Le Mille ed una Notti/Storia di tre Calenderi, figli di re, e di cinque dame di Bagdad

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Storia di tre Calenderi, figli di re, e di cinque dame di Bagdad

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Storia di tre Calenderi, figli di re, e di cinque dame di Bagdad
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STORIA

DI TRE CALENDERI FIGLI DI RE,
E DI CINQUE DAME DI BAGDAD.


— Sire, — diss’ella, volgendosi al sultano, «sotto il regno del califfo1 Aaron-al-Raschid2, viveva in [p. 105 modifica]Bagdad, sua residenza, un facchino il quale, malgrado la sua umile e faticosa professione, era uomo di spirito e faceto. Una mattina che costui stava, secondo il solito, con un gran paniere di vinchi accanto, in una piazza ad aspettare che qualcuno avesse bisogno dell’opra sua, gli si accostò una giovane dama di bella statura, coperta d’un lungo velo di mussolina, la quale gli disse in aria cortese: — Ascolta, facchino; prendi il paniere e seguimi.» Sorpreso il facchino da quelle poche parole sì leggiadramente pronunciate, prese tosto il cesto, se lo pose in capo, e seguì la dama, sclamando: — Oh giorno avventurato! oh giorno di buon incontro!

«La dama in prima si fermò davanti ad una porta chiusa e bussò. Un cristiano, venerabile per lunga barba bianca, venne ad aprire, ed essa gli posò in mano del denaro senza schiuder labbro; il cristiano, il quale sapeva già che cosa domandasse, rientrò, e poco dopo recò una gran brocca di vino eccellente. — Prendi questa brocca,» disse la dama al facchino, «e mettila nel cesto.» Ciò fatto, gli comandò di seguirla, e mentr’essa continuava a camminare, il facchino proseguì a dire: — O giorno di felicita! o giorno di grata sorpresa e di gioia!

«La dama si fermò poscia alla bottega d’un venditore di frutta e di fiori, ove scelse varie sorta di [p. 106 modifica]pomi, albicocche, pesche, prugne, limoni, cedri, melarance, e mirto, basilico, gigli, gelsomini ed altre specie di fiori e di piante odorifere; e disse al facchino di mettere il tutto nel paniere e seguirla. Passando davanti ad un macellaio, si fece pesare venticinque libbre grosse della più bella carne, che il facchino mise ancora, per ordine di lei, nel paniere. In un’altra bottega comprò capperi, serpentaria, cocomeretti, sassifraga ed altre erbe, tutto in composta nell’aceto; in un’altra, pistacchi, noci, nocciuole, pignuoli, mandorle ed altri somiglianti frutti; ad una quarta comprò ogni specie di paste d’amandorle. Il facchino, nel mettere tutte queste cose nel paniere, osservando che si empiva, disse alla dama: — Mia buona signora, bisognava avvertirmi che volevate fare tante provvisioni, poichè in tal caso avrei preso un cavallo o meglio un cammello per portarle. Ne avrò più del bisogno pel mio carico, se continuate ad acquistarne dell’altre.» Rise la dama di tale facezia, e ordinò di nuovo al facchino di seguirla.

«Entrò essa da un droghiere, ove si provvide di ogni specie d’acque odorose, chiodi di garofano, noci moscate, ginepro, un grosso pezzo d’ambra grigia, e molte altre spezie delle Indie, terminando così di riempire il cesto del facchino, al quale continuava a dire di seguirla. Camminarono allora amendue, finchè giunti ad un magnifico palazzo, la cui facciata era adorna di belle colonne, e che aveva la porta di avorio, quivi fermaronsi; e bussato leggermente....»

A tal passo, Seheherazade si avvide ch’era giorno, e cessò di parlare. — Davvero, mia cara sorella,» disse Dinarzade, «ecco un principio che m’ispira molta curiosità. Credo che il sultano non vorrà privarsi del piacere d’udirne la continuazione.» Infatti, Schahriar, lungi dall’ordinare la morte della sultana, [p. 107 modifica]aspettò con impazienza la prossima notte, per sapere che cosa fosse accaduto nel palazzo di cui ella aveva parlato.


NOTTE XXIX


Dinarzade, svegliatasi prima di giorno, disse alla sultana: — Sorella, ti prego di proseguire la storia che ieri cominciasti.» E tosto Scheherazade la continuò in questa guisa:

— Mentre la giovine dama ed il facchino attendevano che si aprisse la porta del palazzo, quest’ultimo faceva mille riflessioni. Si maravigliava che una dama come quella che vedeva, facesse l’officio di approvvigionatrice, perchè alla fine ben giudicava non essere colei una schiava; troppo nobile gliene pareva il portamento, per pensare che non fosse libera e persona d’alto grado. Volontieri avrebbela egli interrogata per chiarirsi della sua condizione; ma mentre si preparava a parlarle, un’altra dama, venuta ad aprire la porta, gli parve sì bella, che ne rimase tutto maravigliato, o piuttosto fu sì vivamente colpito dallo splendore delle sue attrattive, che poco mancò non lasciasse cadere il cesto e quanto conteneva, tanto quella vista lo trasse fuor di sè, non avendo mai veduto beltà paragonabile a quella che gli stava dinanzi.

«La dama che condotto avea il facchino, si avvide del disordine dell’animo di lui, e dell’oggetto che lo cagionava. Tale scoperta la divertì, e prendeva tanto piacere ad esaminare il contegno del facchino, che non pensava essere aperta la porta. — Entrate dunque, sorella,» le disse la leggiadra portinaia; «che [p. 108 modifica]cosa aspettate? non vedete che quel pover uomo è tanto carico che non ne può più?» Quando fu essa entrata col facchino, la dama che aveva aperta la porta, la richiuse, e tutti e tre, traversato un bel vestibolo, passarono in un ampio cortile circondato da una galleria a sfori, che comunicava con parecchi appartamenti a pian terreno, d’estrema magnificenza. In fondo al cortile vedevasi un sofà riccamente addobbato, con un trono d’ambra nel mezzo, sostenuto da quattro colonne d’ebano, intarsiate di diamanti e perle di straordinaria grossezza, e guarnito di raso rosso, con ricami d’oro delle Indie di mirabile lavoro. In mezzo alla corte stava un gran bacino contornato di marmo bianco e pieno d’acqua limpidissima, che zampillava in abbondanza dalla gola di un lione di bronzo dorato.

«Il facchino, benchè carico, non cessava di ammirare la magnificenza della casa, e la pulitezza che dovunque regnava; ma ciò che ne attirò specialmente l’attenzione, fu una terza dama che gli parve ancor più bella della seconda, seduta sul trono anzi descritto. Ne discese questa appena vide le due prime dame, e venne ad incontrarle; ma dai riguardi che le altre mostravano per lei, giudicò egli che fosse la principale, nè s’ingannava. Chiamavasi questa dama Zobeide; quella che avea aperta la porta Safia, ed Amina quella ch’era stata a fare le provviste.

