Ricordanze della mia vita/Appendici/V. Difesa di Luigi Settembrini dettata innanzi la Corte Criminale di Napoli il dì 9 e 10 gennaio 1851
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V
DIFESA DI LUIGI SETTEMBRINI
dettata innanzi la corte criminale di napoli
il dí 9 e 10 gennaio 1851
I
Quando il procurator generale mi richiedeva a morte, i miei figliuoli, che dalla tribuna udirono le sue parole, discesi giú nel carcere piangendo, ed abbracciandomi mi dissero: «Padre che delitto avete fatto? Perché vi vogliono far morire?» Io per non ispegnere in essi troppo presto i germi di virtú, li benedissi, e risposi loro, che confidassero nei giudici. Confidando adunque in voi, o signori, e volendo anche da questo sgabello dare agli infelici miei figliuoli un insegnamento, che forse può essere l’ultimo, io vi dirò brevemente alcune parole in mia difesa; non per aggiungere alcuna cosa a quello che disse il dotto e cordato mio difensore, ma perché la legge mi dá questo diritto, ed io voglio usarne.
Il rispetto che m’incute la vostra presenza, la naturale mia verecondia, l’estremo pericolo che mi sovrasta e questo momento solenne e terribile mi turbano il cuore e mi fan tremare la mente. Onde io vi prego di ascoltarmi benignamente, e di non voler prendere in senso sinistro, se qualche parola potrá sfuggirmi dal labbro, che non meriti la vostra approvazione. Attribuitela piuttosto alla coscienza dell’uomo onesto, che si sente crudelmente trafitto: io voglio difendere me, non offendere, né accusar nessuno. Pensomi che vedeste con quanta serenitá di animo e di volto ascoltai la requisitoria del procurator generale, e le sue parole che contro di me furono piú acerbe che contro gli altri. Né io me ne dolgo, dappoiché se io son reo, le merito, se sono innocente non mi toccano. E son certo che lo stesso pubblico accusatore, dopo le cose dette nella difesa, se dovesse sedere giudice parlerebbe e voterebbe altrimenti.
Siatemi dunque benigni, ed attendete piú alle mie intenzioni che alle mie parole, le quali saranno brevi, perché se le brevi non bastano, non basterebbero neppure le molte.
Signori: io sono accusato come capo settario e come cospiratore. Sono accusato come capo settario dalla denunzia di Luigi Iervolino, da’ detti di Gaetano Romeo, dalla lettera di Ferdinando Carafa, e dalla dichiarazione di Luciano Margherita.
Sono accusato come cospiratore, perché Luigi Iervolino afferma, che io gli diedi quattro copie d’un proclama per diffonderle, e perché il Margherita dice aver saputo dal Sessa, che io era l’autore di quel proclama.
Questa è tutta l’accusa ed i fonti dell’accusa.
Ma innanzi che io confuti questa accusa consentitemi che faccia tre riflessioni preliminari.
1. La prima è che la colpa vera che si vuole punire in me, non sta scritta nell’atto di accusa stampato, e il procurator generale nella sua requisitoria fa intravederla in una reticenza, quando dopo di aver detto che io fui sottoposto ad altro giudizio politico, aggiunge queste parole: «a questo solo mi arresterò su di Luigi Settembrini». Il mio vero delitto è il mio nome; ma ricordatevi, o giudici, in che paese ed in che tempi viviamo, ricordatevi negli anni passati quanti uomini onesti ed intemerati hanno avuto nomi di tristi e di spie, e quanti tristi sono stati chiamati eroi; e non vi parrá strano che io, il quale ho avuto sempre fortuna, desiderii, opinioni moderatissime, sia creduto un uomo trasmodante e sfrenato. Nessuno di voi mi aveva mai veduto, nessuno mi aveva mai parlato. La prima volta che mi vedeste fu su questo scanno, e mi vedeste non quale io sono, ma quale l’opinione del volgo mi dipingeva, mi vedeste cinto da una nera nube, la quale voi ormai dovete squarciare, dovete conoscere il vero, non vedere cogli occhi del volgo, giudicare de’ fatti, non del nome.
2. La seconda riflessione è una veritá confermata dalla storia di tutt’i tempi e di tutt’i paesi, che si vede in fatto giornalmente, e che io desidero che voi tenghiate bene in mente. Questa veritá è, che in tempi di civili discordie, raramente è giusta una sentenza pronunziata in causa politica. Non intendo d’offender voi, ma voglio dire che in questi tristi tempi si mostrano le passioni piú sozze e nefande. Ambizioni, sdegni, vendette nell’una parte e nell’altra: e quando una parte è vinta, sorgono come vermi tutti i vigliacchi e tutti gli accusatori: chi per vendicare offese ricevute, chi per far dimenticare le colpe sue, o l’avere parteggiato per i vinti, chi per paura, chi per speranza di guadagno, chi per avere un impiego, chi per mantenere quello che ha, chi per acquistarne uno maggiore, chi per ottener grazia e protezione, e chi infine per depravazione di cuore e per feroce istinto di nuocere. Si sbrigliano tutte le passioni, si accendono tutte le fantasie, si esagera ogni cosa, si crede di far sempre poco, la veritá si nasconde, e nascono le calunnie politiche, le quali crescono, secondo crescono le discordie e le persecuzioni. In questi tempi nessuno è privo delle passioni di parte, non gli accusatori, non i testimonii, non gl’istruttori de’ processi, confesso che io non ne sono privo, e credo di non offendervi, dicendo che voi stessi non ne potete esser privi; giacché neppure i saggi possono spogliarsi interamente de’ vizii, delle virtú, degli errori, delle passioni de’ loro tempi. E se mai questo misero paese fosse commosso da altre politiche agitazioni (che Dio allontani sempre da noi questo male) e se la fortuna volgesse da altra parte, quante calunnie si scaglierebbero contro di voi; di quanti fatti voi sareste accusati, che neppure conoscete; quanti testimonii direbbero che vi hanno udito, vi hanno veduto, vi hanno parlato: e voi non potreste confonderli altrimenti che col negare, dappoiché gli amici vi abbandonerebbero, e coloro che potrebbero attestare il vero, si tacerebbero per paura, e vi pregherebbero di non nominarli. Questa è la condizion nostra presente.
Considerate dunque, o giudici sapientissimi, la tristizia de’ tempi, considerate che in quell’immenso processo stanno vive e bollenti immense passioni, considerate chi sono quelli i quali pretendono di avervi scoperto il vero, di quante infamie sono bruttati i principali denunzianti e testimoni di questa causa. Avete udito che una scimia con parola umana vi confessava di aver denunziati i propri fratelli, avete udito che un sacerdote di Cristo si chiude in carcere per spiare e denunziare. E costoro vi avranno detto il vero, e costoro saranno gli amici del trono e dell’ordine? i sudditi fedeli del re? gli uomini obbedienti alle leggi? Or mettetevi, o giudici, una mano sul cuore, giudicate e dite: «A Luigi Settembrini ed ai suoi compagni sia tagliato il capo come a’ nemici pubblici, ed al Marotta, al Cristiano, al Iervolino, al Vittoria, al Fiorentino, al Carpentieri, ed agli altri consorti sieno rendute grazie, e data una corona civica». Giudici sapienti e giusti, se condannerete me, voi questo direte.
3. La terza riflessione è, che a me solo fra tutti gli accusati è stato negato ogni discarico. Io rispetto le decisioni della gran corte, e non me ne dolgo affatto. L’avete creduto giusto, io piego la fronte. Ma questo, o signori, non è fatto mio, ma vostro: e voi dovete accettare le conseguenze logiche del fatto vostro, perché la logica e la giustizia sono una cosa.
Per mostrarvi quali furono sempre le mie opinioni ed i miei sentimenti, io non mi avviliva a darvi testimoni per la buona vita e fama, ma vi presentava miei scritti stampati nelle agitazioni dell’anno 1848 e prima, e vi pregava a leggerli. Vedete, io vi diceva, quali erano le mie opinioni nella lettera che io scrissi ai ministri del re il 18 febbraio 1848; vedete come io protestava pubblicamente nel giornaletto il Lume a gas nello stesso mese, che io non aveva mai scritto, né scriveva alcun giornale, e pregava tutti a mettersi un rotolo di neve sul capo ed un sughero in bocca: leggete quali idee politiche e religiose io diceva nel discorso ai miei giovani l’8 marzo, quando era giunta in Napoli e sparsa la voce nuova della repubblica proclamata in Francia; leggete per quali ragioni il 13 maggio, o signori, il 13 maggio io rinunziava ad uffizio che mi dava 120 ducati il mese, leggete quel manifesto che io scrissi agli elettori nel mese di giugno, quando piú ferveva la rivoluzione in Calabria, per fare eleggere i deputati ed aprire le Camere, secondo i desiderii del governo; leggete la lettera che in agosto io scriveva al Bozzelli, pregandolo di ringraziare il re, che voleva darmi una pensione. Voleva io mostrarvi con quei documenti, che un uomo che opera e scrive a quel modo, non è né può essere capo settario, cospiratore, ambizioso, nemico di Dio e de’ principi, uomo pericoloso e pazzo, e degno d’acquistare il senno sul patibolo.
Con questi scritti ancora io voleva offrirvi una prova contro i detti del Margherita, che mi dice autore del proclama. Imperocché voi, come fanno i pittori che dallo stile riconoscono l’autore di un quadro, paragonando tutte le mie svariate scritture, e lo stile diverso, e le parole con quel proclama maledetto, avreste veduto e giudicato con piena cognizione di causa, se io ne era veramente l’autore; e non vi stareste ora al detto del Margherita, che affermava averlo udito dal Sessa.
L’accusa sosteneva che io teneva riunioni settarie in casa, ed io vi chiedeva di esaminare tutti i vicini, di esaminare tutti quei gentiluomini nelle case de’ quali io ad ore fisse ogni giorno andava ad insegnare, e vi faceva il conto, che non mi restava bricciola di tempo. L’accusa sosteneva, che nel carcere io cospirava ed approvava disegni d’assassinii: ed io vi chiedeva d’interrogare l’ispettore delegato del carcere ed il custode, per sapere che cosa io faceva, e chi veniva a vedermi. Voi mi negaste tutto.
Ne’ termini della difesa io repulsava il denunziante Iervolino, e vi dava sette testimoni per provare che costui era salariato dalla polizia, e per questa qualitá non poteva essere udito in pubblica discussione. Voi ordinaste «rigettarsi la ripulsa, e sentirsi il testimone», cioè voleste udirlo, e come testimone. Dopo che l’udiste io per toglier fede a’ suoi detti tornai a chiedervi di udire quei testimoni, e voi tornaste a negarmeli, ordinando che lo dimostrassi salariato presentando documento. Io allora non so dire se lealmente o disperatamente vi chiesi, di domandar voi dalla stessa polizia, se il Iervolino aveva un salario, e voi neppure questo voleste concedermi. Questo era il mio discarico, voi me lo avete rigettato, dunque eravate persuasi o della mia innocenza, o della mia reitá, e non voleste udire ragioni. Che se mi direte, non esser queste posizioni pertinenti, io rispondo che allora non è neppur pertinente l’accusa, alla quale queste si oppongono. È un fatto vostro questo, o signori, e la piú chiara ed inevitabile conseguenza di questo fatto è, che negata la difesa, non si può ritenere l’accusa. A molti avete molto consentito, a me negato tutto. Non aveva ragione di dire io, che il mio delitto è che io mi chiamo Luigi Settembrini?
Questo fatto, o signori, è gravissimo, è immenso, è unico, esso solo vi dice che non potete non assolvermi. Non mi avete rimasto altro mezzo di difesa, che il solo e nudo ragionare, ed io in quest’aula, da questo luogo, in questa condizione che io sono, ed in questi tempi non posso dire quello che dovrei e potrei dire. Onde non mi resta altro, che la fiducia della vostra giustizia. Con l’arme adunque della ragione io combatterò l’accusa; e poiché la ragione è figlia di Dio, in nome di Dio e con piena confidenza in lui io mi difenderò.
II
Sono io capo settario?
