La umanità del figliuolo di Dio/Libro quinto

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Libro quinto

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LIBRO QUINTO

1
Al saper alto, al ragionar eroico
mentre salir contendo e vi frenetico,
intronami una voce: — A ch’esser stoico,
uomo, t’importa over peripatetico?
che vaiti fra l’Olimpo e ’l mar euboico
ber, senza trarne sete, rio poetico?
a che spiare il ver da quegli uomini
che di menzogna fúr maestri e domini ? —
2
Chi crederebbe ch’oggi tanta insania
l’acquistata Vertu confonda e vapoli?
Ché se partimo a ritrovar Betania
per questo nostro mar da Roma o Napoli,
ecco, a man torta dal Parnasso, Urania
scuopre Elicona acciò che lá ci attrapoli ;
e noi che per Giordan lasciammo il Tevere
piegamo a lei per di quell’acque bevcre.
3
Acque fallaci! quanto piú bevemone,
piú di Tantalo a labri si rinfrescano;
acque dove le ninfe lacedemone
agli ami occulti nostre voglie adescano !
Cosi non mai dal nero il bianco demone
sceglier si sa; non Tonde mai si pescano,
donde a la destra del picciol navigio
Piero trasse di pesce un gran prodigio.

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4
Però, dal mio signor se detto siami:
— Spirto di poca fé, tu ancora dubiti? —
scusarmi non saprò quando che fíámi
concesso por le dita insino a’ cubiti
nel suo costato e trarne un zel che diami
svegghiati sensi ed al ben creder subiti.
Non si dé’ star d’Egitto piú nel greniio,
ma gir col nostro Mòse al certo premio.
5
Assai d’oro forniti e perle carichi
debbiam di Faraon scampar la furia,
né si leggeri paiano i rammarichi
che s’ebber ne la sua dannosa curia,
che nel deserto alcuno in Dio prevarichi,
rimbrottando Moisé con questa ingiuria:
— Mancaron dentro Egitto forse i tumuli,
ch’a morir noi per questi sassi accumuli? —
6
Ma non cosi l’Alma gentile improvere
a chi ’l mar sciuga e vi traporta il popolo;
ch’avegna sian le prime arene povere
ove l’antiche giande solo accopolo,
seguitiam pur, ch’alfín vedrassi piovere
manna dal cielo ed acqua fuor d’un scopolo,
che, cominciando a berne li cristigeni,
sapran se nocque usar con gli alienigeni.
7
Deh, non ci chiuda il passo a’ rivi ch’ondano
di latte e mèle nostra ingratitudine !
rivi, che noi di lebra e scabia mondano
contratta dianzi ne la solitudine.
Oh di qual mèle i petti nostri abondano
ch’assaggian pria di fel l’amaritudine!
Venite dunque, o voi ch’avete livido
di sete il viso, a ber del fonte vivido !

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8
Alzando un giorno gli occhi a l’infinito
numer di turba il Re di gioie eterne,
lasciarla si dispon nel basso lito
perché non tanta in lei vertè discerne,
che possiane montando esser seguito
al poggio, ov’ha d’aprir le vene interne.
Chiama sol dunque i duodeci sul monte
ov’alte cose e degne fien lor cónte.
9
E che di pregio sian ad esser quelle,
l’uscir del volgo a l’erta è segno e nota;
e quivi di Moisé fra le piú belle
figure or questa apparve sciolta e nota,
quand’esso, col Motor de l’alte stelle
avendo a ragionar, lasciò rimota
nel piè di Sinai la gente ingrata,
poi crebbe in alto a tór la legge data.
10
Iesu giá su l’altezza, in atto umano
tutto suave, facile e gentile,
fermasi ad una pietra un poco aitano
piú di quel suo senato tanto umile;
cui fatto cenno di tacer con mano,
apri quell’alma voce a un grave stile,
quell’alma voce che giá ’l primo mondo
a un detto fece, or sciolse a lo secondo.
11
— Beati — dice — quei che volontaria
non han pur questa povertade esterna,
ma con maggior fortezza in tanto varia
e fragil vita ottengono l’interna!
Povero spirto è quello che non d’aria
va pregno e gonfio, ma nel cor s’interna
de l’umiltá. Però sol io revelo:
A questi sta l’imperio del Vangelo!

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12
Quei son beati ancor, che dolci e miti
fuggon nuocer altrui e far lor onte;
anzi, di mal voler franchi e spediti,
senza torcervi gli occhi o alzar la fronte,
soffron de’ rei gli oltraggi, gli odii e liti,
né voglion che su l’ira il sol tramonte.
Costoro han seco, e non altronde, guerra,
fatti signor del corpo suo eli’ è terra.
13
Non men color felici che ’n lor breve
fugace tempo han guance sempre molle
di fruttuosi pianti, che qual neve
dal capo lor, come d’aprico colle,
con gran dolcezza il petto a sé riceve,
tratti de l’alma fuor per le medolle.
Oh quanto si consola e ’n Dio rinasce
chi di sospiri e lagrime si pasce!
14
E fia per quei ben anco, i quai dolere
de’ casi altrui per caritá si sanno,
e, piú che di consiglio e buon volere,
d’effetti aiuto a’ travagliati danno:
essi dal Padre mio sempr’ottenere
per guiderdone il simile potranno,
si che del ciel fian degni, e ’l ciel di loro,
che gode in sé d’accrescer il tesoro.
15
E quegli ancor di Dio fian veri figli
in questo breve stato, e a quel dissopre,
i quai con fermi ed utili consigli
di pietá con amor, di fé con opre,
le risse altrui, gli morsi e duri artigli
vanno acquetando, si ch’alfin si scuopre
la bianca pace; pace, non men caro
tesoro a lor che argento ad uomo avaro!