«Zobeide disse alle due dame, incontrandole: — Sorelle mie, non vedete che quel buon uomo piega sotto il peso che porta? Perchè tanto aspettate a scaricarlo?» Allora Amina e Safia, preso il paniere, questa davanti e quella di dietro, e messavi una mano anche Zobeide, tutte e tre lo deposero a terra, e cominciarono a vuotarlo; finita l’operazione, la vezzosa Amina, cavata la borsa, pagò splendidamente il facchino....»

[p. 109 modifica]Il giorno allora essendo per comparire, impose silenzio a Scheherazade, e lasciò non solo a Dinarzade, ma anche a Schahriar grandissimo desiderio di udirne il seguito; che il principe rimise alla successiva notte.


NOTTE XXX


La dimane, Dinarzade, destatasi per l’impazienza di udire la continuazione della cominciata storia, disse alla Sultana: — In nome del cielo, cara sorella, ti prego di raccontarmi che cosa fecero quelle tre belle dame di tutte le provvigioni comprate da Amina. — Lo saprai subito,» rispose Scheherazade, «se mi ascolterai con attenzione.» E riprese come segue la novella.

«Contentissimo il facchino del danaro dategli dalle dame, doveva prendere il suo cesto ed andarsene; ma non vi si seppe risolvere, sentendosi suo malgrado trattenuto dal diletto di vedere tre bellezze sì rare, che gli parevano ugualmente leggiadre, poichè anche Amina erasi tolto il velo, ed ei non la trovava men bella delle altre due. Incomprensibile però gli parve il non vedere in quella casa nessun uomo. Eppure la maggior parte delle provvigioni da lui portate, come i frutti secchi e le diverse specie di pasticcerie e confetti, non convenivano se non a persone che volessero bere e stare allegre.

«Zobeide credè sulle prime che il facchino si fermasse per prender fiato; ma vedendo che trattenevasi troppo a lungo: — Che cosa aspettate?» gli disse; «non v’hanno a sufficienza pagato? Sorella,» soggiunse, volgendosi ad Amina, «dategli qualche altra cosa, onde se ne vada contento. — Signora,» rispose il facchino, «non è questo che mi trattenga; [p. 110 modifica]troppo bene fui rimunerato della mia fatica. Comprendo d’aver commessa un’inciviltà fermandomi qui più che non doveva; ma spero avrete la bontà di perdonare al mio stupore, non vedendo nessun uomo con tre signore di beltà sì rara. Una compagnia di donne senza uomini è una cosa tanto triste, quanto una compagnia di uomini senza donne.» Aggiunse a questo discorso varie piacevolissime cose per provare la sua asserzione, nè dimenticò di citare il proverbio che correva a Bagdad: che non si sta bene a tavola se non in quattro; in fine terminò concludendo che, essendo elleno in tre, avevano bisogno d’un quarto.

«Le dame si posero a ridere del ragionamento del facchino; quindi Zobeide gli disse con grave accento: — Amico, voi spingete troppo oltre la vostra indiscrezione, ma sebbene non meritiate ch’io entri con voi in alcun particolare, nondimeno vi dirò esser noi tre sorelle, che facciamo con tal segretezza i nostri affari, da non lasciarne traspirare cosa alcuna. Abbiamo troppi motivi di temere di farne parte ad indiscreti, un buon autore che abbiam letto, dice: «Custodisci il tuo secreto, e non palesarlo a chicchessia; chi lo rivela, non n’è più padrone. Se il tuo labbro non può contenere il tuo segreto, come vuoi che il possa contenere il labbro della persona cui l’avrai confidato?» — Signore,» replicò il facchino, «al solo vostro aspetto, giudicai subito ch’esser dovevate persone di merito rarissimo, e m’avveggo di non essermi ingannato. Sebbene la fortuna non m’abbia impartiti mezzi sufficienti d’innalzarmì ad una professione superiore alla mia, non ho tralasciato di coltivare lo spirito, in quanto ho potuto, colle lettura di libri scientifici e di storia, e mi permetterete di dirvi che ho pur letto in un altro autore una massima da me sempre felicemente praticata. «Non doversi celare il nostro segreto,» dice questi, «se non a chi è, conosciuto [p. 111 modifica]da tutti per tal indiscreto che potrebbe abusare della nostra fiducia: ma non esser d’uopo fare veruna difficoltà ad iscoprirlo ai saggi, perchè siam persuasi che saprebbero custodirlo.» Il segreto in me è tanto sicuro, quanto stesse in un gabinetto ben chiuso di cui si fosse smarrita la chiave.

«Zobeide conobbe che il facchino non mancava di spirito; ma stimando avesse colui voglia di restare al convito ch’esse volevano darsi, gli disse sorridendo: — Voi sapete che ci prepariamo a banchettare; ma v’è noto eziandio che abbiam fatto una grande spesa, e non sarebbe giusto che, senza contribuirvi, voi foste della partita.» La bella Safia appoggiò il sentimento della sorella, e disse al facchino: — Amico, non avete mai udito ciò che comunemente si dice: «Se porti qualche cosa, godrai qualche cosa: se nulla porti, vanne con nulla?»

«Il facchino, malgrado la sua rettorica, sarebbe forse stato costretto a ritirarsi con sua confusione, se Amina, presone vivamente le parti, non avesse detto a Zobeide ed a Safia: — Mie care sorelle, vi scongiuro di permettere ch’ei rimanga con noi: non è mestieri dirvi che ci diverterà; voi vedete che n’è capace. Vi assicuro che senza la sua buona volontà, la sua destrezza ed il suo coraggio nel seguirmi, non sarei riuscita a fare in sì poco tempo tante provviste. D’altronde, se vi ripetessi tutto le amabili coserelle che strada facendo mi ha dette, non vi maravigliereste della protezione che gli concedo.

«A quelle parole di Amina, il facchino, trasportato di gioia, si gettò ginocchioni, baciò la terra ai piedi della vezzosa dama, e rialzatosi, le disse: — Amabilissima signora, voi avete oggi cominciata la mia fortuna: ora con un’azione tanto generosa la portate al colmo; non saprei attestarvene abbastanza la mia gratitudine. Del resto, signore,» soggiunse, [p. 112 modifica]dirigendosi alle tre sorelle, «poichè mi fate sì grande onore, non crediate ch’io voglia abusarne, e mi stimi uomo da meritarlo; no, mi considererò sempre come il più umile dei vostri schiavi.» Sì dicendo, voleva restituire il danaro ricevuto, ma l’austera Zobeide gli comandò di tenerlo. — Ciò ch’è uscito una volta dalle nostre mani,» gli disse, «per rimunerare chi ci ha serviti, non vi torna più....»