Immensa è questa accusa, perché il procurator generale, sostenendo che la setta sia il centro di tutta la macchina rivoluzionaria, e facendo dipendere da essa la cospirazione, la seduzione delle milizie, e lo scoppio innanzi la reggia, fa comparire i capi della setta come giganti, con in mano la leva desiderata da Archimede, e dá loro tutta la colpa de’ mali che hanno afflitto il nostro paese. Se fosse vero il principio del procurator generale sostenuto nella sua requisitoria, fatta su cinque processi, quasi ingegnosa epopea in cinque canti, io non so perché si sarebbero mandati a’ consigli di guerra molti processi riguardanti seduzioni di soldati, e specialmente quello a carico di Olindo de Pamphilis, ed altri imputati di aver sedotto soldati ed aggregatili a questa medesima setta della unitá italiana: non so perché si sarebbero giudicate dalle corti criminali di Salerno, di Santa Maria e di Avellino altre cause di questa setta medesima. Se era vero il principio dovevano ammettersi tutte le conseguenze che da esso derivavano, dovevano riunirsi tutti questi altri processi al presente: non essendosi ammesse le conseguenze, si mostra che né saldo né vero era il principio. Il quale da altra parte non si dimostra vero da’ processi del 15 maggio, del 5 settembre e del 29 gennaio, ne’ quali non si parla né di questa, né d’altra setta, né in questo processo ci è cosa che possa a quegli avvenimenti riferirsi. Onde il fatto stesso del procurator generale, cioè la riunione di soli cinque processi distrugge in gran parte il suo principio, che tutto sia originato da questa setta. Io non cercherò di trovar la ragione perché si sieno riuniti questi soli cinque processi, e lascerò al vostro senno d’indovinarlo.
Signori, se io dovessi parlarvi di tutto, io vi dimostrerei lucidamente l’idea madre del processo, la quale è una sporca scrocconeria, che dalle fantasie napolitane è stata creduta una cospirazione spaventevole: vi dimostrerei che la setta è una impostura di pochi sciagurati; che la pretesa seduzione de’ soldati non fu neppure un tentativo di seduzione; che lo spargimento de’ proclami, l’affissione de’ cartelli, e quella poca polvere che fu accesa innanzi la reggia, e che ad altri parve un colpo di cannoncino, furono sciocche opere di pochi sciocchi, che meriterebbero piuttosto disprezzo che pena: vi dimostrerei che in fondo non ci è altro che intrigo di pochi impostori, la credulitá di alcuni stolti, le apprensioni troppo fantastiche nel governo, e negl’istruttori troppa credenza a queste follie. Imperocché io credo e son certo, che tutti quanti noi che nascemmo nel reame di Napoli, tutti senza eccezione di nessuno, abbiamo un grande nemico in noi stessi, che è la nostra fantasia. Ma io debbo difender me, onde vi parlerò di me solo, e vi toccherò di questa idea madre, soltanto per quello che mi riguarda. Nondimeno voi o giudici rammentatevi di questa idea.
Sono io capo della setta! E chi son io? Un uomo povero, non conosciuto da alcuno, non conoscente alcuno, di mediocrissimo ingegno, di tarda favella, di pochi e sfortunati studi, un professore di lettere, un maestro di scuola.
Ma chi vorrebbe far credere a voi ed al mondo, che un maestro di scuola, diventi subitamente il terribile capo di una terribile setta? Il Iervolino, il Romeo, il Carafa, il Margherita. Parliamo di ciascun di costoro.
Iervolino. — Chi è Luigi Iervolino? Io voleva mostrarvelo con prove testimoniali: e voi non lo avete voluto sapere. Ma che dice questo Iervolino?
L’avete udito dall’avvocato Castriota, e dall’amoroso mio difensore signor Lauria, i quali lo hanno confutato e distrutto. Permettete che vi aggiunga alcuna cosa anche io, e siatemi benigni se ripeterò qualche cosa giá detta.
Considerando in generale tutto il detto del Iervolino dal suo primo libello del 23 aprile 1849 fino a quando venne a spergiurare in pubblica discussione, si vede che va sempre crescendo per modo che quel libello è la piú mite fra le sue denunzie, la dichiarazione fatta innanzi a voi è la piú velenosa.
Questa progressione non nasce da nuovi fatti ch’egli depone; dappoiché nella pubblica discussione egli disse le medesime cose che nel primo libello; ma variandole, aggiungendovi, togliendovi, contraddicendole, e spargendole di rabbioso veleno; nasce dunque dalla malizia, dal voler mostrare che meritava il soldo. Il suo detto cresceva, perché crescevano le persecuzioni politiche, perché egli voleva farsi merito, perché sempre piú egli si avanzava nella via della calunnia e del delitto, perché egli diceva il falso. Se avesse detto il vero la progressione sarebbe stata contraria, avrebbe narrati i fatti con tutte le circostanze minute, le quali col tempo avrebbe potuto dimenticare: insomma avrebbe tolto e non aggiunto, non variato. L’aggiungere ed il variare è pruova indubitata di stolta calunnia.
Considerando poi in particolare [che] le sue denunzie si trovano piene d’inverosimiglianze, di contraddizioni, di falsitá palpabili. Nel primo libello del 23 aprile non mi nomina che a caso, non mi dice neppure semplice settario, non sa il nome di alcuno de’ miei amici, afferma soltanto che il Poerio, il Nisco ed io, gli demmo un notamento di candidati e 60 copie d’un manifesto col quale si inculcava di non fumare e non pagar dazii. Quando il 16 maggio è chiamato dall’istruttore per indicar pruove e chiarimenti di qualsivoglia natura in sostegno de’ suoi detti, egli risponde che non può indicare alcun testimonio, non può dir alcuna cosa, e contraddicendo al suo libello dice che quelle note e que’ manifesti gli ebbe da me solo: ed in pubblica discussione aggiunse, che i manifesti furono 20 e non 60. Non parlo della nota de’ candidati; io non poteva mai avvilirmi a chiedere un onore che poi rinunziai, a chiederlo per mezzo di un Iervolino. Chi vuol avvilirmi non mi coglie. Tutto il paese conosce se io poteva discendere a queste bassezze. Con un’assertiva contradittoria il Iervolino pretende di far credere di aver ricevuto da me i manifesti. Questi dunque furono i grandi servigi ch’egli rese alla setta da che vi fu ascritto fino a giugno 1849? E nei moti del 5 settembre, nella dimostrazione del 29 gennaio, che fece, che disse, che gli fu detto, o consigliato di fare? Guardate la lunghezza del tempo e la pochezza delle cose. Dice ancora nella ratifica, che il Poerio, il Nisco, l’Attanasio, il Grillo, il d’Ambrosio, io, ed un tal Giuseppe detto il cartonaio, eravam tutti della setta occupando anche de’ gradi.
Ma come lo sa? Ma qual pruova ne ha dato? ma di qual grado intendeva parlare? ma perché non ne parla nel primo e studiato libello?
Nella prima denunzia dice, che per scriverlo settario si mossero quattro persone, il Poerio, l’Attanasio, il Nisco, il d’Ambrosio: in pubblica discussione v’aggiunge ancora il Pacifico, mentre che in tutto il lungo corso delle sue lunghe denunzie, non ha mai detto che il Pacifico lo condusse dal d’Ambrosio. Nella stessa denunzia dice che fu ricevuto settario dal d’Ambrosio, presente il Nisco: nella ratifica del 16 maggio dice che fu ricevuto dal d’Ambrosio da solo a solo.
In tutte le dichiarazioni scritte dice di non ricordarsi il contenuto del giuramento, le parole ed i segni datigli dal d’Ambrosio, e ne assegna per ragione la remotezza del tempo. In pubblica discussione gli ritorna la memoria, dice le parole, mostra i segni, dice che il giuramento era per la costituzione, ma poi si passava alla repubblica. Dimenticare il giuramento, dimenticare le formole terribili con cui si prestava, e le parole e i segni co’ quali doveva conoscere altri e farsi conoscere; egli che ricorda a che strada abitavano l’Attanasio ed il d’Ambrosio, a che numero, a che piano, egli che non è né stupido, né smemorato! E vuol farvi credere questo? Ed egli è settario?
Nella stessa prima dichiarazione dice, che il Nisco prima del suo arresto, cioè prima di novembre 1848 lo fece unitario: nella ratifica dice che il Nisco era unitario. In pubblica discussione affermò che il Nisco era piú che unitario, e fece lui unitario con solamente dargli un altro segno, col quale si fece conoscere da me: e che io poi gli dava i nuovi segni, i quali egli poi rivelava alla polizia. Adunque il Iervolino dipendeva dal Poerio, fu iniziato dal d’Ambrosio, fu fatto unitario dal Nisco, aveva i segni da me. E dov’è il documento ch’egli rivelava i segni alla polizia? E qual settario è stato conosciuto per mezzo de’segni dati dal Iervolino? Ed ebbe diploma di unitario? Ebbe le istruzioni? Che ne fece e dove sono? E chi potrá credere che costui sia settario e dica il vero? E per ora ricordate, o giudici, che il Iervolino fu fatto unitario prima di novembre 1848, e che ebbe questo grado con solo un nuovo segno.
Nel primo libello dice che fu fatto unitario in novembre 1848; dunque avrebbe dovuto aver diplomi, istruzioni e tutto: nella denunzia del 6 giugno 1849 dice aver saputo dal Pacifico, che il comitato aveva deciso di passare a tutti gli unitarii un segno che non si era determinato, se doveva essere una medaglia o altro. Intanto nel processo è il diploma del Margherita con la data del 1° marzo 1849: se il Iervolino era settario, perché non ebbe diploma, perché fino a giugno 1849 non sa nulla della setta?
Nel medesimo primo libello dice i nomi de’ confidenti del Poerio e del Nisco, e che non conosce nessuno de’ confidenti miei. Arrestato con me il Mignogna, egli subito dice che il Mignogna era mio confidente: messo in confronto col Mignogna non sa dire a che ora lo vedeva in mia casa, e come lo vedeva vestito. Nella pubblica discussione dice, ch’egli spessissimo andava in casa Poerio, spesso in casa mia, talvolta in casa Nisco, intanto sa dire i nomi de’ confidenti del Nisco, non de’ miei.
Nella dichiarazione del 6 giugno dice, che io lo mandai dal Pacifico per farsi dare un proclama, che costui non glielo diede, che poi glielo diedi io. Nella pubblica discussione disse che ebbe da me il proclama, e non nominò affatto il Pacifico; ma disse un’altra cosa ch’è in contraddizione con tutte le altre che ha dette, cioè che il Nisco lo mandò dal Pacifico, il Pacifico lo condusse dal d’Ambrosio che lo fece settario. Cosicché nel processo scritto il Pacifico comparisce in iscena il 6 giugno 1849: nella pubblica discussione comparisce in iscena col d’Ambrosio cioè assai prima dell’arresto del Nisco, assai prima del novembre 1848. Dalla quale contraddizione nasce questa conseguenza. Se fosse stato vero che il Pacifico lo accompagnò dal d’Ambrosio, egli lo avrebbe detto nelle sue denunzie, perché questo non era fatto da scordarsi: come se fosse stato vero che io lo mandai dal Pacifico, non se ne sarebbe dimenticato in pubblica discussione. Falsa adunque l’una e l’altra assertiva sul Pacifico.
Nella stessa dichiarazione del 6 giugno dice: «Siccome Settembrini tratta di continuo anzi spessissimo con don Gabriele Rondinella libraio con bottega sotto il palazzo Maddaloni, cosí credo che per ordine del Rondinella stesso abbia potuto eseguirsi la stampa del detto proclama: anche avuto riguardo alla massima confidenza che passa tra loro».
Nella dichiarazione del 30 giugno richiesto a dire se mai incontrò il Rondinella in casa mia risponde: «che non ve l’ha mai trovato, ha arguito però le intime relazioni tra costoro, dall’avere piú d’una volta incontrato il Settembrini nell’atto che usciva o entrava nella bottega del Rondinella, sita dirimpetto non sotto il palazzo Maddaloni»: egli però non conosce di vista il Rondinella.
Dunque ora mi vede trattar di continuo anzi spessissimo col libraio, or mi vede entrare ed uscire piú d’una volta dalla libreria: dunque perché io entrava ed usciva aveva massima confidenza, e commetteva la stampa del proclama.
