cap. 91. Nic. Speciale, lib. 2, cap. 1. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 56.
- ↑ D’Esclot, cap. 181 e 187. Montaner, cap. 119. Bart. de Neocastro, cap. 91. Nic. Speciale, lib. 2, cap. 1. Gio. Villani, lib. 7, cap. 102. Geste de’ conti di Barcellona, loc. cit. Il cronista dice 20,000 i cavalli, e infiniti i fanti. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 54. Veggasi anche il Nangis, nella Vita di Filippo l’Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 544.
- ↑ D’Esclot, cap. 136. Montaner, cap. 103, 119 e 121.
- ↑ D’Esclot, cap. 137, 138, 140, 141. Montaner, cap. 121. Nangis, Vita di Filippo l’Ardito, loc. cit., pag. 545, che narra le istigazioni del legato, e scrive male il nome di questa città, _Janua_: e il Villani, Janne, nel lib. 7, cap. 102. Geste de’ conti di Barcellona, loc. cit.
- ↑ D’Esclot, cap. 144 e 145. L’autor delle Geste de’ conti di Barcellona, loc. cit., narra anche delle pietre scagliate a voto contro gli Spagnuoli per guadagnar l’indulgenza. Ma non lo dice fatto a dileggio, nè dai soldati, ma dalle turbe inermi, anche di donne, che avean seguito l’esercito a questo solo fine. Trasporta il fatto all’assedio di Girona.
- ↑ D’Esclot, cap. 139, 140, 142, 143 il quale porta il capitolo delle consuetudini di Barcellona, che prescrivea la leva in massa in caso d’invasione. Montaner, cap. 119 e 120. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 53 a 60. Nangis, loc. cit., pag. 545. Veg. il trattato col re di Tunis, in Capmany, Memorias, etc., tom. IV.
- ↑ D’Esclot, cap. 146. Montaner, cap. 122.
- ↑ D’Esclot, cap. 147 a 155. Geste de’ conti di Barcellona, loc. cit. Bart. de Neocastro, cap. 92. Montaner, cap. 123 a 127. Forte da questo tempo Carlo di Valois cominciò ad usare il suggello di re d’Aragona, che si vede in molti suoi diplomi fino al tempo della rinunzia in mano di Bonifazio VIII. Da un lato v’ha il re armato di tutto punto, montato sopra un destriero che corvetta ed è coperto di un lungo drappo sparso a gigli: il re tien la spada in alto e lo scudo al petto in atto di combattere. Dall’altro lato il re siede sur una scranna, in sottana e manto reale, con la corona a punte di gigli, e un giglio alla sinistra, alla destra uno scettro sormontato anche del fiordaliso. La leggenda è: _Karolus Dei gracia rex Aragonie et Valencie, comes Barchinonie, filius regis Francie_. Archivi del reame di Francia, J. 587, e in altri fascicoli.
- ↑ Montaner, cap. 127. Geste de’ conti di Barcellona, loc. cit.
- ↑ D’Esclot, cap. 157. Montaner, cap. 128 e 129. Bart. de Neocastro, cap. 92. Nangis, loc. cit., pag. 546. Chron. Mon. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom. III, pag. 766. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 61 a 63.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 92. Nic. Speciale, lib. 2, cap. 2. Montaner, cap. 112, 129, 135. Veggasi anche d’Esclot, cap. 158 e 165.
- ↑ D’Esclot, cap. 160 a 164.
- ↑ D’Esclot, cap. 160 a 164.
- ↑ Nic. Speciale, lib. 2, cap. 1. Bart. de Neocastro, cap. 92 e 97. D’Esclot, cap. 160. Geste de’ conti di Barcellona, loc. cit. Montaner, cap. 128. Gio. Villani, lib. 7, cap. 102. Nangis, loc. cit., pag. 546. Chron. Mon. S. Bertini, loc. cit., pag. 766.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 92.
- ↑ D’Esclot, cap. 157, 158. Montaner, cap. 128 a 133. Geste de’ conti di Barcellona, loc. cit. Nangis, loc. cit., pag. 546. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 63, 64.
- ↑ D’Esclot, cap. 159. Bart. de Neocastro, cap. 92. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 65.