L’aurora che comparve venne ad impor silenzio a Scheherazade.


NOTTE XXXI


Non mancò Dinarzade la mattina appresso di pregar la sorella a proseguire il maraviglioso racconto da lei cominciato, e Scheherazade, presa tosto la parola: — Sire,» disse volgendosi al sultano, «con vostro permesso sono a soddisfare la curiosità di mia sorella.» E riprese così la storia de’ tre calenderi3:

[p. 113 modifica]«Zobeide non volle dunque ripigliar il danaro del facchino. — Amico,» gli disse, «io, acconsentendo che restiate con noi, vi avverto non basta la condizione di mantenere il segreto che abbiamo da voi richiesto, ma pretendiamo altresì che osserviate esattamente le regole della creanza e della civiltà.» Mentre ella così parlava, la vezzosa Amina, ch’erasi spogliata dell’abito di città, sospese la veste alla cintura per agire con maggior libertà, e preparò la tavola; ammannì parecchie sorta di vivande, e mise sur una credenza bottiglie di vino e tazze d’oro; poi le dame presero posto alla mensa, e fecero sedere il facchino, oltremodo contentissimo nel vedersi a desco con tre persone d’una beltà sì rara.

«Dopo i primi bocconi, Amina, ch’erasi posta vicino alla credenza, prese una bottiglia ed una tazza, si versò da bere, e tracannò per la prima, secondo l’uso degli Arabi. In seguito la porse alle sorelle, che bevettero una dopo l’altra; poi, empiendo, per la quarta volta, la medesima tazza, la presentò al facchino, il quale, ricevendola, baciò la mano ad Amina, e cantò prima di bere una canzone, il cui senso era, che siccome il vento seco trasporta il grato olezzo de’ luoghi profumati d’onde passa, così il vino che stava per bere, venendo dalla di lei mano, riceveva un gusto più squisito di quello che naturalmente aveva. Rallegrò questa canzone le dame, le quali cantarono alla lor volta. Insomma, la brigata si mantenne di lieto umore durante il banchetto, che si protrasse a lungo, e fu accompagnato da quanto potea renderlo gradito.

«Il giorno stava per finire, quando Safia, prendendo la parola in nome delle tre sorelle, disse al facchino: — Alzatevi e partite; è tempo di ritirarvi.» Il facchino non potendo risolversi a lasciarle, rispose: — Ma, mio signore, ove mi comandate d’andare nello stato in cui mi trovo? A lungo vedervi e bere, sono [p. 114 modifica]fuor di me: non troverei mai più la via della mia casa. Concedetemi di passar qui la notte per rimettermi, e starò ove più vi piacerà; ma non m’abbisogna minor tempo per tornare al medesimo stato in cui mi trovava quando sono entrato in casa vostra; e nonostante dubito ancora se non vi lascerò la parte migliore di me.» Amina prese per la seconda volta le parti del facchino, e disse: — Egli ha ragione, sorelle, e gli son grata della sua domanda. Ci ha molto ben divertite; e se volete credermi, o piuttosto se mi amate quant’io credo, lo terremo qui a passare la sera con noi. — Sorella,» disse Zobeide, «noi non possiamo ricusar le vostre istanze. Facchino,» proseguì poi volgendosi a costui, «vogliamo farvi anche questa grazia, ma però sotto una nuova condizione. Checchè potremo fare in vostra presenza, riguardo a noi o ad altre cose, guardatevi dall’aprir bocca per chiedercene ragione; poichè interrogandoci su cose che non vi risguardano, potreste udire quello che non vi piacesse. State attento, e non vi venga desio d’essere curiose, volendo conoscere i motivi delle nostre azioni. — Signora,» rispose il facchino, «vi prometto di osservare anche questa condizione con tanta esattezza, che non avrete motivo a rimproverarmi d’avervi minimamente contravvenuto, e molto meno di punire la mia indiscrezione. La mia lingua sarà immobile, ed i miei occhi saranno come uno specchio che nulla conserva degli oggetti ripercossi. — Per farvi vedere,» riprese Zobeide con serietà, «che quanto vi domandiamo non è cosa nuova fra noi, alzatevi, e andate a leggere ciò che sta scritto sulla nostra porta, all’interno.

«Il facchino obbedì, e lesse colà queste parole scolpite a grandi lettere d’oro: «Chi parla di cose che non lo risguardano, ode quello che non gli piace.» Tornò quindi alle tre sorelle, e disse: — Signore, vi [p. 115 modifica]giuro che non mi udrete parlare d’alcuna cosa che non mi risguardi, ed alla quale possiate aver interesse.

«Fatta tal convenzione, Amina recò la cena; e quand’ebbe illuminata la sala con gran numero di fiaccole preparate con legno d’aloè ed ambra grigia, che spandevano gratissimo odore e vivissima luce, sedè a tavola colle sorelle e col facchino, e ricominciarono a mangiare, a bere, a cantare, a far versi; le dame prendevano diletto ad ubbriacare il facchino, col pretesto di farlo bere alla loro salute; nè i detti arguti e le lepidezze furono risparmiate. Infine erano tutti del miglior umore, quando udirono bussare alla porta.»

Scheherazade fu qui obbligata d’interrompere il racconto, poichè vide spuntare il giorno. Il sultano, non dubitando che la continuazione di quella storia non meritasse d’essere ascoltata, la rimise al domani, e si alzò.


NOTTE XXXII


Sul finire della notte seguente, Dinarzade disse alla sultana: — Sorella, ho grand’impazienza di sapere chi batteva alla porta di quelle signore. — Or ora l’udrai,» rispose Scheherazade; «e ti assicuro che ciò non sarà indegno dell’attenzione del sultano mio signore.

«Quando le dame,» proseguì essa, «sentirono bussare, alzaronsi tutte e tre nel medesimo tempo per andar ad aprire; ma Safia, cui quell’incarico particolarmente apparteneva, fu la più sollecita; e le due altre, vedendosi prevenute, fermaronsi, aspettando che tornasse a riferire chi mai potesse venir da loro ad [p. 116 modifica]ora sì tarda. Tornò Safia, e disse: — Sorelle, si presenta una bella occasione di passare gradevolmente buona parte della notte, e se siete del mio parere, non dobbiamo lasciarla sfuggire. Sono alla nostra porta tre calenderi: almeno alle vesti mi sembrano tali; ma ciò che senza dubbio vi sorprenderà, è che sono tutti e tre guerci dell’occhio destro, ed hanno rasi la testa, il mento e le sopracciglia. Giungono, a quanto dicono, in quest’istante a Bagdad, ove mai non sono stati; e siccome è notte, e non sanno ove andar ad alloggiare, hanno bussato a caso alla nostra porta, e ci pregano, per amor di Dio, d’usar loro la carità di riceverli. Poco loro importa del luogo in cui vorremo ricovrarli; purchè stiano al coperto, si contenterebbero anche d’una stalla. Sono giovani e ben fatti; sembra che abbiano anche molto spirito, ma non posso pensare, senza ridere, alla loro figura burlesca ed uniforme.» Ed interrompendo il discorso, si mise a ridere sì di cuore, che le altre due dame ed il facchino non poterono trattenere anch’essi le risa. — Mie buone sorelle,» ripigliò Safia, «volete che li facciamo entrare? È impossibile che con gente come quella che v’ho dipinta, non terminiamo la giornata meglio di quando l’abbiamo principiata. Ci divertiranno assai, e non ci saranno di peso, non domandandoci ricovero che per questa sola notte, essendo loro intenzione di partire tostochè spunti il giorno.

