Ricordi storici e pittorici d'Italia/Idilli delle spiagge romane

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Il Ghetto e gli Ebrei in Roma Profili e costumi romani
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IDILLI

DELLE SPIAGGIE ROMANE

1854.

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I.

Le spiaggie del mare latino non distano da Roma che un cinque ore; tre volte per settimana un omnibus vi porta le persone, le quali vogliono trattenersi per alcuni giorni a Nettuno od a Porto d’Anzio per passatempo, o che si recano colà per prendervi i bagni, o per imbarcarvisi per Napoli. Sono tuttora, come ai tempi degl’imperatori, quelle spiaggie sito di ritrovo e di passatempo per i Romani, e sta negli usi della vita romana lo andare una volta almeno nell’anno a Porto d’Anzio come pure a Tivoli, a Frascati, ad Albano, per dimenticarvi Roma, imperocchè il soggiorno continuo della città anche la più stupenda, alla lunga può stancare.

Ebbi a provarlo sul finire della primavera del 1854. Dopo che il scirocco, vero flagello di Roma, aveva soffiato per ben otto settimane sulla città, e quando ne uscii il 24 giugno di buon mattino verso le cinque, mi parve respirare più liberamente. Splendeva un sole bellissimo, la strada era già affollata di persone le quali tenendo fiori in mano si avviavano alla basilica Lateranese, la cui piazza bellissima sembrava diventata un mercato di fiori, imperocchè ricorreva il S. Giovanni, una delle più frequentate fra le tante feste di Roma.

Venuti nella campagna spirava un’aria dolcissima, le praterie erbose scintillavano tuttora di rugiada notturna, ed i campi erano ricoperti del grano falciato di recente, il quale in questo anno ha reso il venti per uno. [p. 106 modifica]

La strada corre per cinque ore in direzione del mare, rasentando i monti Albani. Femmo sosta a Fontana di Papa. La è questa un’osteria che sorge solitaria in mezzo alle vigne, e la quale ha tolto il suo nome da una fontana fattavi costrurre da Papa Innocenzo XII. Suole fermarsi pure colà il Papa, quando nel mese di maggio si porta alla sua villa di Porto d’Anzio per godervi la frescura del mare.

Regna colà una grande animazione. Ognuno siede a tavola, e si mangiano maccheroni o frittate stupende, ma vi si beve un vino scellerato. Ad ogni momento arriva una carrozza od una persona a cavallo, od un pugno di birri che tornano da perlustrare la vicina foresta, ed uno dei quali si vanta avere data ieri una schiopettata ad un brigante, stendendolo cadavere. Arriva pure da Porto d’Anzio un convoglio di galeotti; sono seduti sopra un carro incatenati a due a due, e tra essi vi hanno bei giovani, vestiti pulitamente, con capelli di paglia, camicie pulite, cravatta sciolta di seta, imperocchè questi galeotti giunti a Roma devono essere posti in libertà. Loro si portano vino, sigari, ed i birri assistono coll’armi in spalla; ed accettano dessi pure quanto loro si porge. Tali sono le scene di Fontana di Papa.

Ora la strada corre per due ore per entro le macchie che costeggiano le paludi pontine, fino a Terracina, coprendo la spiaggia del mare, e che sono popolate di cignali, di porcospini, da buffali, da tori, dalla febbre, dai briganti i quali sboccano di là per isvaligiare sulla via Appia i viaggiatori o presso Cisterna, o presso Forappio, o sotto le rocche di Terracina.

Finalmente compare il mare, seducente raggiante di luce, azzurro, tranquillo, e tutti salutiamo con gioia le onde cerulee di Anzio, l’antica città dei Volsci dove incontrò la morte Coriolano, e dove fu rinvenuto il capo d’opera della scultura antica, l’Apollo del Belvedere, il quale ornava il tempio che colà un dì sorgeva.

Sono ora nove anni che in ogni estate mi sono ricreato [p. 107 modifica]al mare. Ho vissuto sulla spiaggia del mare le migliori ore di mia vita; vi ho fatte le più piacevoli escursioni. Mille imagini e memorie sorgevano ora in me, nello scorgere questo mare latino. Mentre comparivano chiare e limpide alla mia imaginazione le coste stupende della Corsica e della Campania, i bei golfi di Palermo di Siracusa, le spiagge ridenti di Cefalù e di Catania, l’aspetto della spiaggia del mare latino punto non corrispose alla mia aspettazione. In tutti quegli altri mari scorgevansi scogli, capi, promontori di belle forme, quà e là torreggiavano sui monti monasteri, o giacevano città, e scendevano fin quasi al mare pingui oliveti, aranceti fioriti ed olezzanti, mela granate che splendevano coi loro frutti infuocati. Chi può alla vista del mare dimenticare la spiaggia magica di Sorrento, i giardini di Palermo, od i vigneti che corrono lungo la magnifica spiaggia di Aci-Reale sul mar Jonio? Rammemorando tutte queste bellezze, questa spiaggia del mare latino, e la piccola città di Anzio mi produsse una penosa impressione. Per quanto stendessi la vista in direzione di Ostia, non scorgevo altro che macchie deserte, una spiaggia depressa, formata di argilla e di sabbia, alcuni spazi chiusi da palizzate, dove pascolavano mandre. La piccola città era un misto di ville nello stile dei palazzi romani, di casipole nere in pietra, di capanne ricoperte di paglia, le quali si stendevano attorno ad un piccolo golfo. Sulla spiaggia di questo stavano alcune barche tirate a terra, e nel porto alcune filucche.

Alla locanda trovai, seduto nella sua camera davanti al cavalletto un compaesano tedesco, pittore distinto di paesaggi, e numerose tele rappresentanti marine, che dipinte di recente stavano asciugando appese alle pareti, dimostravano che il pittore non aveva perduto il suo tempo. Non gli feci punto mistero del mio disinganno. Ma egli mi portò alla finestra, mi fece osservare il mare che scintillava di luce, ed all’orizzonte i monti che si profilavano in tinta azzurra. Non era trascorsa una giornata, che io non [p. 108 modifica]pensavo più a tutte quelle amene riviere, e mi trovavo totalmente sotto il nuovo prestigio di questa spiaggia solitaria e deserta di Anzio. Dessa mi ricordava quelle del mio patrio mare baltico, sebbene questa sia di molto più bella e di molto migliore aspetto; pure la somiglianza era tanta, che più di una volta le sponde di questo mare senza rupi, senza scogli, mi richiamavano alla memoria le viste impresse nella mia mente di quello. Avrei detto propriamente di scorgervi Nenkuhren, Wangen, e Sassau!

Le sponde del mare baltico e quelle del mare latino hanno somiglianza fra di loro, come una ingenua canzone popolare, ricorda gli idilli classici di Teocrito.

Poussin, nè Claudio Lorenese, nè Salvator Rosa, sarebbero qui venuti per cercarvi il soggetto delle loro marine. Nulla vi ha di epico, di eroico, di grandioso, di ardito, di bizzaro, di fantastico. Tutto qui è ampio, largo, indeciso, ma tranquillo, pieno di dolcezza, nel vero senso di un idillio marino. Questa spiaggia estesa, ampia, ha un significato propriamente lirico. Ora io comprendo l’attrativa che doveva esercitare sopra i Romani preccupati di continuo delle sorti del mondo intero. I coetanei di Augusto, di Caligola, di Nerone (e questi era nato appunto qui in Anzio), amavano sottrarsi a tutta quella agitazione, per godere durante tutto un mese di estate in Anzio, la dolcezza del far niente, come suole fare ancora il Papa oggidì.

La solitudine di questo mare è meravigliosamente adatta a tranquillare gli animi. Quelle linee fine e dolcissime della spiaggia, le quali si prolungano per molte miglia e sfumano nell’atmosfera; quelle sabbie bianche e scintillanti; le onde che si frangono di continuo di quel mare che muta ad ogni istante di aspetto e di tinta; quel meraviglioso capo di Circe, il quale emerge nel mare quasi un’isola, o splende quasi un zaffiro magico di omerica grandezza; quella lontana e piccola isola di Ponza, le cui vette azzurre sorgono dalle onde quasi corolle di fiori; quelle [p. 109 modifica]cento piccole vele le quali vanno, vengono, compaiono, scompariscono; quel canto malinconico dei pescatori; quel suono dei flauti, delle arpe; tutto questo fa sì che al di fuori tutto il mondo potrebbe rintronare del rombo del cannone, dello scoppio delle granate, qui non ne perverebbe il menomo eco, non se ne avrebbe ombra di sospetto. Pochi giorni prima duravo fatica in Roma ad aspettare l’ora in cui giungevano al caffè i giornali, e mi precipitavo per così dire sul Monitore Toscano, sulla Gazzetta di Genova, sulla Gazzetta universale di Augusta, non appena comparivano. Qui non si hanno gazzette di sorta, neppure il Giornale di Roma! periodico più innocente ancora di un egloga di Virgilio; e se si domanda alle persone: «Che cosa fa Omer Pascià? dove si trova l’ammiraglio Napier? Sillistria continua a resistere?» crollano le spalle, e non capiscono nulla.

