Ricordi storici e pittorici d'Italia/Profili e costumi romani
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Traduzione dal tedesco di Augusto Nomis di Cossilla (1865)
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PROFILI E COSTUMI ROMANI
1853.
I.
Queste pagine dettate in alcune ore di ozio, devono comparire variopinte quali un carnovale, ed essere considerate propriamente quasi un caleidoscopio. Tenteremo intanto di introdurre un qualche ordine in questo mondo intricato di figure, il quale presenterà immagini di vivi e di morti, fantocci, ballerini, mimici, predicatori ragazzi, teatri popolari, ed altre rarità stupende, in linea sempre crescente.
Il primo atto avrà luogo come di ragione sotto terra.
Una sera durante la settimana dei morti, il chiarore delle faci m’indusse ad entrare nel tempio di Agrippa. Un sacerdote predicava intorno al purgatorio, esortando gli uditori a pregare assiduamente, essendo appunto questi i giorni, durante i quali si possono alleviare le pene espiatorie, ed in cui è maggiore l’efficacia della preghiera.
«Che qui, per quei di là molto s’avanza» — disse di già l’anima di re Manfredi nel purgatorio. Il sacerdote parlava con gran calore, con voce sonora, ed in quella foggia teatrale, colla quale sogliono i sacerdoti italiani indirizzarsi al popolo. La sua predica nel Panteon di Agrippa trovava sede adatta a produrre grande impressione. «Imperocchè, diceva, qui tutto ci ricorda il nulla del passato: pensate soltanto agli innumerevoli cristiani, che un dì Nerone, Decio, Domiziano, gittarono in preda agli animali feroci o fecero crocifiggere, decapitare.» La voce del sacerdote risuonava potente in quell’ampia e silenziosa rotonda a metà illuminata, e l’eco ripercotendo sotto quelle volte quei nomi terribili di Nerone, Domiziano, Decio, Diocleziano, pareva volesse evocare gli spiriti dell’antica Roma. Ero seduto presso la tomba di Rafaello, e gettando lo sguardo in quella mezza oscurità, sui gruppi dei fedeli inginocchiati, e sulla figura bianca del predicatore, mi compariva questi quasi mago che evocasse i morti.
Questa scena del Panteon m’indusse a visitare le chiese sotterranee di Roma. In questa settimana dei morti, si danno in questi sepolcri, rappresentazioni di storie di martiri, di scene bibliche, le quali sono abbastanza originali. Le cappelle di questi cimiteri, sono d’ordinario due, una superiore, ed una sotterranea, dove stanno propriamente le sepolture. Durante la settimana dei morti, nella chiesa superiore si innalza un sarcofago ricoperto di panni neri, circondato da cipressi e da candelabri, sul quale riposano un crocifisso ed un teschio. I sacerdoti cantano i salmi dei morti, ed i devoti ed i curiosi, parte in piedi parte in ginocchio, riempiono la chiesa, quasi perduti in una nuvola di fumo d’incenso.
Ecco la cappella Alla morte presso il ponte Sisto; scendiamo nella chiesa sotterranea. Vi scorgeremo cose singolari. Tutte le mura, tutte le pareti sono ricoperte di rilievi, di rabeschi, e di mosaici fantastici. Vi sono fiori, rose, stelle, quadrati, croci, ornamenti di ogni maniera quali soltanto una imaginazione orientale li può concepire, ed il tutto è congegnato nel modo il più ingegnoso, unicamente con ossa umane. Si dura fatica a prestare fede ai propri sensi. Conviene imaginarsi una cappella sotterranea, riccamente illuminata, costrutta tutta di teschi, di scheletri, colle pareti formate di ogni maniera di ossami, ed ivi una folla di creature viventi, donne per la maggior parte e ragazze, dame in abiti di seta, belle e vivaci fisonomie, le quali ridono, cinguettano in mezzo a tutto quell’apparato di morte, in quella atmosfera impregnata di effluvi cadaverici, avviluppate nei vortici del fumo degli incensi.
Presi posto a fianco di una giovane ragazza, la quale era seduta precisamente sotto uno scheletro, il quale digrignava i denti, e che stava conversando allegramente colla sua vicina, di cose le quali accennavano di tutt’altro che alla morte: pensoso e quasi atterrito, stava contemplando la reliquia mortale e la sua giovane preda, sulla quale stendeva le mani, imperocchè la ragazza era seduta in guisa che la si sarebbe detta caduta fra le braccia dello scheletro. Era propriamente la danza dei morti del nostro Holbein rappresentata al vero.