- ↑ D’Esclot, cap. 159 e 165. Montaner, cap. 134. Bart. de Neocastro, cap. 92. Geste de’ conti di Barcellona, loc. cit. Quivi si legge che Pietro escì col peggio da questo combattimento. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 65. Di questa scaramuccia fan motto ancora Gio. Villani, lib. 7, cap. 103, Nangis, loc. cit, pag. 547, la Cronaca di S. Bertino, loc. cit., pag. 766, Ricobaldo Ferrarese, Francesco Pipino, la Cronaca di Parma, Tolomeo di Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 15 e 16, in Muratori, R. I. S. tom. XI, e l’Anonymi Chron. sic. narrando brevemente la guerra d’Aragona ne’ luoghi citati. Secondo essi, Pietro ebbe una ferita e poi ne morì. Di questa ferita non parlano i contemporanei catalani e siciliani, che potean meglio sapere i particolari, e non aveano ragione a occultar con manifesta menzogna, che un re guerriero morisse di ferita tre mesi appresso la battaglia.
- ↑ D’Esclot, cap. 165.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 93, 94, 95. Nic. Speciale, lib. 2, cap. 3, e lib. 4, cap. 13. D’Esclot, cap. 166. Montaner, cap. 131 e 135. Gio. Villani, lib. 7, cap. 104. Anon. chron. sic., cap. 45. Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 17, in Muratori, R. I. S., tom. XI. Geste de’ conti di Barcellona, loc. cit. Surita, Annali d’Aragona, lib. 4, cap. 68, che cita un diploma di re Pietro, relativo al numero de’ nemici morti in questa battaglia. Di questi scrittori, il Neocastro porta a 36 il numero delle galee siciliane, più le 12 catalane di Marquet, che secondo lui si trovarono nella battaglia. L’armata francese era di 40 galee, oltre 15 lasciatene a Roses. Riferisce la particolarità delle 18 galee mandate da Loria a porsi tra la terra e l’armata francese, e delle 30 rimagnenti, con le quali ei di fuori assalì, con le fiaccole accese. Lo Speciale dice 40 le galee di Loria, 10 le catalane, non assegna il numero delle francesi, ma lo confessa un po’ minore. D’Esclot porta a 30 le galee siciliane recate da Loria, 4 che vennero a raggiugnerlo di Sicilia, e 10 catalane; e oltre a queste, 48, tra saettie e altri legni sottili. Le galee provenzali secondo lui furono 25, ma sì ben armate d’uomini, da valer 40 galee ordinarie. Montaner dice, 80 le galee tra francesi e italiane, 66 quelle di Sicilia, e che l’armatetta catalana non si trovò nella battaglia. L’autor delle Geste de’ conti di Barcellona, tacendo i particolari, afferma pur l’importanza della cosa; cioè, che Ruggier Loria presso Roses distrusse tutta la flotta nemica, e prese l’ammiraglio G. de Lodeva. Gli altri o forniscono men particolari, o son da attendersi meno. Ma tra’ cinque sopraddetti, e massime tra Montaner e d’Esclot, è grandissima la disparità quanto al numero delle navi francesi. Io terrei pel d’Esclot, che suol essere più veridico del Montaner e più informato; ma mi fa molta specie: 1º. ch’ei non dice il luogo della battaglia, indicato dagli altri con esattezza, ancorchè i più minuti la portino alli scogli delle Formiche, e gli altri al capo di San Filippo, che son luoghi presso il capo di San Sebastiano: 2º. ch’ei confessa, al par che tutti gli altri senza eccezione, distrutta in questa battaglia la flotta francese, da lui portata di sopra a 150 galee; onde ancorchè si voglia supporre disarmata la più parte, e menomate le ciurme, non è probabile che perdute 13 galee delle 25, Filippo l’Ardito non avesse potuto con le 12 fuggite ristorare una flotta uguale almeno a quella di Loria: 3º. che il numero de’ morti, e de’ prigioni, ch’ei porta a 5,560 e si dee riferire nella più parte alle galee prese, fa sempre supporre la flotta francese assai più numerosa di 25 galee. Computando a un di presso per 210 l’equipaggio d’ogni galea munita al doppio del solito, com’ei dice in questo incontro, e avea già riferito della battaglia di Malta del 1284, si avrebbero da 26 le galee prese o affondate alle Formiche, come furon 12 senza dubbio quelle guadagnate a Malta, le cui genti montavano a un di presso a 2,600 uomini secondo il numero de’ prigionieri e de’ morti che assegna d’Esclot, anche aggiugnendovi tanti altri feriti quanti morti, e non contando que’ delle 8 galee fuggite con Bonvin alla detta battaglia di Malta: 4º. che finalmente i vanti di Ruggier Loria riferiti dallo stesso d’Esclot e gli effetti della battaglia, mal s’accorderebbero con la facile vittoria di 44 galee e tanti altri legni contro 25 galee. Perciò io penso, che il testo del d’Esclot sia stato corrotto da qualche copista, e che si debba creder poco disuguale la forza delle due armate, forse di 40 galee nella nemica, e di poche più nella siciliana; stando al Neocastro il quale si mostra assai bene informato, e poteva esserlo. Ei sbaglia solamente, se non è questo un errore del copista o dell’editore della sua istoria, il giorno della battaglia, che dice avvenuta il 1 ottobre 1285. Credo senza dubbio che seguì nel primo o ne’ primi di settembre, da’ riscontri di d’Esclot, Speciale, e della ritirata de’ Francesi, che fu conseguenza di questa battaglia, ed avvenne certamente in fin di settembre.