Dunque la libreria del Rondinella ora è sotto il palazzo Maddaloni, e si scambia con la libreria Montuoro; ora è al suo vero posto cioè dirimpetto il palazzo Maddaloni. L’istruttore colpito da queste brutte contraddizioni gli domanda se conosce il Rondinella, ed egli risponde: «Io però non conosco di vista il Rondinella». Signori, è verissimo che io conosco il Rondinella, come dissi nel mio primo interrogatorio, è verissimo che io andava nella sua libreria per comprar libri. Questo è fatto non sospetto, è fatto necessario per un uomo di lettere: ed io conosco quasi tutti i librai di Napoli. Ma se il Iervolino fosse venuto in mia casa, se fosse stato con me in quelle relazioni che egli afferma, vedendomi entrare nella libreria o spessissimo o piú d’una volta, mi avrebbe avvicinato, vi sarebbe entrato anch’egli, avrebbe almeno veduta la faccia del Rondinella. Tanto piú che essendo egli agente segreto di polizia, e credendomi in confidenza col libraio, avrebbe potuto e dovuto conoscerlo. Or egli dice che non conosce di vista il Rondinella: dunque non conosceva me da vicino. Se avesse conosciuto me, si sarebbe avvicinato, avrebbe trovato un pretesto per parlarmi, ed avrebbe conosciuto di vista il libraio. E non vedete chiaramente, o signori, che il Iervolino era un tristo salariato, il quale mi seguiva di lontano, e spiava i miei passi, calunniava le mie azioni piú innocenti, e cercava di trovare un’occasione, un appicco qualunque per dar colore di veritá alle sue infami calunnie? Come posso darvi io una pruova negativa, che io non conosco costui? Egli l’afferma: io lo nego: egli é un tristo, io un onesto uomo: ma questo ragionamento è pure una pruova che viene da lui, e che gli sorprende la calunnia su la bocca. Egli non mi avvicinò giammai, non fu mai in mia casa e questo è provato dal suo detto medesimo, perché egli non sa dire alcuno dei miei amici, non li sa di nome, non li conosce. Egli forse seguendomi per via mi vide parlare con qualcuno, e disse di aver veduto questo qualcuno in mia casa, che era un vecchio di alta statura con baffi ed aspetto militare.
Mi si dirá che nella stessa dichiarazione del 30 giugno il Iervolino descrive la mia casa. Sí, egli descrive solo una parte della mia casa, cioè la sala, l’anticamera, poi lo studio a destra e la galleria a sinistra. Questa parte una spia poteva conoscerla o da sé, o per relazione, specialmente perché quando io teneva studio faceva stare la porta aperta, ed ognuno sol che avesse ficcato il capo dentro, avrebbe veduta quella parte che il Iervolino descrive e che non vide mai. Ma che dico: non vide? Sí, vide quando io fui arrestato. Imperocché nella stessa dichiarazione egli dice, che quando io fui arrestato, egli erasi recato in mia casa, ma avendo appreso abbasso al portone che eravi la polizia, corse a darne avviso al Poerio. Giusto in quel giorno, in quell’ora ed in quel momento egli veniva da me! Fu il caso dunque, fu il suo buon genio che ve lo condusse allora? No: fu la sua malvagitá. Egli non conosciuto da me venne tra gli sbirri ad arrestarmi, venne in compagnia di colui al quale egli scrisse quella sua lettera presentata dal Poerio, venne e vide quella parte della casa che descrive; venne per godere del mio arresto e del dolore che egli gettava nella mia famiglia, venne per feroce sbirresca curiositá, venne per accertarsi del fatto pel quale sperava e forse ebbe compenso: venne quella volta sola.
Né la polizia ha voluto convincersi del contrario, dappoiché non interrogava la mia vecchia serva e la donna che abitava nel palazzo, dalle quali il Iervolino afferma che fu veduto, e che dimandava se io era in casa. Quando io negava e il Iervolino non solo affermava ma indicava testimoni, perché non interrogar queste due donne? Perché si sarebbe scoperto il vero, perché si voleva mettere ombre e non luce attorno alla dichiarazione di costui. E per la stessa ragione mi si negava di pormi in contraddizione col mio accusatore, siccome io chiedeva sin dal mio primo interrogatorio, perché si sapeva che io poteva confonderlo come aveva fatto il Mignogna, poteva mostrare la calunnia fin da principio.
Or quale altra pruova voi volete, o giudici, che costui è un ribaldo calunniatore, quando io vi ho mostrato che egli nelle sue dichiarazioni va sempre crescendo di malizia, e ad ogni passo dice e contraddice, che si asserisce settario e non sa neppure lo scopo della setta, che non mi conosceva ma spiava i miei passi per calunniarmi, che veniva in mia casa quando io fui arrestato, per pascersi e godere della mia sventura? Quando avete veduto che la polizia stessa lo credeva mendace, e non istruiva su le sue denunzie? E se a tutto questo aggiungerete ciò che fu detto dai testimoni Marincola e Mazzola, e ciò che avrebber potuto dire i testimoni che io vi dava e voi mi rigettaste; avrete la piena dimostrazione, che non solo dovete dubitare, ma dovete esser certi che Luigi Iervolino è un calunniatore.
Ma costui ha presentato un proclama; ne parlerò quando dirò se io sono un cospiratore.
Romeo. — Gaetano Romeo dice, e poi piú volte disdice, che in casa Miele intese nominare come capi della setta il Poerio, il Proto, il Settembrini, e piú tardi v’aggiunge il principe di Torella ed il cav. Bozzelli. Ma da chi il Romeo intese dir questo? chi altro di casa Miele udí le medesime cose? che valore può avere il suo vago detto, da lui solennemente disconfessato? Non dirò piú del Romeo, confutato dall’eloquente difensore del Miele, e non creduto dalla stessa gran corte, che per il Torella ed il Bozzelli non teneva alcun conto di questo stolido detto.
Carafa. — Vengo ora al Carafa, del quale io dimentico per poco la nobile ritrattazione fatta innanzi di voi, e ritengo la lettera che egli scrisse al prefetto di polizia un mese dopo il suo arresto, quindici giorni dopo la grande dichiarazione del Margherita, cioè il 29 ottobre 1849.
Prima che io esamini questa lettera debbo dirvi, o signori, una cosa importante, la quale vi spiegherá molte apparenti contraddizioni.
Quando io fui interrogato in castel dell’Uovo delle stessissime cose onde fui dimandato subito dopo il mio arresto, dopo le mie brevi risposte, io dimandai all’istruttore perché mi trovava in quel luogo, dove si compilava il processo della esplosione avvenuta innanzi la reggia, e l’istruttore cominciò a tessermi una istoria del Faucitano, del Catalano, del Giordano; mi parlò qualche cosa di un preteso alto consiglio, e mi accennò destramente quello che il Margherita ed altri avevan detto. Questa non solo fu cortesia ma profonda sagacia nell’istruttore, il quale cosí parlando e osservando gli occhi, il colore, i gesti, le parole dell’imputato che gli sta dinanzi, gli legge chiara sul volto o la colpa o la innocenza. Questo modo, che torna a grande lode dell’istruttore, egli tenne con me, e dovette tenere con altri, e specialmente col Carafa. Al quale egli parlò del Giordano, ed il Carafa disse che lo conosceva. Ma ricordandosi l’istruttore che il Margherita pone il Carafa tra i componenti dell’alto consiglio, gliene parlò, gli parlò dell’Agresti e poi di me supposti presidenti; gli parlò del Pironti, del Persico, del Poerio e del Mascilli, nominato non dal Margherita ma dal Vellucci. Insomma dovette dirgli molto e di molti, ed il Carafa dovette rispondere che nulla sapeva. Ma di poi stanco dal carcere segreto, afflitto da sventure domestiche, e da altre cagioni che egli stesso ha narrate, e vedendo d’altra parte che si pretendeva che egli avesse saputo qualche cosa, per riacquistare la sua libertá, rendersi utile al re, e meritarne la clemenza, scelse il partito meno onesto, e scrisse una lettera nella quale espose non quello ch’egli giá sapeva, ma quello che aveva udito dall’istruttore; e che egli malamente e disordinatamente ricordava; a cui aggiunse qualche sua ricordanza vaga, forse qualche cosa che aveva udito dal suo conoscente Giordano, e cosí formò quella strana lettera, che è ripiena della poesia della paura.
Questa pare una congettura, e non è che una veritá dolorosa, la quale io ho saputo dalla sua bocca, e che egli certamente non negherá. Cosí si spiega che questa lettera contiene la confessione di non saper nulla, ed il desiderio di dir molto: cosí si spiega che salta di palo in frasca, dice cose senza legame e senza pruove; cosí si spiega che non fu scritta in una segreta, dove non si può avere né calamaio né carta: cosí si spiega che innanzi all’istruttore la ratificò, ed innanzi di voi disse che egli aveva mentito, e che gli era stata suggerita dall’istruttore. No, l’istruttore non gli poteva suggerire quelle balordaggini: gli disse alcuna cosa per iscoprire il vero, ed egli ripetè queste cose come a suo modo, come se le avesse sapute, mentre le aveva udite allora. Tutto quello che ha scritto e detto il Carafa è tutto vero, ma è vero a questo modo, bisogna guardarlo da questo lato, bisogna considerarlo come una ripetizione di cose malamente apprese.
Esaminiamo questa lettera, e vediamo come essa dimostra quello che abbiamo detto, e come tutto guasti e trasfiguri.
«Nicola Nisco una sera scontrandomi per istrada mi fermò dicendomi, se io voleva far parte di una setta, della quale era capo il Mamiani: io risposi di non volerne far parte». Se drammatizzate queste parole le troverete non solo ridicole ma assurde, imperocché parlar di setta scontrandosi per istrada, rispondere con un secco no, ed andar via, son cose assurde. E poi, o signori, voi sapete che il Mamiani è un uomo venerando e dottissimo, che non è stato mai capo di setta, che sempre ha abborrito dalle sette, che fuggí da Roma quando vi si stabilí la costituente e poi la repubblica. Ora io penso e credo di appormi al vero, che il Nisco gli parlò non del Mamiani ma del Gioberti, non di una setta ma del congresso per la costituzione, che il Gioberti tenne a Torino, invitandovi tutti gli amici della costituzione: forse il Nisco invitava il Carafa di andare a Torino, forse gli disse che v’andava anche il Mamiani. Questo discorso si fa in istrada, a questo invito si risponde con un no senz’altro. Il Carafa stretto in carcere, col capo pieno delle dimande fattegli sulla setta, ricordandosi un nome illustre, scambiò il Gioberti col Mamiani, il congresso con la setta. Non si può spiegare la cosa altrimenti, se non si vuol calunniare un uomo che tutta l’Europa ha rispettato e rispetterá, finché sará in onore la sana filosofia ed una vita incorrotta; e che voi da codesti seggi dovete rispettare perché rispettate la scienza e la morale. Seguita a dire, che in casa del principe della Rocca conobbe me e l’Agresti; e per molto tempo provavano di accordo di semplicemente ostacolare le dimostrazioni contro la costituzione.
Io non sono stato mai interrogato se conobbi il Carafa, e come, e dove, e quando. Ora è inutile dire altro: sia pure come ei dice. Ma che cosa era quest’«ostacolare?» Ci opponevamo con parole o con azioni? che cosa si fece, o almeno che cosa si diceva di voler fare? E questa societá per ostacolare era composta solamente del principe della Rocca, dell’Agresti, del Carata e del Settembrini? Chi erano gli altri? perché non li nomina? perché non ne fu dimandato? Egli voleva parlar solamente di noi, ed attribuiva a noi ciò che forse conveniva ad altri.
Egli dice ancora: «Nell’inverno scorso venne dalla Basilicata un prete per nome Maffei, il quale si portò in casa di Settembrini, ove ebbe non so se uno o piú libretti, poiché entrò in un’altra stanza, e solo con Nicola Mignogna, io credo ebbe istruzioni segrete».