«Zobeide ed Amina fecero difficoltà di concedere a Safia quanto domandava, ed essa ben ne comprendeva la ragione; ma mostrò sì gran desiderio di ottenere tal favore, che non seppero negarglielo. — Andate,» le disse Zobeide, «fateli dunque entrare; ma non dimenticate di avvertirli a non parlare di ciò che non li risguardi, e di far legger loro lo scritto sulla porta.» Corse allora Safia con gioia ad aprire, e poco dopo tornò accompagnata dai tre [p. 117 modifica]calenderi, i quali, entrando, fecero una profonda riverenza alle dame che si erano alzate per riceverli. Dissero esse con modi assai cortesi ch’erano i benvenuti, e che provavano gran piacere di trovar l’occasione di render loro servigio, e di poter contribuire a ristorarli dalle fatiche del viaggio; quindi li invitarono a sedere. La magnificenza del luogo e la cortesia delle dame fecero concepire ai calenderi alta idea di quelle belle ospiti; ma prima di prender posto, avendo per caso volti gli occhi sul facchino, e vedendolo all’incirca vestito come altri calenderi, coi quali dissentivano su vari punti di disciplina, e che non radevansi barba e sopracciglia, uno di loro disse: — Ecco, a quanto pare, uno dei nostri confratelli arabi ribelli.

«Il facchino, quasi assopito e colla testa calda dal vino bevuto, si trovò punto da quelle parole; e senza moversi dal suo posto, rispose ai calenderi, guatandoli fieramente: — Sedete, e non v’immischiate in ciò che non vi spetta. Non leggeste sulla porta l’iscrizione che vi sta? Non pretendete obbligare il mondo a vivere a vostro modo; vivete voi al nostro. — Galantuomo,» disse il calendero che aveva parlato, «non andate in collera. Ne dispiacerebbe assai d’avervene dato motivo, e siamo invece pronti a ricevere i vostri comandi.» Avrebbe potuto il diverbio avere conseguenze; ma le dame si frapposero, ed acchetarono ogni cosa.

«Quando i calenderi furono seduti a mensa, le dame lor servirono da mangiare, e la graziosa Safia particolarmente prese cura di versar loro da bere....»

Scheherazade si fermò a tal passo, osservando essere già giorno. Il sultano levossi per andare ad accudire a’ suoi doveri, ripromettendosi di udire all’indomani la continuazione della novella, avendo volontà di sapere perchè i calenderi fossero guerci tutti e tre dello stesso occhio.

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NOTTE XXXIII


Un’ora prima di giorno, Scheherazade continuò a narrare ciò che accadde fra le dame ed i calenderi:

— Avendo i calenderi mangiato e bevuto a sufficenza, esternarono alle dame che si farebbero un vero piacere di dar loro un concerto, se esse avessero strumenti in casa. Accettata con gioia l’offerta, la bella Safia si alzò e andò in persona a prenderli; tornata poco dopo, presentò loro un flauto del paese, un flauto persiano ed un tamburello. Ciascun calendero ricevette dalla mano di lei lo strumento che gli piacque di scegliere, e cominciarono tutti e tre a suonare un’aria. Le dame, le quali sapevano alcune strofe su quella musica, che era delle più gaie, l’accompagnarono colle voci; ma di tanto in tanto interrompevansi con grandi scoppi di risa, provocati dalle parole. Nel più bello del divertimento, e quando la brigata era nella maggior allegria, si udì bussare di nuovo alla porta. Safia, cessando dal canto, andò a vedere chi fosse.

«Ma sire,» disse in questo punto Scheherazade, «fa d’uopo che vostra maestà sappia perchè si bussasse sì tardi alla porta delle dame: eccone il motivo. Il califfo Aaron-al-Raschid era solito girare di frequente alla notte incognito, per sapere in persona se tutto nella città fosse tranquillo, e se non vi si commettessero disordini. Quella notte era il califfo uscito di buon’ora, accompagnato da Giafar4, suo gran [p. 119 modifica]visir, e da Mesrur, capo degli eunuchi del palazzo, tutti e tre travestiti da mercadanti. Passando per la via delle dame, quel principe, udito il suono degli strumenti e delle voci, ed il rumore delle risate, disse al visir: — Andate a battere alla porta di quella casa, in cui si fa tanto fracasso; voglio entrare, e saperne il motivo.» Ebbe il visir bel rappresentargli esser donne che banchettavano in quella sera; che il vino probabilmente aveva loro riscaldata la testa, e che non doveva esporsi a ricevere qualche insulto; che l’ora non era ancora indebita, e non bisognava sturbare l’altrui divertimento. — Non importa,» rispose il califfo, «bussate; ve lo impongo.» Era dunque il gran visir Giafar che avea bussato alla porta delle dame per ordine del califfo, il quale voleva rimanere sconosciuto. Safia aprì, ed il visir, osservando al chiaror della lampada ch’essa portava in mano, essere una dama di gran bellezza, rappresentò a perfezione la propria parte. Le fece un profondo inchino, e le disse in aria rispettosa: — Signora, noi siamo tre mercadanti di Mussul5, giunti da circa dieci giorni con preziose merci cui teniamo in magazzino in un khan6 ove abbiam preso alloggio. Siamo oggi stati da un negoziante di questa città, il quale ci avea invitati ad andarlo a trovare; ed avendoci offerto da colazione, siccome il vino ne aveva posti di buon umore, fe’ venire alcune ballerine: ma era già notte, e [p. 120 modifica]mentre si suonavano gli strumenti, che le ballerine danzavano, e che la brigata faceva gran chiasso, passò la pattuglia e si fece aprire. Alcuni della compagnia vennero arrestati. Quanto a noi, avemmo la fortuna di fuggire, scavalcando un muro; ma,» aggiunse il visir, «siccome siamo forestieri ed inoltre un po’ alterati dal vino, temiamo d’incontrare un’altra pattuglia, od anche la stessa, prima di arrivare al nostro khan, ch’è lontano di qui. E vi giungeremmo anche inutilmente, essendone ora chiusa la porta, la quale non si riaprirà sino a domattina, checchè succeda. È per tal motivo, signora, che avendo udito, nel passare, il suono degli strumenti e rumori di voci, giudicammo che non fossero ancor andati a letto in casa vostra, e ci prendemmo la libertà di bussare per pregarvi di darci ricovero fino a giorno. Se vi sembriamo degni di partecipare al vostro divertimento, procureremo di contribuirvi per quanto starà in noi onde riparare al disturbo che vi abbiamo recato; in caso diverso, fatene, se non altro, la grazia di permetterci di passare la notte al coperto sotto il vostro atrio.» Durante tale discorso di Giafar, la bella Safia ebbe tempo di esaminare il visir e le due persone che dicevansi anch’esse mercanti, e stimando dalla fisonomia non fossero gente del volgo, disse loro che non essendo ella la padrona, se volessero avere un po’ di sofferenza, tornerebbe colla risposta. Safia andò quindi a fare il suo rapporto alle sorelle, le quali rimasero perplessa alcun tempo sul partito da prendere. Ma essendo d’indole benefica ed avendo già fatta l’istessa grazia ai tre calendari, risolsero di farli entrare.»