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16
Ma perché i rei via piú de’ buoni sono
(ché molto a quella parte questa cede),
di pace non s’acquista il caro duono
se pazienzia non vi cape e siede.
L’usar del rio nulla convien col buono,
ed ove si sconvien, la gara è in piede:
chi sotto ’l peso indurasi le spalle
non ha piú sconcio il poggio che la valle.
17
Son genti si conforme a bestie tanto,
si l’altrui pace a disturbar malnate,
che furibonde piú s’adiran quanto
piú sono a la concordia richiamate.
Non possion tuttavia donarsi vanto
che pace a vostra voglia non abbiate;
anzi piú che porranno a voi l’ insidie,
piú vostre lodi fian, piú loro invidie.
18
Non mai potranno Tonte de’ ribaldi
se non fortificar la mente vostra:
beati voi se ’n ciò vi vegga saldi,
ché ’n rotto mare il buon nocchier si mostra!
E se di fé piú vi comprenda caldi,
piú che per me vi cresce l’altrui giostra,
per me stracciati e morti ne verrete,
ma sempre in ciel per me voi goderete.
19
Gl’insulti lor v’accresceranno gloria
negli occhi al Padre vostro, agli omin’anco:
non che n’abbiate fumo alcun di boria,
eh ’affetto tal non va di colpa franco.
Giá non poria di voi perir memoria,
ché non fu sforzo ai tiranno unquanco
che smover vi potesse dal proposto
che ’nspiravi l’amor di tanto costo.

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20
Poi ch’io v’elessi al mondo ed a la terra
che siate a quello il sole, a questa il sale,
l’onor, che a tal impresa in voi si serra,
o ch’ogni ben cagiona o ch’ogni male
(ché, come d’ogni male il dottor ch’erra,
tal d’ogni ben dá norma chi è leale),
non possion l’opre vostre se non cónte
parer ’n terra qual cita sul monte.
21
Arda pur sempre il lume al candeliero
che se ne serva tutta la famiglia;
spargetelo non finto, ma sincero,
e qual non abbarbaglie l’altrui ciglia;
o sia ’l dir vostro dolce o sia severo,
si come il tempo e ’l luoco vi consiglia,
dite quant’erra il mondo, e dite aperto
ch’io via di vita sono al premio certo!
22
Non che venuto sia qua giú dal cielo
la legge per slegar ch’io diedi a Mòse
né raderne un quantunque picciol pelo;
anzi adempierla voglio; e quelle cose,
c’ hanno adombrate i farisei col velo
di loro impure ed inoneste giose,
ridurle m’apparecchio, e ciò ch’io dissi
dir meglio, e meglio scriver ciò ch’io scrissi;
23
ma non in fragil pietra, eh ’ad un vano
e stolto popol Mòse dar piú 1’aggia
o fiaccarle qualora il volgo insano
mezzo al deserto in idolatria caggia.
Impresse dunque fian nel core umano;
e Fede, di lor mastra e guida saggia,
meglio di Mòse intiere serberalle
ed al timor rivolgerá le spalle.
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24
La legge non fu mai né fia signora
bastante di far buono e giusto l’uomo
e scuoter lui de la prigione fuora
ove rinchiuse il mal serbato pomo,
a tal che ’n suo poter fin a quest’ora
non ha donde soggioghi quell’ indomo
nemico di giusticcia o quel tiranno
peccato suo, ch’incatenato l’hanno.
25
Però la fede candida e vivace,
fatta per me del regno mio possente,
dal fango, da li ceppi ove sen giace
l’addottivo figliuol cosi vilmente,
ha forza di levarlo, e ’n grazia e pace
del Padre mio ridurlo amabilmente:
cosa che non mai fece né far puote
colei che non risana e sol percuote.
26
Ma dove vi parrá ch’i’ accresca o scemi
cotesta legge o ch’alteri le carte,
riconoscete ben che li medemi
spirti non son del mondo in ogni parte,
e che mi è vuopo fra gli quatro estremi
diversi lidi por gran studio ed arte
ch’a tutti fia del del facil salita,
né legge sia d’un iota isminuita.
27
Essa d’un popol solo giá fu legge,
d’un popol solo neghittoso e ingrato:
però fu acerba, ché non si corregge
se non con battiture l’ostinato.
Or che da me son l’ infinite gregge
di vario sangue, di costume e stato
da riformar, qual savio pegoraro
rammesco il nuovo dolce al vecchio amaro.

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28
Al medico sta ben nudrir l’infermo,
anzi purgar con cibi orrendi e schivi,
né usar vi può di questo meglior schermo
acciò di vita il tristo umor noi privi;
ma poi che ’l rende in esser lieto e fermo,
cessan quei sughi strani allor nocivi.
Varian gli studi al variar de’ tempi:
cui giovan le parole, cui gli essempi.
29
Or dunque acciò eh’ inprima conosciate
qual differenzia ch’eggio fra gli miei
seguaci e quei di Mése di bontate
(io parlo agli altri si come a’ giudei),
diròvi chiaro: Se non abondate
piú di giusticcia che essi farisei,
che scribi piú, non son per farvi torto,
se del mio regno non corrovvi in porto !
30
Che non s’uccida è scritto per mandato
de’ piú solenni, e n’ ha giudiccio cura.
Qual popol, dite, prego, è si ciecato,
ch’a questo far non torcalo natura?
Pur crede il fariseo che ’n ciò montato
sia sopra di giusticcia, e non si cura
un grado piú levarsi a l’alta cima
d’amor che sopra legge altrui sublima.
31
Però vi spiano che non sol chi ancide,
ma chi s’adira in voglia ferma e certa
d’ancider suo fratello e vi s’asside,
costui non men de l’omicidio merta
d’esser punito; anzi dirò: chi stride
con voce d’ ira, o pur con fronte aperta
o simulata il beffa e n’ha diletto,
sia del concilio al tribunal suggetto!