Quando mi porto alla finestra della mia camera, sotto la quale i pescatori napoletani, saduti sulla sabbia, stanno racconciando le loro reti, scorgo tutto questo magnifico golfo e posso seguire dell’occhio tutta la spiaggia fino al capo di Circe. Sulla spiaggia stessa, presso ad Anzio, sorge la villa di bell’aspetto del principe Borghese, in un parco poco curato, ma ricco di elci e di olivi, e più in là si scorgono bruni e pittoreschi il castello e la città di Nettunno, costruita questa quasi nel mare, e rinomata in tutto il mondo per la bellezza e per la stupenda foggia di vestire delle sue donne. La linea della spiaggia si protende oltre, sempre fina e dolcissima, ed in lontananza, all’estremità compare indeciso un bianco castello. Questo castello stende sulla spiaggia e sul mare quasi un’idea di malinconia, nella stessa guisa che il capo di Circe desta quella della poesia omerica. Ogni tedesco è portato a contemplarlo malinconicamente, e l’animo suo si riempie di tristezza e di compassione, imperocchè quel castello segna una grande e dolorosa epoca nella storia della nostra patria. Quel castello è la solitaria rocca di Astura, dove perduta la battaglia di Tagliacozzo cercò rifugio l’ultimo degli [p. 110 modifica]Hohenstaufen, Corradino, e dove il traditore Frangipani lo tenne prigione e lo consegnò nelle mani di Carlo di Angiò, avido di sangue. In quella rocca precipitò in mare il sole degli Hohenstaufen. Questo castello di Astura mi sta di continuo davanti agli occhi dalla mia finestra, mi richiama con desiderio al pensiero, all’idea della patria lontana, e mi conferma vieppiò nella disposizione di animo in cui mi aveva portato già la vista di questa spiaggia. Non ho potuto aver pace, se non dopo essermivi recato un giorno, dopo avere visitate le antiche sue mura, ed ora posso contemplare tranquillamente i suoi merli. Ed anche su questi voglio salire ancora, intendendo tutto vedere in questi dintorni, poichè gli Dei mi furono larghi di questi ozi.

Quando i patrizi Romani si portavano a vileggiare in Anzio, la città era vasta, ed il porto in fiore. Nerone lo aveva costrutto splendidamente, ed oggidì tuttora si scorgono in fondo al mare le reliquie di un grandioso molo in pietra, visibili quasi altrettanto, che quelle del così detto ponte di Caligola, nel golfo di Pozzuoli. Se non che fin dal medio evo il porto cominciò andare in rovina, e riempirsi di sabbie; la città poi, saccheggiata prima dai Saraceni, fu rovinata poi da un terremoto, ed ora Anzio non può dirsi più che un villaggio. Nel 1700 Innoncenzo XII prese a rinnovare il porto, ristaurò la strada, costrusse alcune case, ed una fontana. Dopo d’allora i Papi vi vennero di quando in quando per godervi tranquillità, prima che dalle paludi pontine sorgano i miasmi che portano le febbri. Pio IX fece acquisto di recente della bella villa edificata nel 1710 dal famoso cardinale Alessandro Albani, dove si trattenne alcun tempo Winckelmann, nella compagnia di lui e della principessa Albani. Cogli scavi fatti qui praticare, il cardinale non fece soltanto un eccellente affare, ma riuscì ancora ad ornare la sua villa in Roma di varie e belle statue. La sua villa di Anzio è un palazzo signorile nel gusto dell’epoca, il quale sorge nel mezzo di un vasto giardino, ora però mal tenuto, povero di fiori [p. 111 modifica]e di piante di ornamento, ma ricco di aranci e di vigne. Quivi il Papa vi può vivere vita più solitaria, più libera, che non a Castel Gandolfo; gli è forza però adattarsi alla vista delle meschine casipole di paglia abitate da famiglie di poveri pescatori, non chè ad altra vista ben peggiore. Imperocchè presso il molo sorge il bagno, composto di un ampio casamento, rinchiuso fra il castello e la chiesa, ed ivi si custodiscono i galeotti. Lavorono tutti i giorni al cavafango che scava il porto, hanno la catena nascosta sotto gli abiti, che per lo più non presentano distintivo di sorta. Si scorgano tra quelli molti giovani. Questi galeotti rendono impossibile lo sviluppo di qualunque industria in Porto d’Anzio. Imperocchè, esercitando dessi tutti i mestieri, rubano per così dire il pane agli operai liberi. Dessi risparmiano danaro, vivono bene, sanno corrompere i loro guardiani, e riescono a godere di molte agevolezze. Quando ottengono la loro libertà si stabiliscono per lo più nel luogo e sposano la loro innamorata.

Pare che un bagno ed una villeggiatura geniale estiva del santo padre non siano guari cose fatte per andare assieme; se non chè la è cosa prettamente romana; una contraddizione, una stuonatura, non sono cose sensibili nella vita romana, in questa facile natura. Il Papa però intende rifabbricare Anzio, ha ordinato la costruzione di parecchie case, ha detto non volere tollerare più oltre il brutto aspetto di quelle casipole di paglia. Il porto pure va pigliando incremento ogni anno. Per la sua posizione è chiamato ad acquistare una certa importanza commerciale, trovandosi più vicino a Napoli che Civitavecchia ed Ostia. Una società romana ha fatto acquisto di un piroscafo, il quale parte di qui due volte alla settimana per Napoli, e vi porta i passeggieri che in quei giorni giungono a Roma per la posta. In tredici ore, e colla modica spesa di cinque scudi, si arriva a Napoli. Questo piccolo commercio ha richiamato alquanto di vita, e qualche principio d’industria in Anzio, e sono queste le sole fonti di guadagno e le sole occupazioni degli abitanti, imperocchè [p. 112 modifica]non vi coltivano punto questi la campagna. Non vi sono qui nè vigne, nè piantagioni di olivi, ma unicamente mandre, le quali pascolano liberamente stilla spiaggia; tutti gli oggetti di consumazione si devono trarre da altri paesi. Nettunno vi manda il vino, e perfino il pane fresco ogni giorno; l’olio e le frutta vengono da Genzano, e fin da Cori nei monti Volsci, le ciliegie ed i fichi.

Le locande sono piccole e meschine. Una camera si paga qui venticinque baiocchi al giorno, e si può pranzare alla carta all’uso di Roma; ovvero pagare per l’intera pensione sette paoli al giorno, che corrispondono ad un tallero prussiano. Si hanno con questi quattro piatti a pranzo, e tre piatti a cena. I pensionari sono per lo più pittori tedeschi, i quali vanno promuovendo il progresso nelle piccole locande dei villaggi della costa e dei monti, e che possono per tal guisa considerarsi quasi altrettanti missionari della civiltà, nelle campagne romane, per quanto concerne le locande. Havvi però qui una cosa eccellente, e sono i pesci. Il golfo somministra ogni giorno i migliori pesci di mare, non che stupende aragoste. Non sono però gli abitanti della località che li pescano, imperocchè come potrebbero, poveretti, radunare tanto danaro da fare acquisto di una barca? Vengono qui gl’intraprendenti pescatori napoletani, sulle loro graziose barchette, da Pozzuoli, da Baia, da Portici, da Torre del Greco; girano tutte le coste del loro magnifico golfo, e qui si trattengono a pescare vari mesi dell’anno, dormendo nelle loro stesse barche. Altri napoletani abitano nelle capanne, e sono per lo più quelli che per isfuggire alla coscrizione emigrarono dalla loro patria. In tutte le coste del Mediterraneo del resto, si trovano questi marinai napoletani, i primi pescatori del mondo, e si recano dessi pure nelle isole spagnuole, non che sulle coste d’Africa, dove pescano il corallo; muovono imperterriti le loro graziose barche variopinte, in ogni direzione dell’ampio mare.

Provai piacere a trovare qui antiche conoscienze. Colla vivacità del loro gestire, colla loro mimica, col loro [p. 113 modifica]dialetto, colla loro foggia di vestire, mi ricordavano quelle scene di pesca alle quali era stato presente le tante volte, sulle spiaggie del napoletano. Sono scene le quali furono descritte e dipinte a sazietà, ma in natura, sulle sponde del mare, sono pur sempre belle. Le loro barche, venti all’incirca stavano a pochi passi dalla mia finestra; ognuna porta cinque uomini almeno, ed è governata da un padrone.

I pescatori di regola escono in mare alla sera verso l’Ave Maria, e stanno fuori tutta la notte. Il pesce viene allogato al mattino in ceste ricoperte di paglia, ed alla sera è numerato, registrato, ed imballato per essere spedito nella notte con carri a Roma. Alla sera pertanto si gode di una scena animatissima. Uno scrivano seduto ad un tavolo con una lanterna, registra la merce; i pescatori gli stanno all’intorno, occupati gli uni a trarre fuori il pesce dalle ceste, altri a frantumare ghiaccio, altri ad allogare il pesce su questo ghiaccio. La varietà e le forme di questi pesci di mare sono propriamente sorprendenti. Vi si scorgono il lungo grombo, il grosso e magnifico palombo, la murena variopinta, la sogliola colle sue pinne pungenti, le triglie, e le sardelli scintillanti, in grande quantità; il merluzzo col suo odore acuto. Si prendono pure di quando in quando delfini, ed una sera vidi sulla piazza dei pescatori, due pesci cani, presi nella notte precedente. Erano della lunghezza di otto a dieci piedi, e la loro tinta di colore turchino nerastro, aveva un non so che di sinistro. Si pescano coll’amo, e quando si sente che lo hanno addentato si tirano a bordo, e si uccidono con una mazza. La loro carne bianca, come quello dello sturione, si mangia, ma è però abbastanza dura.