- ↑ Montaner, cap. 136.
- ↑ Nic. Speciale, lib. 2, cap. 4. Bart. de Neocastro, cap. 95. La sconfitta de’ cavalli francesi a Roses è riferita anco dal Montaner, cap. 136.
- ↑ D’Esclot, cap. 166.
- ↑ D’Esclot, cap. 165. Nangis, loc, cit., pag. 546.
- ↑ Chron. Mon. S. Bertini, loc. cit., pag. 766.
- ↑ D’Esclot, cap. 167. Geste de’ conti di Barcellona, loc. cit.
- ↑ Fu questo dì nel 1285 la prima domenica appresso san Michele, nella quale incominciò secondo il d’Esclot il passaggio dell’oste francese.
- ↑ *D’Esclot cap. 166 e 167.
- Montaner, cap. 137, 138 e 139.
- Bart. de Neocastro, cap. 97.
- Nic. Speciale, lib. 2, cap. 5.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 105.
- Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 15 e 17, in Muratori, R. I. S., tom. XI.
- Nangis, loc. cit., pag. 548.
- Cronaca di Parma, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 807.
- Ricobaldo Ferrarese, ibid., pag. 142.
- Francesco Pipino, ibid., pag. 693.
- Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 69.
- Geste de’ conti di Barcellona, loc. cit.
- ↑ D’Esclot, cap. 168. Montaner, cap. 140, 141, 142. Bart. de Neocastro, cap. 97, 100. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 71.
- ↑ Montaner, cap. 143.
- ↑ Montaner, cap. 144. Bart. de Neocastro, cap. 97.
- ↑ Nic. Speciale, lib. 2, cap. 6.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 99.
- ↑ Diploma in Rymer, Atti pubblici d’Inghilterra, tom. II, pag. 296.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 99; ed a cap. 112 replica questi patti la bocca dello stesso Carlo, quando liberato vedea per la prima volta il papa. Montaner a cap. 115 narra con manifesto anacronismo questo passaggio di Carlo lo Zoppo in Catalogna. Il Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 72, afferma che ci fossero strumenti pubblici de’ preliminari di Cefalù. In un breve d’Onorio IV, dato il 4 marzo 1287, presso Raynald, Ann. ecc., detto anno, §. 6, si legge che Carlo lo Zoppo, essendo prigione in Sicilia, avea trattato la cessione di quest’isola con le adiacenti e la diocesi di Reggio. Veggasi anche Rymer, Atti pubblici d’Inghilterra, tom. II, bolla di Niccolò IV, data a 15 marzo 1288.
- ↑ D’Esclot, cap. 168.
- Montaner, cap. 145, 146.
- Geste de’ conti di Barcellona, loc. cit.
- Nic. Speciale, lib. 2, cap. 7.
- Bart. de Neocastro, cap. 100.
- Cronaca di Parma, Ricobaldo Ferrarese, Francesco Pipino, ne’ luoghi citati.
- Bofarull, tom. II, pag. 245, non porta di Pietro altro testamento che quello di Port Fangos.
- Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 71, il quale contro il detto del Montaner prova che Pietro non fe’ altro testamento. Così dunque non die’ alcuna ultima disposizione per lo reame di Sicilia, evitando un passo che l’avrebbe privato della assoluzione della Chiesa, e non lasciando men saldo sul trono di Sicilia Giacomo, fatto riconoscere già dal parlamento di Messina. In morte d’Alfonso senza figliuoli, sostituì al trono d’Aragona successivamente Giacomo, Federigo, e Pietro.
- ↑ Queste particolarità son cavate da tutti gli storici del tempo che inutile sarebbe citare. Alcune ne dobbiamo al Surita, lib. 4, cap. 71.
Quel che par sì membruto, e che s’accorda
Cantando con colui dal maschio naso,
D’ogni valor portò cinta la corda.
. . . . . . . . . . . . . . .
Tant’è del seme suo minor la pianta,
Quanto, più che Beatrice e Margherita,
Costanza di marito ancor si vanta. - ↑ Purgatorio, canto 7.
- ↑ Questa particolarità è riferita da Francesco Pipino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, cap. 19.
- ↑ Morì fuggendo e disfiorando ’l giglio. Purg., c. 7