Opere (Giacomo Leopardi, 1845), Volume I/Notizia intorno a Leopardi/Notizia intorno agli scritti, alla vita ed ai costumi di Giacomo Leopardi

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Notizia intorno agli scritti, alla vita ed ai costumi di Giacomo Leopardi

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Notizia intorno agli scritti, alla vita ed ai costumi di Giacomo Leopardi
Notizia intorno a Leopardi Notizia intorno a Leopardi - Note

[p. ix modifica]NOTIZIA INTORNO AGLI SCRITTI, ALLA VITA ED Al COSTIMI DI GIACOMO LEOPARDI. Poiché l’universo è una viva rappresentazione d’una intelligenza e d’una forza infinita, e l’uomo, che vive in esso, è una viva rappresentazione dell’universo, egli è deputato a rappresentarlo prima col pensiero propriamente detto, ch’è la parola, poi col pensiero incarnato, ch’è 1’ azione. La maggiore o minore imperfezione e delle due parti onde consta quella rappresentazione e della corrispondenza reciproca fra loro, constituisce il volgo o il grande uomo. Sventuratamente l’uomo sortisce talvolta il nascere in contrade o in tempi così esiziali alla sua specie, che il pensiero non trova o cagione o possibilità d’incarnarsi e di manifestarsi sotto la forma dell’azione. Allora tutto l’essere umano si concentra nel pensiero propriamente detto, cioè nella parola; e dove quell’essere sia polente, apparisce quella dimezzata maniera di grande uomo che si domanda grande scrittore. Dunque, come la vita di un grande uomo in generale LEOPARDI. — 1. b X INTOR [p. x modifica]NO AGLI SCRITTI, ALLA VITA KD AI COSTUMI si compone della storia de’suoi pensieri e delle sue azioni, quella di un grande scrittore in particolare si compone della storia solamente de’suoi pensieri. E però la breve notizia che ora si dà del grande scrittore Giacomo Leopardi, non potrà versarsi in viaggi, battaglie ed altri casi strani e romorosi, ma nel modo onde c l’universo successivamente gii apparve ed egli il venne successivamente manifestando. Giacomo Leopardi nacque in Recanati, città della Marca di Ancona, a dì 29 di giugno 1798, da Monaldo Leopardi, conte, e da Adelaide dc’marchesi Antici. Ebbe a maestri, nei primi studi di umanità, Giuseppe Torres, poi, in quelli di umanità e di filosofia insieme, Sebastiano Sanchini, l’uno e l’altro ecclesiastico. Col primo studiò fino a’nove anni, col secondo fino ai quattordici; e dato un pubblico saggio di filosofia, non ebbe più altro maestro al mondo che la vasta biblioteca de’ suoi maggiori. Quivi (già provetto nella propria lingua e nella latina) imparò miracolosamente da se stesso non solo la francese, la spagnuola e l’inglese, ma ancora, quel ch’è assai più, la greca e l’ebraica, nella quale giunse insino a disputare con alcuni dotti ebrei anconitani. Il grande ingegno consta di due elementi quasi incompatibili, una gran fantasia e un gran raziocinio. La rarità della congiunzione di questi due elementi, e la frequenza della loro separazione, forma la rarità dei grandi ingegni c la frequenza dei mediocri. E poiché lo scibile altro non è che l’applicazione dell’ingegno umano, cioè della congiunzione di que’due elementi, all’universo, il Leopardi, in cui quella congiunzione fu mara[p. xi modifica]DI GIACOMO LEOPARDI. XI vigliosa, conquistate nelle lingue le chiavi dello scibile ovvero dell’universo, studiò prima l’applicazione che vi fecero del loro ingegno i grandi uomini o antichi o moderni che lo avevano preceduto, e poi vi applicò il suo proprio. Ma a que’due elementi -era congiunto un terzo, la malattia, il dolore, la parte più inesplicabile dell’inesplicabile mistero dell’universo. Laonde, sferzato da un tanto flagello, egli ne domandò la spiegazione prima a quello studio e poi a quell’applicazione, prima agli altri e poi a se stesso; e questa perpetua ed insaziabile interrogazione è il pensiero a un tempo dominante ed occulto de’suoi scritti. In nessun uomo non fu mai traveduto meno oscuramente l’innesto terribile di que’due principii che diedero agli uomini il primo concetto d’Oromazo e d’Arimane; il maggior bene, l’intelletto, commisto col maggior male, il