Vivono per tal guisa questi poveri pescatori una vita dura ed alla giornata, la quale può parere poetica soltanto a chi sta contemplando, seduto tranquillamente sulla spiaggia, le loro barche illuminate, le quali ora si vedono, ora scompaiono sulle onde. Abbiamo spettacolo uguale sul nostro mare Baltico, se non che si rivela in esso tutta la [p. 114 modifica]differenza che passa fra il settentrione nebuloso, ed il mezzogiorno irradiato dal sole. Il pescatore napoletano, povero quale si è, seminudo, con i suoi calzoni corti di tela, in manica di camicia, col suo berretto rosso in testa, è snello, vivace, ciarliero, pronto sempre allo scherzo, al frizzo, al canto, al ballo, compare a fianco del nostro pescatore taciturno e tranquillo del mare Baltico, una figura affatto teatrale, ed in certo modo ideale. Credo che se si collocassero assieme in una barca un pescatore napoletano ed uno del mare Baltico coll’obbligo di starvi una intera giornata, uno dei due finirebbe per cacciarsi in mare. Non sarebbe possibile ad un pescatore del mare Baltico di sostenere una parte storica come la sostenne il pescatore napoletano, il quale può vantare il nome di Masaniello. Non già che sia stato questi un uomo grande, ma fu per certo un uomo strano, impetuoso come un pescatore avvezzo a lottare colla tempesta, ardito, temerario, ambizioso, uomo del momento, come momentanea fu la sua grandezza, senza pensieri, senza cervello, senza uno scopo prefisso, pari alle onde sempre agitate, le quali le une sopra le altre si accavallano.

Tra le figure storiche non saprei paragonarlo ad altri per similitudine di nascita, di condizione, per ombra passeggera di grandezza, che a Giovanni di Leida, il re momentaneo di Munster. Questi era sarto, e presso di noi le corporazioni dei sarti sono le più irrequiete, veri napolelani, razza di Pulcinella, avventurieri nati. Giovanni di Leida però, fu più grande di Masaniello, imperocchè, in certo modo vagheggiò un’idea, cosa possibile ad un sarto tedesco, e non ad un pescatore napoletano. Furono figure bizzarre e l’uno e l’altro, fatte propriamente per il teatro d’opera. Fu però sempre sotto un certo aspetto cosa seria, che nel Napoletano dove la condizione di pescatore fu sempre fin da tempi antichi più estesa che non in qualunque altra parte, abbia avuto una volta pure un re. Vidi a Napoli nella galleria dei quadri, agli studi, un ritratto di Masaniello, opera dello Spadaro suo contemporaneo. È [p. 115 modifica]rappresentato nel costume dei lazzaroni, vale a dire in camicia, col petto scoperto, abbronzato dal sole, colla pipa di gesso in bocca, propriamente quali si vedono stare sulla spiaggia di Napoli i pescatori. Se non che il pittore gli pose in testa un berretto alla spagnuola, ornato di penne, rappresentando per tal guisa in modo felice la singolare contraddizione della sorte di questo uomo. La sua fisionomia non ha nè nobiltà, nè espressione; la sua faccia è larga, carnosa, di una mollezza quasi feminile. Il suo sguardo ha qualcosa di dubbio, di equivoco. Questo ritratto quale contemporaneo è prezioso, dovendolosi ritenere fedele; si riconosce in esso la vera natura del pescatore napoletano, e difatti Masaniello non fu nè un mezzo eroe, nè un mezzo re Lear, quale l’opera lo volle rappresentare. Esistono altre pitture dello Spadaro le quali rappresentano scene storiche dell’epoca di Masaniello, fra le altre la rivolta al mercato, dove il re pescatore sta arringando il popolo in costume di Lazzarone; sul davanti lo si vede vestito alla spagnuola a cavallo, sulla piazza dove molti nobili stanno impiccati, o stesi a terra dalle fucilate. Alfredo di Reumont ha descritto recentemente con vivaci colori l’episodio storico di Masaniello, nella sua opera I Caraffa di Maddaloni.

II.

Questi ricordi intanto, ci hanno allontanato dai pescatori che stanno sulla spiaggia di Anzio. Le loro barche però meritano ancora uno sguardo. Sono grandemente pittoriche, sono tutte dipinte a graziosi rabeschi su fondo bianco; vi si scorgono delfini, sirene, stelle, e fra mezzo a queste imagini profane, o tolte dalla favola, la Madonna, o S. Antonio protettore dei pescatori. Per aver riparo all’ardore del sole si stende sulla barca una tenda di tela e l’armonia di tutti questi colori neri, bianchi, scuri, il timone [p. 116 modifica]ed i remi, variopinti dessi pure, le vele spiegate, le reti ammonticchiate, producono un effetto propriamente pittorico.

Il porto di Anzio formicola attualmente di queste barchette; presso al molo poi stanno altri legni napoletani, e sono filucche le quali vengono a caricare legna e carbone. Imperocchè da questa riviera ricca di boschi, vengono esportati in ogni anno a Napoli combustibile e legnami da costruzione e da lavoro, per un milione di scudi. Si scorgono qua e là sulla spiaggia fra Anzio e Nettunno grossi mucchi di carbone, formato nelle foreste, delle quali buffali nerissimi traggono pure sulla spiaggia fusti giganteschi di quercie. Si attaccano talvolta ben sedici buffali ad un carro, e si spingono avanti punzecchiandoli con una specie di lancia. Il regno di Napoli possiede vaste foreste nelle Calabrie, ma pare vi si preferisca trarre il legname dalle paludi pontine, imperocchè scendendo ivi le foreste sino al mare, ed essendovi la spiaggia piana e facile, le spese di trasporto vi sono di gran lunga minori.

In questo mondo vario, semplice e primitivo della spiaggia, fra questi pescatori e marinai traggono poca attenzione a sè le figure cittadine. Qua e là un pittore seduto e riparato dal suo ampio ombrello bianco, sta compiendo uno schizzo della spiaggia o dei pescatori. Tali apparizioni sono diventate oramai caratteristiche di ogni bel punto di paesaggio in Italia. In qualunque bella giornata di primavera o di estate, si può stare certi di vedervi sorgere quasi un fungo, l’ombrello bianco del pittore. Lo incontrai nelle regioni stesse le più remote della Sicilia, e ricordo che arrampicandomi un giorno nelle ore le più solitarie, sulle rocche di Taormina, non potei trattenermi dal ridere trovandomi tutto ad un tratto a fronte del noto ombrellone bianco; vi stava sotto un compaesano, un pittore di Weimar. Vidi raramente pittori, occupati a disegnare sulle spiaggie del Sommland, le quali sono pure belle, ed anzi le bizzarre spiaggie di Gross e di Kleinkuhren, superano per grandiosità di aspetto, tutto quanto [p. 117 modifica]possa porgere questa spiaggia latina, se non che manca la magia del colorito; presso di noi la tinta del mare è, o troppo scintillante, o dura, o confusa, non ha quella finezza, quella trasparenza d’aria, di luce, quella magica varietà, questa chiarezza eterea di smeraldo. Eppure, quale si è la cosa che non possa dipingere un buon pittore? Ciò che ad un ignorante pare senza significazione, riceve da un buon pennello vita, rivela l’intima sua natura. Altrettanto accade colla poesia lirica. I pensieri, le sensazioni sono infinite. La natura non ha d’uopo che di essere studiata, sentita nel vero suo senso; dessa racchiude e nasconde numerose forme e pensieri, che un uomo senza imaginazione non sa neppure sospettare. Ed anche su questa tranquilla spiaggia, vi sono geniali apparizioni, ma non è facile lo esprimerle, il rappresentarle, imperocchè sono di natura dilicata, squisitissima, la quale non si può riprodurre con tratti grossolani.

Mettiamo intanto per il momento in disparte il libro degli schizzi, e lanciamoci in mare. Quest’aria marina, narcotica, di gran lunga più opprimente che non la nostra, invita propriamente a cercar ristoro in seno alle onde. La sabbia in fondo al mare è bianca come la neve soffice quanto il veluto, il fondo si stende al largo, piano e sicuro. Si vedono per ogni dove persone che si bagnano; qua e là sorgono capanne ad uso dei bagnanti, formate e coperte di fronde di alberi. Tutti questi bagnanti vengono da Roma, da Velletri, dai monti, ma raramente prima del mese di luglio, imperocchè gl’Italiani trovano in giugno l’acqua tuttora troppo fredda per i bagni. Si ritiene poi che non convenga oltrepassare il numero di venti bagni; e la cosa pare dipendere dalle condizioni speciali del clima. Ne ho fatta personalmente l’esperienza nell’isola di Capri. L’acqua pare sia qui più attiva, più eccitante che presso di noi, e l’uso protratto dei bagni, nuoce al sonno ed all’appetito. Non havvi poi su questa spiaggia ombra di quella vita di bagni, di quelle facili relazioni di società, quasi famigliari, che fanno sulle spiaggie del nostro mare [p. 118 modifica]una vera festa dei mesi di estate. Qui, ogni famiglia, ogni individuo, vive da sè; il forastiero non trova altro punto di riunione che l’unico caffè sul porto, dove seggono sotto una tenda ad una stessa tavola, alla democratica e con quella bella confusione di classi tutta particolare dell’Italia, il bagnante venuto di fuori, ed il pescatore mezzo ignudo, che approfitta tranquillamente dell’ombra della tenda per fumare la sua pipa di gesso, senza prendere nè caffè nè altro.

Alcuni ufficiali del genio, ed un antico capitano pontificio, il quale mi diverte per il suo grazioso dialetto veneziano, sono le persone colle quali mi trattengo per lo più a conversare.