Io non so donde il Carata abbia cavato questo prete Maffei, che io non ho mai veduto né conosciuto, e di cui il processo non offre alcuna traccia; il quale forse sará qualche altro scambio di nome. La pretesa venuta di questo prete in mia casa sarebbe renduta». Ma da chi li ebbe? Se vide che li ebbe, dovette veder anche chi glieli dava. Ma di quali libretti intende parlare? Egli vuole affermare che il Maffei ebbe libretti, ma non sa dire se n’ebbe uno o due, e ne adduce la ragione: «poiché entrò in un’altra stanza e solo col Nicola Mignogna». Ma se andò in altra stanza, come egli vide quest’uno o due libretti? Egli stesso vede la stoltezza che ha detto, e per correggersi ne dice una maggiore, «io credo ebbe istruzioni segrete». E queste parole, un non so ed un credo possono costituire un elemento di accusa? La corte liberò subito il Nicola Mignogna, e lo udí come testimone a discarico dato dal Persico, per sapere se il Persico ed il Maffei furono mai in mia casa. Se dunque per questa parte non credette allora al detto del Carafa, io son certo che non vorrá crederlo per quello che mi riguarda.
Nel brano che siegue si scorge lucidamente quello che io dissi, cioè che il Carafa non confessò quello che sapeva, ma ripetè stranamente quello che aveva inteso, «Arrestati Agresti e Settembrini, non so chi in seguito sia stato il capo, poiché io nulla sapeva del progresso ed andamento di questa setta. So che non ha guari è partito per Campobasso Ferdinando Mascilli; mi disse andare per suoi affari particolari, ma io lo aveva spesso veduto con w:Michele Pironti e Michele Persico, de’ quali non so se appartenevano alla setta».
Vedete quante cose e nomi sono accumulati in pochi versi. Se egli in molti luoghi di questa lettera dice e ripete che nulla sapeva, che nulla gli si faceva sapere, come afferma poi che Agresti e Settembrini erano stati capi? Quando, da chi, per qual modo l’aveva saputo? Non è egli evidente, ch’ei si ricordava delle parole dell’istruttore, che per iscoprirlo gli nominava l’Agresti, e me, ed il Mascilli, ed il Pironti, ed il Persico? E vedete come egli ricordandosi di quel che aveva udito dir del Mascilli, e riferendone un fatto innocente, qual’è la gita in Campobasso, l’avvelena con questa aggiunzione, «mi disse andare per suoi affari, ma io lo aveva spesso veduto con w:Michele Pironti e Michele Persico».
Insomma questa lettera è uno sragionamento, un delirio, un vaniloquio, ed il Carafa che non si è mostrato mai stolto, ha avuto ragione di ritrattarla; perché in essa non si disse cose ch’egli sapeva, ma trasfigurò le cose che aveva intese dall’istruttore, il quale parlava non per suggerire ma per iscoprire il vero.
Margherita. — Se il Iervolino nella ratifica del suo primo libello, gittando un motto in aria dice che io e molti altri che nomina occupavam gradi nella setta: se il Romeo dice di aver udito dire che il Poerio, il Proto, e due ministri con me eran capi della setta; se il Carafa ripete da pappagallo che io ero capo; viene ultimo il Margherita, e mi crea prima membro d’un comitato centrale, poi membro d’un alto consiglio, poi segretario, poi presidente.
Signori, il Margherita è stato combattuto e distrutto dalla eloquenza dei difensori; consentite che ne parli anche io a modo mio. Io voglio dimostrarvi che ha mentito, voglio dimostrarvi perché ha mentito, voglio dimostrarvi che egli invece di essere l’Atlante del processo come si crede, è per contrario colui che ci svela tutta la impostura e gl’impostori che si chiaman setta e settarii. Il procurator generale fa tutto dipendere dalla setta: il Margherita dá alla setta i capi: quindi vinto il Margherita saranno schiacciati le teste dell’idra, sará rotta, sgominata, confutata l’accusa.
Io ho veduto che il procurator generale nella sua requisitoria ha fatto gran caso delle istruzioni della setta, onde ho voluto leggere e considerare attentamente queste istruzioni, e i documenti che seguono, e con esse alla mano io torrò la maschera all’impostura.
Tra l’immenso numero di accusati confessi, testimoni, e denunzianti che sono in questo processo, il solo Luciano Margherita parla di un preteso, or comitato, or consiglio regolatore della setta, ne nomina i componenti, e ne dice le decisioni e le operazioni.
Imperocché il Vellucci, il Piterá, il Faucitano, l’Errichiello, l’Antonetti, il Vallo ed altri, tutti avevan parlato vagamente di quell’intrigo che chiamasi setta, ma nessuno di essi era salito piú su del Giordano e del Sessa, a cui eran dati i primi onori, i primi gradi, e la direzione di un comitato di operazioni. Bisognava riempire questo vuoto che era nel processo, e forse nell’animo dei processanti: bisognava che le sparse fila si raccogliessero, che coloro i quali erano stati vagamente calunniati dal Iervolino e dal Marotta fossero piú direttamente feriti al cuore. Ed ecco venire su le confessioni del Margherita.
Primamente è degno di tutta la vostra attenzione, che il Margherita non parla per iscienza propria, ma per detto del Giordano e del Sessa, per modo che se mai costoro un giorno dessero pruove innegabili che costui ha mentito, voi dando fede ai suoi detti, e ritenendoli come elementi di una condanna capitale ed irretrattabile, potreste pentirvi amaramente di avergli creduto. Chi vuol calunniare il prossimo senza darne pruove, dice sempre di aver saputo e di aver udito da altrui. Ed il Margherita molto dice e nulla pruova.
Nella prima dichiarazione dice, che per fame ei divenne settario, che il 1° marzo ebbe il diploma, che il fine della setta era di mantenere la costituzione, che udí dal Sessa e dal Giordano, che il Pironti, l’Agresti, ed il Settembrini ed il Persico eran membri del comitato centrale, ma che egli non li conosce, né li ha mai veduti. Nella seconda dichiarazione afferma di aver udito dire dagli stessi Giordano e Sessa, che questo comitato centrale dirigeva tutte le mosse del partito liberale, che era presidente l’Agresti, io segretario, il Persico cassiere, gli altri membri, e piú di dodici. Che dopo lo scioglimento delle Camere questo comitato prese nome di alto consiglio della setta, e che arrestato l’Agresti ne fui io il presidente.
Signori, il Margherita nella sua prima dichiarazione voleva dir tutto, perché incomincia cosí: «Narrerò schiettamente come, quando e da chi fui tratto in inganno, e se colpa vi è si deve ai capi attribuire»; poteva dir tutto, perché egli era unitario, come lo dimostra il suo diploma che ha la data del 1° marzo 1849; e questo grado di unitario è un alto grado della setta, secondo l’articolo 5 delle Istruzioni, nel quale sta scritto, che gli unitari sono i presidenti ed i consiglieri dei circoli. Se dunque il Margherita voleva e poteva parlare, perché non parlò dell’alto consiglio perché disse che non ci conosceva? perché egli unitario scambia i nomi? Quel suo comitato centrale era cosa settaria o non settaria? Se era cosa settaria, mi si dica dove sta nominato nelle Istruzioni un comitato qualunque? Se non era cosa settaria, come si veniva a mettere nella setta, che doveva avere i suoi ordini, e le sue gelose gerarchie?
Questa trasformazione di comitato centrale in alto consiglio, non sarebbe stata la piú arbitraria, la piú flagrante violazione di una liturgia non creata qui in Napoli, come si lascia travedere dallo stesso atto di accusa, e che doveva essere rispettata da tutta la famiglia dei settarii? Egli è un gran fatto, un fatto immenso, che il Margherita nella prima dichiarazione abbia taciuto dell’alto consiglio, e che ne abbia parlato nella seconda, facendolo nascere da una trasformazione assurda ed impossibile. Questo fatto dimostra che nella seconda dichiarazione il Margherita sicilianamente poetò, scelleratamente inventò, e per inventare verosimilmente cercò di ricordarsi degli statuti della setta. Ma appunto questi statuti lo confondono e lo dimostrano calunniatore.
Ma, o signori prendiamo le Istruzioni, e non vi troveremo parola né di comitato né di alto consiglio: vi è solo un gran consiglio composto di sette grandi unitari, quasi dei sette savi della Grecia senza presidente, secondo l’articolo 6. E questo gran consiglio per i documenti stessi stampati dall’accusa non esisteva, né poteva esistere in Napoli. Il primo documento comunica cosí: «Il gran consiglio della setta della unitá italiana agli unitari della provincia di Napoli salute e libertá», e finisce: «venite anche voi, salvate» ecc. Il qual documento evidentemente non fu scritto in Napoli. — Il secondo documento è il programma della setta; nel quale sta scritto, che «per quella parte detta reame di Napoli, vi è un particolare ordinamento: in Napoli un circolo generale» ecc. — Dalle Istruzioni adunque e da questi documenti è dimostrato che in Napoli, non solo non esisteva, ma non poteva esistere l’alto consiglio. Che cosa adunque poteva esistere in Napoli secondo le Istruzioni? Niente altro che un circolo generale, con a capo un grande unitario (art. 7). Dunque il supremo capo della setta nel reame di Napoli, non poteva essere che un grande unitario, non poteva essere che uno; e gli altri capi dopo di questo uno dovevano essere unitari, cioè capi e consiglieri dei circoli, secondo l’articolo 5.
Cerchiamo di scoprire questi capi che chiamansi unitari, e questo grande unitario. Sí col processo e colle Istruzioni alla mano lo scopriremo.
Il Margherita ed il de Simone hanno presentati i loro diplomi di unitari: dunque il vagabondo ed affamato Margherita e l’analfabeta de Simone eran capi e consiglieri de’ circoli, non avevano in tutto il regno che un solo superiore, il grande unitario.
Il Vellucci ed il Faucitano confessarono di aver avuto diplomi di unitari, dunque anch’essi eran capi e consiglieri de’ circoli. Il Iervolino dice che fu fatto unitario dal Nisco, dunque anch’egli era capo come Margherita e gli altri. E il Margherita, il de Simone, il Vellucci, il Faucitano ed il Iervolino per il loro grado potevano e dovevano conoscer tutto, almeno quanto Poerio, Pironti, Pica, Agresti, Settembrini, perché uno tra questi poteva essere grande unitario, tutti gli altri unitari, ed eguali di grado al Margherita, al de Simone ed agli altri. Abbiamo trovati cinque unitari confessi, potremo fiutar gli altri, se terremo dietro a certe parole che dicono che il Sessa ed il Giordano mandavano diplomi di unitari a questo ed a quello senza neppure conoscerli, e per il solo fine di averne uno scudo. Ma cerchiamo il grande unitario; secondo gli articoli 6 e 7 i grandi unitari non potevano essere piú di 15, sette membri del gran consiglio, e gli otto presidenti degli otto circoli generali delle otto provincie in cui è divisa l’Italia settaria. Dunque in Napoli non ce ne poteva essere che uno. E chi era? Il Iervolivo in pubblica discussione disse che il Nisco era piú che unitario. Prestereste fede al Iervolino? Le Istruzioni nell’art. 5 dicono, che l’unito ha un motto, l’unitario due, il grande unitario tre. Ma il primo documento stampato dell’accusa sono tre motti trovati scritti in casa del Vellucci, dunque il Veliucci sarebbe il grande unitario, il capo supremo della setta in Napoli. Ma il Vellucci dipendeva dal Margherita, ma il Margherita dipendeva dal Sessa e dal Giordano... Vedete, o signori, quanti assurdi, vedete quante contraddizioni, vedete se vi poteva esser setta organizzata secondo le Istruzioni, vedete se in questa setta, in questo fango potevano stare uomini che hanno senno, che hanno onore, che hanno pudore.
Non vedete voi chiara l’impostura e l’intrigo? non vedete voi chiara la piú bassa, la piú vile, la piú fecciosa calunnia? Il procurator generale diceva: «ci sono le Istruzioni, dunque v’è la setta». Ed io gli rispondo: leggete le Istruzioni e non troverete la setta, ma l’intrigo di pochi, la stoltezza di molti, l’esagerazione fantastica di tutti. Ma proseguiamo.