dolore. Egli si valse del primo a manifestare il secondo; e cantò, per così dire, l’inferno colle melodie del paradiso. Lo studio dell’applicazione all’universo dei grandi ingegni passati e del modo ond’ ella seguì e ond’ essi la manifestarono, constituisce la filologia. L’applicazione all’universo del primo elemento del proprio ingegno (cioè della fantasia) e la manifestazione del modo ond’ella segue, constituisce la poesia. L’applicazione all’universo stesso del secondo elemento del proprio ingegno (cioè del raziocinio) e la manifestazione del modo ond’ ella segue, constituisce la filosofia. Dunque il Leopardi fu prima gran filologo, poi gran poeta, poi gran filosofo. E per intendere la vera natura del suo ingegno, è mestieri di studiarlo ordinatamente sotto ciascuna delle tre grandi forme che assunse. [p. xii modifica]XII INTORNO AGLI SCRITTI, ALLA VITA ED AI COSTUMI La condizione della contrada ov’egli nacque e studiò, e i travagli della rivoluzione, non consentirono al Leopardi di conoscere il mondo orientale com’è stato possibile di conoscerlo poi, che trent’anni di pace e lo sforzo onnipotente dell’occidente e della civiltà hanno così mirabilmente laceralo il mistico velo che lo nascondeva. Dunque egli cominciò il suo grande studio dal mondo greco; e si scontrò felicemente nei più grandi ingegni che, a memoria d’uomini, si sieno applicati alla considerazione dell’universo. È cosa incredibile (e bisogna esserne stato molti anni testimone e quasi parte per intenderla appieno) la dimestichezza ch’egli aveva presa con quella lingua e con quegli scrittori sovrumani. Basta che nei momenti in cui degnava di non nascondere i prodigi dell’ingegno suo, egli confessava di aver più limpido e viro nella sua mente il concetto greco che il latino o eziandio l’italiano. Da questa dimestichezza egli attinse una sorte di divinazione critica sopra tutti gli autori greci e della migliore e delle più basse età, riscontrata infallibilmente per vera o nei testi più perfetti o negli scolii e nei comenti dei più grandi espositori. Dal mondo greco passò a studiare il mondo latino; e dai dodici ai ventisei anni versò un così fatto tesoro di sapienza filologica in un si sterminato numero di carte, che, senz’ altre prove, s’avrebbe quasi paura di narrarlo solo. Mirabile di profonda e vasta erudizione ò il suo Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Mirabilissima la copia senza fine delle note, delle interpretazioni, delle chiose, dei comenti d’ogni genere sopra un gran numero d’autori antichi, fra i quali Platone, Dionigi d’Alicarnasso, Frontone, Demetrio Falereo, Teono [p. xiii modifica]DI GIACOMO LEOPARDI. XIII Sofista ed altri assai. Più che mirabilissimi i Frammenti ch’egli raccolse di cinquantacinque padri della chiesa. Questi ed altri molti non meno importanti manoscritti filologici egli fidò nel 30, in Firenze, al chiarissimo filologo tedesco Luigi de Sinner, ora professore in Parigi, il quale ha già lasciato pregustarne un piccolo, ma coscienzioso ed accuratissimo, sunto (1): e gli egregi editori parigini del Tesoro di Enrico Stefano usarono volonterosamente di quelle squisite, profonde e peregrine illustrazioni. Gli altri manoscritti di minore importanza sono conservati nella biblioteca paterna (2). A quattordici anni fu preconizzato per un gran portento di sapere dal grande e credibile divinatore degl’ingegni patrii, Pietro Giordani, dal Cancellieri, dal celebre filologo svedese Akerblad; e poscia, di mano in mano, dal Niebhur, dal VValz, dal Thilo, dal Bothe, dal Crenzer, dal Boissonade e da altri innumerabili (3). E chi volesse arrecare tutte le testimonianze che rendettero del suo sterminato sapere i più celebri filoioghi tedeschi, inglesi e francesi, farebbe opera incredibilmente voluminosa. Studiato i greci e i latini, e domandata la misteriosa causa del dolore a tutto l'occidente antico, corse, senza troppo indugiarsi nel medio (dove il dolore non era più mistero) a domandarla all’odierno. Dante e il suo figliuolo Shakspcare risposero finalmente alla sua domanda, e gli dimostrarono l’universo sotto tutto le