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32
Non so come ’l giudeo garrir qui vaglia
ch’abbia rimosso quel precetto antico.
Stassi nel seggio suo né lo stravaglia
né smovelo quest’altro ch’or vi dico.
Il buon scultor che l’omicidio intaglia
finge com’esser dé’ l’uom, eh’ è nemico:
bruttagli il viso e attoscagli la lingua
dond’esca la cagion che ’l frate estingua.
33
Però tu ch’ai Vangelio mio t’accingi
per fartivi di me fedel seguace,
guarda ch’offrendo al tempio non attingi
l’altar di Dio, se la disciolta pace
del tuo fratello in prima non ravvingi,
s’avien ti stia ne l’ira pertinace;
ch’assai fra voi piú Dio concordia chiede
che quante gregge il tempio suo gli fiede.
34
Ma s’alcun forse trovi si perverso
che teco ingiustamente voglia lite,
e proveduto chiamati lá verso
dove le cause vostre sian udite,
disponti via piú tosto d’aver perso
ciò ch’esso perder dé’, che mai sian trite
del tribunal le scale a far contesa
ed in prigion ne paghi poi la spesa.
35
Quinci de l’uman sangue il danno pende;
quel de l’onor, che ’mporta piú, succede.
Natura, non che legge, ti contende
donna toccar che sia sott’altrui fede;
onde chi con effetto ciò trascende
da sassi morto fia senza mercede.
Or dico, chi la moglie altrui sol brama,
giá, dentro il core, adultero si chiama.

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36
Corri’ è cagion de l’omicidio l’ira,
cosi de l’adulterio il senso molle;
ché se ’l destr’occhio tuo sfrenato mira
quel che per lui t’incende le medolle,
o se a quel stesso la tua man ti tira
scriver la fiamma che nel cor ti bolle,
privati di tal vista e d’esse note,
mentre piú dentro il mal non ti percuote.
37
Qual è chi neghi esser di nullo o poco
danno perder piú tosto un occhio o mano
ch’avere ad esser ne l’eterno fuoco
riposto alfin con tutto ’l corpo sano?
Stravágliati mentr’hai col tempo il luoco,
ché poi cerchi rimedio, e cerchi invano!
Peste non è piú da salute smossa
di quella cui dai spazio entrarti Possa.
3S
E se pur del consorzio feminile
viver digiuno apparti faticoso,
giá ’l vincol hai del matrimon gentile.
Ma, vedi! a sciòrlo poi non esser oso,
ch’avegna d’una legge sia lo stile
per ogni picciol atto dispettoso
slegarlo del ripudio col libello,
or Putii universo rinovello.
39
Il qual ti vieta di puoter tal nodo,
se non per adulterio, sgiunger mai:
altra cagion di questa giá non odo.
Non la mi dir, ch’io l’ho sofferta assai;
ché se nuovo marito in cotal modo
ad altra moglie giungerti vorai,
adultero ti tengo e stupratore,
e cade altri per te nel stesso errore.

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40
Non t’ammirare, o schiatta circoncisa,
s’allora in ciò ti fui troppo suave !
Stando in Egitto di vii fante in guisa
prendesti! assai di loro usanze prave;
donde fu quella che la moglie uccisa
era per qual si fosse error men grave.
Ond’io, perché dal sangue t’astinessi,
quel tal ripudio un tempo ti concessi.
4 ‘
Io t’allattai con mille lusinghette
perch ’eri, e fosti, ed ora sei fanciulla;
non piú poltroneggiar ti si promette
nel sin d’ocio nutrita, e ne la culla
non sempre per te sola si dimette
a far quell ’util ben, che ’l manco annulla.
Ho che far altro e da chiamarne tanti:
se vuoi venir, ti vien’; se no, rimanti.
42
Né di’ che sei la prima, e l’altre sprezzi,
l’altre mie nazion, che mie criai;
e s’hai perché te stessa avvaliti e prezzi,
non è per tuo ben far, perché noi fai;
anzi con tanta sicurtá t’avvezzi
bruttarmi gli occhi, e roscior non hai:
di che tua puzza vuol che di soprema
diletta mia figliola sii l’estrema.
43
Simil è ’l regno mio del cielo al padre
de la famiglia, ch’esce a prima aurora,
che, avendo alcune viti sue leggiadre,
gli operator vi mette d’ora in ora,
perché la molle e d’ogni vizio madre
ociositá di molti l’addolora,
e, come vago de l’altrui guadagno,
condúcevi ad oprar piú d’un compagno.
T. Folengo, Opere italiane - li.
io