Passato il luglio, la maggior parte dei bagnanti abbandona Anzio, imperocchè allora comincia il pericolo delle febbri. Anche attualmente, in cui il calore di spesso è insopportabile, e si fa sentire fin dalle sette del mattino; dopo il cadere del sole l’aria diventa umida, ed il venticello tepido e molle che spira dal mare è propriamente caratteristico. Non è prudenza allora stare fuori di casa. Il bel chiarore della luna sulle foreste, sulla spiaggia; e sul mare, che rende sul nostro Baltico così piacevole a quell’ora la vita all’aria aperta, non può qui essere goduto che dalla finestra; imperocchè una sola di quelle notti passata al difuori, basterebbe per cagionare la febbre, e fors’anche dopo alcuni giorni la morte. È pericoloso su questo mare lasciarsi adescare dalle Sirene. Ci è forza per tanto restringerci a passeggiare sulla spiaggia prima del cadere del sole, facendovi ricerca di conchiglie, e preda di piccoli gamberi di mare. Sono questi, animalucci della grandezza del quarto della mano al più, e di forma pressochè uguale al ragno. Corrono con una velocità meravigliosa, ed allorquando si stende la mano per afferrarli, scompaiono il più sovente sotto la sabbia come gli spettri in teatro. Qui dove si mangia tutto, compreso le rane, i porco spini, e perfino gli usignuoli, si mangiano pure e vivi questi piccoli gamberi, dopo averli tratti fuori dalle loro squamme. [p. 119 modifica]

Pensavo soventi volte su questa spiaggia alla brillante ambra gialla che si può raccogliere sulle nostre, ma questo mare non la produce, e vi somministra invece frammenti di ogni qualità più preziosa di marmi. Se ne potrebbero raccogliere dei carri, e dei più rari, che le onde gettano e riprendono di continuo, sulla riva. Trovansi il verde ed il giallo antico, l’alabastro orientale preziosissimo, il porfido, il pavonazzetto, il serpentino azzurro. Per comprendere d’onde vengano tutti questi marmi preziosi, basta dare uno sguardo sulla spiaggia in fondo al mare. Sorgono ivi tuttora le fondazioni di quei palazzi marmorei dei Romani, che si specchiavano nelle onde, e per la distanza di un quarto d’ora da terra, la spiaggia d’Anzio non è che rovine, od una continuazione di mura. Non solo si possono vedere massi grossissimi, reliquie di costruzioni, ma distinguere che sono opere romane in peperino, collegate colla pozzolana, indestruttibili, lavorate finamente nella forma che suolsi chiamare opera reticolata. Tutta questa spiaggia non era che una continuazione di grotte, di bagni, di templi, di palazzi, le cui fondazioni in gran parte sussistono tuttora in fondo al mare, o sotterrate nelle sabbie della spiaggia. Su questa sorgevano le stupende ville marmoree degli imperatori. Qui si immergeva nella dissolutezza Caligola, il quale nudriva una predilezione tutta particolare per Anzio, ed aveva di più formato il disegno di fissarvi la sua stanza ordinaria; qui festeggiava le sue nozze colla bella Lollia Paolina. Qui praticava suoi baccanali Nerone, il quale era nato in Anzio, e vi aveva stabilito una colonia; qui faceva desso suo ingresso trionfale, tirato da bianchi destrieri, nel ritornare dalle sue rappresentazioni teatrali in Grecia.

Anche prima era stata Anzio stanza prediletta dai Romani per la villeggiatura; Attico, Lucullo, Cicerone, Mecenate, Augusto, ebbero qui le loro ville, e quale si è la bella spiaggia d’Italia, dove non abbiano avuto le loro ville quei favoriti della fortuna? Di quali monumenti non deve allora aver brillato questa spiaggia, a giudicarne dai [p. 120 modifica]frammenti, che quasi documenti storici sono da secoli e secoli gitati sulla spiaggia e ripresi dalle onde. Queste rovine spargono un senso di tristezza nell’idilio di Anzio, ed i pensieri, i ricordi che destano, valgono grandemente ad accrescere l’attrattiva di questo soggiorno. La mancanza assoluta di storia, la separazione totale dal mondo e dalle sue vicende, sono quelle che danno carattere speciale alle spiaggie del nostro mare; ma qui in Italia, non si rinviene angolo di terra, per quanto sia solitario e remoto, dove le memorie serie e classiche del passato non sorgano, dove non invitino a riflettere sull’avvicendarsi continuo delle sorti dell’uman genere. Sedendo qui sulle rovine di un palazzo romano, al rumore delle onde che si frangono contro di esse, ricorrono involontariamente alla memoria i versi di Orazio

O Diva gratum quæ regis Antium.
Presens vel imo tollere de gradu
Mortale corpus, vel superbos
Vertere funeribua triumphos.

Ed intanto uno sguardo sul capo di Circe vi richiama alla poesia d’Omero, e la vista della lontana Astura vi porta in altre storie, in altra poesia, in guisa che vi circondano tre periodi della umana civiltà, tre diversi generi di poesia, Omero, Orazio, ed il poeta degli Hohenstaufen Wolfram di Eschenbach.

La Fortuna possedeva in Anzio un tempio celebratissimo, ed avevano pure i loro tempi Apollo, Venere Afrodisiaca, Esculapio, e Nettunno. Il pensare che su queste spiaggie deserte, circondate dai pascoli di mandre, brillava in tutta la sua divina bellezza, attorniato da altre stupende creazioni dell’arte, l’Apollo del Belvedere, accresce pregio a questa località, già per sè piacevolissima. Fu qui scoperta quella statua mirabile ai tempi di Giulio II, e quante non se ne rinvennero dopo d’allora, che formano ornamento delle gallerie del Vaticano, del Campidoglio, e del palazzo [p. 121 modifica]Albani. Furono pure qui rinvenuti il famoso gladiatore morente, parecchie statue di imperatori, e busti di Adriano, di Settimio Severo, di Faustina, satiri, atleti, statue di Giove e di Esculapio, tripodi stupendi, e quei meravigliosi altari del Campidoglio, che sono dedicati ai venti. Sopra un’altura della spiaggia, dove sorge ora un piccolo fortino sulle fondamenta di un tempio antico, dal quale sta contemplando il mare un soldato appoggiato ad una vecchia gigantesca spingarda del medio evo tutta irruginita, stanno tuttora al loro posto le basi di antiche colonne, e presso queste i fusti di cipollino, non che ventidue capitelli corinzi, di rara bellezza. Le loro volute e gli ornamenti sotto l’abaco sono particolarmente originali, e non ricordo aver veduto altrove gli uguali; rappresentano conchiglie, delfini, gamberi di mare. L’architetto adattò gli ornamenti alla località, e probabilmente questo tempio era dedicato a Nettunno stesso.

Ho trovato in Anzio pure, come avevo supposto, una persona che si diletta di studi di antichità, imperocchè sono poche le località di qualche importanza in Italia, le quali non posseggono il loro storiografo patriottico, od un dilettante di antiquaria. In Anzio sì è questi il canonico Lombardi, presidente dell’amministrazione del porto. Desso abita all’ultimo piano del casamento dove sta il bagno. Trovai quest’uomo degnissimo, intento appunto a dicifrare un’antica iscrizione, dissotterrata poco prima dai galeotti. Il canonico Lombardi scrisse un libro intorno ad Anzio, e si sta ora occupando a dettare un’opera più estesa sulla storia e sulle rovine della sua patria. Lessi con piacere e con gratitudine il pregevole suo scritto.

Oramai ho perlustrato tutta questa spiaggia alla distanza di tre ore fino ad Astura, ed ho trovato dovunque reliquie di ville, di bagni, frammenti di marmi, di mosaici ed anzi di fronte alla torre solitaria stessa di Astura, vidi sulla spiaggia presso al ponte un pavimento di mosaico, tuttora abbastanza ben conservato. Non è possibile imaginarsi quanti e quali stupendi edifici avessero i Romani [p. 122 modifica]innalzati lungo questo loro mare. Tutta la spiaggia della Toscana fino a Terracina, da Terracina a Napoli, attorno al golfo, e fin oltre Salerno, non era che una continuazione di palazzi marmorei, di tempi, di bagni, di ginnasi, una manifestazione continua della magnificenza romana; e quale fosse la splendidezza di tutte queste costruzioni, si può giudicare tuttora dalle loro rovine, che giacciono in fondo al mare. Chi avesse percorsa in allora questa lunga riviera, e visti tutti quegli edifici destinati al piacere, al diletto, che per importanza gareggiavano colle città, avrebbe per certo goduto dell’aspetto di una bella civiltà. Ed ora queste spiaggie amenissime, sono nude e deserte; non offrono altro allo sguardo che le torri cadenti in rovina, che il medio evo aveva innalzate a difesa contro le invasioni dei Saraceni. Circondano queste tutta quanta l’Italia, e tutte quante le isole del Mediterraneo, e danno alle spiaggie un carattere serio, e si potrebbe dire cavalleresco.

Non fanno però qui difetto memorie pure dei tempi moderni, le quali portano l’imaginazione ad altre regioni, ed altre zone. Quel bel palazzo Mencacci che sorge in una fresca valle, vicino alla spiaggia, fu abitato non ha guari per vari anni da un re in esilio. Aveva vissuto desso in America, e guerreggiato per un trono sulle belle sponde del Tago. Fu questi Don Miguel, principe esecrato dal Portogallo. Giunse qui fuggiasco, senza corona, con poco seguito. Visse a lungo in questa solitudine, vicino ai galeotti, in un esilio che dovette propriamente essere senza conforti; imperocchè, se a noi che nulla abbiamo ad espiare, può parere poetica questa spiaggia solitaria, sui confini delle paludi pontine; ad un re spodestato doveva pure riescire incresciosa e di significato quasi vendicativo. Don Miguel uccideva qui il suo tempo, cacciando incessantemente nei boschi sovra Astura. Un bel giorno scomparve, e non se ne parlò più. Mi narrarono in Anzio, che soleva trattenersi volontieri con i pescatori, e che punto non si vergognava di tenere discorso della sua [p. 123 modifica]disgraziata lotta per la corona del Portogallo. Nel contemplare pertanto qui il palazzo Mencacci, la fantasia vola lontano al Brasile, ed al Portogallo, alle fortunose vicende delle loro storie.