Scheherazade accingevasi a continuare la sua novella, ma accortasi ch’era giorno, interruppe il racconto. La qualità de’ nuovi attori dalla sultana introdotti sulla scena eccitando la curiosità di Schahriar, [p. 121 modifica]e lasciandolo nell’aspettativa di qualche singolare avvenimento, quel principe attese con impazienza la notte susseguente.


NOTTE XXXIV


Dinarzade, non men curiosa del sultano di sapere che cosa sarebbe accaduto in casa delle tre dame dopo l’arrivo del califfo, non mancò questa notte di stimolare Scheherazade a riprendere la storia dei calenderi.

— Essendo,» disse la Sultana, «stati dalla bella Safia introdotti il califfo, il suo gran visir ed il capo degli eunuchi, salutarono essi con molta urbanità le dame ed i calenderi. Nè con minore cortesia li ricevettero le dame, credendoli mercadanti; e Zobeide, siccome la maggiore, lor disse coll’accento grave e serio che le conveniva: — Siate i benvenuti; ma prima di tutto non vi dispiaccia che vi si dimandi una grazia. — E quale, signora?» rispose il visir. «Come potremmo negarla a sì vezzose dame? — Questa consiste,» ripigliò Zobeide, «nell’avere occhi, ma non lingua; di non interrogarci su quanto possiate vedere, e non parlare di ciò che non vi risguarda, acciò non abbiate ad udire quello che forse non vi potrebbe piacere. — Sarete obbedita, signora,» disse il visir. «Noi non siamo nè censori, nè curiosi indiscreti; ci basta attendere alle nostre cose, senza immischiarci in quelle che non ci concernono.» Ciò detto, ciascuno sedè, ripigliossi la conversazione, e si ricominciò a bere in onore dei nuovi venuti.

«Mentre il visir Giafar discorreva colle dame, non poteva il califfo stancarsi d’ammirarne la [p. 122 modifica]straordinaria bellezza, le grazie, il lieto umore ed il molto spirito. D’altra parte nulla parevagli più sorprendente dei calenderi, tutti e tre guerci dell’occhio destro. Si sarebbe volentieri informato di tal singolarità, ma la condizione imposta a lui ed a’ compagni vietavagli di parlare. Inoltre, quando rifletteva alla ricchezza ed eleganza dei mobili, alla loro simmetrica disposizione, alla pulitezza della casa, non poteva persuadersi che non vi fosse qualche incantesimo. Caduto il discorso sui divertimenti e sui diversi modi di divertirsi, i calenderi si alzarono, e ballarono alla loro guisa una danza, che aumentò la buona opinione dalle dame già concepita di loro, e che conciliò ad essi la stima del califfo e de’ suoi compagni.

«Quando i tre calenderi ebbero finita la danza, Zobeide sorse, e prendendo per mano Amina: — Sorella,» le disse, «alzatevi: non sarà discaro alla brigata che cessino in noi i riguardi, e la loro presenza non ci vieterà di fare quanto siam solite.» Amina, la quale comprese ciò che volea dire la sorella, si alzò, e portò via i piatti, la tavola, i fiaschi, le tazze e gli strumenti suonati dai calenderi. Nè Safia se ne stette colle mani alla cintola; spazzò la sala, ripose a luogo le cose spostate, smoccolò le lampade, e v’aggiunse nuovo legno d’aloè ed altra ambra grigia. Indi pregò i calenderi di sedere da un lato del sofà, e dall’altro il califfo colla sua compagnia, e disse poi al facchino: — Alzatevi, e preparatevi ad aiutarci in ciò che siamo per fare; un uomo come voi, che può dirsi di casa, non deve starsene ozioso.

«Il facchino, che aveva alquanto digerito il vino, sorse immediatamente, ed attaccati alla cintura i lembi della veste: — Eccomi pronto,» rispose; «che c’è da fare? — Così va bene,» disse Safia, «aspettate d’essere chiamato; non istarete molto tempo colle [p. 123 modifica]braccia incrociate.» In fatti, poco dopo si vide comparire Amina con una sedia che pose in mezzo alla sala; andata poi all’uscio d’un gabinetto, ed apertolo, fe’ segno al facchino di accostarsi: — Venite qui,» gli disse, «aiutatemi.» Obbedì esso, ed entrato con lei, ne uscì tosto, seguito da due cagne nere, che sembravano state maltrattate a colpi di scudiscio, ciascuna delle quali aveva un collare attaccato ad una catena ch’ei teneva, e con esse s’inoltrò in mezzo alla sala.

«Allora Zobeide, che stava seduta fra i calenderi e il califfo, si alzò, e andò gravemente fin dove stava il facchino. — Suvvia,» disse mandando un gran sospiro, «facciamo il nostro dovere.» Snudò il braccio fino al gomito, e presa una frusta, che Safia le presentò: — Facchino,» soggiunse, «consegnate una di quelle cagne a mia sorella Amina, e con l’altra avvicinatevi.