Secondo l’art. 16 «ogni unito che ha dato pruova di ingegno di affezione alla causa può essere fatto unitario dal consiglio del circolo, ed avrá il secondo motto e le seconde istruzioni». Dunque le istruzioni stampate sono le prime. E chi ha avute le seconde? chi le ha presentate? chi ne parla? Eppure il Margherita, il de Simone ed altri sono unitari. Inoltre chi vi dice che fu fatto unitario dal consiglio del circolp? Il Sessa manda diplomi a chi non conosce, il Giordano promette un grado all’Errichiello, il Iervolino dice che il Nisco gli disse una parola all’orecchio e lo creò unitario. Non vedete qui che il Iervolino mentisce, e che non sa nulla, o che i due Castore e Polluce, il Giordano ed il Sessa eran due impostori?
Secondo l’art. 15 in cui è la formola del giuramento, i componenti di un circolo non potevano né dovevano sapere i nomi dei componenti di un altro circolo. Ed intanto il Margherita conosce e denunzia molti settari, e specialmente i capi, dei quali in ogni cospirazione ed associazione si celano i nomi gelosamente.
Nelle Istruzioni non v’è affatto l’uffizio di segretario, ed il Margherita mi chiama segretario. il procurator generale dice che è uno scambio, e che segretario e maestro è tutt’uno. No, o signori, il Margherita siciliano, settario, unitario, non poteva far questo scambio. E poi maestro significa chi insegna, segretario chi prende note e scrive registri. Il procurator generale è maestro che accusando insegna; il cancelliere è segretario che scrive i verbali e le note. Potrebbesi far questo scambio, e dire al procurator generale signor cancelliere, ed al cancelliere signor procurator generale?
Adunque se io era maestro, il Margherita non poteva dirmi segretario, e mi chiama segretario perché mi si calunnia.
Adunque il Margherita unitario non conosce quello che dovrebbe conoscere, cioè non conosce qual nome aveva il senato della setta, quali erano le seconde istruzioni, non conosce le prime, e ad ogni parola le contraddice, non conosce quali erano i diritti ed i doveri del grado avuto dal diploma, non conosce il vero scopo della setta, e poi conosce quello che non dovrebbe conoscere, cioè i tre motti ed i nomi dei principali capi.
Ora se il Margherita parla egli solo di questo sognato alto consiglio, e ne parla per aver inteso dire, e parlandone ne parla male, ed in modo contrario alle istruzioni; e nella prima dichiarazione in cui vuol dire tutto, e dice tutto quello che sa, non ne parla affatto; e nella seconda contraddice alla prima, non è egli chiaro piú della luce del sole, che costui mentisce, e stoltamente, scelleratamente mentisce?
Glielo dissero il Giordano ed il Sessa. Ma è vero che glielo dissero? E lo dissero a lui solo? E quali pruove egli ne dá? E se glielo dissero, gli dissero il vero? Gravi dimande che dovranno fare gran peso negli animi di giudici coscienziosi. Il Sessa ed il Giordano potranno ritornare, potranno nominar persone, dar pruove contrarie, sbugiardare il Margherita, ma non ci potranno rimettere il capo tronco sul busto.
La turba de’ denunzianti, il Vittoria, il Iervolino, il Marotta, il Romeo, il Carpentieri, il Cristiani sono tutti discordi fra loro nel nominare i capi: gli accusati confessi sono tutti concordi nel dire che si facevan disegni e progetti non di setta ma di comitato, ed attribuivano questi progetti ai soli Sessa e Giordano. Il Catalano, onesto uomo, amico del Sessa e del Giordano, e partecipe di tutti i loro segreti, il Catalano che poteva sapere i fatti veri piú che il Margherita, il Catalano che lealmente e coscienziosamente ha dichiarato tutto quello che sapeva ancorché gli nuocesse, il Catalano merita fede piú di tutti e piú del Margherita, anche avuto riguardo alle loro qualitá personali. Il Catalano vi dice che egli in maggio progettò col Giordano di formare un comitato di operazione ed uno di direzione, il quale non mai si costituí: e con le sue ingenue parole egli vi scopre tutto il vero nella sua nuditá vergognosa, e vi dimostra che il Giordano ed il Sessa erano due rimescolatori e scroccatori, i quali nel caffè Errichiello tenevan bottega d’impostura, parlavano di mille progetti, spaccavano, pesavano, promettevano; col Faucitano dicevano di voler demolire Sant’Elmo; con un altro parlavano di uccidere e tagliare a pezzi ministri e magistrati, ad altri che neppur conoscevano mandavan diplomi per aver lo scudo: or proponevano di stabilir comitato e far pagare a ciascuno trenta carlini al mese. Scroccavano Catalano il quale uomo onesto e credulo dava danari: tentavan Gualtieri ricevitore della strada ferrata, il quale accorto dava parole ad essi, e teneva i denari per sè; tentavano il Carafa sperando col mezzo di costui di aver danaro dai ricchi signori di Toledo. E quella gente che tenevano intorno, il Margherita, il Vellucci, il Vallo, l’Antonetti miseri e senza stato, credevano le loro parole, si nutrivano di speranze. Con questi e con altri essi usavano ogni arte, vendevano i nomi di persone che neppure conoscevano, vendevano i nomi del Poerio, del Pica, degli altri; e se taluno sospettando d’inganno diceva conoscere il Poerio ed il Pica, volerne parlare a questi; allora subito per coprire un’impostura se ne inventava un’altra, s’inventava uno scisma, si diceva che il Poerio ed il Pica erano stati allontanati, e per dare piú colore alla cosa vi si aggiungeva un terzo ignoto. Ecco come si spiega l’invenzione di quel preteso scisma, ecco come presa la vera idea del processo, si trova il vero facilmente. Anche voi, signor presidente, anche voi ora potete esser nominato come autore di fatti che ignorate, e da persone che non conoscete. A nessuno de’ miei giudici, a nessuno di coloro che mi ascoltano non è mai accaduto di non esser nominato da persone ignote, di non essergli stati attribuiti fatti che non ha neppure sognati? Questo accade a tutti gli uomini, in tutti i paesi, piú spesso tra popoli fantastici come siamo noi, e piú spesso ancora in tempi di discordie politiche, di speranze, di agitazioni.
Il Sessa ed il Giordano a taluno parlavan di setta, se poteva pagare lo scudo, a taluno parlavan di comitato, a tutti vendevan parole. Ma la setta non era in altro che in qualche carta che essi avevano avuta dall’estero e fatto stampare in Napoli per venderla, come il Romeo vendeva il libretto delle istruzioni per pochi grani. L’alto consiglio era ai Ponti Rossi nella casa dei matti, o meglio nel caffè Errichiello, ed era composto del Sessa e del Giordano. E per questi uomini, e per queste chiacchiere, per queste scrocconerie, si è sparsa tanta agitazione, si è fatto sí grande rumore, si è sparsa tanta prevenzione e tanto terrore, che il paese è spaventato, ed io con altri son condotto a disputare del capo.
Ma ritorno alla dichiarazione del Margherita, per ritoccarla brevemente, onde non ripetere quello che è giá detto.
Nella prima dichiarazione del dí 11 ottobre dice che intese nominare dal Sessa e dal Giordano soli quattro di noi, l’Agresti, il Pironti, il Persico e me, come membri del comitato centrale, ma che non conobbe nessuno di noi, tranne il Pironti per caso. Dopo cinque giorni, il 16, dice che ci conosce, e conosce ancora un quinto, il Primicerio; che verso la fine di ottobre 1848 ci portò dei bigliettini sigillati da parte del Giordano, e parlò con ciascun di noi per riunirci la sera al caffè de Angelis, e poi andare in casa Agresti.
Non dimanderò per qual cagione nella prima dichiarazione afferma che non mi conosce, e nella seconda dice che mi conosce, e mi portò uno de’ bigliettini; non parlerò della inverisimiglianza di questi bigliettini, non potuti portare al Pironti perché era in Santa Maria; non dirò che era il Giordano che li mandava, e comandava a bacchetta uomini piú riputati di lui; non dirò a che servivano i bigliettini e sigillati, quando il Margherita doveva parlare a ciascuno di noi. Egli mi vide, mi parlò, mi vide al caffè de Angelis, mi vide scendere dalla casa Agresti. Sia pure. Io fui arrestato il 23 giugno e stetti in prefettura sino al 29 giugno, come si dimostra dai verbali di disuggellazione delle mie carte e del mio interrogatorio: e fui messo in una stanza superiore che segue una stanza piú grande dove stanno altri detenuti comuni. Or il Margherita come rilevasi dal certificato del prefetto voil. 25 fol. 107, fu arrestato la prima volta per mancanza di carte giustificative la notte del 24 al 25 giugno ed uscí ai 3 luglio, e per cosí lieve cagione non fu certo messo in segreta, ma nella stanza grande per la quale io ogni giorno doveva passare andando ai miei interrogatorii. Or se il Margherita mi avesse conosciuto prima, mi avrebbe riconosciuto allora, e nella sua lunga dichiarazione avrebbe parlato che mi rivide in prefettura, od almeno non avrebbe sbagliata l’epoca del mio arresto, essendo l’epoca dell’arresto suo, non avrebbe detto che io fui arrestato in luglio. Tanto piú che egli parla di cose che dice di aver sapute in prefettura; avrebbe dunque potuto, anzi avrebbe dovuto ricordarsi e parlare di me. Mi direte che queste notizie topiche della prefettura non nascono dal processo. Ed io vi rispondo: «dunque il vero non istá se non nel processo? E se io ne avessi fatta una posizione a discolpa, voi non me l’avreste rigettata come avete fatta delle altre?»
Il Margherita vuol far credere che arrestato l’Agresti io fui eletto presidente, che in mia casa riuniva quel consiglio, che voi, signor presidente, chiamate aulico, che in una di queste riunioni vi fu quel dissidio col Poerio e col Pica, e che in un’altra si decise di fare la rivoluzione, e però fu dato al Pironti l’incarico di visitare i circoli. L’Agresti fu arrestato il 16 marzo: dunque queste cose avrebber dovuto accadere dal 16 marzo fino al 23 giugno, giorno del mio arresto. Intanto nel vol. 3° fol. 47 ci è un certificato del 4 aprile con cui si dice che sapendosi stragiudizialmente che il Leipnecher aveva trattato con persone attendibili fra le quali il Settembrini, s’inculcava il commessario di fargliene apposite dimande. Dunque la polizia fin dal 4 aprile mi vigilava e non vedeva radunarsi persone in mia casa. L’Iervolino che scrisse il suo primo libello il 23 aprile, e che mi spiava da presso i passi ed i respiri non ne dice nulla, non parla di nulla. Come dunque credere piú al Margherita che alla polizia che allora mi vigilava? In fine io su queste pretese riunioni vi dimandava d’interrogare tutta la mia vicinanza, e voi mi rigettaste la dimanda.
Ma la calunnia apparisce schifosamente chiara quando il Margherita asserisce che il Giordano ed il Sessa gli dissero che in luglio, quando era giá arrestato il Pironti, l’alto consiglio stabilí di fare uccidere tre personaggi; che ne dimandò consiglio al Pironti, all’Agresti, al Settembrini arrestati in Santa Maria Apparente, inviando ad essi lettere per mezzo del Vellucci e dell’Antonetti: che noi approvammo gli assassinii: che il Giordano ed il Sessa diedero a lui l’incarico di trovare un sicario, che il Giordano gli diede due pistole cariche, ed il Sessa gliene diede una.