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44
Patteggia d’un denar con loro al giorno,
ed a le zappe dan di mano e rastri.
Va circa l’ora terza e vede intorno
molti ociosi andar con lor vincastri.
— Che fate — disse lor — qui voi soggiorno,
se siete di conciar le vigne mastri?
Andate al mio poder, ché la vostr’opra
paga vi fia del patto e forse sopra ! —
45
Non molto spazio andò, ch’ad ora sesta
gli sovragiunser molti, e molti a nona.
— Quest’ocio vostro — disse — mi molesta,
da cui giamai non esce cosa buona.
Itene lá, ché ’1 modo vi si presta
non pur di cacciar quello, ma si dona
il piú de l’oro precioso tempo,
conosciuto non mai se non col tempo ! —
46
Or su l’undecim’ora, che giá ’l sole
d’un emisfero a l’altro si disgrada,
mentr’ei ritorna e far non so che vuole,
trova molti a seder in su la strada.
— Ahi — disse lor — quanto di voi mi duole
che fuggon l’ore e pur qui state a bada!
perché d’altrui non vi tenete ascosi
piú tosto eh ’esser tristi ed ociosi?
47
Non v’è giá occulto che ’l destin umano
tal è: «Chi non lavora non manduca»? —
Risposer quegli: — Anzi porremo mano
ad opra, s’alcun fia che ne conduca;
ma per venir qua noi d’un regno strano,
nostra vertú non ha dove riluca. —
Mosse a pietá quel giusto e lor condusse,
tutto che ’l mezzodi voltato fusse.

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48
Mirate s’è bontá, figliuoli, a quella,
s’è tale amor! Vien tarda l’opra loro,
e nondimen s’attrista e si flagella
quell’animo gentile ed ha martoro
ch’indugi al bel lavor colei eh’ è bella
de l’altre piú come del fango l’oro,
dico l’alma de l’uom, che ’n ben oprare
sola si fa de l’altre singolare.
49
Venuta l’ora poi eh a la sua pace
vanno col di le cure de’ mortali,
commette al suo procurator sagace
ch’a le fatiche renda i premi eguali;
e benché alcun fu tardo, pur gli piace
che i deretan, non men che i principali,
abbian il suo danaro, acciò ch’allegri
sian per innanzi a l’opere, ncn pegri.
50
Cosi quel valentuomo al suo signore
non men fedel che caro sodisfece.
Ma degli primi un c’ha malvagio il core,
pregno d’invidia, inanti gli si fece
dicendo: — Il tuo ministro ha fatto errore,
c’ han sempre i pari suoi le man di pece.
Non sai ch’a noi né piú né meno ha dato
ch’a lor ch’una sol’ora han lavorato?
51
Questa fraude d’ un servo di famiglia
che porge al nome tuo se non incarco?
Mira che ’n ciò non s’abbia meraviglia,
parendo avaro in quel che fosti parco!
Noi, da che aperse al mondo il sol le ciglia
fin che serrolle, abbiam portato il carco;
e questo sanno i vepri, cardi e lappe
c’han provato il valor di nostre zappe.

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52
Cotesti forestieri, c’hanno a pena
svelti con mano alquanti cespuglietti,
si veramente fecer si che piena
debbian portar la borsa a’ loro tetti? —
Rispose il savio: — S’hai di questo pena,
com’è viltá d’invidiosi petti,
che poss’io far? nessun ha che dolersi
perché non gli sia dato quel ch’offersi.
53
Or dimmi, amico, a chi vorá tenermi
di dar lo mio dove ’l desio mi sprona?
perché d’ invidia li mordaci vermi
ti rompon si per ch’aggio mente buona? —
Cosi ragiono a te, Giudea, ch’affermi
portar sola nel mondo la corona,
ché i primi andran postremi, e degli tanti,
domandati da me, fian pochi santi!
54
Non che da’ miei discepoli si cerchi
per qual si sia cagione i primi scanni;
ma tu, che sol di Dio la grazia merchi,
scorre con umiltá questi poch’anni!
Non voglio che di grado alcuno alterchi
o se ti pongon ultimo t’affanni;
ché piú d’onore avrai salir in alto
che d’alto fare in giú con scorno un salto.
55
Pensi tu ancor di colpa andar sicuro,
se ben ti guardi sol di spregiurare?
Anzi d’ogn’ altro giuramento puro
la libertá ti tolgo. Non lo fare;
ché se mai vien ch’alcun tra l’uscio e ’l muro
t’astringa quel eh’ è vero a confessare,
non giurar, no, ch’ai Padre mio non piace:
se si, di’ «si»; se no, di’ «no»: poi tace!

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56
Al viver tuo lodato, ai be’ costumi
darassi fede senza giuramento:
s’anco ribaldo sei, né mar né fiumi
né monti né celeste adornamento
né ’l capo tuo per cui giurar presumi
saranno» di fede in argomento.
Vivi tu giusto e non giurar; ché, senza,
o «si» o «no» che dica, avrai credenza!
57
Ma che dir voglio di quel forsennato
ch’esser si persuade si prudente,
che col vigor di legge e del senato
per cambio vuol che perdi od occhio o dente,
se d’occhio o dente avien che lui privato
abbia per caso o pur saputamente?
Non cosi voi, figliuoli miei, ch’avete
ad esser di bei fatti una parete.
5S
Magnanimo guerrier, sol quello attendo
ne le cui mani l’arme mie sian pòrte,
ch’altro non fan se non che, resistendo,
con pazienzia l’onta si sopporte;
si che voi d’ogni mal quantunque orrendo,
d’ogni quantunque dispietata sorte
bersaglio elessi, statene costanti,
ché brevi ad esser hanno i vostri pianti !
59
Il grave osservator del mio Vangelo,
che dal volgar costume si sequestra,
per mille oltraggi non si muove un pelo:
ma s’è chi ’l batta ne la guancia destra
(riconosciuto il duon che vien dal cielo),
anco a la man gli porge la sinestra;
e, se non basta un manto a chi lo spoglia,
abbiasi l’un e l’altro a piena voglia!