«Obbedì il facchino, e quando fu presso a Zobeide, la cagna che conduceva cominciò a guaire, e si volse a Zobeide alzando in modo supplichevole la testa. Ma la dama, senza aver riguardo al mesto contegno della cagna che faceva pietà, nè a’ suoi urli che riempivano tutta la casa, la battè finch’ebbe fiato, e quando le mancarono le forze, gettò la frusta per terra; poi levando di mano al facchino la catena, alzò la cagna per le zampe, e mettendosi ambedue a guardarsi reciprocamente in aria triste e pietosa, piansero l’una e l’altra. Infine Zobeide, cavato il fazzoletto, asciugò le lagrime della cagna, la baciò, e riconsegnando la catena al facchino: — Andate,» gli disse, «riconducetela ove l’avete presa, e recatemi l’altra.» Il facchino ricondusse la cagna frustata nel gabinetto, e tornatone, prese l’altra dalle mani di Amina, e la presentò a Zobeide, che l’aspettava. — Tenetela come la prima,» disse al facchino; e ripigliato lo scudiscio, la maltrattò [p. 124 modifica]nello stesso modo dell’altra. Pianse poscia con lei, ne asciugò le lagrime, la baciò riconsegnandola al facchino, al quale la vezzosa Amina risparmiò la pena di ricondurla al gabinetto, essendosene ella medesima incaricata.

«Frattanto i tre calenderi, il califfo ed i suoi compagni rimasero estremamente maravigliati di quell’esecuzione, nè potevano comprendere come mai Zobeide, dopo aver frustate con tanta forza le due cagne, animali immondi, secondo la religione musulmana, piangesse con loro, ne asciugasse le lagrime e le baciasse; e tra essi ne mormoravano. Il califfo soprattutto, più impaziente degli altri, bramava ardentemente di sapere il motivo d’un atto che sembrava sì strano, e non cessava di far segno al visir d’informarsene. Ma il visir volgeva altrove la testa, sinchè, costretto dai reiterati segni, rispose con altri segni, non essere tempo di soddisfare la sua curiosità.

«Restò Zobeide ancora qualche momento in mezzo alla sala, quasi per riaversi dalla fatica fatta frustando le cagne. — Cara sorella,» le disse la bella Safia, «compiacetevi tornare al vostro posto, affinchè faccia anch’io la mia parte. — Sì,» rispose Zobeide, e ciò detto, andò a sedersi sul sofà, avendo a destra il califfo, Giafar e Mesrur, ed a sinistra i tre calenderi ed il facchino...

— Sire,» disse a questo passo Scheherazade, «le cose udite da vostra maestà debbono senza dubbio parervi maravigliose; ma ciò che resta a raccontare, lo è molto di più. Son persuasa che ne converrete la notte vegnente, se vorrete permettermi di finire questa storia.» Il sultano acconsentì, e si alzò essendo giorno.

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NOTTE XXXV


Non appena fu svegliata la sultana, che tosto si mise in dovere di continuar il racconto nel modo seguente, sempre volgendo la parola al sultano:

— Sire, tornata che fu Zobeide al suo posto, tutta la compagnia rimase per qualche tempo in silenzio. Da ultimo, Safia, che stava seduta sulla sedia in mezzo alla sala, disse alla bella Amina: — Mia cara sorella, alzatevi, ve ne prego; già sapete cosa intendo dire.» Amina si alzò ed andò in un altro gabinetto diverso da quello ov’erano stato ricondotte le due cagne, e presto ne tornò con un astuccio guarnito di raso giallo, leggiadramente ricamato in oro e seta verde, si avvicinò a Safia, ed aperto l’astuccio, ne trasse un liuto e glielo presentò. Questa lo prese, e messo alcun tempo in accordarlo, cominciò a trarne qualche suono; poi, accompagnandolo colla voce, cantò una canzone sugli affanni dell’assenza, con tanta grazia, che tutti ne rimasero sorpresi. Siccome però aveva cantato con molta passione ed azione nel medesimo tempo, — Prendete, sorella,» disse alla vezzosa Amina, «sono stanca e mi manca la voce; divertite la compagnia suonando e cantando in mia vece. — Ben volentieri,» rispose Amina, accostandosi a Safia, che le consegnò il liuto e le cedè il posto.

«Amina, fatto un breve preludio per sentire se lo strumento fosse accordato, suonò e cantò quasi altrettanto tempo sul medesimo argomento, ma con tanta forza, ed era sì commossa o, a meglio dire, tanto penetrata dal senso delle parole cantate, che nel finire mancaronle le forze.

«Volle Zobeide attestarle la sua soddisfazione; e: [p. 126 modifica]— Sorella,» le disse, «avete fatto maraviglie; ben si capisce che provate il male cui tanto vivamente esprimete.» Amina non ebbe tempo di rispondere a tal complimento; che sentivasi in quel punto il cuore tanto oppresso, che non pensò se non a prender aria, lasciando così vedere a tutta la brigata un collo ed un seno, non già candidi qual una dama sua pari doveva averli, ma sformati da cicatrici; ciò che fece quasi orrore agli astanti. Non n’ebbe però alcun sollievo, ed anzi cadde svenuta...

— Ma, sire,» disse Scheherazade, «non mi avvedeva che è già giorno;» e con tali parole cessando dal racconto, il sultano si alzò.


NOTTE XXXVI


Dinarzade, secondo il suo costume, supplicò la sorella a continuare la storia delle dame e dei calenderi; e Scheherazade la ripigliò:

— Mentre Zobeide e Safia correvano ad assistere la sorella, uno dei calenderi non potè trattenersi dal dire: — Ci sarebbe stato più gradito dormire all’aria aperta che l’entrar qui, se avessimo creduto essere testimoni di simile spettacolo.» Il califfo, che l’intese, si accostò a lui e agli altri calenderi, e disse: — Che cosa significa questo?» e quegli il quale aveva parlato, rispose: — Signore, noi non lo sappiamo meglio di voi. — Che!» ripigliò il califfo, «non siete di casa? Non potete dirci nulla di quelle due cagne nere, e di questa dama svenuta e sì brutalmente maltrattata? — Signore,» soggiunsero i calenderi, «mai in nostra vita non siamo venuti in questa casa, e non ci siamo entrati che pochi momenti prima di voi.

«Ciò accrebbe lo stupore del califfo. — Forse,» [p. 127 modifica]ripigliò allora, «quell’uomo che si trova con noi ne saprà qualche cosa.» Un calendero fe’ segno al facchino di avvicinarsi, e gli chiese se sapesse perchè fossare state battute le cagne, e per qual cosa il seno di Amina era tutto piagato. — Signore,» rispose il facchino, «posso giurare pel gran Dio vivente, che se voi non sapete nulla di tutto questo, neppur noi ne sappiamo gli uni più degli altri; è vero che io sono di questa città, ma non sono mai entrato in questa casa prima d’oggi, e se voi vi maravigliate di vedermi qui, io non mi maraviglio meno di trovarmici in vostra compagnia. Quello poi che raddoppia il mio stupore, è di vedere queste dame sole senza nessun uomo.