forme onde interpretava se stesso. Ed allora il Leopardi applicò all’universo il primo elemento del suo proprio ingegno, la sua fantasia; e si rivelò gran poeta. Egli ritrasse le forme di quel mistero, prima dal [p. xiv modifica]XIV INTORNO AGLI SCRITTI, ALLA VITA EO AI COSTUMI mondo intellettuale estrinseco, poi dal mondo intellettuale intrinseco e poi dal mondo materiale; e cantò onnipotentemente prima la caduta d’Italia e dell’ antica civiltà, poi quella delle illusioni pubbliche e delle individuali, e poi finalmente il fato, la necessità e la morte. Alla prima specie appartengono più particolarmente i primi sei canti di questa edizione, alla seconda i successivi venti, alla terza gli altri; e tutti appartengono al luttuoso genere di tutte. 11 mezzodì ricercato, nella profondità de’suoi sonni, dall’ineffabile dolcezza del nuovo lamento, lodò a cielo l’armonia che glieli accompagnava, e si sdegnò dell’alto dolore che glieli rompeva. Ma il settentrione, svegliato e destro a seguitare il secolo in tutte le sue vie, senti più la grandezza dell’uno che la squisitezza dell’altra; ed un gran poeta tedesco pronunziò che quella gran poesia italiana ch’era nata sulle labbra di Dante, era morta alla fine sopra quelle del Leopardi. Poscia che il Leopardi ebbe applicata la sua fantasia all’tfnivcrso, e ritrattone tutte le forme del gran mistero del dolore, si spinse finalmente ad applicarvi il secondo elemento del suo ingegno, l’intelletto, ed a penetrare la sostanza di quelle forme: e si rivelò gran filosofo. Ma il trovare quel che è, era ben altro che il dipingere quel che pare ! La causa di quel mistero oltrepassa i confini fatali dell’intelletto umano. Più l’intelletto del Leopardi si travagliava d’indovinarla, più quella sembrava allontanarsegli ed alla fine dileguare. Allora quel gran pensiero che si era creduto onnipotente, prima s’adirò ferocemente col limite, ch’egli chiamò fato; poi [p. xv modifica]DI GIACOMO LEOPARDI. XV si diffidò d’oltrepassarlo; poi, scambiato l’effetto colla causa, sentenziò che il dolore solo era il vero. E come aveva letto il dolore in tutti; e cantalo il dolore da per tutto; spiegò il tutto col dolore. Applicando il suo prodigioso intelletto all’ universo, egli segui l’ordine stesso che aveva seguito quando v’applicò la fantasia; e, nelle sue Operette morali e nella sua Comparazione di Bruto minore e di Teofrasto, egli spiegò col dolore prima il mondo intellettuale estrinseco, poi il mondo intellettuale intrinseco e poi il mondo materiale. Stanco alla fine da un così affannoso e sterminato viaggio, fatto già quasi insensibile alle loro punture, s’adagiò sulle spine stesse del suo dolore; e risolute le tre scienze, onde aveva tentato l’universo, come in una vasta pozione sonnolenta, vi bevette a larghi tratti l’ob- blio' di tutto l’ente e di se stesso. Ultimamente, smaltita la fiera bevanda, si ridestò; e della potente assimilazione di quella si valse a sorridere, ora sdegnosamente, ora mestamente, ora amaramente, del tutto. I Pensieri e i Paralipomeni (4) sono la manifestazione di questo triplice e spaventevole sorriso (5). Tale fu l’ingegno del Leopardi, e tale la sua storia, considerato nella sua sostanza o, se eziandio si voglia, nella sua forma intrinseca. La forma estrinseca, nella quale esso si manifestò agli altri uomini, fu la più bella che fosse mai assunta dalla più bella lingua parlata. Egli scriveva greco, latino e italiano antico da mentire un antico: e come nel 17 i filoioghi tedeschi avevano tolte per antiche e vere due Odi greche (l’una ad Amore e l’altra alla Luna) e un Inno a Nettuno, medesima¬ [p. xvi modifica]XVI INTORNO AGLI SCRITTI, ALLA VITA ED AI COSTUMI mente greco, del quale fu finta darsi la sola versione e le note; così nel 26 il Cesari tolse per antico e vero testo di lingua il Volgarizzamento del Martirio de’santi padri. Ma la forma vera e spontanea in cui quel prodigioso ingegno si manifestò, e nella quale noi dobbiamo veramente studiarlo, fu la lingua italiana odierna. In questa egli sciolse 1’ antico problema di dire tutto puramente e potentemente; e mostrò