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60
Cosa non è che piú de le contese
abbia a sconciar vostra quiete e pace.
Oh misero colui che per offese
stassi di far vendetta pertinace!
Monte non è ch’agli omeri gli pese
piú di quel mal desio cui sotto giace,
ed una viva ed implacabil serpe
quell’anima infelice ognor discerpe.
61
L’antica legge, ch’anticar non venni,
affinar voglio e via levarne il brutto.
Gli ebrei, fra le lor giose piú solenni,
l’amico amato, ma ’l nemico al tutto
voglion ch’odiato sia: questo sostenni
fino a l’etá presente. Or che ’1 bel frutto
di fede nasce appresso il fior di legge,
levamoci dagli occhi alcune schegge.
62
Dite, figliuoli, di qual premio è degno
chi ama l’amico ed odia lo nemico?
Mirano i publicani a questo segno
e chi del pazzo mondo è troppo amico:
voi, che l’assunto avete del mio regno,
amate gli aversari, amate, dico,
qualunque vi persegue, v’ange e strazia
ed impetrate a lor dal Padre grazia!
63
Chi questo fa non poco onor consegue,
perché fia meco figlio al sommo Padre.
Qual gloria un uomo avrá maggior ch’adegue
colui che fa tant’opre si leggiadre?
Dio vuole che sua pioggia si dilegue,
suo sol diffonda i rai sovra le squadre
de’ buoni e rei, né vi parteggia un pelo,
perché di serbar tutti egual sta ’l zelo.

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64
Sostiene il mio bel Padre i brutti figli,
non gli odia, no, ma solo i vizi loro;
stravagliali sovente dagli artigli,
dal vischio, da le trame di coloro
che, acciò figliuolo alcuno non somigli
tal Padre ed abbia il tolto a lor tesoro,
l’inducon spesse volte in odii, in ire,
in sanguinose voglie, atroci e dire.
65
Assai diffusamente dissi quanto
salir dé’ l’uomo ad esser giusto e buono.
Ora m’avanza esporvi che fra tanto
il fatto ben non cerchi fama e suono:
la vanagloria, l’ostentarsi, il vanto
duro naufragio di buon’opre sono.
Stia giorno e notte il mio nocchier accorto
che, poi ch’ha vinto il mar, non rompa in porto!
66
Quanto ti chiede o cerca l’affamato,
l’ignudo tuo fratei che gli sovegna,
impartilo del ben che ti vien dato
da Lui, eh ’eguale a tutti e giusto regna.
Ma vedi ben che, s’esserne lodato
dagli uomini contendi ed una insegna
quasi ti mandi a suon di tromba inanzi,
diffalchi in terra e nulla in cielo avanzi.
67
Con tal manera gonfi e personati
scorron le piazze scribi e farisei,
danno in palese, acciò che ’1 mondo guati,
acciò eh ’un certo alzar di ciglia ’i bèi.
Meschini lor, ché Dio guiderdonati
gli ha giá di fumo e popolar trofei !
Fa’ contra tu, né la tua man sinestra
sappia ciò che ’n secreto dia la destra!

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68
Esser d’altr’occhio che dal Padre mio
veduto ed apprezzato non ti caglia!
Perché t’aduni ad altro re, se Dio
(a lui né fosso né argin né muraglia
contende uman secreto o buono o rio)
sol è chi ’l premio a’ vostri merti eguaglia?
Però del cielo il regno si pareggia
di diece virginelle ad una greggia.
69
Era d’alcune nozze fama e grido
sparso di villa in villa e d’ogni intorno;
ma l’ora non si sa quando dal nido
suo proprio ha da partir lo sposo adorno.
Le diece, dunque, vergini sul lido
attendon lui per non averne scorno;
e ciascuna di lor tien la sua lampa,
ma qual è spenta, qual splendendo avvampa,
70
però che di lor diece ne son cinque
senz’olio in tutto e cinque n’hanno copia.
Or quelle, a queste fattesi propinque,
le domandar soccorso a loro inopia;
ma le prudenti, che d’assai longinque
parti venian di voluntade propia
per onorar lo sposo, vòlte a quelle
risposer: — Mal per voi, care sorelle!
71
Vituperevol fatto assai men v’era
lasciare indietro simili lanterne
che doverle portar senza lumera
e chi vi mira possa ben ridérne.
Se ’n questo nostro umor per voi si spera,
sperate invan, perché non son lucerne
coteste nostre piú, né men capaci
di quanto è vuopo ad illumar le faci.

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72
Ite piú tosto a comperarne voi,
ché chi da sé non fa non fará mai;
ma siate pronte a qua tornar, ché noi
v’attenderemo al tramontar de’ rai:
ché se d’un punto al spento sol dapoi
tardaste, a che venir, se, a’ vostri guai,
mentre lo sposo dentro si solaccia,
le porte alor vi fien serrate in faccia? —
73
Cosi partite giá le pazzarelle,
ecco imprevisto il giovine marito
lieto fra canti e danze arriva; e quelle
ch’erano preste, non fu prima udito
da lunge il suono, alzaron le fiammelle
lucide si ch’arder parea quel lito;
e giubilando in sul calar del giorno,
fór tutte accolte al dolce suo soggiorno.
74
Dove, mentre si fa di nozze segno
fin che scoccò di mezzanotte l’ora,
vengon le fatue per entrar nel regno
che, ratturato ornai, piú non si fora.
Qui l’implacabil sposo con gran sdegno
lor scaccia e tiene di sua casa fuora.
Però, figliuoli miei, vegghiar dovete,
perché né ’l di né l’ora voi sapete.
75
Quelli similemente come sciocchi
simulatori di pietá riprovo;
i quali, orando in vista di molt’occhi
e d’umiltade sotto finto giovo,
alzon le mani e piegon i ginocchi
per farsi nome glorioso e nuovo:
ma fermovi di certo ch’altro pregio
non averan di quel suo fumo egregio.