«Il califfo, la sua compagnia ed i calenderi avevano creduto che il facchino fosse di casa, e potesse informarli di quanto bramavano sapere; Aaron, risoluto di soddisfare a qualunque costo la sua curiosità, disse agli altri: — Sentite, noi siamo qui sette uomini, e giacchè non abbiamo a fare che con tre donne, obblighiamole a darci gli schiarimenti che desideriamo; se non vogliono prestarsi di buona voglia, siamo in grado di costringervele.

«Il gran visir Giafar si oppose a quell’idea, e ne fece comprendere le conseguenze al califfo, senza per altro far mai conoscere il principe ai tre calenderi; volgendogli dunque la parola quasi fosse stato un mercadante: — Signore,» gli disse, «considerate, ve ne prego, che abbiamo la nostra riputazione da conservare. Sapete con qual condizione queste dame acconsentirono a riceverci in casa loro, e noi abbiamo accettato. Che cosa si direbbe di noi se mancassimo alla data fede? E saremmo ancor più da biasimare se ci accadesse qualche disgrazia. Non è probabile ch’esse abbiano voluto da noi tal promessa, senza essere in grado di farcene pentire se non la manteniamo.

«Qui il visir trasse in disparte il califfo, e [p. 128 modifica]parlandogli sottovoce: — Sire,» proseguì, «la notte è quasi al suo termine; abbia dunque vostra maestà un po’ di sofferenza. Verrò domattina a prendere queste dame, le condurrò al vostro cospetto, e da esse saprete tutto ciò che desiderate.» Sebbene giudiziosissimo fosse il consiglio, il califfo lo rifiutò, ed impose silenzio al visir, dicendogli di non poter attendere tanto tempo, e che pretendeva aver sul momento i bramati schiarimenti. Non trattavasi dunque più che di sapere chi comincerebbe ad aprir labbro. Tentò il califfo d’indurre i calenderi a parlare pei primi, ma essi se ne schermirono. Infine convennero tutti d’incaricarne il facchino. Si preparava questi a far l’interrogazione fatale, quando Zobeide, dopo aver soccorsa Amina, già rimessa dal suo svenimento, si accostò, ed avendoli uditi parlar forte e con calore, lor disse: — Signori, di che parlate? qual è il soggetto della vostra contestazione?» Allora il facchino: — Mia bella dama,» tosto le rispose, «questi signori vi supplicano di voler loro spiegare perchè, dopo aver maltrattato le vostre due cagne, avete pianto con esse, e d’onde avviene che la dama svenuta abbia il seno coperto di cicatrici. Questo è ciò che fui incaricato di chiedervi da parte loro.» Zobeide, a tali accenti, prese un fiero aspetto, e voltasi verso il califfo, i suoi compagni ed i calenderi: — È vero, signori,» chiese, «che voi l’avete incaricato di farmi tale domanda?» Tutti affermarono, tranne il visir Giafar, che non disse parola. Alla qual confessione, la donna disse con voce che dimostrava quanto ne fosse offesa: — Quando vi concedemmo la grazia che ci richiedeste di accogliervi sotto il nostro tetto, onde prevenire ogni motivo di essere malcontente di voi, essendo noi solo, lo abbiam fatto coll’espressa condizione di non parlare di quanto non vi risguardasse, per non udir cose che potessero spiacervi. Dopo avervi [p. 129 modifica]ricevuti e trattati il meglio che ne fu possibile, or non lasciate però di mancare alla vostra parola. Vero è che possiamo imputarlo alla troppo al latroppo al latroppo facile nostra condiscendenza, ma questo non vi scusa, ed incivile è il vostro procedere.» E sì dicendo, battè forte per tre volte i piedi e le mani, e gridò: — Accorrete.» Tosto una porta si aprì, e sette schiavi negri, grandi e robusti, entrarono colla scimitarra sguainata, s’impadronirono ciascuno de’ sette uomini della brigata, li stramazzarono a terra, li trascinarono in mezzo alla sala, e prepararonsi a tagliar loro il capo... È facile immaginarsi lo spavento del califfo, il quale ben si pentì allora, ma troppo tardi, di non aver voluto seguire i consigli del visir. Già quel disgraziato principe, Giafar, Mesrur, il facchino ed i calenderi erano sul punto di pagar colla vita la indiscreta loro curiosità; ma prima di portare il colpo mortale, uno degli schiavi disse a Zobeide ed alle sue sorelle: — Alte, potenti e rispettabili padrone, ci comandate voi di troncar loro la testa? — Aspettate,» rispose Zobeide, «voglio prima interrogarli. — Signora,» soggiunse atterrito il facchino, «in nome di Dio, non mi fate morire per l’altrui colpa. Io sono innocente; son essi i rei. Aimè!» continuò piangendo; «noi passavamo il tempo sì allegramente! Quei calenderi guerci sono causa di questa disgrazia. Non v’ha città che non cada in ruina davanti a gente di sì cattivo augurio. Signora, vi scongiuro di non confondere il primo coll’ultimo; pensate ch’è più bello perdonare ad un miserabile par mio, sprovvisto d’ogni difesa, che schiacciarlo sotto il poter vostro, sagrificandolo al vostro risentimento.

«Zobeide, malgrado la sua collera, non potè trattenersi dal ridere fra sè dei lamenti del facchino. Ma senza badargli, volse per la seconda volta la parola a tutti gli altri. — Rispondete,» disse, «e palesatemi [p. 130 modifica]chi siete; altrimenti non vi rimane più che un istante di vita. Io non posso credere che siate persone oneste, uomini autorevoli o distinti nel vostro paese, qualunque esso sia. Se ciò fosse, vi sareste meglio contenuti, e ci avreste avuti maggiori riguardi.

«Il califfo, impaziente di natura, soffriva assai più degli altri al vedere che la sua vita dipendeva dal cenno d’una donna offesa e giustamente irritata; ma quando udì ch’essa voleva sapere chi fossero tutti, cominciò a concepire qualche speranza, ed immaginando che non gli avrebbe tolta la vita quando fosse informata del suo grado, disse sottovoce al visir, che stavagli vicino, di dichiarar tosto chi egli era. Ma il visir, prudente e saggio, desideroso di salvar l’onore del suo padrone, e non volendo render pubblico il grave affronto ch’erasi da sè cercato, rispose soltanto: — Non abbiamo se non quanto meritiamo.» Ma se puranche, per obbedire al califfo, avesse voluto parlare, Zobeide non gliene avrebbe dato tempo: erasi ella già rivolta ai calenderi, e vedendoli tutti e tre guerci, chiese loro se fossero fratelli. Uno di essi rispose pegli altri: — No, signora, non siamo fratelli di sangue, non lo siamo che in qualità di calenderi, cioè osservando il medesimo tenore di vita. — Voi,» ripigliò essa, parlando ad un solo in particolare, «siete guercio di nascita? — No, signora,» rispose colui; «lo sono per un’avventura sì maravigliosa, che non v’ha chi non ne approfitterebbe se fosse scritta. Dopo quella disgrazia, mi feci radere la barba e le sopracciglia, e fattomi calendero, indossai l’abito che porto.