che il grande scrittore dee e può essere giusto sovrano e non oppresso suddito della lingua. Mai nessun linguaggio umano non ubbidì più spontaneamente a nessun uomo di quel che la nostra lingua ubbidisse a questo inimitabile scrittore. Forte ed avventalo nei primi sdegni concitati in lui da quel dolore ch’egli sentiva palpitare non meno nella sua propria vita che nell’uni versale, fiero e terribile nella disperazione che gliene seguì, grave ed ineffabilmente semplicissimo nel sopore della stanca rassegnazione eh’ ultimamente lo invase, il suo stile rappresentò a un tempo la varietà, 1’ unità e la perfezione dell’universo, disse tutto in tutti i modi in cui poteva essere detto, e fu grande e vivo esempio che la parola umana è, se può arrischiarsi il vocabolo, la sintesi del mondo, e si arresta solo nel confine che separa il mondo dall’infinito. Oltre a cosi potenti cagioni, l’incanto che il suo stile operava o in versi o in prosa, consisteva nella perfezione della proprietà e dell’ ordinamento delle parole. Egli ritrasse l’artifizio dal cinquecento, la semplicità dal trecento e l’essere proprio e particolare del suo stile, prima dai greci, sommo esempio di perfetto, e poi dal suo secolo c da se stesso, onde l’uomo dee ritrarre innanzi tutto. E non ostanti i suoi sterminati [p. xvii modifica] studi, soleva dire che quando lo scrittore toglie la penna, dee dimenticare il più possibile che v’è libri e sapere al mondo, e dee manifestare il puro e spontaneo concetto della sua mente.

Estimava assai più difficile l’eccellente prosa che gli eccellenti versi, perchè diceva, che gli uni somigliano una donna riccamente abbigliata, l’altra una donna ignuda. E profondamente consapevole di potere tutto scrivendo, sembrava quasi trastullarsi colle più difficili difficoltà della prosa italiana. Per questo e per la carità, che, in mezzo a un giusto disdegno, egli ebbe pur sempre alla cara patria, inclinatosi a mostrare negli Spogli (onde poi il solertissimo Mannuzzi fece sì prezioso tesoro nel suo gran vocabolario), nella Crestomazia italiana e nell’Interpetrazione del Petrarca, come s’abbia a studiare la lingua, lo stile e il sentimento dei grandi scrittori; dopo essersi esercitato a diletto nei latini, imprese a volgarizzare i greci da senno. Egli mostrò nel Manuale di Epitteto, nei Discorsi morali d’Isocrate, nella Favola di Prodico e in un Frammento dell’Impresa, di Senofonte, che così come a nessun greco era ancora seguíto di rivivere nella lingua italiana, così a tutti sarebbe possibile, solo che a far rivivere i grandi ingegni attendessero solo i grandi ingegni. Se non era la congenita malattia, l’intempestiva morte e, forse, la mistica diversità onde questi due divini ingegni contemplarono l’universo, non è dubbio ch’egli avrebbe attinto Platone. E Platone, fatto rivivere in Italia da un Leopardi, avrebbe segnata una grande e nuova era delle lettere italiane.

Considerato, per tal modo, questo portentoso ingegno, non solo, quanto è stato possibile, nella sua [p. xviii modifica]XVIII INTORNO AGLI SCRITTI, ALLA VITA ED AI COSTUMI pria essenza, ma ancora nelle varie forme onde si è venuto di mano in mano palesando, è tempo ormai di considerar 1’ uomo tutto insieme nelle sue attenenze, o accidentali o naturali, sia cogli altri uomini sia con se medesimo; e, in somma, ne’suoi successi e ne’suoi costumi. Nato sulla cima d’un monte (dove l’antico Piceno si piacque di porre le sue città), d’una famiglia gentile, costumata e religiosa, la tenerezza paterna e fraterna, il cielo, le stelle, la luna nascente dall’ acque e il sole cadente dietro le lontane vette dell’Apennino, furono i suoi primi sentimenti e le sue prime gioie. Egli si preparò alla vita come a un giorno festivo; e le sue prime parole furono una benedizione degli uomini e della natura che parevano così carezzevolmente accompagnarlo. Ma poi che la provetta età e la smisurata altezza del suo ingegno gli ebber renduta più necessaria la grandezza dei concittadini che la bontà dei consanguinei, ed il male inemendabile che poscia l’estinse, gli ebbe penetrato talmente l’ossa e Iy midolle che le nevi della montagna non gli furono più .