Altra memoria moderna ricorda pure questa spiaggia. Sbarcarono nel 1848, in Porto d’Anzio gli Spagnuoli, che Pio IX fuggittivo aveva chiamati in soccorso per salvare gli stati della Chiesa. Trovavasi desso allora in esilio nella rocca di Gaeta, il Coblenza della emigrazione italiana del 1848 e del 1849; e mentre i Francesi marciavano su Roma, gli Austriaci occupavano Bologna, i Napoletani si avvanzavano verso Terracina, gli Spagnuoli, che da tanto tempo non erano comparsi più in Italia, sbarcavano a Porto d’Anzio. Dessi occuparono tutto il paese verso i monti di Albano, e della Sabina. Erano, a quanto mi si disse, bella ed allegra gioventù ma male vestita e peggio armata. I Francesi non tardarono a surrogarli colà, ed i giovani ufficiali di Valenza e di Barcellona abbandonarono a malincuore i monti di Albano, dove li aveva rapiti la bellezza delle donne, e tuttora più di una bella ricorda con un sospiro i poveri cavalieri della Spagna.

Porto d’Anzio non vanta nè donne belle, nè un costume che gli sia propizio, essendo la sua popolazione composta in gran parte di elementi eterogenei. Va distinta per contro, sia per bellezza delle donne, sia per originalità di costume, la piccola città di Nettunno, la quale sorge pittorescamente ad oriente sulla spiaggia, dove le mura brune del suo castello, si specchiano nelle onde. Vi si arriva da Porto d’Anzio in tre quarti d’ora, e sono quelle un bellissimo scopo di passeggiata. A mezza strada, sorge in mezzo ai boschi ed ai cespugli la bella villa del principe Borghese, feudatario di tutto il territorio nei dintorni. Si scorgono all’orizzonte i monti Volsci; ed il capo di Circe, immerso nella più splendida luce, il quale per la sua forma imponente e caratteristica, ricorda le più belle rupi di Europa, quali sarebbero l’isola di Capri, ed il monte Pellegrino a Palermo. [p. 124 modifica]

Si arriva a Nettunno per una buonissima strada la quale passa davanti alla villa, e corre in un bosco di sugheri e di elci, dove s’incontrano parecchi avanzi di mura romane. Scavando sotto la strada, si scoprono antichi pavimenti di mosaico, quasi fossero prodotti naturali del suolo. Se non che è più bella ancora la strada sulla spiaggia stessa. Le sabbie vi sono o gialle oscure, o di un bel colore rosso, o di tufo vulcanico. I cardi turchini del mare Baltico vi crescono in abbondanza, come pure le scabiose e le camomille, ma invece dei prati, degli ontani, dei boschi di abeti, conviene rappresentarsi le piante dei paesi meridionali, e misti a fiori bianchi il lentisco, le fragole selvatiche, il ginestro a fiori color d’oro che cresce copioso su tutte le coste del Mediterraneo, l’olivo selvatico. Splendono pittoricamente le malve arboree, coi loro calici bianchi, i rovi coi loro fiori variopinti che sorgono dai cespugli, o che ondeggiano al vento penzoloni dai banchi di tufo, e grandioso poi s’innalza fra le piante minori il classico acanto colle sue belle foglie corinzie, ed i suoi fiori tinti in rosa od in bianco. Sorgono pure qua e là i cactus e gli aloe, però meschini, quasi piante esotiche, alle quali non sia proprizio il suolo. L’usignuolo allieta tuttora di sua presenza questa spiaggia. Ad onta sia trascorso il S. Giovanni, epoca in cui gli uccelli vi cessano dal cantare, e cedono il posto al grillo Anacreontico, l’usignuolo non può allontanarsi da questo oceano di verzura, da queste fresche onde, e lungo la Costa tutta, fino ad Astura, le paludi pontine continuano a risuonare dei suoi gorgheggi armoniosi.

Una tranquillità profonda regna nella antica città, in gran parte scomparsa, di Nettunno, e nei suoi dintorni. Il paese attuale trovasi circondato da antiche torri, e da mura merlate di colore bruno, le quali sostennero più di una volta gli assalti dei Saraceni. Nè marinai nè pescatori danno vita al mare in questo punto, imperocchè Nettunno non ha porto; i Nettunnesi traggono la loro sussistenza dalla coltura della vite, degli orti, e dalla pastorizia. [p. 125 modifica]

Sorge sulla piazza una antica colonna isolata, quasi stemma e testimonianza dei Colonna, antichi feudatari del paese. Le strade sono profumate dall’olezzo dei garofani, ornamento di tutte le finestre, e che agitati dal vento ondeggiano i loro fiori di un rosso ardente. Fiori così belli, annunciano donne più belle ancora; e difatti nei garofani che rallegrano le finestre, si può ravvisare in certa guisa la bandiera nazionale delle donne di Nettunno: il loro costume non è di aspetto meno gaio, meno vivace di quello dei garofani purpurei. La è cosa degna di osservazione nei più piccoli borghi d’Italia, la permanenza quasi in altrettante republiche, di usanze, tipo di fisionomia, modo di vestire, ad ognuno speciali. Si potrebbe dire che ogni castello, ogni villaggio, forma una popolazione particolare. È d’uopo vedere le donne di Nettunno in un giorno di festa religiosa, per potersi formare una idea precisa della bellezza, della grazia del loro costume nazionale. Nei giorni usuali, non sono che i minuti particolari quelli che indicano la moda del paese, come sarebbe la foggia di portare i capelli divisi in mezzo al capo, e lisci attorno a questo senza treccie alla parte posteriore, rattenuti da un nastro, il quale è invariabilmente di colore verde per le ragazze, rosso per le donne maritate, e nero per le vedove; cosicchè al solo vedere una donna, si sa se sia tuttora zitella, o maritata.

Fui presente a due feste in Nettunno, al S. Giovanni ed al S. Luigi. Nel primo giorno vidi una processione con musica per le strade; la croce era totalmente ricoperta di garofani, e tutti portavano fiori. Vi prendevano parte donne e ragazze, ed era propriamente spettacolo sorprendente, il vedere in quelle strade di color cupo, tante belle fisononomie, ed in così splendido vestire. Il costume delle donne di Nettunno è il seguente. Portano in capo una specie di fazzoletto a striscie d’oro e d’argento, il quale sta spiegato quasi ad arco acuto, sporgendo oltre il profilo della testa. Portano una gonnella di seta o di velluto di colore rosso oscuro, ricamata in fondo in oro od in argento; e sopra [p. 126 modifica]questa un farsetto di broccato parimenti ricamato sul petto ed alle maniche. Anelli, orecchini, braccialetti d’oro e coralli, danno vieppiù risalto alla bellezza della persona, ed alla originalità del costume. Si direbbe che la grazia e la splendidezza di questo nobiliti il portamento di quelle donne, imperocchè le vidi passeggiare per le stradicciuole del loro paese in rovina, colla maestà delle romane, e non meno belle per certo di queste; parecchie di profilo greco nobilissimo, tutte poi con capelli di nero corvino, ed occhi vivacissimi, atti a commuovere il cuore il più freddo. Allorquando scoppiavano i mortaretti innumerevoli che formavano quasi una ghirlanda sur un antico muro, e si vedevano colà tutte quelle donne con i loro abiti rossi ed oro, avvolte nei vortici di fumo di quelle artiglierie popolari, si sarebbe detto di scorgere un Olimpo, popolato da divinità ideali.

Ed anche senza il loro costume festivo, sono belle le Nettunnesi. Si vedono ogni giorno, e sempre molte assieme lavare patriarcalmente i loro panni alla fonte del comune. Non attaccano poi discorso cogli stranieri, sono timide quasi cavriole, e rispondono appena, e coll’occhio soltanto, al saluto.

Il giorno di S. Luigi aveva un’altro carattere; non era tanto festa religiosa, quanto popolare, e mi ricordò i costumi di mia terra natale. Sulla piazza del mercato si era innalzato con travi un non so che, il quale, bisogna pur dirlo, aveva l’aspetto di una forca ornata di fogliami; dalla trave superiore pendeva affidata ad un tratto di fune una pignatta, la quale pertanto si moveva facilmente in ogni senso; i giovani a cavallo agli asini dovevano procurare con destrezza, di fare correndo un buco nelle pareti della pignatta, e sia che la colpissero, o che la mancassero, questa movendosi picchiava per lo più il cavaliere, e lascio pensare quale grasse risa si facessero. Colui il quale colpiva la pignatta, riceveva due paoli da un prete che fungeva l’ufficio di giudice del campo. Rotta che fu la pignatta, e terminato il giuoco, ebbe luogo una tombola o [p. 127 modifica]lotteria senza la quale non havvi propriamente festa in Italia. Il premio consisteva in un pezzo di stoffa di cotone, il quale pendeva da un balcone. Un giovanetto estraeva i numeri, i quali venivano spesso annunciati coi nomi proverbiali che loro si sogliono dare, i quali erano motivi di novelle risa. Tutte queste risa si facevano con quella disinvoltura, e con quelle convenienze di forme, che sono doti caratteristiche e preziose del popolo italiano, il quale si può dire civile ed educato per natura. In tal guisa vivono e si divertono i cinquecento abitanti di Nettunno, divisi in certo modo dal resto del mondo, collocati quali si trovano fra il mare e le paludi pontine, e le strade poco frequentate che portano da una parte ad Anzio, dall’altra a Velletri. Però possiede Nettunno campi e giardini; provvede il vino che si beve in Anzio, ed ogni giorno manda a questo un carro di pane bianco, imperocchè ivi se ne cuoce soltanto di qualità inferiore. Ho bevuto a Nettunno vino ottimo, e non è poca cosa in questi anni in cui il Dio Bacco è travagliato da fatale malattia. Un cittadino di Nettunno ci volle portare un giorno nel suo tinello, nome che danno alla cantina; scese in segreto in un nascondiglio sotto il suolo, e ne trasse fuori uno stupendo vino rosso, quale non avevo bevuto più da Siracusa.