Quando avvenne questo fatto? Il Margherita facilissimo a falsare le date dice in luglio: ma ei soggiunge due particolari che fissano indubitato il tempo: dopo «l’arresto del Pironti, ed il Pironti consultato in Santa Maria Apparente». Il Pironti fu arrestato il 3 agosto: dunque questo fatto avrebbe dovuto avvenire dopo il 3 agosto. Ma noi abbiamo due altri fatti cioè che il Giordano fu arrestato nello stesso giorno 3 agosto e liberato il 19, e che il Margherita fu arrestato l’ultima volta il 18 agosto, ed il 30 fu messo in barca per Siracusa. Se dunque il Giordano fu liberato il 19 agosto, come poteva dir queste cose al Margherita arrestato il 18, come poteva dargli due pistole cariche? Qui la falsitá è manifesta, è vergognosa, è infame. Inoltre l’Antonetti ed il Vellucci che han dette tante cose, han negato sempre di aver portato lettere in Santa Maria Apparente. Inoltre in agosto, essendo tutti arrestati i pretesi componenti dell’alto consiglio, il Persico in Francia, il Primicerio ed il Proto esuli, rimanevano solamente le quattro teste forti del Carafa, dell’ignoto Venosino, del Sessa e del Giordano. Anzi rimanevano soli come furono sempre soli il Giordano ed il Sessa. Ma si vede chiaro che anche il Giordano è calunniato dal Margherita, il quale asserice che il Giordano gli disse cose, che non gli potette dire. Qui taluno dirá: «Glielo disse il Sessa». Vedete, o giudici, come io ragiono di buona fede. No, perché il Margherita dice rotondamente ed esplicitamente che Giordano e Sessa glielo confidarono, anzi che il Giordano gli diede due pistole cariche, e il Sessa una; perché il Margherita parlando piú innanzi dei sei assassinii nomina il solo Giordano e dice: «Giordano mi diceva che ad esso era stata affidata l’esecuzione di tali assassinii con l’aiuto e cooperazione di Sessa»: e dice ancora che il solo Giordano gli confidò che aveva dato l’incarico al Basile e al Sersale di trovare i sicarii, e il solo Giordano li pagava. Non si può dunque ammettere questa ipotesi, la quale è contraria ai detti espliciti del Margherita.
Ma che vado io piú seguitando questo gran poeta del processo, questo gran sognatore, che finalmente si è svegliato perché tocco dal dito di Dio? Dove sta l’altissimo immaginato consiglio, dove i presidenti, dove tutte le sole che se non fosser terribili sarebber ridicole? Io credo che tutto è distrutto. Il Margherita ha mentito, il Margherita ha ingannato l’istruttore, e se voi gli crederete e riterrete i suoi detti per elementi di condanna, ingannerete voi stessi ed il mondo.
Ma come ha mentito? ma perché ha inventati tanti fatti? donde li ha cavati? come tutto, tutto è invenzione? Signori, il Margherita ha mentito perché ha creduto ai sogni ed alle fantasie del Giordano, del Sessa, e li ha sicilianamente esagerate: ha narrati i discorsi come fatti, le fantasie come realtá, i desiderii come azioni, i peccati di pensiero come peccati di azione; ha mentito per acquistar merito al cospetto della polizia, mostrando che si disegnavano assassinii ed egli astutamente li faceva riuscire a vuoto: ha mentito perché vedeva che quanto piú calunniava gli altri, tanto piú migliorava la sua condizione, piú si rendeva accetto alle autoritá; ha mentito per la stessa ragione che si fece settario, perché sperava un pane insanguinato guadagnato con la calunnia.
Né si dica che la sua dichiarazione fu spontanea, solo perché l’istruttore diceva che egli il 16 ottobre si fece chiamare e spontaneamente rivelò. Imperocché due fogli prima, al fol. 52 vol. 25 sta scritto, che lo stesso commessario nello stesso giorno 16 ottobre «volendo mostrare al detenuto Luciano Margherita il diploma a lui intestato lo abbiamo fatto rilevare dalla prigione, e venire in nostra presenza». E quella dichiarazione non si fa in un giorno, non si fa d’un fiato. E forse le aggiunzioni e le postille sono la sola veritá che il Margherita ha detto.
Io non dirò che il procurator generale ha dichiarata mendace questa dichiarazione, cercando libertá pel Pallotta, pel Sersale, e pel Gualtieri ancora e pel Persico. Non dirò che la corte con la sua decisione del 19 dicembre 1849 non confermò l’arresto pel Gargano, pel Cuomo, pel Palomba; ma dirò che il solo Margherita affermava che Giorgio Haetzel parlando con lui gli profferiva un soldato congedato per commettere un delitto orribile, il regicidio: e la corte con la stessa decisione diceva che per Haetzel non c’era luogo a proseguir l’istruzione. Dunque la corte che credeva mendace il Margherita quando asseriva un fatto di scienza propria, lo crederá quando dice di aver saputo da altri che io era capo della setta?
Per tutti questi fatti e queste considerazioni voi vedete, o giudici combattuta e distrutta l’assertiva che io sia capo-settario. E non è altro che un’assertiva senza alcuna pruova quello che si dice dal Iervolino, dal Romeo, dal Carafa, dal Margherita.
Sarò stato forse un semplice settario? Ma chi mai dei settarii confessi mi chiama suo complice? Chi mi conosce ascritto alla setta? In quale circolo sono stato ascritto? Qual giuramento ho io dato a cotesta setta? per le mani di chi? Quale carte o documenti settari mi si possono attribuire, o si sono trovati in mio potere?
Non resta contro di me che un’assertiva vaga e bugiarda, nata e cresciuta dalla prevenzione. Ed io confido che voi nella vostra sapienza e giustizia valuterete queste ragioni, e direte che io non sono né capo né settario.
Sono io cospiratore?
La setta cospirava, diceva il procurator generale, ed i fatti di cospirazione sono la tentata seduzione dei soldati, la diffusione e l’affissione dei proclami, lo scoppio innanzi la reggia.
Io non sono accusato da nessuno di aver tentato di sedurre soldati né so se altri l’abbia tentato: ma so certamente quello che tutti sanno, che nessuno de’ nostri soldati disertò le regie bandiere, o si fé propagatore di ribellione fra i suoi commilitoni. Per modo che l’invito ad essi fatto, se pur fosse vero, rimasto senza accettazione e senza effetto, non potrebbe reputarsi fatto di cospirazione, ossia fatto concertato e conchiuso fra seduttori e sedotti. Negli anni passati nacquero e crebbero fieri sdegni tra la milizia e la cittadinanza, miseri effetti delle civili discordie: ma questi sdegni pel tempo, per la buona indole degli uomini, e per le cure dei capi della milizia e del governo andarono a poco a poco mancando, perché tutti sentirono il bisogno dell’ordine, della pace e della sicurezza comune.
Quando eran piú vivi ed accesi questi sdegni funesti, sursero le accuse di tentata seduzione de’ militari; perocché allora ogni soldato vedeva in un cittadino un suo nemico, nelle costui parole di pace vedeva un’insidia ed una seduzione. False quindi o almeno molto esagerate erano quelle accuse, perché fatte nel bollore degli odii, perché fatte solo da pochi soldati e pochissimi sottuffiziali, i quali non avendo potuto col valore ottener gradi ed onori, si diedero al tristo mestiere di calunniare, molti de’ quali non degni di portare l’onorata divisa sono stati licenziati.
Nessun uffiziale né inferiore né superiore ha detto mai che alcuno abbia tentato di sedurlo. Eppure tra i pretesi cospiratori sono moltissimi gentiluomini, che avrebber dovuto e potuto con piú successo sedurre gli uffiziali che i soldati, imperocché sedotto un colonnello è sedotto un reggimento; ed essi piú facilmente avrebbero potuto far conoscenza degli uffiziali, che de’ soldati. Per questa grave ragione le accuse che vengono dai piú bassi e cattivi gregari, si dimostrano intuitivamente false. E false ne dichiarava moltissime con sue decisioni il consiglio di guarnigione di Napoli, il quale facendo quella giustizia, che noi siam certi che otterremo da voi, e giudicando ogni giorno di queste cause di seduzione, pesando i fatti e dando ad essi il loro giusto valore, e tenendo conto della tristizia dei passati tempi, manda assoluti gli accusati, rallegra la cittá trepidante, rallegra il principe desideroso soltanto di giustizia. Grande e bella dimostrazione che qui non si è mai cospirato contro il governo; non si è mai tentato di rovesciare il trono di Carlo III, il quale da provincia ci fé nazione; ma da qualche stolto non si è fatto altro che fantasticare e chiacchierare: ed un governo forte disprezza e non teme le chiacchiere e le fantasie. Grande dimostrazione che gli odii sono cessati; e che i fatti deplorabili dei passati anni debbono essere giudicati senza odii e senza prevenzioni.
Proclama.
Vengo alla diffusione del proclama sedizioso, che è nella seconda specie dei fatti della pretesa cospirazione.
Il Iervolino presentò quattro copie di un proclama e disse di averle ricevute da me. Trovata dopo quattro mesi una copia in casa del Vellucci, questi disse averla avuta dal Margherita che gli confidò che era stato composto da me; interrogato il Margherita rispose che glielo aveva detto il Sessa. Esaminiamo se io l’ho diffuso, se io l’ho composto.
Nel vol. 20, fol. 3, è un certificato nel quale si dice: «che emergendo da indicazioni riservate di alta polizia che l’orefice Iervolino avesse scienza e potesse somministrare chiarimenti intorno alla diffusione di un proclama sedizioso circolato nei scorsi giorni per questa capitale, il commessario Maddaloni in seguito d’incarico superiore ha disposto chiamarsi il sudetto Iervolino, onde sentirlo opportunamente. Napoli 6 giugno 1849».
Chiamato nello stesso giorno 6 il Iervolino ed interrogato risponde, scrivendo di sua mano la dichiarazione, e dice: «ieri 5 ne ho ricevute quattro copie dal Settembrini, le ho ritenute, e son pronto ad esibirle per uso di giustizia».
Da questo certificato si scorgono due veritá: che si aveva la prescienza che il Iervolino sapesse alcuna cosa del proclama, e che questa prescienza non l’aveva il commessario Maddaloni, al quale il Iervolino aveva presentate tutte le sue denunzie, cominciando da quella del 23 aprile, ma l’aveva l’alta polizia. Non si può dire che l’alta polizia avesse avuta questa prescienza dallo stesso Iervolino, perché costui si sarebbe presentato spontaneamente al Maddaloni, e non avrebbe aspettata una chiamata, avrebbe scritto un libello denunziatorio, avrebbe voluto farsi un merito maggiore, il cancelliere avrebbe regolarmente certificato che il Iervolino si presentava spontaneo, ed il Iervolino non avrebbe detto nella sua dichiarazione, «li ho ritenuti e son pronto ad esibirli», ma «li ho esibiti». Egli è dunque evidente che i primi indizi del proclama, la prescienza che ne aveva l’alta polizia non le venivano dal Iervolino, ma da altri; e che Iervolino presentò il proclama non spontaneamente, ma chiamato. Chi dunque dava questa prescienza?
Ricordate, o giudici sapienti e giusti, ricordate che quando io vi dava quei sette testimoni, vi diceva ch’essi vi avrebber detto, che il Iervolino aveva dodici ducati al mese, e vi avrebber dette molte altre cose ancora. E queste parole ve le ripeteva il mio avvocato.
Quei testimoni vi avrebbero detto e provato, che Luigi Iervolino confessava loro di essere stato costretto a dire che aveva ricevuti i proclami da me, che glieli aveva dati, e lo aveva costretto quel medesimo a cui egli scrisse quella lettera presentata dal Poerio, quel medesimo che faceva mettere in carcere Bernardino Cristiano, quel medesimo che lo mandava dietro di me per spiare i miei passi, quel medesimo che co’ figliuoli veniva ad arrestarmi, quel medesimo col quale venne il Iervolino in mia casa tra i birri. Questo vi avrebber detto e provato quei sette testimoni: voi me li negaste. Or non pretendo che crediate alle mie parole, ma che veggiate quanto importava alla mia difesa quello che voi mi negaste; o che ora né per equitá, né per coscienza, né per giustizia potete prestar fede alle assertive di un mendace, di uno che denunzia per prezzo.
Ma vediamo che dice il Iervolino nella sua dichiarazione del 6 giugno: «Che il 2 giugno venne in mia casa; che io gli domandai se egli era in buona corrispondenza col mio fido Ludovico Pacifico, e che avendo risposto egli affermativamente, io dissi di cercare il Pacifico, e chiedergli qualche proclama di quelli che io gli aveva passati: che la sera dello stesso giorno 2 andò dal Pacifico, gli chiese i proclami, e costui gli disse di non averne piú, di averli tutti distribuiti; che il giorno 5 venne da me e mi manifestò la risposta del Pacifico, che io entrai nello studio, e nell’uscirne gli diedi quattro copie di un proclama in istampa, dicendogli essere giá stati distribuiti nella capitale, e premurandolo di diffondere le quattro copie in qualche comune. Che egli le ritenne ed è pronto ad esibirle. E aggiunge in fine che vedendomi spessissimo trattar col Rondinella, crede che costui abbia stampato il proclama».