^portabili, nell’acerbezza de’ suoi dolori, egli si chiamò tradito da quegli uomini e da quella natura stessa che aveva già benedetta , dispregiò gli uni e maledisse 1* altra, e, benché insinoalle lacrime dolentissimo de’ suoi cari congiunti, il più costante desiderio della sua vita fu d’andarne a vivere altrove. Spinto da così fieri stimoli, nel novembre del 22 venne a Roma, dove contemplò avidamente nelle eterne cose quella più che umana antichità ch’egli aveva tanto contemplata negli eterni volumi. Poscia s’involse non [p. xix modifica]DI GIACOMO LEOPARDI. XIX meno avidamente fra i codici, massime della Barberi- niana, v’imprese un catalogo dei manoscritti greci, ed altri gravi e stupendi lavori; e se la natura e la fortuna non gli avessero così iniquamente mancato, l’immortale Mai, ch’egli tanto e tanto meritamente ammirò, non sarebbe stalo più solo. Visitato e carezzato a ventiquattro anni dai più gravi oltramontani che dimoravano allora in quella città, il sommo Niebhur faceva pubblica fede al mondo della presente e futura grandezza del giovane recanatese, ed in nome della dottissima Germania, che egli così nobilmente rappresentava, gli offerì indarno in Prussia, quel che non gli avrebbe offerto indarno e mai non gli offerì l’infelicissima Italia, una cattedra di filosofia greca. Poscia, vagando tuttavia solitario, interrogò lungamente quei silenzi e quelle ruine, e lungamente, in sul tramonto del dì, pianse, al lontano pianto delle campane, la passata e morta grandezza. E nel maggio del 23 si ritrasse mesto e taciturno alla solitudine natia. Quivi, mentre l’inesorabile natura avanzava, senza mai posare, nel suo mortifero lavoro, egli pianse, oltre a due anni, i desiderii e le speranze perdute; e nel luglio del 25 gli parve trarsi dagli artigli della morte quando viaggiò, per Bologna, a Milano, dove il tipografo Stella l’invocava come prezioso ed inesausto 'tesoro di erudizione. Quindi gl’inizi e la fama anticipata d’un gran freddo futuro lo risospinsero a Bologna, ch’era stanza allorj^^óspitalità, d’onesta letizia e di sapere. In Bologna,,£tìin’ è variata Italia nella sua divina bellezza, s’innebriò di cordialità, non altrimenti che in Roma s’era innebbriato di grandezza; v’attese con di¬ [p. xx modifica]X\ INTORNO AGLI SCRITTI, ALLA VITA ED AI COSTUMI letto alla correzione delle sue poesie, che si stampavano quivi stesso, e delle sue prose, che si stampavano in Milano ; e ( salva una breve corsa a Ravenna, ove si compiacque di contemplare gli ultimi aneliti dell’ antichità) vi dimorò insino al novembre del 2G, che si rimise in Recanati. Ma quell’incomprensibile, e quasi più che umano, dolore, che fu principio e fine di tutto l’essere del Leopardi, non lo lasciava mai riposare fra le dolcezze familiari, che sono pur sempre o il maggior bene o il minor male che gli uomini s’abbiano sulla terra. Dall’ abisso medesimo del suo dolore egli aspirava, per l’insanabile instinto della specie umana, a quella felicità onde aveva letto, cantato e discorso il vano e il nulla. E sempre dietro al suo fuggitivo fantasma, ripartiva novamente di colà dove pur dianzi, disperato di raggiungerlo, s’era tornato. Nell’aprile del 27 si ricondusse a Bologna, donde, dopo due mesi, si recò a Firenze. Ivi gli si scoperse una nuova scena: non la romana; non la lombarda: ma una più bella ed incantevole; e pure sempre italiana. L’olezzo de’ fiori, l’armonia della lingua, la grazia inenarrabile delle donne, l’innocenza del reggimento, le curve svelte e, per così dire, aeree dell’architettura, un non so che di carezzevole e di casalingo che gli parve arcanamente scusare le pareti domestiche, un non so che d’ attico e di leggiadro eh’ egli aveva creduto insino allora un’idea ed ora la trovava una cosa sensibile ed esistente, gli rappresentarono un sogno leggerissimo ond’ egli sorvolò più mesi il suo dolore ed osò novamente credere alla felicità. E recatosi nel novembre in Pisa, la pace, la quiete, il dilettoso si¬ [p. xxi modifica]DI GIACOMO LEOPABDI. XXI lenzio, l’allegra solitudine