« Volse Zobeide la medesima domanda ai due altri calenderi, che le diedero egual risposta del primo. Ma l’ultimo che parlò soggiunse: — Per farvi poi conoscere che noi non siamo persone del volgo, ed affinchè possiate averci qualche riguardo, sappiate che tutti e tre siamo figli di re. Sebbene non ci fossimo [p. 131 modifica]mai veduti prima di stasera, abbiamo però avuto il tempo di farci conoscere l’un l’altro per quello che siamo; ed oso assicurarvi che i re, da’ quali ebbimo vita, destarono qualche rumore nel mondo.

«A tal discorso, moderò Zobeide il proprio sdegno, e disse agli schiavi: — Lasciateli liberi, ma fermatevi qui. A quelli che ci racconteranno la loro storia ed il motivo che li ha condotti in questa casa, non farete alcun male, e li lascerete andare ove vorranno; ma non risparmiate chi volesse rifiutar di darci tal soddisfazione....»

La sultana qui tacque; ed il suo silenzio, al pari del giorno che compariva, facendo conoscere a Schahriar esser tempo di alzarsi, egli uscì proponendosi d’udire al domani Scheherazade, desideroso di sapere chi fossero i tre calenderi guerci.


NOTTE XXXVII


— Sire,» continuò la sultana in questa trentesimasettima notte, «i tre calenderi, il califfo, il gran visir Giafar, l’eunuco Mesrur ed il facchino trovavansi tutti in mezzo alla sala, seduti sur un tappeto, al cospetto delle tre dame che stavano sul sofà, e degli schiavi pronti ad eseguire gli ordini delle padrone.

«Il facchino, avendo inteso non trattarsi che di raccontare la sua storia per liberarsi da sì grave pericolo, prese pel primo la parola, e disse: — Signora, vi è già noto il motivo che mi ha condotto in casa vostra; perciò quanto ho da raccontare sarà in breve finito. La signora vostra sorella qui presente mi ha preso questa mattina in piazza, dove, in qualità di facchino, aspettava che qualcuno m’impiegasse per guadagnarmi il vitto. L’ho seguita da un venditore [p. 132 modifica]di vino, da un erbaiuolo, da una venditrice di melarance, di limoni e di cedri; dopo, da un mercante di amandorle, noci, nocciuole ed altri frutti; poscia da un confettiere e da un droghiere; da questo, colla mia cesta sul capo e carico quanto poteva mai esserlo, sono venuto fino a casa vostra, ove aveste la bontà di tollerarmi sin ora, grazia della quale mi ricorderò in eterno. Ecco la mia storia.

«Terminato ch’ebbe il facchino, Zobeide, soddisfatta, gli disse: — Vattene alla buon’ora, che non ti vediamo mai più. — Signora,» rispose il facchino, «vi supplico di permettermi di restare ancora. Non sarebbe giustizia che dopo aver dato agli altri il piacere d’udire la mia storia, io non avessi poi quello d’ascoltare la loro.» E sì dicendo sedè ad un capo del sofà, tutto contento d’essersi cavato d’un pericolo che tanto lo aveva spaventato. Dopo di lui uno dei tre calenderi prese la parola, e volgendosi a Zobeide, come alla principale delle tre dame, e quella che gli aveva comandato di parlare, così cominciò:


Note

  1. Questa parola significa in arabo successore, relativamente a Maometto. Dopo la morte di questo legislatore, nel 634, Abubere, suo suocero, eletto a succedergli, assunse il titolo di califfo, che servì per molto tempo ad indicare i capi della religione maomettano.
  2. Aaron o Haroun Raschild, quinto califfo della stirpe degli Abassidi, fu contemporaneo di Carlomagno. Fu un principe inconcepibile, pel miscuglio delle sue buone e cattive qualità. Valoroso, pacifico, liberale, sparse il terrore nei nemici ed i banchi sui popoli; perfido, capriccioso, ingrato, sacrificò i diritti più sacri dalla gratitudine, della giustizia e dell’umanità a’ suoi ingiusti sospetti ed alla bizzarria de’ propri gusti. Gran parte dell’Asia, dell’Affrica e dell’Europa, dalla Spagna alle Indie, piegò sotto le vittoriose sue armi. Otto battaglie vinte in persona, le arti e le scienze tornate in fiore, ne resero illustre il nome. Sotto di lui, gli Arabi, che già adottavano le cifre indiane, le recarono in Europa, e non si conobbe in Alemagna ed in Francia il corso degli astri se non per opera degli Arabi medesimi: la sola parola almanacco ne è tuttora un documento. Morì l’anno 800 di G. C., e il 23 del suo regno. Troveremo spesse volte il nome di codesto califfo nel seguito di queste novelle.
  3. Religiosi maomettani, così chiamati dal nome del loro fondatore Calenderi. I suoi discepoli lo rappresentano come un dotto filosofo, che possedeva sovrannaturali virtù, col cui mezzo faceva miracoli, camminava egli a testa nuda ed il corpo coperto di piaghe; non portava camicia, nè altro abito fuor di una pelle di bestia selvaggia sulle spalle; aveva la cintura adorna di pietre preziose miste a diamanti falsi.
    I calenderi amano l’allegria ed il piacere, vivono alla spensierata, e ripetono spesso fra loro: «L’oggi è nostro, il domani chi sa di goderne?» Fedeli a questa massima, impiegano tutto il loro tempo a mangiare e bere. Quando sono ammessi in casa di persone ricche, cercano rendersi grati con novelle e lepidezze, onde si faccia loro buon trattamento. La maggior parte sono vagabondi, che hanno la taverna in onore quanto la moschea. Usano un’acconciatura di particolar forma.
  4. Giafar, della famiglia de’ Barmecidi, favorito di Aaron Alrascid, di cui aveva sposata la sorella Abassa, a condizione che non fruissero degli amorosi piaceri. L’ordine fu in breve posto in non cale, ed essi ebbero un figlio, che mandarono segretamente alla Mecca. Avutone sentore il califfo, Giafar cadde in disgrazia, e poco dopo n’ebbe tronca la vita; Abassa, scacciata dal palazzo, finì miseramente i suoi giorni.
  5. Mussul, città della Mesopotamia, ora appartenente al Gran Signore. Esistono in essa fabbriche di tela di cotone, e dal nome di lei è derivato quello di mussolina.
  6. Khan, o caravanserraglio: edificio che in Oriente serve di magazzino o d’albergo pei negozianti, ed ove le carovane vengono alloggiate gratuitamente o per un prezzo assai modico.