Ogni coltivazione cessa su questa spiaggia di Nettunno, perchè oltrepassata appena la città cominciano in tutta la loro solitudine le paludi pontine, le quali si stendono fin verso Terracina. Nessun abitato si rinviene più sulla spiaggia, sorgono soltanto solitarie alla distanza di circa due miglia dall’una all’altra le antiche torri del medio evo. L’aspetto di questa solitudine, di questo deserto, di questa totale mancanza di ogni coltura, è sommamente imponente. Uno non si crederebbe più sulle coste classiche d’Italia, ma nei deserti nelle solitudini dell’India o dell’America. Il frangersi continuo delle onde, il scintillare del sole estivo sulla spiaggia bianca, piana, monotona, il grido malinconico dell’avoltoio, del falco, il volo dell’aquila [p. 128 modifica]la quale altissima si libra sull’ali in larghe spire, il calpestio ed il muggito dei tori selvatici, aria, tinte, forme delle cose, e degli elementi, davano propriamente un’idea di un mondo deserto, e primitivo.

III.

Il 28 giugno il pittore ed io movemmo lungo questa spiaggia, per recarsi ad Astura alla distanza di circa tre ore. Il mattino era di una limpidezza straordinaria, il mare tranquillissimo, di una tinta rosea la quale illuminava il capo omerico di Circe, che dava alla spiaggia un aspetto tutto classico. Passando a Nettunno vi comprammo vino e pane, e proseguimmo la nostra strada. Ci fermammo a fare colazione su di un antico tronco d’albero, presso un mucchio enorme di carbone, provando piacere uguale a quello di Ulisse, quando sedette al banchetto apprestatogli da Circe nel suo palazzo. Ed era propriamente una voluttà gustare un buon sorso di vino in quella tranquillità profonda, alla vista di quella spiaggia omerica, dell’azzurro di quel mare tinto in rosa all’orizzonte.

Fino a quel punto tutto era andato per il meglio, se non chè cominciammo essere preoccupati da un certo timore, trovandoci giunti al punto in cui le foreste scendono quasi fino al mare. Non erano già i banditi che ci davano pensiero, ma bensì le mandre dei tori e dei buffali, i quali vagano colà in tutta libertà, senza essere punto guardate dai pastori. Tutta quanta la spiaggia fino a Terracina è popolata di mandre numerose di tori, di buoi, di vacche, dalle corna lunghissime, di quella forma tutta classica quali si vedono vivi nella campagna di Roma, e scolpiti sulle metopi del Partenone, attorno all’ara del sacrificio. Si vedono in tutte le case dell’Italia Meridionale di tali corna, le quali vi si tengono quali amuleti contro il Molocchio, ossia il cattivo sguardo; e le portano ridotto in piccolo i principi alla catenella dell’orologio, ed [p. 129 modifica]i ragazzi dei pescatori appesi al collo. I buoi sono timidi, selvaggi, ma grandemente pericolosi; il solo pastore li può governare, stando a cavallo colla sua lancia, ma ben più pericolosi ancora sono i buffali. Dessi vivono qui a branchi, o vagano solitari e liberi al pari dei cignali; frequentano volontieri gli stagni, le paludi, nuotando con somma agilità. Allorquando si attraversano le paludi pontine, o le bassure di Pesto, si possono vedere facilmente questi animalacci neri e selvaggi, immersi nelle paludi dalle quali talvolta non esce fuori che il loro capo, con un aspetto sinistro, ed in certa guisa demoniaco. Il buffalo cammina sempre col capo chino a terra, e guarda sospettoso dal basso in alto. Non si serve delle sue corna, le quali sono come quelle del montone rivolte all’indietro, ma getta a terra colla sua fronte di bronzo l’uomo che insegue e che riesce a raggiungere; quindi gli piomba in ginocchio adosso, gli rompe il petto, e lo calpesta finchè non sente cessato il respiro. I pastori domano questi animali pericolosi colla lancia; gli passano un anello nel naso, ed allora li adoperano attaccati al carro al trasporto dei pesi più grevi, di vuluminosi massi di pietre, di tronchi e fusti di alberi giganteschi. Col latte della femmina del buffalo si fa la provatura, specie di caccio di digestione molto difficile. La carne del buffalo è poca stimata perchè dura; la comprano gli Ebrei poveri del Ghetto, i quali non ne mangiano quasi altra. Sono i buffali abbondantissimi nelle paludi pontine, in quella riviera squallida di Cisterna, di Conca, e di Campo morto, regione indigene della febbre maremmana, dalla quale non si scampa dalla morte neanco coll’allontanarsi quando se si ha colto il germe; gli uomini che custodiscono questi buffali vivono vita misera e stentata, poco meno selvaggia di quella degl’Indiani.

L’incontro possibile di questi animali ci dava non poco pensiero, ed appena fummo giunti nella regione dei boschi, li vedemmo numerosi sulla spiaggia. Lasciati liberi [p. 130 modifica]battono sempre la stessa strada, e sempre alle stesse ore. Il mattino escono dai boschi e vengono al mare, per bervi acqua salata, quindi o si stendono sulla sabbia, o pascolano lungo la costa. Vi stanno tutte le ore calde, e quando verso sera comincia la temperatura a rinfrescarsi, si alzano, e vanno pascolando lentamente sulla costa inoltrandosi nei cespugli, fintantochè siano giunti nel fitto dei boschi dove passano la notte, per scendere di bel nuovo al mattino al mare.

Alla vista di tutti quegli animali sulla spiaggia rimanemmo alquanto perplessi. Non ci pareva possibile passare di là, perchè avrebbero potuto tagliarci la via, che molti erano non solo sulla sabbia ma in riva al mare. Proseguendo a camminare sulle sabbie, ci sarebbe stata forza passare fra mezzo ad essi, imperocchè scendevano appunto al mare, ed era possibile che un qualche animale furente ci prendesse ad inseguire nella direzione del capo di Circe. Deliberammo, se non sarebbe più prudente cacciarci per entro ai boschi, e nel dubbio questo partito ci parve ancora il migliore.

Scendevano intanto sempre nuovi branchi di animali, locchè ci faceva argomentare ve ne fossero ancora nei boschi, e se ne scorgevano nei cespugli di mirto. Vedemmo tutto ad un tratto fermarsi e guardarci attoniti due tori magnifici dalle altissime corna risplendenti, ci avviammo prudentemente adagio verso il bosco, ed in un momento ci trovammo nel fitto della foresta. È difficile rinvenire boschi, i quali si attaglino meglio di quelli di Astura alle imprese di banditi. Non sono già formati questi da alti fusti di quercie, ma da fitte macchie di sugheri, di olivastri, di lentischi, di spine nere, di mirti. Sono queste talmente attorniate, ricoperte di piante rampicanti, di edere stupende, le quali formano volte quasi di una moschea boschereccia, impenetrabili del pari ai raggi del sole, che alla pioggia. Trovammo cespugli di mirti di un’altezza straordinaria, tutti in fiori; e tutto attorno a noi regnava un aspetto selvaggio, deserto, che produceva profonda [p. 131 modifica]impressione. Il terreno non è piano, ma ondulato, attraversato da moltiplici rivi, ridotto in molti punti a paludi. Vi si trovano in abbondanza, gli istrici, le tartarughe, e le serpi. Incontrammo frequenti penne di gallinacci selvatici, avanzi del pasto di una qualche aquila, la cui vista dava maggior risalto alla poesia cupa di questa riviera.

Ci riescì di scansare i branchi dei buffali e dei tori, ed ogni qualvolta ne vedevamo qualcuno in ritardo, ci fermavamo stando silenziosi e tranquilli, finchè fosse passato, e dopo avere superato in tutti i sensi, in tutte le direzioni i rivi, e fossi, e siepi, sboccammo di nuovo sulla spiaggia e ci riposammo piacevolmente all’ombra di un muro, al quale era addossato uno steccato destinato a rinchiudere una mandra. Anche questo muro era reliquia di un qualche palazzo romano, come chiaramente rivelavano alcune vestigia di mosaico.

Ci rimaneva un’ora di strada per giungere ad Astura, e nel marciare lungo quella triste spiaggia mi colse quella profonda malinconia, che sorge per lo più all’aspetto di quanto ricorda una grandezza scomparsa. Non è soltanto il ricordo del tragico fine del giovane Corradino e della stirpe degli Hohenstaufen, che può rattristare l’animo, particolarmente di un Tedesco; vi ha molta parte pure l’aspetto della contrada stessa. Vorrei poterlo esprimere colle parole, nello stesso modo eloquente in cui il mio compagno in quella gita lo seppe riprodurre ne’ suoi disegni che vorrei vedere presto fatti di pubblica ragione; e sarebbe pure còmpito di un qualche istituto di Germania, il pubblicare un album degli Hohenstaufen. Il sito dove ci trovavamo era circoscritto verso terra dalle paludi pontine, sopra le quali sorgono imponenti i monti Volsci i quali scendono al mare; verso il mare si innalza a foggia d’isola il capo di Circe, che si perde nell’azzurro del cielo, ed in mezzo si stende la spiaggia deserta, colle sue sabbie di un bianco di neve. Sorge ad un tratto su questa una piccola cappella abbandonata e deserta, e pochi [p. 132 modifica]passi più in là emerge dal mare il castello di Astura, piccolo quadrato di mura merlate, con una torre nel mezzo. La cappelletta ed il castello sono i soli due edifici che si possano scorgere in questa vasta solitudine. Per quanto volgessimo lo sguardo all’intorno, non ci venne fatto di scoprire altre creature viventi che due ombre nere sui merli del castello, e due vecchi pescatori seduti contro al muro, taciturni e quasi annientati dal calore, i quali stavano intrecciando un cesto di giunchi, destinato a trasportare i pesci, mentre la loro barca si stava dondolando sulle onde.