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76
Tu veramente, che mercede alcuna
se non celeste non attendi e speri,
rinchiuditi pregando solo in una
mental celletta, ove de’ tuoi pensieri
lo stol nanzi al suo duca si ragguna
come veraci e fidi messaggeri
d’oneste preci; e ’l Padre, che ciò vede,
benigno gli ne rende ampia mercede.
77
Duoi uomini nel tempio erano ascesi,
qual per lodarsi a Dio, qual per orare.
Un, ch’era fariseo, con gli occhi tesi
al cielo incominciò cosi a parlare:
— I’ ti ringrazio, Dio, che non t’offesi
giamai, perché mi cal sol di ben fare:
non sono agli altri simil, rubatori,
superbi e d’ogni guisa malfattori.
78
Due volte ancora il sabbato digiuno,
come tu sai, Signore, ed altri sanno;
di quanto mai nel mio poder aduno,
al tempo suo le decime si danno;
i’ non bestiemo, i’ non percuoto alcuno,
tal che con lode tutti onor mi fanno.
Ma questo publican c’ho quinci al lato
(Dio, gli perdona!) quanto è scellerato! —
79
Cosi dicea quella superba fronte
come se l’oprar suo chiedesse il merto,
come se ’l non rubar e altrui far onte
leghi le mani a Dio, che ’l salvi certo;
e vuol che le sue ciance vadan cónte
dicer al ciel che ’l debito gli ha offerto.
Oh prudenzia d’un mastro in sinagoga,
che suo mal grado avvantasi, non roga!

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80
Ma tien altra maniera il publicano:
conscio di quanto importa offender Dio,
stassi piú che può star sol e lontano
come chi tiensi d’ogni pena rio;
non guarda in ciel, ma con la chiusa mano
battendo il petto fa di pianto un rio,
e fra sé parla tacito: — Signore,
deh, non mirar ch’io sia gran peccatore! —
81
Però di certo parlovi : costui
giustificato a la sua casa riede,
ed utile piú gli è ’1 male che ’l colui
ben temerario e baldanzosa fede.
Ciò dico perché forse è qui fra vui
chi sol per merti suoi giusto si crede;
ma quel s’inganna, quando che perdute
sian le buon ’opre ascritte a lor virtute.
82
Quel sollevar di voce, quei singiozzi,
quel tono di percossi petti e labri,
quel rasciugar degli occhi, quei mentozzi
si sconciamente mossi, e quegli scabri
gesti di capo, e quei sembianti sozzi,
di pallidezza eguali a lordi fabri,
non fanno a’ vostri prieghi alcun profitto;
ma quel ch’or segue abbiate nel cor scritto.
83
— Padre, che tutto in tutto regni e stai,
ma propriamente il seggio nel ciel tieni,
nel ciel donde ci mandi pioggia e rai,
dondi ci pasci e ’n vita ci mantieni,
fa’ che ’l tuo santo nome sempre mai,
acciò regnamo negli eterni beni,
sia per buon’opre quinci sublimato
e cosi in terra come in ciel lodato!

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84
Quel tuo, che nostro fai, celeste pane
imparti oggi fra noi, ché, similmente
come fra noi qua giú l’offese umane
ci dimittiamo, Tu, signor clemente,
dimetti a noi le nostre; e ’n quelle vane
lusinghe rie de l’infernal serpente
non ci vuoler indure; e se v’induci,
diffendi in noi di tua vertú le luci! —
85
Ma che mercede conseguita unquanco
abbia verun dal ciel over perdono,
per nullo modo non pensate se anco
de Tonte altrui non fece prima duono.
Uom che tu se’, se non perdoni, manco
avrai pietoso Dio, eh’ è giusto e buono:
quinci le fronte altiere abbassa e spezza,
quindi Tumil’e basse inalza e prezza.
86
Son anco di pietá sotto coperchio
non pochi mentitori del digiuno:
prendono il cibo e bevon di soverchio,
poscia vanno con volto afflitto e bruno
d’uomini entrando in questo e ’n quello cerchio,
ch’ognun per buoni, ognun per santi, ognuno
per degni mastri e satrapi gli additi
ch’ad alte imprese forano periti.
87
Tu, che da’ cibi e molto piú da’ lordi
costumi e sporche mende ti contieni,
lavati il viso, ungiti il capo, fuor di
quel van desio c’hai di scuoprire i beni:
di’ con la fronte agli uomini, eh’ ingordi
d’investigar son sempre gli altrui seni,
che pieno sei, che sazio, che pasciuto,
ma godi teco esser nel ciel veduto.

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L’intento solo è chi ti salva o danna
negli occhi al Padre mio, che i cuor esplora.
Però chi tien ricchezze né s’affanna
né di troppa lor cura s’inamora,
non se le beve ognor, non le tracanna,
ma Dio, se stesso e il prossimo ne onora;
costui senza pareggio al ciel gradisce
via piú di chi non l’ha, ma le appetisce.
89
La via che scorge l’alma al paradiso
è dritta si, però non stretta poco:
colá non poggia chi, fra gli oci assiso,
le guance al cuscin dá, la gola al coco:
non senza pianto amar s’ ha dolce riso,
né s’ha finezza d’oro senza fuoco:
ma non è grave salma, che piú spezze
le gambe al salitor, de le ricchezze.
90
Con men sudor per un pertugio d’ago
trapassa lo gambèl che ’l ricco in cielo.
Oh tu, che di montar se’ dunque vago,
vien’ dietro a me che ’l calle non ti celo;
ma quei danar pon’ giú, ch’io non mi pago
per mia mercé se non d’amor e zelo:
non che li gitti, no. ma di quel lezzo
gemme fur giá pescate di gran prezzo.
91
Son le ricchezze un mal oggetto solo
donde ritrar si può questo e quel bene,
pur ch’acquistate senza offesa e dolo
rallentili di pietá l’occulte vene:
slarga le man, ch’avrai d’amici un stolo
che Mammona l’iniquo ti mantiene:
ma s’anco stai tenace o male ispendi,
natura, legge, amor, giusticcia offendi.