Tutti gli scheletri sono collocati in altrettante nicchie, attorno alla cappella. Ognuna di essi tiene fra le ossa delle mani un cartello, su cui sta scritto una sentenza morale, un ricordo della vanità della vita, una esortazione ai vivi di pregare per i morti che soffrono e sperano. Non dovette essere poca l’abilità artistica e la pazienza, richieste per disporre tutta questa funerea decorazione. Qui, parte delle mura, furono ricoperte unicamente di teschi di ragazzi, qua, di quelli di persone adulte, altrove vennero formati arabeschi di clavicole, di costole, di ossa del petto, delle dita, di articolazioni. Gli stessi candelabri sono formati in modo fantastico di ossa umane, ed è maraviglioso a scorgere come il senso artistico, e la legge estetica siano pressochè riusciti a vincere il ribrezzo ispirato dalla materia impiegata. Ma ad onta che l’arte sia riuscita a tanto, che abbia scherzato colla morte, ridotto a creazioni artistiche quanto ispira maggior ribrezzo ai viventi, quanto sogliono tenere sepolto nelle viscere della terra, quello spettacolo riesce tuttosa penoso e repulsivo. Mi parve rappresentare il culmine della abnegazione religiosa la più fanatica, o nella forma la più bizzarra il trionfo sopra la morte, e sopra l’orrore che dessa ispira. Se fosse possibile che una di queste cappelle mortuarie dell’anno 1853, dopo la nascita di Cristo, rimanesse sepolta sotto terra, tanto tempo quanto le tombe degli Egiziani e degli Etruschi, e venisse scoperta dopo tre mille anni, sarebbe fuor di dubbio un monumento importantissimo per la storia della civiltà, dal quale la posterità potrebbe formarsi una idea della essenza intrinseca del culto cristiano. Se non che, anche per noi contemporanei, è abbastanza istruttiva la vista di una di queste cappelle mortuarie dei Cristiani in Roma; vi fa penetrare in modo meraviglioso nella essenza dello stesso Cristianesimo.
Gli Egiziani suolevano portare attorno ai banchetti le mummie dei loro antenati, persuasi quali erano della letizia del fine di ogni cosa; sono considerati da noi fra tutti i popoli della terra, quello che abbia saputo superare meglio l’orrore della morte, ed alla loro religione, la nostra filosofia dà il nome di religione della morte. Ma difficilmente i cupi Egiziani, famigliarissimi alla idea della morte, avrebbero potuto imaginare, o sopportare qualcosa di uguale a queste cappelle mortuarie dei Romani. Il Cristianesimo pure, è la religione della morte, od il trionfo sopra la morte. In nessuna rappresentazione mistica di una religione, la morte ed i cadaveri ebbero tanta parte; la passione, la crocifissione, la deposizione dalla croce, la sepoltura di Cristo, la sua risurrezione, la lunga schiera dei martiri durante, le persecuzioni di Nerone, di Domiziano, di Decio, di Diocleziano, e di altri imperatori hanno dato al culto cristiano un’impronta funerea, hanno data alla vita cristiana, ispirata alle arti, alla musica, alla scultura, alla pittura, l’idea della morte, sotto tutti gli aspetti. La saggezza profondamente vitale della coscienza tedesca, la quale s’impossessa potentemente di tutto quanto ha spirito di vita, seppe da tutte queste idee di morte ricavare la danza dei morti di Holbein, rappresentazione plastica della sapienza dei proverbi di Salomone.
Se non chè, a chi può essere caduto in mente per il primo di formare un mosaico di ossa umane? Mentre stavo considerando quella cappella dei morti, mi pareva dovesse l’idea esserne uscita dalla fantasia sbrigliata del nostro Hoffmann. Ovvero mi immaginavo di vedere un cappuccino rimbambito per l’età, il quale nel cuore della notte, alla luce dubbia di una lampada, stesse radunando e disponendo tutte queste ossa, sorridendo ogni qualvolta gli riusciva comporre un rabesco. Uno scheletro gli tornava adatto. Era lo scheletro di un artista, stato pazzo mentre era in vita. Ora stavano vicino l’uno all’altro, maneggiando tutte quelle ossa, e sorridevano quando veniva loro fatto di disporli in forma artistica; se non sarà ancora più probabile che tutto questo strano lavoro sia stato compiuto nelle tenebre, unicamente da spettri. «Padre, dicevo ad un cappuccino il quale stava presso di me, quale confusione allorquando tutte queste ossa, questi teschi dovranno ricercare il loro posto?» — «Certamente, mi rispose il frate, che nel giorno del giudicio universale, quando i morti dovranno risorgere, un grande chiasso qua dentro vi dovrà essere.»