e i soli tepidi e quasi orientali dell’inverno e della primavera soprawegnente, gl’infusero un nuovo raggio di vita; e la speranza rinasceva nel suo cuore impietrito come l’erba e i fiori fra le lastre di quelle vie. Nel giugno seguente ritornò in Firenze, e, sospirato assai più angosciosamente di Vittorio, che il mondo non fosse tutto Toscana, si ridusse, fra le malinconie del novembre, a Recanali. Quivi, nell’orribile inverno trascorso fra il 29 e il 30, gli s’ agghiacciarono 1’ ultima volta i sospiri sulle labbra e le lacrime sugli occhi. Si cantò da se stesso il canto della morte nelle Ricordanze, e poi, risorto nella primavera, si ricantò da se stesso il Risorgimento. E stretti l’ultima volta al suo cuore i suoi cari genitori, i suoi fratelli, Carlo ( il suo, più che fratello, amico) e la sua celeste sorella Paolina, se ne svelse dolorosamente, per non doverli mai più rivedere sulla terra. Riviaggiò, fra l’aprile e il maggio, per Bologna a Firenze, con animo di fermarsi quivi indefinitamente. Si riparavano allora in quella ospitale città, per elezione o per destino, quanto viveva d’ uomini più virtuosi e sapienti in tutta la sventurata Italia. Si stringeva la nobilissima e peregrina colonia intorno a Giovan Batista Niccolini, Gino Capponi e Giuliano Frullani, nobilissimo ed innocente triumvirato paesano, deputato a mostrare quel che fosse ultimo nella scienza e nella virtù, come i due antichi triumvirati quel che fosse ultimo nella malvagità e nella tirannia. Il Leopardi sviscerata- mente amò i peregrini e i paesani, e svisceratamente ne fu riamato: ed agli uni ed agli altri, sotto il dolcissimo nome di suoi amici di Toscana, dedicò tutti i suoi più LEOPARDI. — 1. C [p. xxii modifica]XXII INTORNO AGLI SCRITTI, ALLA VITA EU AI COSTUMI preziosi tesori, le sue poesie e le sue prose nella bella edizione che ne diede, e il suo alto dolore nell’affettuosa lettera che vi prepose. Ma nè gli amici, nè la primavera o la state, nè la Toscana stessa e i suoi incanti, valsero a fermare o a pur mitigare l’improba mano della matrigna natura, che veniva da se stessa spietatamente distruggendo il più delicato de’ suoi lavori. Il male del Leopardi era indefinibile, perchè consistendo nelle più riposte fonti della vita, era, come la vita stessa, inesplicabile. Le ossa si rammollivano e disfacevano ogni dì più, e negavano il loro ancorché debole sostegno alle misere carni che Io ricoprivano. Le carni stesse dimagravano e isterilivano ogni dì, perchè i visceri del nutrimento ne rifiutavano loro l’assimilazione. I polmoni, stretti in troppo angusto spazio, c parte non sani, si dilatavano a fatica. A fatica il cuore si sprigionava dalla linfa onde uno stanco riassorbimento lo gravava. Il sangue, che mal si rinnovava nello stentato ed affannoso respiro, si rivolgeva freddo, bianco e lentissimo per le vene affievolite. E, in somma, tutto il misterioso circolo della vita, che a così grande stento si moveva, sembrava ad ora ad ora di dover fermare per sempre. Forse che la grande spugna cerebrale, principio e fine di quel misterioso circolo, aveva succhiato prepotentemente tutte le forze vitali e consumato, ella sola, e in poco d’ora, quel ch’era destinato a bastare, e per gran tempo, al lutto. Ma, che che si sia, la vita del Leopardi non era più un correre, come in tutti gli uomini, ma più veramente un precipitare verso la morte. Valicato, per un gran mare di dolore, materiale ed [p. xxiii modifica]DI GIACOMO LEOPARDI. XXIII intellettuale, tutto l’inverno fra il 30 o 11 31, afferrò l’invocata primavera; e parve ancora qualche momento risorgere. Ma la soprav vegnente state 1’ aggravò si fattamente, che 1’ approssimare dell’ autunno e, più ancora, dell’altro inverno, em^ì gli amici di spavento. I quali consigliatolo di ridursi a passare in Roma le due temute stagioni, vi si ridusse docilmente ai primi dì dell’ ottobre. E sospirata alcun dì la grazia e la leggiadria toscana, dopo che si fu riavuto e rifatto di quell’aria e di quella luce, ricominciò l’antico vagare per quelle eterne bellezze, e, un di, pronunziò sorridendo, che s’era