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92
Di molti duri essempi e spaventosi
che d’uomini mal nati in pronto s’hanno
un dir vi vo’, ch’ai cielo ingiuriosi
atti sempr’ebbe il giorno, il mese, l’anno.
Splendide mense e drappi preziosi
di porpora, di bisso, e piú fin panno
fu ognor lo studio suo, fu lo suo dio,
ed ebbe ogni virtú posta in oblio.
93
Quella malevol alma, come lei
che per lung’uso passion non sente,
seco dicea: — Godete, o sensi miei,
ch’altro viver non s’ha fuor del presente;
e tu, fedel mio corpo, se mi sei
piú a cor d’ogni cagion ed accidente,
schiude ai piacer quant’hai fenestre e porte!
Chi sa se mai per noi verrá piú Morte? —
94
Pianta non siede in piú profonda sterpe
com’esso miser uomo in tal pensiero:
spent’è la coscienza e de la serpe
non ha di san che gitti al morso fiero ;
finché, di ladro in guisa, Dio gli serpe
per non pensato e incognito sentiero,
chiamando: — Or godi mò, persona stolta:
l’anima in questa notte ti vien tolta!
95
Tu, mentre a l’opre di pietá nemico
nuoti di piú vivande in alto mare,
non odi Lazar poverel mendico
che di lá giú ti chiama e vuol pregare
(se ’l Largitor de’ beni ti è si amico,
ch’agli usci altrui non hai da mendicare)
per caritá gli doni un mezzo pane
di quel che inutilmente gitti al cane.

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96
Ben l’odi tu, ma d’ammutir ti figni
né del mio strai paventi la percossa:
porco che sei, nel brodo il griffo tigni,
e Lazar volontier correbbe Tossa!
Ecco nei cani tuoi, che men benigni
non son che crudel tu, natura è mossa,
ch’ove par lor che d’ impietá t’appaghe,
essi leccar gli van le brutte piaghe! —
97
Cosi quel spirto ingrato risospinto
di sua caduca e puzzolente scorza,
da fame, febre, freddo e fiamme cinto,
or sempre piagne, e ’l pianto non ammorza
(perché ne sparga un fiume) l’inestinto
mordace fuoco, quando che piú forza
gli dia Torribil pece e il negro solfo
piú che vi ondeggia il lagrimoso golfo.
98
E per maggior sua doglia gli è permesso
puoter vedere in porto i buon nocchieri :
conosce Abramo, e gli altri, e Lazar desso,
non conosciuto al tempo de’ piaceri,
malvagio si che gli negò ben spesso
d’ al men fra le scutelle over taglieri
co’ cani l’unto avere, e col letame
de la cucina spegnersi la lame.
99
Frem de lontano e grida: — O padre Abramo,
deh, moviti a pietá che pur mi vedi,
che m’odi pur, se mentre i’ ardo e chiamo
son fioco e cotto, aimè! da capo a piedi,
se per la sete il mar berrei, s’io bramo
fra questi eterni miei pungenti spiedi
una stilletta d’acqua che m’estingua,
estingua no, ch’umettimi la lingua!

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100
Quell’amico mio Lazar giú mi manda,
che bagni almen l’estremitá del dito
e mi disséti alquanto, se vivanda
ebb’esso mai lassú d’alcun convito! —
Ma gli è risposto ch’anzi in la nefanda
sua vita bebbe a pieno suo appetito:
or gli è cangiata sorte, acciò la gioia
di Lazar sia giamai, sua sia la noia.
101
Ecco, dunque, se ’l duol di mille morti
gir debbe a par col riso pur d’un’ora,
derrestiti arroscir far tanti torti,
uomo, a te stesso e non pensar talora
e dir: — Questi di nostri son si corti,
van come nebbia, e ’l tempo li divora ! —
Cosi pensando un cor da sé gentile,
arra la terra e sue ricchezze a vile.
102
Lá tieni sempre l’animo, lá vivi
ove riposto il tuo tesoro giace,
o che nel ciel tu dunque, o ’n terra quivi
sepolto l’hai. Deh! quanta fia tua pace
se nel celeste sino il celi, ch’ivi
né tarlo mai né ruggine lo sface:
ma qui non manca ladro che l’invola,
né umor che sei consuma né tignola.
103
Se l’occhio tuo sará semplice e chiaro,
semplice e chiaro il corpo ancor ti fia:
cosi l’animo tuo, se temeraro
non schifa dire ove ragion l’invia,
piacemi se se’ ricco; ma se avaro
ministro sei, ti lascio e fuggo via:
non puoi servire duo signor, ché quello
t’ha per fedele e questo per rubello!