Se la polizia il giorno 6 avesse avuto veramente dal Iervolino queste indicazioni, il quale diceva: ieri 5 giugno il Settembrini mi ha dati questi quattro proclami, e li teneva nel suo studio; avrebbe nel medesimo giorno 6 mandato ad arrestarmi, e cercarmi minutamente la casa e lo studio, avrebbe fatto lo stesso col Pacifico e col Rondinella. Io per contrario sono arrestato il giorno 23 giugno: la libreria del Rondinella è ricercata il 1° luglio, dopo un’altra dichiarazione del Iervolino, e per ordine di un altro istruttore: ed il 4 luglio è ricercata la casa del Pacifico, il quale non è neppure arrestato. Non si può dire che questo tempo, tra la dichiarazione del Iervolino ed il mio arresto fosse perché la polizia raccoglieva altre pruove, perché in processo non vi sono altre pruove, ed immediatamente dopo il verbale della presentazione dei proclami che ha la data del 6 giugno, viene il verbale del mio arresto del giorno 23. E poi se vi erano in vista altre pruove, queste si potevano raccogliere anche dopo il mio arresto: e poi non si doveva trascurar la prova di un possibile reperto in casa mia.
Quando la polizia mi arrestò, avendo trovati in mia casa un distributore di libri ed il mio amico Mignogna, li arrestò, perché mancanti di carte giustificative, e ricercò le loro case lo stesso giorno 23 giugno. Dunque la polizia si fa di fuoco, e ricerca subito le case di costoro che furono arrestati per semplice sospetto; e si fa di gelo per me che aveva avuta quella denunzia dal Iervolino il 6, e viene ad arrestarmi il 23. E non vedete, o signori, che dal processo apparisce chiaro quello che io affermava, che i sette testimoni vi avrebber detto, cioè che il Iervolino ebbe il proclama da altri, e fu costretto a dire che lo ebbe da me?
Ora vediamo con quali particolari il Iervolino dice di aver avuto da me i proclami. Ogni ribaldo può dire di aver ricevuto da un onest’uomo una carta, un pugnale, un veleno; né perché egli lo dica, un giudice gli deve prestar fede, se non ha altre pruove, le quali debbono essere di tal peso da togliere la fede all’onesto uomo e darla al ribaldo. E qui permettetemi che io dica, che il procurator generale trasportato dal zelo dell’accusa faceva del Iervolino un fior di galantuomo, e di me un ribaldo, diceva che io confessai di conoscere il Pacifico, riteneva senza altro che io, perché sono io, composi e dispensai il proclama, e leggendo con giusto sdegno e raccapriccio quella pazza e scellerata scrittura, disse gravi e cocenti parole contro di me, e finí dicendo: «sia segno degli errori cui può trascinare una colpevole e mal frenata passione». Io vi ripeto che non mi lamento di queste parole: se son colpevole merito questo e piú. Ma il procurator generale nondimeno, prima di scagliarmi addosso quella tempesta poteva leggere nel processo il mio interrogatorio del 27 giugno, le dimande che mi furono fatte e le mie schiette e leali risposte:
«D. Conoscete Ludovico Pacifico?
R. No, signore, nemmeno di nome.
D. Conoscete il libraio Gabriele Rondinella?
R. Sí, signore, ci comprava libri.
D. Da quanto è che non lo vedete?
R. Da circa tre mesi.
D. È venuto mai in vostra casa?
R. Non mai.
D. Conoscete l’orefice Luigi Iervolino?
R. Nemmeno per nome».
In qual pagina del processo sta dunque che io dissi di conoscere il Pacifico? In qual pagina sta che il Pacifico fu dimandato di me, se egli fu arrestato in ottobre e perché nominato dall’Errichiello? Ah, signori, leggendo bene il processo non troverete provato il delitto che a me si attribuisce, il mio vero delitto son due parole, è il mio nome e cognome, è quella nera nube di prevenzione che mi circonda, e per la quale qualunque cosa si dica di me, tutto par vero, tutto è credibile. Io non conobbi mai il Pacifico, io lo vidi la prima volta e gli parlai innanzi la cappella del carcere. Iddio conosce il vero, e lo avreste potuto conoscere anche voi se l’istruzione fosse stata coscienziosa, se almeno il Pacifico fosse stato dimandato di me. Se voi, o signori, foste stati invisibilmente presenti quando io vidi il Pacifico, quando io vidi il Margherita, oh quante cose che son scritte nel processo voi le avreste vedute brutte e scellerate calunnie. Voi dovete stare al processo. Ma il vero sta sempre in un processo politico istruito come questo? Io sto con la mia coscienza.
Ma esaminiamo i particolari. Il Iervolino dice che io lo mandai dal Pacifico per farsi dare i proclami. Ma in pubblica discussione dimentica questo particolare, e questa dimenticanza è un fatto gravissimo e di peso immenso. Se egli vi fosse andato non avrebbe potuto dimenticarsene, perché questa specie di fatti non si possono dimenticare. Egli dunque quando mi calunniava volle fare un’altra sua vendetta, ed inventò una relazione tra me ed il Pacifico, e perché l’inventò allora, se ne dimenticò di poi in pubblica discussione. Quelle cose che gli uomini per comun senso e per solita cautela soglion fare tra due soli, il Iervolino dice che sono accadute tra piú: per farlo settario ci volevan cinque persone: per dargli un proclama ve ne bisognavan due, bisognava che egli andasse e venisse per piú giorni. E se io aveva i proclami nello studio, come egli dice, se poteva darglieli io, perché lo mandava dal Pacifico? Il procurator generale mi risponde con una supposizione: «perché forse il Settembrini voleva ritirarne una porzione dal Pacifico». Ma come ritirarli, se si dice che io voleva spargerli? E se anche io ne aveva pochi, non ne poteva dare io anche una sola copia all’ottimo e fedelissimo Iervolino? Dunque si combatte una difesa e si cerca di confermare un’accusa con vaghe supposizioni?
Ma nel volume 15 del processo sorge un altro elemento. Gaetano Romeo nel 15 luglio confessa di avere stampato egli quel proclama quaranta giorni fa (che corrisponde proprio al 5 giugno) e per incarico dello sventurato Raffaele Crispino, il quale io non mai conobbi, e col quale io non ebbi alcuna relazione, come dimostra il processo. Della confessione di Romeo non si può in alcun modo dubitare, e deve credersi che il proclama fu stampato il 5 giugno. Or come si può credere al Iervolino, che dice essere andato dal Pacifico la sera del 2, e che il Pacifico gli disse di aver dispensati i proclami e non averne piú? Se io non dava proclami perché non ne aveva, se il Pacifico li aveva tutti dispensati ed il 2 non ne aveva piú, dunque avevan dovuto essere dispensati molto prima del 2, e molto piú prima ancora avevan dovuti essere stampati. E non vedete voi qui chiaramente che il Iervolino mentisce, che il proclama fu stampato effettivamente il 5 giugno come dice il Romeo, che non aveva interesse né volontá di mentire il tempo; che le quattro copie della tipografia del Romeo passarono nello stesso 5 in mano di qualcuno; che questo qualcuno credette che l’avessi scritto io (perché io sventuratamente ed ingiustamente sono stato creduto uno scrittore velenoso), che questo qualcuno chiamò il Iervolino, e gli comandò dire che l’aveva ricevute da me? E trasparisce il bieco pensiero dalla stessa dichiarazione di Iervolino, il quale dice che io gli diedi il proclama, non giá che io lo composi, perché un uomo della sua risma non poteva sapere questo segreto; ma fa intravedere che io l’avessi potuto scrivere, mettendo in mezzo la sua stolta congettura, che il Rondinella l’aveva stampato. E intanto quel qualcuno andava spargendo sordamente, che io n’era l’autore, la quale voce come un’eco stanca fu ripetuta quattro mesi dopo dal Margherita. Cosí spiegherete la inesplicabile prescienza, cosí la tardanza del mio arresto, cosí le stolte e scellerate circostanze dette dal Iervolino, cosí la quiete in cui rimangono il Pacifico ed il Rondinella parecchi giorni.
Ma chi compose quello scellerato proclama? Il Margherita dice aver saputo dal Sessa che l’avea composto io. Ammetto per poco che il Sessa glielo abbia detto: ma quando glielo avrebbe dovuto dire? Dopo il mio arresto, dopo che per tutto Napoli si era sparso che io era stato arrestato per un proclama. Si disse proclama, si nominò Settembrini, si conchiuse Settembrini ha scritto un proclama, mentre io era stato arrestato come spargitore non come autore. La voce era stata sparsa anche ad arte, ecco come il Sessa potè dirlo al Margherita. Ma voi, o giudici, dovete chiedere: «ma il Sessa lo ha detto veramente al Margherita?» E se glielo ha detto, gli ha ripetuto una voce vaga, o quello che egli sapeva? Ci è pruova che il Sessa l’abbia saputo da me? che io l’abbia dato al Sessa? Chi dice di averlo saputo da me? chi ha presentato mio manoscritto? forse se n’è trovata copia, segno, traccia in mia casa? Il solo Iervolino dice averlo ricevuto da me. E chi sia il Iervolino, e che scellerate calunnie abbia scagliate contro di me, io l’ho giá dimostrato. E poi si è interrogato il Crispino? che ha detto? mi ha mai conosciuto? Eppure egli ed io siamo accusati dello stesso reato, che né l’uno né l’altro abbiamo commesso.
Ma leggete, o giudici, questo proclama nefando, consideratelo ed avrete una pruova morale, che non solo io non poteva scrivere quelle scellerate parole, ma non poteva approvarle, non poteva diffonderle. Le furiose parole chiamano il popolo a prender le armi, le pietre, le fascine, bruciar le case, uccidere tutti, non aver pietá di nessuno, e tenersi pronti come se fosse dimani ad esser sicuri che c’è chi dirige tutto: consigliano di uccidere e d’incendiare, finiscono con tre gridi di morte e tre di evviva. Contro questo proclama stanno i miei scritti, che voi non avete voluto leggere; stanno le azioni della mia vita che voi non avete voluto verificare. Giacché vi sono costretto, io debbo dirlo, o signori, io non sono stato mai pazzo, e questo proclama è scritto da un pazzo; io non ho mai consigliato delitti, io non ho mai gridato evviva o morte a nessuno; io quando molti gridavano, ed il gridare era vanto, io taceva; quando molti miravano a cose nuove, io predicava ai giovani temperanza, moderazione, amore della religione, rispetto alle leggi ed al principe. Non sono assertive queste, ma son pruove che stanno nei miei scritti che sono pubblici, ed ognuno può leggerli. Io poi mi sarei subito mutato, avrei rinnegata la mia vita, i miei scritti, le mie opinioni, le mie azioni, e mentre tutta Europa tornava all’ordine, mentre centomila soldati nostri formavano un grande e fiorito esercito, io avrei dichiarato guerra all’Europa, avrei voluto ridurre gli uomini sozzi beccai e spietati carnefici, a scannarsi l’un l’altro, e spandere sul nostro paese i furori bestiali di una guerra civile. Signori, signori, non offendiamo la logica perché offendiamo Dio.
Ma in nome di Dio mi si dica chi altro che il Iervolino ha inteso parlare di tale proclama? Dove si è trovato affisso? Donde è stato defisso? Quale pruova è in processo che abbia avuta quella pubblicitá che la legge esige come requisito necessario per stabilire il pericolo di tali stampe? Da soli questi estremi legalmente assodati, secondo le norme dell’articolo 140, voi avreste potuto, o giudici, desumere d’esservi stata quella «provocazione diretta agli abitanti del regno a commettere alcuno dei reati preveduti nell’articolo 123 e seguenti LL. PP.».