riconciliato con Roma. Non gli accadde, a questa volta, di fremere o di piangere, perchè l’età del fremito e del pianto era fuggita: ma sorrideva amaramente del tristo fine a cui riesce ogni cosa più grande e dei fastidiosi e lugubri vermi che si generano dalla putrefazione dei più nobili cadaveri. E nondimeno non conobbe mai una primavera toscana chi non intende che ai primi fiori ch’egli vide spuntare fra quelle ruine, desiderò irresistibilmente di ricondursi in Firenze, dove giunse in effetto sul primo appropinquare dell’ aprile. Quivi, finché i germi di vita e di sanità che gli si erano innestati nel mezzodì, prosperarono, traversò re- cipientemenle la primavera e la state. E fu talora che, nell’ ebbra stupefazione di quell’ aure odorose ed incantatrici , sospirò l’ultima volta a una felicità sovrumana alla quale non giunse mai nessun uomo, e dalle cui ombre ( quando l’autunno e il verno ebbero mortificate quell’ aure e consumati e uccisi quei germi ) precipitò nelle più atroci realtà dell’ inesorabile morbo che lo distruggeva. [p. xxiv modifica]XXIV INTORNO AGLI SCRITTI, ALLA VITA ED AI COSTUMI Se Roma ha potuto tanto, che cosa non potrà Napoli?... Questo fu il pensiero che soccorse alla mente de’suoi medici e de’suoi più affezionati amici, in tanta disperazione d’ogni altro umano rimedio. Nè egli fu già duro o indocile al loro affetto: e, scampato, come per miracolo, dai rigori dell’inverno, e veduto nella primavera e nella state seguente, che nè quei fiori nè quelle grazie erano più bastanti a mitigare la fierezza de’suoi mali, in su i primi dì di settembre del 33 si partì, che sentiva tuttavia di febbre, di Firenze, e, venuto a piccolissime giornate per la via di Perugia, lasciò la febbre agli alberghi, e pervenne, mediocremente sollevato, in Roma. Quivi dimorò il rimanente del settembre; ed, abbracciato, per l’ultima volta, il suo amorosissimo cugino Melchiorri, giunse in Napoli il secondo dì dell’ ottobre. Quivi è incredibile a dire quanto si confortasse e si ricreasse di quella stagione dell’aere e di quel vivere rigoglioso ed allegro. Abitò comunemente il poggio sub- urbano di Capodimonte; se non se il maggio e l’ottobre, che si riduceva a un casinuccio in su le falde del Vesuvio. Minacciato, per istrana vicenda, ora di tisico, ora d’idropisia, schermiva alternatamente l’una colla sottigliezza dell’ aria del Vesuvio, l’altro colla dolcezza dell’aria di Capodimonte. Passeggiava ora per Toledo, ora lungo il curvo e spazioso lido del mare. Visitava assai frequentemente ora Mcrgellina e Posilipo, ora Pozzuoli e Cuma. Scendeva da Capodimonte alle catacombe, e dal Vesuvio a Pompei o ad Ercolano: e come in Roma aveva apostrofato agli antichi o in mezzo al foro o sotto gli archi trionfali, quivi ragionava dimesticamente con [p. xxv modifica]DI GIACOMO LEOPARDI. XXV loro nelle loro più segrete stanze e nei loro ricetti più occulti. La novità e la salubrità squisitissima dell’ aria, l’affettuosa compagnia di alcuni paesani, la visitazione continua e diversa di tutti i più dotti stranieri eh’ ivi abbondantemente capitavano, e quel suo nuovo vivere aperto e sciolto e al tutto fuori dell’ uso della sua abituale disposizione, parvero allentare, e forse allentarono effettivamente, per quattro lunghi anni, l’operosa e instancabile attività del malore. Egli riebbe miracolosamente l’ordinato esercizio di molte operazioni vitali che insino dalla prima infanzia aveva provate disordinatissime; e cominciò a pronosticarsi una vita delle più lunghe. L’efficienza malefica della natura cominciò a parergli, se non al tutto placata, almeno in parte assopita: e questo concetto, o vero o falso, l’avrebbe forse sostenuto ancora qualche tempo in vita, s’egli non si fosse presupposto, in un modo al tutto inopinato ed insanabile, che la pestilenza collerica ( ampliatasi allora in tutto l’occidente ) era fatalmente deputata o a rinna- sprirla di nuovo o a ridestarla. Era l’agosto del 36, quando, al primo ed ancora lontano annunzio del morbo, desiderò di ridursi nel suo casiuuccio all’aperto della campagna, donde non consentì di tornare a