Anche la cappella del morti dei Cappuccini, sulla piazza Barberini, è disposta ed ordinata in modo uguale a quella del Ponte Sisto. Se non che in quella l’arte non è riuscita a superare ugualmente l’orrore che ispira l’aspetto della morte. Qua e là gli scheletri furono rivestiti di abiti di cappuccini, la qual cosa produce una terribile impressione. Un semplice scheletro ispira meno ribrezzo, imperocchè è cosa naturale; mentre per contro, rivestito di un abito, è orribile, ed ha propriamente l’aspetto di uno spettro. Vidi pendere dalla volta due piccoli spettri, sospesi per aria, quali si rappresentano talvolta figure graziose di angioli. Erano scheletri di giovani principesse della casa Barberini. Mi si disse che la terra entro la quale si seppellirono i cadaveri, portata da Gerusalemme, li consuma rapidamente.
Nella nostra cappella al Ponte Sisto, giunge dalla chiesa superiore la voce dei preti i quali vanno cantando Domine! Domine! Misericordia! quasi voce delle anime che in purgatorio vanno
Ad un certo punto, scesero a basso preceduti da uno stendardo nero, con croci nere, cappucci parimenti neri, portando torcie ed incensori, si collocarono nella cappella su due fila, e vi cantarono i salmi penitenziali. La luce vacillante delle fiaccole, il fumo dell’incenso che saliva in alto, parevano dar vita e moto agli scheletri; si sarebbe detto che tutte quelle ossa intuonassero desse pure l’In te Domine speravi, od il Beati quorum tecta sunt peccata. Non so se cantassero questo od altro; ma l’anima di gia oppressa rimaneva propriamente atterrita. Vidi alcune donne vestite a bruno le quali piangevano,
e bramoso ardentemente di aria, di luce, di vita, fuggii, da quel purgatorio,
Ed ora siate benedette care e lucide stelle! voi durate tranquille, immutabili, nelle notti limpide di questo del cielo di Roma, gettando la vostra luce sulle deserte catacombe della storia, quasi le uniche divinità, che qui abbiano continuato a sussistere! Di quanti mutamenti non foste voi spettatrici in queste strade! Vedeste i sacerdoti d’Iside, di Mehtta, i coribanti e le processioni di Adone, i cori di Mitra, Ebrei, Cristiani, che si recavano alle loro feste nelle catacombe, od arsi vivi, nei giardini di Nerone, dove ora S. Pietro estolle al cielo la mole della sua cupola! Vidi nella oscurità della notte, per la strada deserta, una luce solitaria la quale si avanzava a mia volta. Aspettai per vedere che cosa fosse. Era un ragazzino di quattro anni circa, bello biondo ricciuto, che veniva avanti, tenendo in mano una piccola candela di cera accesa. Si avvicinò, contemplando tutto lieto la fiamma della sua fiaccola, ad un palazzo davanti al quale stava un mucchio di ricci di legno, e vi appiccò il fuoco. Poscia si diede a saltare attorno a questo, sempre colla sua fiaccola, spingendo gli uni contro gli altri i ricci, perchè tutti ardessero. Era propriamente un bel quadro notturno. Un forastiero venne, ed offrì al ragazzo un baiocco, ma questi lo lasciò cadere, dicendo ripetutamente «no, no, la candela è mia, non vi voglio dare la mia candela.» Non poteva capire che gli si volesse fare un regalo, e quando gli spiegammo che poteva avere le due cose, il danaro e la candela, allora prese il baiocco, ritirando però timoroso e quasi piangendo la sua candela dalla portata delle nostre mani. «Che stupendo ragazzo, disse il forastiero, è l’innocenza stessa!» Per me fu uno spirito luminoso, che mi trasse fuori dall’impressione orribile del purgatorio, e mi liberò dai fantasimi.
In una qualche parte delle chiese superiori a quelle cappelle mortuarie, od anche nei cortili annessi, sovra un palco eretto appositamente, si sogliono rappresentare con figure in cera storie di martiri, o fatti tolti dalla Bibbia. Il popolo accorre a tali rappresentazioni, colla stessa curiosità e con soddisfazione uguali a quelle, con cui presso di noi nelle campagne si accorre ai gabinetti di figure in cera, le quali fin dai tempi remoti espongono gran parte dei fatti dell’antico Testamento, e sovratutto quello eminentemente popolare, del giudicio di Salomone. Se la persona principale rappresenta si è un santo od un martire, non mancano divoti i quali loro rivolgono le loro preghiere, e le loro supplicazioni, particolarmente per ottenere la liberazione delle anime dei loro cari, dalle pene del purgatorio. Più di un baiocco e di un soldo cade nel bacino di rame, collocato alla porta od a fianco del palco su cui sorgono le figure. Spesso ancora un chierico va su e giù davanti al palco, scuotendo una grossa borsa che tiene in mano, e facendo risuonare le monete in essa contenute, per animare la carità dei fedeli.