Correvano gli ultimi giorni di agosto del 1268, quando, perduta la battaglia di Tagliacozzo, giungevano fuggitivi e ripieni di ansietà su questa spiaggia, il giovane Corradino, Federico principe d’Austria, il conte Galvano Lancia co’ suoi due figliuoli, non che i due conti della Gherardesca, congiunti dell’infelice Ugolino, che i versi di Dante hanno reso immortale. Venivano di Roma, imperocchè narra il cronista Saba Malaspina, che perduta la battaglia avevano cercato rifugio prima in quella città dove era rimasto Guido da Montefeltro quale vicario del senatore Arrigo di Castiglia. Corradino era giunto colà «senza pompa di sorta, non come il capo di un esercito, ma come uno che abbia tutto perduto, non cerchi che a salvarsi di nascosto, e quasi fuori dei sensi» (latenter ingreditur mente captus). Se non che, erano giunti pure in Roma dal campo di battaglia suoi nemici Giovanni e Pandolfo Savelli, e Bertoldo, e molti guelfi i quali cercavano muoverla a romore, cosicchè gli amici consigliarono al giovinetto di non frapporre indugio a fuggire. Si diresse con i suoi compagni verso il mare, nella intenzione di portarsi a Pisa, e di là imbarcarsi per la Sicilia. Cercarono una barca, e la ottennero dagli abitanti del castello di Astura. La lanciarono tosto in mare, e salparono dalla riva, se non chè Giovanni Frangipani, signore di Astura, avutane notizia, e riconosciuto dai gioielli che Corradino aveva distributi, essere i fuggitivi persone distinte, si [p. 133 modifica]pose in un’altra barca, a forza di remi li raggiunse, e li ricondusse nel castello. Furono vani tutti gli sforzi di Corradino per ottenere lo lasciasse fuggire co’ suoi, non li vollesse consegnare nelle mani di Carlo, avido di sangue; gli ricordò invano gli obblighi di gratitudine che gli correvano verso la casa di Svevia, imperocchè i Frangipani avevano ottenuto grandi feudi dall’imperatore Federico, e lo stesso Giovanni era stato da questi creato cavaliere. Corradino promise a questi ampia ricompensa, e fu detto siasi perfino dichiarato disposto a sposare la figliuola di Frangipani. Il signore di Astura ondeggiava, commosso forse dalla gioventù, dalla grazia, dalla sventura di Corradino, od anche incerto, a quanto dicono i cronisti, dove avrebbe potuto trovare maggiore lucro, se da Corradino o da Carlo di Angiò. Mentre si stava nel castello trattando e temporeggiando in questa guisa, comparve Roberto di Lavena capitano delle galere di Carlo, richiedendo il Frangipani di rimettergli i fuggitivi. Si legge in Saba Malaspina che Frangipani fece trasportare gl’infelici profughi in un altro castello vicino, per non essere costretto a consegnarli a Roberto contro sua volontà, e prima che questi soddisfacesse al pagamento della ricompensa pattuita; ma non è nominato questo castello, che si accenna più forte ancora di quello di Astura. Intanto arrivò dentro terra con fanti e cavalli davanti Astura il cardinale Giordano di Terracina, rettore per la Santa Sede della contea di Campania; richiese desso pure la consegna dei profughi, ed il vile traditore, intascato il danaro di Giuda, consegnò alle mani dell’acerrimo loro nemico gli infelici che avevano goduta la sua ospitalità. Furono condotti a Napoli per i boschi e per i monti di Palestrina dapprima, quindi per quelle stupende campagne che poco prima Corradino aveva percorse vittorioso. Il 29 ottobre la mannaia troncava quelle teste distinte; quella di Corradino per la prima, quindi quella del prode conte della Gherardesca Federico, del Generoso Galvano Lancia (fratello di quella bella Bianca, la quale aveva dato Manfredo a [p. 134 modifica]Federico il grande) e per ultimo quelle de’ suoi due giovani figliuoli Galeotto, e Gherardo, i quali furono dapprima strangolati nelle braccia del padre.

Presso la torre di Astura, ed in quella solitaria spiaggia, mi tornarono alla memoria pure tutte quelle altre località consacrate dalla storia degli Hohenstaufen, e che io aveva pure visitate nelle mie peregrinazioni per Italia. Mi comparve la bella figura di Manfredo, biondo, ricciuto, sui campi di Benevento, quale avevalo veduto Dante con doppia ferita alla fronte ed al petto, sclamando mestamente:

                         «I’ son Manfredi
Nipote di Costanza imperatrice!»

Lasciai errare il mio sguardo sul mare ricco di ricordi, di memorie, fissandolo colà dove giace la bella Sicilia, dove sorge in mezzo a giardini sempre in fiore, sulla spiaggia la più amena del mondo, quel castello di Palermo dove passò la sua gioventù, dove poetò Federico, dando origine alla poesia italiana; pensavo al duomo di quella stessa Palermo, a quella cappella oscura, dove riposano nei loro sarcofaghi di porfido rosso Enrico VI e Federico, e le due Costanze, rappresentati colla corona in capo, e con dalmatiche seriche, sugli orli delle quali leggonsi iscrizioni saracene.

Entrammo nel castello. Un ponte in muratura lo unisce alla campagna, ed un ponte levatoio dà accesso all’interno. Nella piccola corte sorge la torre ad otto piani, la quale finisce a foggia di terrazzo, su cui stava un solo ed unico cannone irruginito. La guarnigione, composta di otto uomini, si stava esercitando nella piccola corte, ed il luogotenente, D. Pasquale, la stava guardando dal terrazzo coll’aspetto di chi avrebbe voluto essere dovunque, purchè ivi non fosse. Ci portò nel suo piccolo e meschino quartiere; dipinge piuttosto bene e procura uccidere le giornate nella sua solitudine, disegnando arabeschi nello stile di Pompei. Il tenente ci disse che ognuna di queste torri della costa trovasi ora custodita da otto uomini, [p. 135 modifica]comandati ad un ufficiale o da un maresciallo di alloggio, e che sono severissime le prescrizioni di vigilanza, per timore di un colpo di mano per parte dei mazziniani. Visitammo tutto il castello composto di piccole e malinconiche stanze di fortezza, dove il ragno stende le sue tele, e dove lo scorpione velenoso trova ricetto nelle moltiplici screpolature; ma la vista, sia sulla pianura verdeggiante, sia sul limpido mare ove ora compaiono ora si nascondono le vele delle barchette peschereccie, non è soltanto bella, può dirsi stupenda.

La è torre fatta apposta per bardo, per suonarvi la sua arpa, e morire col canto del cigno, all’ora in cui il sole cade in mare, e tinge di colore purpureo il capo di Circe. In quell’ora regna sul mare tale una tranquillità, uno spirito di quiete, che non si può descrivere; si direbbe che Tanato e Cirene, colle loro ali variopinte dei colori dell’Iride si librino sul mare, e che quella barca, la quale quasi ombra sta girando il capo di Circe, sia lo schifo di Onciro, che coronato di papaveri, vadi spargendo sulle onde il sonno ed il riposo.

Tutto qui allora respira dolcezza. Mentre il capo di Circe vi riporta alle finzioni d’Omero, alle imagini dell’Odissea, la solitaria torre di Astura ha dessa pure la sua voce, vi parla delle grandi e non meno poetiche memorie dell’epoca degli Hohenstaufen. Quali idee non risvegliano questi nomi degli Hohenstaufen, e del provenzale Carlo d’Angiò. Ricorrono alla memoria i versi di Wolfram di Escenbach, i personaggi tutti del suo Percivalle, Corradino, Elisabetta di Baviera, Gottofredo di Angiò, il cavaliere Gavino, e Feirefiz; Arturo e Titurello, il castello di Graal nella foresta selvaggia, i saraceni, i trovatori, i penitenti, i pellegrini, e tutte le leggende profonde dell’Oriente.

Astura è l’avanguardia del romanticismo, la sede della poesia tedesca in Italia. Dessa appartiene ai romantici come la grotta azzurra di Capri. Io ne ho preso possesso silenzioso a nome di questi, dichiarando questo castello leggendario, proprietà nazionale della Germania. [p. 136 modifica]

La sola torre risale ai Frangipani, tutte le altre costruzioni sono di epoca posteriore, imperocchè nel 1286 comparvero davanti al castello i Siciliani, che nei vespri avevano preso splendida vendetta del sanguinano Carlo di Angiò, guidati dal loro ammiraglio Bernardo da Sarriano, e tutto lo distrussero ad eccezione della torre, uccidendo pure il figliuolo del Frangipani. Scorgonsi tuttora sulle mura esterne del castello le armi dei Colonna, che ne furono proprietari più tardi. Dopo i Frangipani era diventato feudo dei Gaetani; lo possedettero quindi i Malabranca, gli Orsini ed i Colonna, i quali nel 1594 lo vendettero a Clemente VIII. Attualmente Astura è feudo dei Borghesi.