Capodimonte se non nel febbraio del 37. Quivi moltiplicarono i sintomi dell’ idropisia, come alla più aperta campagna erano moltiplicati i sintomi dell’elica. E parte la pestilenza, che nel verno parve dileguata del lutto, risorta assai più fiera e spaventevole nella primavera, rinnovò nell’egra fantasia i terrori d’un modo di morte incognito ed abbominoso, [p. xxvi modifica]XVVI INTORNO AGLI SCRITTI, ALLA VITA KI) AI COSTO»! già sventuratamente innestatigli dal celebre poeta tedesco, Platen, che i medesimi terrori avevano ucciso (assai prima clic il morbo vi giungesse) in Siracusa. Tulli i consigli dei più gravi ed esperimentati medici della città, fra i quali l’aureo Mannella e il Postiglione, tutti i più vigorosi ed estremi partiti della scienza, furono indarno. E il mercoledì lì di giugno, alle ore cinque dopo il mezzodì, mentre una carrozza l’attendeva, per ricondurlo ( ultima e disperata prova ) al suo casino, ed egli divisava future gite e future veglie campestri, le acque, che già da gran tempo tenevano le vie del cuore, abbondarono micidialmente nel sacco che lo ravvolge, ed oppressa la vita alla sua prima origine, quel grande uomo rendette sorridendo il nobilissimo spirito fra le braccia di un suo amico che lo amo e lo pianse senza fine. Così contemplò l’universo, così visse e così morì Giacomo Leopardi, uno dei più grandi scrittori e (se avesse sortito il nascere altrove ) uno dei più grandi uomini che sieno surti in questi ultimi tempi, non solo in Italia, ma in Europa. Grande per maraviglioso e quasi sovrumano ingegno, grande per islerminati e quasi incredibili studi e per prose e poesie altissime ed inimitabili, fu grandissimo e facilmente unico per la modestia e l’innocenza de’suoi costumi. Quest’uomo, degno per tutte le parti di un secolo migliore, si portò intatto nel sepolcro il bore della sua verginità ; e, per questo medesimo, amò due volle (benché senza speranza 'i come mai nessun uomo aveva amato sulla terra. Giusto, umano, liberale, magnanimo e lealissimo, s’immaginò da principio che gli uomini fossero in tulio [p. xxvii modifica]01 GIACOMO LEOPARDI. XIVII buoni. Tradito e disingannato del soverchio che n’aveva sperato, concluse da ultimo eh’ erano in tutto cattivi. E solo la prematura morte l’impedì di giungere a quella terza e riposata disposizione d’ animo per la quale avrebbe estimati gli uomini, quel che veramente sono, nè in lutto buoni nè in tutto cattivi. Gli estremi stessi, nell’ apparenza inesplicabili, ai quali trasandava nel suo vivere pratico e cotidiano,come l’usar troppo o troppo poco il cibo, la luce, l’aria, il molo, la conversazione degli uomini e somiglianti, erano, nell’esistenza, il più vivo e vero testimonio dell’ innata ed angelica bontà dell’animo suo; perchè tentava, per le più opposte vie, la nemica natura, se mai avesse potuto impetrarne l'adito nella grande armonia e nell’ universale amore di tutto il creato, onde il tremendo prestigio del suo immenso dolore gli aveva dato a credere d’essere stato fatalmente escluso. Che se nè quel dolore né quel prestigio fu sanabile, ne maraviglino solo coloro che, nel giudicare i grandi uomini, non guardano nè ai tempi, nè ai luoghi nè alle complessioni, e non sanno presupporre; quel che sarebbero stati o Alessandro o Cesare o Napoleone, se fossero nati nelle condizioni del Leopardi. Questi fu di statura mediocre, chinata ed esile, di colore bianco che volge al pallido, di testa grossa, di fronte quadra e larga, d’occhi cileslri e languidi, di naso profiìlalo, di lineamenti delicatissimi, di pronunziaziono modesta e alquanto fioca, e d’ un sorriso ineffabile e quasi celeste. Il suo cadavere, salvato, come per miracolo, dalla pubblica e indistinta sepoltura dove la dura legge della XXVIII INT [p. xxviii modifica]ORNO AGLI SCRITTI, ALLA VITA ETC. stagione condannava, o appestati o non, i grandissimi e i piccolissimi, fu seppellito nella chiesetta suburbana di San Vitale su la via di Pozzuoli, nel cui vestibolo una pietra, ritratta nella seconda tavola posta dinanzi a questa edizione, ne fa modesto e pietoso ricordo al passeggiero.