Insomma la polizia sa che circola un proclama, e che il Iervolino ne aveva notizia; chiama costui il quale ne presenta quattro copie, e dice: «ieri me le ha date il Settembrini». La polizia stessa quasi non gli crede, e solo dopo 17 giorni mi arresta. Vengono il Vellucci ed il Margherita dopo 4 mesi, e dicono:« Abbiamo inteso che questo proclama era stato composto dal Settembrini». Ecco il fonte dell’accusa; ecco perché si vuole che io sia impiccato per la gola, come un cospiratore che tentava di rovesciare il trono. Non c’è altro che un’assertiva, ed una voce vaga: un aver inteso e nulla piú.
Se l’assertiva di un denunziante salariato ed una voce vaga, avranno piú peso che queste ragioni vive e forti, avranno piú fede che le azioni, gli scritti, i sentimenti, e trentotto anni di vita onesta, nel mio pericolo io vedo i pericoli di tutti gli uomini onesti, anche de’ piú fedeli e provati amici del trono e del principe, perché un’assertiva di un denunziante pagato ed un si dice può mandarlo alla forca.
Ora toccherò gli ultimi fatti della pretesa cospirazione, cioè i pochi cartelli manoscritti affissi nelle notti degli 8 e 16 settembre, e la esplosione che si qualifica col nome di attentato per rovesciare il governo.
Ho io avuto parte in questi fatti?
Il Faucitano nel suo interrogatorio del 23 settembre dice: «Giordano non nominò colui che aveva i cartelli scritti; però da Catalano venni a sapere, che egli aveva fatto il borro del cartello di cui Giordano intendeva parlare; e che fattolo vedere nelle prigioni a Poerio e Settembrini, il primo lo voleva moderato verso il governo, l’altro, cioè Settembrini, intendeva farlo vibrato; ma che egli rifacendolo vi aveva dato del settembriniano e del poeriano: e cosí li aveva fatti affiggere senza nemmeno indicarmi per parte di chi».
Ecco uno dei soliti si dice ed ho inteso, una di quelle solite voci che mi han condotto sino a temere pel capo. Interrogato il Catalano su questo fatto risponde con quella lealtá e schiettezza ch’è tutta sua propria.
«Mentre tutti e tre (Catalano, Florio e Piterá) stavamo scrivendo circa le 23 ore, ci pervenne anche Vellucci, ed animandosi quistione tra me e Piterá su di una frase di detti bigliettini, che Piterá diceva non essere acconcia, io sostenni il contrario, e per mera millanteria, mentre in realtá non ve n’era niente, dissi di averli fatti leggere a Poerio e Settembrini, il primo detenuto in San Francesco, e l’altro in Santa Maria Apparente; anzi per dare piú tuono alla cosa dissi pure che Poerio era sempre transigente, perché aveva fatto togliere alcune parole dal proclama, ma questo è meramente falso, perché tali individui non li conosco affatto».
Signori, siccome ci sono alcune azioni le quali bastano a rivelarci interamente tutta la vita ed i sentimenti di un uomo, cosí ancora nei processi ci sono certi fatti, certi lampi, certe circostanze, le quali bastano esse sole a discoprire la veritá, che spesso negli avvolgimenti giudiziari si nasconde al piú attento e scrupoloso magistrato. Due fatti di questa natura io trovo in questo processo, due fatti opposti ed estremi, ma due fatti che vi svelano tutto il vero, tutto quello che si voleva fare e che si è fatto: la dichiarazione del Catalano, e la dichiarazione di Bernardino Cristiano. Nella prima è la schiettezza della virtú, nell’altra è il cinismo del delitto. Credo di aver detto ogni cosa.
Il Catalano vi dice chiaro che si nominavano alcuni uomini per mera millanteria e per dar tuono alle imposture: il Catalano che tutto poteva sapere, tutto sapeva, e niente ha detto di consiglio, di setta, e di chi vi apparteneva, confonde ed annulla il Margherita, che niente poteva sapere, e dice tante cose e tanti nomi. Il Catalano vi parla ancora degli ultimi fatti dei cartelli e della esplosione; li confessa operati da lui, e cosí vi addita il valore che meritano, la definizione che ad essi si deve dare.
L’esplosione è l’ultimo fatto cronologico del processo: ma perché è stato un fatto udito e veduto, un fatto pubblico, si è magnificato, si è accresciuto, si è sparso ed intorno ad esso si sono aggruppati altri fatti remoti e lontani, la setta, la seduzione dei militari, e financo gli avvenimenti del 15 maggio nel lontano San Giorgio la Montagna. Questa esplosione mi pare simile ad uno starnuto dell’imperatore della Cina, di cui si spande la nuova per tutte le contrade del celeste impero, affinché ogni cinese faccia le sue felicitazioni. Che cosa fu questa esplosione? Mezz’oncia di polvere chiusa in poca tela, che divampò innanzi la reggia. Da chi fu ideata? Dal Faucitano, dal Giordano, dal Catalano. Quando fu ideata? La sera del 15 settembre, dopo che era venuta meno un’altra idea sciocchissima del Faucitano, cioè quella di spargere vipere nella folla. E queste vipere quando furono ideate? La mattina del 15 dal Faucitano, nel Vico Loffredo, quando il Giordano ed il Catalano gli cercavano un mezzo per produrre un fuie fuie. E veramente solo il Faucitano poteva proporre queste vipere senza denti, le quali in settembre sono ibernanti, le quali gettate a terra si sarebbero aggomitolate, né avrebbero fatto male a nessuno.
Ma perché, che cosa si voleva fare? L’accusa risponde: che quello era l’atto prossimo di una rivoluzione organata dalla setta per rovesciare il governo; era il segno di una insurrezione che fu impedita. Ma tutto l’intero processo dimostra, che non fu disegno della pretesa setta, ma un trovato del Giordano, del Catalano, del Faucitano; che il fine non era altro che di produrre un fuie fuie e distornare la benedizione, non pel fine empio di disprezzare la religione, ma per impedire una dimostrazione che si credeva dovesse farsi contro la costituzione; dimostra che il Faucitano fu solo; che il Giordano lo ingannò dicendogli che dopo lo scoppio alcune persone si sarebbero poste a fuggire, ma non nominò chi erano; dimostra che il Catalano ed il Giordano non erano sul luogo ma lontani ed aspettando l’esito del fatto.
Dove erano gli uomini che dovevano insorgere, dove le armi, dove i preparamenti, dove gli sforzi dei cospiratori? Tutto fu opera di un uomo illuso come il Catalano, al quale non credo di dare offesa dicendolo illuso, perché gli uomini onesti sono sempre illusi dai furbi; di un uomo renduto fanatico da un impostore, cioè il Faucitano spinto a quell’atto dal Giordano, solo e vero architetto di queste follie, le quali hanno prodotte tante ciarle, tanti processi, tanti dolori, e sí gravi pericoli ad uomini intemerati.
Intanto, o signori, ricordate che il Giordano il 4 luglio ebbe una perquisizione in casa, e gli furon trovate due note di 177 persone; che il 10 luglio fu chiamato, interrogato, rimandato; che il 3 agosto fu richiamato e ritenuto in prigione; che il 19 agosto fu liberato. Leggete il rapporto che l’istruttore scriveva al procuratore generale il 4 novembre, e vi troverete la pruova che il Giordano dal 19 agosto, fino al 16 settembre era vigilato attentamente dalla polizia: e perché trattavano con lui eran vigilati ancora il Catalano, il Vellucci, il Sessa, il Florio, il Faucitano, il Piterá, l’Errichiello, il Vallo, l’Antonetti. Leggete gl’interrogatori del Vellucci e del Faucitano del giorno 16, e vi troverete che essi non nominarono nessuno: intanto leggete ancora il certificato del 18 settembre con cui si dispone l’arresto dell’Errichiello, del Piterá, del Gualtieri e del Catalano, perché per segrete informazioni la polizia li sapeva amici del Vellucci: e non troverete ordine d’arresto pel Giordano. Leggete le dichiarazioni dei fratelli De Alteriis del 19 settembre, nelle quali tanto si parla del Giordano, e non troverete ordine di arresto pel Giordano. Leggete che per ordine a voce si va ad arrestare la sera del 19 Luigi Florio, giovane del Giordano; e non si arresta Giordano. Troverete infine, che solo il giorno 20, dopo le confessioni del Piterá e del Vellucci fatte il giorno 20, solo il giorno 20, fra molti altri si ordina l’arresto del Giordano, il quale iam abierat, excesserat, evaserat. Signori, traete voi le conseguenze di questi fatti: chi è cercato a morte deve tacere.
La setta, la cospirazione, la rivoluzione sono grandi parole, ma i fatti dove sono? A chi è stato torto un capello? Quando è stato turbato l’ordine pubblico? Con pochi cartelli manoscritti e mezz’oncia di polvere si voleva rovesciare un governo?
La piú chiara ed evidente dimostrazione che le son fantasie è la mancanza di ogni fatto esterno; ed il solo fatto esterno che vi sia, il saltarello innanzi la reggia, dimostra quello che veramente esisteva, l’intrigo fantastico del Giordano, intrigo conosciuto e non impedito. Imperocché questo topo non poteva nascere da un monte; questo fatto non poteva essere anche una lontana conseguenza di un consiglio di uomini che han senno umano. Egli è una mosca che dalla immaginazione di alcuni e dalla malvagitá di altri si è voluta far divenire un elefante.
Ma io spero, anzi son certo, che voi giudici sapienti e coscienziosi, per amore della ragione umana, per amore della logica che è nata in questo paese, per amore del principe che ci governa, darete ai fatti il valore e la definizione che meritano; ed avrete presente quello che io chiamava idea madre del processo, cioè che tutto si riduce ad un intrigo di pochi, ad una vergognosa scrocconeria, la quale dalle piú che femminili fantasie napolitane, è stata creduta una grande cospirazione.
E qui lascerò di parlare di questi ultimi fatti, perché essi non mi toccano, non riguardano la mia difesa; e crederei di oltraggiare il senno e la giustizia vostra, se volessi mostrarvi quello che tutto il processo mostra; che gli avvocati hanno chiarito, e che voi sapete, che il fatto del 16 settembre fu un fatto particolare, circoscritto a pochi, non premeditato, ma improvvisato, non destinato come segno d’insurrezione, non attentato per rovesciare il governo, non effetto di cospirazione, ma di febbrile immaginazione, tentativo e semplice tentativo di far fuggire la gente, ed impedire una supposta dimostrazione contro una forma di governo.
Conchiusione.
Signori, io spero di avervi chiaramente dimostrato, che io non sono né settario, né capo, né cospiratore, ed anche da questo sgabello posso dire con fronte alta che sono un onest’uomo. Se mi sará dato a colpa l’essere onesto, l’aver creduto che la virtú non sia una illusione, l’aver consumata la vita tra fatiche, stenti e dolori di ogni sorta; l’essermi dedicato ad ammaestrare amorosamente i giovani, e fare nel mondo la mia parte di bene; se questo è il mio delitto, fatemi morire, io disdegno di vivere dove la virtú è delitto; io andrò a presentarmi ad altro giudice, e da Lui avrò quella giustizia che gli uomini mi negano.
Aspettando serenamente la vostra decisione, io voglio innanzi di voi e di tutti quelli che mi ascoltano dare un ultimo e solenne insegnamento ai miei figliuoli che mi ascoltano: voglio che essi perdonino ai persecutori del padre, perché questi non sanno quello che fanno; voglio che essi serbino sempre cara e grata memoria di Amilcare Lauria mio difensore. A voi, o giudici, io non dirò altro, se non: ricordatevi della tristizia dei tempi, ricordatevi quanto è leggera l’accusa fondata sopra assertive sfornite di pruove, ricordatevi che ogni uomo, anche voi, potreste essere calunniati a questo modo, ricordatevi che mi avete negato ogni discarico, ricordatevi che dopo la vostra decisione sta la decisione di tutta Europa che vi osserva, sta la sentenza di Dio, dal quale tutti gli uomini e tutti i giudici della terra sono giudicati.
Note
- Testi in cui è citato Francesco Paolo Bozzelli
- Testi in cui è citato Archimede
- Testi in cui è citato Carlo Poerio
- Testi in cui è citato Nicola Nisco
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- Testi in cui è citato Terenzio Mamiani
- Testi in cui è citato Vincenzo Gioberti
- Testi in cui è citato Amilcare Lauria
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