Se non chè altri ricordi storici si rannodano ancora a questo castello. In faccia al ponte che vi dà accesso, vi avevo osservato avanzi di un pavimento in mosaico, appena ricoperto dalle sabbie della spiaggia, e tosto mi accorsi che il castello in mare sorgeva sovra le fondazioni di un palazzo romano assai più vasto, le cui reliquie erano visibilissime in fondo al mare, ed anzi in alcuni punti tuttora emergevano da questo. Sorgeva l’antico palazzo sopra un banco di sabbia, e probabilmente per questo motivo Plinio dà il nome d’isola ad Astura, colonia d’Anzio, imperocchè la località in antico poteva trovarsi per un piccolo tratto di acqua staccato dal continente. Strabone dà a quel braccio di mare il nome di Storace (Στορας ποταμός). Plutarco la dice Astira (τα Αστυρα) e ne fa parola nel narrare altra fuga tragica, quivi pure avvenuta, la fuga di Cicerone. Per dir vero non dovrà recare stupore a miei lettori, che questa località, solitaria, appartata, possegga altre tristi memorie, e che ben prima di Corradino, sia stata località dolorosa, dedicata quasi alle Eumenidi.

Cicerone vi possedeva una villa. Nelle sue lettere ne fa parola di frequente, ed una volta scriveva ad Attico da Astura, «Est hic locus amenus, et in mari ipso, qui et Antio et Circeis aspici possit.» Abitava volontieri questa [p. 137 modifica]sua villa, la quale più delle altre splendide sue possessioni, gli consentiva la solitudine ed il riposo. Poco prima della sua morte era qui venuto, ed anzi Astura gli fu fatale. Vi si era rifugiato nella primavera, non sì tosto aveva saputo di essere portato sulle liste di proscrizione; Plutarco narra che vi si era imbarcato per fuggire nella Macedonia presso Bruto, ma che vacillando nella sua risoluzione, era tosto ritornato a terra. Nella intenzione di portarsi a Roma per tentare di muovere a compassione il cuore di Ottaviano, partì da Astura prendendo la via della città, se non che fatti appena dodici miglia, colto dalla paura, tornò improvvisamente addietro. Salito allora in una lettiga si fece portare verso Gaeta, ma raggiunto per istrada, al punto che si additta tuttora oggidì, dai cavallieri che lo inseguivano, venne da questi trucidato.

Strana coincidenza! Ottaviano alla sua volta colse nella stessa Astura, a quanto narra Suetonio, il germe del male che pose fine a suoi giorni. Venne quivi poco prima di sua morte nell’ultimo suo viaggio in Campania «Principiato il suo viaggio venne in Astura, ed essendosi trattenuto contro la sua abitudine all’aria libera per godervi il fresco, fu colto da dissenteria che fu il principio della sua infermità». Dopo breve stanza a Capri, morì a Nola.

Non è cessata però ancora con questo l’influenza fatale di Astura. Anche il successore di Augusto, Tiberio quivi ammalò poco prima della sua morte. Ecco le parole di Suetonio, «Ritornò in tutta fretta dalla Campania, e giunto in Asturia vi cadde ammalato. Riavutosi alquanto, s’imbarcò per il capo di Circe.» Aggravatosi ivi il suo male, colto dalla paura s’imbarcò di bel nuovo, e senza potere arrivare a Capri, scese a terra al capo Miseno, dove cessò di vivere.

E che cosa dovrà dirsi, quando si sappia che anche su di Caligola, successore di Tiberio, esercitò Astura la diabolica sua influenza? Imperocchè Caligola sbarcò quivi poco prima della sua morte, e Plinio narra, «Trovossi appeso un piccolo pesce, chiamata Remora al timone della [p. 138 modifica]galera la quale portava Caligola da Astura in Anzio, e ciò venne considerato quale presagio del prossimo suo fine.»

Astura mala terra, maladetta! Anche noi, peregrini innocenti, doveva costringere a precipitosa fuga, a noi pure doveva far provare ambascie di morte.

Allorquando lasciammo Astura, decidemmo di non prendere più la strada lungo il mare, ma a traverso la foresta, di cui avevamo udito lodare grandemente la selvaggia bellezza. Non conoscendola, tolsimo con noi un soldato del piccolo distaccamento, bel giovane di corporatura atletica, il quale ci doveva servire di guida per alcune miglia, e prestarci contemporaneamente assistenza, non già contro i briganti, ma bensì contro i tori ed i buffali. Piegammo a destra, camminando per un certo tratto lungo la spiaggia, dove potemmo vedere tori neri di tanto maestoso aspetto, che Giove non avrebbe potuto averli migliori, allorquando portava in mare la bella Europa. Poco dopo ci trovammo nell’interno della foresta. Camminavamo per ameni sentieri, fra odorosi cespugli di mirti, sotto la volta di quercie gigantesche, rallegrati dai mille accidenti di luce del sole che volgeva al tramonto. Era propriamente una bella foresta. Pensavo a quelle delle mie spiaggie natìe, alle sue quercie dritte, ed altissime, fra i tronchi delle quali si può scorgere l’azzurro del mare; tutti i miei pensieri erano rivolti al passato. È puro bello aggirarsi in que’ boschi; spiando la comparsa dei cervi e dei caprioli, quando sboccano dai cespugli, e vi contemplano con curiosità, alzando il loro capo coronato di lunghe corna; qui per contro, balza talvolta fuori dal bosco la testa nera, diabolica di un buffalo o di un toro, animali selvaggi, e talora vi attraversa il sentiero una lunga schiera di serpi variopinti. La vegetazione è di una bellezza e di un vigore tropicale. L’edera circonda le quercie, tronco contro tronco, ed io stavo ammirando tale spettacolo, che non avevo finora visto altrove, imperocchè l’edera raggiunge quivi le proporzioni di un albero, si [p. 139 modifica]abbarbica alle quercie, le circonda, le stringe al paio dei serpenti il Laoconte, quasi volesse soffocarlo in un abbracciamento erculeo, e strapparle dal suolo; sale per tutti i rami, e giunge fino al vertice della pianta, dove hanno ricetto gli uccelli selvaggi della foresta.

Avevamo camminato per tal guisa alcune miglia, assorti sempre dalla contemplazione di quel bello spettacolo. Il nostro compagno di Astura ci aveva portato sulla strada, la quale doveva condurci di bel nuovo alla spiaggia del mare, e ci aveva lasciato colà, dove il bosco diventava meno fitto, dicendoci che fra poco ci saressimo trovati nella macchia ed avressimo veduto il mare. Continuammo a camminare allegri fra i mirti e gli olivastri, quando tutto ad un tratto ci trovammo di fronte ad una mandra di un buon centinaio di tori. Ci fermammo tosto. Uno dei tori si fermò a sua volta, quasi stupito; alzò la testa, ci contemplò con serietà tutta maestosa, si staccò dal branco, e ci venne all’incontro. In quell’istante, il pittore mio compagno fece un movimento col maledetto suo ombrello bianco, ed appena aveva desso ciò fatto, che il toro diventò furioso, spiccò un salto; e tosto tutto quanto il branco si pose in moto verso di noi. Una nube di polvere si alzò tosto nel bosco, e mentre fuggivamo presi da gran timore, dovevano pure in quel denso polverio esser belli a vedere quegli stupendi animali. Riuscimmo ad arrivare nel fitto del bosco, e colle mani insanguinate per le spine, ci cacciammo fra altri cespugli, mentre dietro di noi continuava il polverio, si scorgevano luccicare le corna dei tori, e si udiva lo scricchiolio dei rami che infrangevano nella loro corsa.

Non ho visto mai il terrore scolpito sopra una fisonomia umana come su quella del mio compagno, e probabilmente non facevo io guari più bella figura. Finalmente tutto fu silenzio intorno a noi, eravamo pervenuti nel fitto del bosco, e non si scorgeva più nulla. La mandra selvaggia aveva proseguito la sua via verso il mare. Continuammo a nostra volta a camminare nella foresta, dopo [p. 140 modifica]avere preso alquanto di respiro, spiando di continuo se ricomparisero i tori, finchè, usciti dal bosco, vedemmo la spiaggia libera, e sboccammo in questa. Credo non avere provata mai uguale soddisfazione nel rivedere il mare, e mi toccava propriamente provare in Astura, sulle traccia di Corradino, quali siano le ambascie di una fuga precipitosa, col pericolo della morte alla gola. Si sarebbe detto che uno spirito maligno, il demone di quel luogo malaugurato il quale mi aveva destate tante memorie funeste, avesse voluto darmi una idea precisa di quanto aveva ivi sofferto il povero Corradino. Se non che gli animali selvaggi erano stati più compassionevoil per noi, di quanto lo fossero stati per quello gli uomini.

Proseguimmo la nostra strada, prendendo ancora riposo sulle rovine del palazzo romano, dalle quali il malinconico castello compariva più bello ancora, e più espressivo alla luce incerta del tramonto. Se non che tornarono darci pensiero le numerose mandre che coprivano la spiaggia fin verso Nettunno. Le une erano ancora sdraiate in vicinanza al mare, le altre si andavano ritirando verso la foresta, siccome è loro costume a quell’ora. Quando passammo loro vicini ci comparvero quasi un bosco di corna gigantesche, ma quegli stupendi animali non badarono a noi, che ci tenevamo rasente il mare, in direzione inferiore alla loro, e finalmente comparvero due bei mandriani, i primi che vedessimo, a cavallo i quali galoppavano lungo la spiaggia colle loro lancie in pugno, e che ci ispirarono alquanto di fiducia.

Giungemmo felicemente a Nettunno, e di là contemplammo con senso di compiacenza la strada percorsa, ed il castello di Astura, il quale a quella distanza, a quella dubbia luce, emergeva dall’onde quasi cigno gigantesco.