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104
Ma questi mostri di maliccia sparsi
e qua e lá fan scusa finta e doppia:
esser bisogno a loro procacciarsi
l’arme contra la fame o secca stoppia.
Chi serba te presso le fiamme? o scarsi
chi serba voi presso colei che scoppia
di fame sol non per cibar che faccia,
anzi vien magra piú che ’n ventre caccia?
105
Però vi tolgo l’ombra di tal scusa,
o voi, che sotto ’l mio stendardo siete,
di quanto al corporal di porto s’usa
per nulla via soleciti sarete:
ché se ’l Padre celeste in sé rinchiusa
tien cura di scemar la fame e sete
col freddo ad ogni fiera, ucello ed erba,
quanto piú voi, di poca fede, serba!
106
Non sian in voi coteste cure, dunque,
cure di genti sonnacchiose al vero!
Pensan non caglia a Dio di lor, quantunque
del mondo Ess’abbia fatto il bianco e ’l nero!
Ma, franchi di que’ lacci, voi non unque
se non del cielo aggiate alcun pensiero,
ché queste vili e poco ferme cose
senz’astio vi dará Chi le compose.
107
Ma fra le buone parti che ’n voi cheggio
(in voi parlo ch’avete a giudicare
le mende altrui dal mio donato seggio),
dovete a nulla guisa condannare
il mal d’altrui, se ’n voi sentite il peggio,
come gli scribi e farisei san fare;
e chi ciò segue e non se ne rimove
peggior giudiccio è per sentire altrove.
T. Folengo, Opere italiane - 11.
11

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10S
Dimmi, dottor, che si ’l costui diffetto,
come die picciol sia, considri e mordi,
perché non vedi prima il tuo, che ’n petto
sempr’ hai di piú gravezza e non lo scordi?
Sfacciato che tu sei, spirto mal netto,
che’l ciel s’annebbia solo a le tue sordi!
pon’ giú la trave pria che ’n l’occhio tieni,
poscia l’altrui pagliuzza a spunger vieni!
IO9
Non giudicate, o voi, ch’avete in mano
l’áncora d’un gran legno e ’l magistero,
non giudicate in questo mondo insano
chi pecca in voi, chi vi è molesto o fiero;
non si però ch’a l’ostinato e vano
eretico infidel questo mistero
recate mai, eh’ un porger a lo sporco
cane sarebbe il pan, le gemme al porco.
HO
Questa filosofia del mio Vangelo
commonicar dovete a chi s’affronta
per impararla col desio, col zelo,
che s’ha d’intender dove a lei si monta.
Chiami pur, cerchi e batta, infin che ’l cielo
veggasi aperto de la grazia pronta
ch’avete a schiuder, ma non gli succede
se ben dir v’ode, se mal far vi vede.
111
Altro non è el dottore eli’ un bersaglio
in cui drizzan lor strali essi uditori ;
potrian piú tosto udir squilla o sonaglio
che mastro iniquo dentro e giusto fuori :
quindi d’openion nasce ’l travaglio,
a cui succedon d’ impietá gli errori,
ch’onde de’ pravi essempi escon le spine
convien che ’l volgo a male oprar s’ inchine.

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1 12
Però, beati voi s’entro Tangosto
portello v’aventate al sommo Bene!
Quel gran pertugio, il qual vi vien preposto
dal dottor falso, antivedete bene:
nel pii di pecorella va nascosto
sovente il lupo e quanto può si tiene
di santa openion coverto al cupo,
ma gridan l’opre infine: — Al lupo, al lupo! —
113
Vengon a’ frutti lor ben conosciuti
si come s’ ha di mal nasciuta pianta,
la quale in vago aspetto sugli acuti
suoi vepri tutta di bei fior s’ammanta;
ma non si vede ch’essi fior tramuti
negli aspettati frutti, anzi lei schianta,
lei rompe alfin Tirato agricoltore
e vuol che ’l fuoco in tutto la divore.
114
Ma tutti quelli che mi dicon spesso:
— Signor, Signor! — del ciel saranno degni;
ma chi ’l voler fa del mio Padre, ad esso
dirá eh ’eternamente nosco regni,
ed in quel di ch’estremo m’è promesso
di far giudiccio sopra tutti i regni,
molti, ch’oggi gran prove al volgo fanno,
chiamati al tribunal cosi diranno:
115
— Signor, non riconosci noi famigli
e servi tuoi? non sai che nel tuo nome
giá dovinammo gli alti tuoi consigli
al popol tuo? non ti rammenta come
da peste i corpi e da infernali artigli
molt’alme svelte abbiamo? e le lor some
corporee fur di morte a vita rese?
e femino a laude tua molt’altre imprese? —

[p. 164 modifica]

116
Io ch’un cor dritto, ben fondato e schietto
via piú che segni apprezzo e ’n quel mi godo,
ad essi m’ergerò con duro aspetto
dal trono mio, chiamando in cotal modo:
— Costá ti leva, o popol maladetto!
non mi pregar piú, no, che piú non t’odo,
piú non ti tengo in cor, non mel ricordo,
a l’opre tue son cieco, a’ prieghi sordo! —
117
Chi dunque in sé gli miei ragionamenti
non coglie pur, ma vi s’adopra bene,
costui del proprio albergo i fondamenti
commette a salda pietra, ove sostiene
ogn’émpito di fiumi, piogge e venti;
ma, per contrario, fonda in su l’arene
per esser smosso ad ogni fiato leve
chi male oprando il verbo mio riceve. —
nS
Di tal sermone il fren de le superbe
giudaiche teste armò quei tener seni.
Oh dunque aventurati fiori ed erbe,
o vaghe piante ed arboscelli ameni,
cosi d’ogni stagion sia chi vi serbe
da toni, venti, folgor e baleni,
da poi che sua bontá senza pareggio,
parlando a lor, di voi si fece seggio !