Nella cappella alla Morte si era rappresentata una scena tolta dalla vita di S. Agnese. La giovane martire bionda, ricciuta, compariva nelle nuvole vestita di veli finissimi quasi trasparenti, e la veneravano inginocchiati tutti attorno i membri della sua famiglia. L’atteggiamento delle figure la vivacità dei colori coi quali erano queste dipinte, facevano prova dell’impegno posto dalla confraternita la quale aveva ordinata la rappresentazione, perchè questa non fosse inferiore a verun’altra, ed anzi riuscisse a superarle in bellezza. Nella cappella dei morti di S. Maria in Trastevere, si era rappresentato l’incontro di Mosè con Jetro nel deserto, un vero idillio campestre, con accessori di rupi, di palme, e di un branco di pecore. Se non che, la più splendida di tutte queste rappresentazioni, era quella del cimitero presso S. Giovanni Laterano.
Colà si era raffigurato il martirio di S. Erasmo. Il santo vi era rappresentato addossato ad un piedestallo, col ventre spaccato da cui uscivano le interiora, che due carnefici afferravano, e giravano attorno ad un arcolaio. Il santo nulla più vedeva, nulla più sentiva, imperocchè il suo capo esamine cadeva sul petto. Stava presso di lui un sacerdote di Giove, col capo inghirlandato, splendidamente vestito, il quale accennava con un gesto di compiacenza ad una statua del Dio, la quale sorgeva in un angolo, e davanti a cui ardeva il fuoco del sacrificio. Questo sacerdote pagano non aveva punto aspetto fanatico o diabolico, ma un’aria alla buona, quasi volesse dire: «Vedi Erasmo, amico mio, noi ci prepariamo a strapparti le budella, perchè non hai voluto offerire sacrificio a questo Giove potentissimo; fallo te ne scongiuro, figlio mio, in fino a tanto è tempo ancora, e tutto sarà dimenticato, te ne assicuro.» Per contro l’altitonante Giove era rappresentato con una faccia orribile, di Kobold o di Moloch. Tutta la scena del martirio, di cui solo l’ironia può menomare il senso di crudeltà, ha luogo alla presenza dell’imperatore Adriano, il quale vi assiste, tranquillamente seduto in trono, rivestito della porpora imperiale, fiancheggiato da due guardie colla lancia in pugno. Ha desso una stupenda barba nera, ed è coronato d’alloro. Mi fece senso il vedere quell’imperatore, il quale trattò in generale molto umanamente i Cristiani in Roma, presente a quella scena da cannibali; e devo dichiarare a onore suo, che non si prese mai il piacere tutto giapponese, di far spaccare il ventre alla gente.
Le figure del resto erano disposte con molta intelligenza, e vi si scorgeva evidentemente la mano di un artista, e non ricordo avere viste migliore statue di cera. Per quanto fosse selvaggia, la scena produceva minore impressione che il quadro spaventoso del Poussin nella galleria del Vaticano, che parimenti la riproduce. Imperocchè quivi l’osservatore non pretende trovare un’opera d’arte. Nel quadro del Poussin per contro, furono tenute in non cale tutte le leggi le più volgari dell’arte; per trovare piacere a contemplarlo, è forza essere un beccaio od un gladiatore. L’arte cristiana pare avere superato il piacere barbaro, che gli antichi Romani provavano a contemplare le ambasce di morte degli uomini e degli animali; se non che riuscì più meschina, più disgustosa. Imperocchè quale si è la cosa la quale possa recare maggiore offesa ai sensi di umanità di un tal quadro, o della pittura della chiesa di S. Bartolomeo nell’isola del Tevere, la quale rappresenta quel santo scorticato vivo, ovvero degli affreschi della chiesa di S. Stefano Rotondo, li quali riproducono le varie sorta di supplici dei martiri, le une più barbare delle altre, con buon disegno, stupendo colorito, e con una verità, la quale grida vendetta al cielo. Se un antico greco potesse visitare oggidì le gallerie d’Italia non che le sue chiese, potrebbe ritenere di essere capitato in mezzo ad un popolo di Ciclopi antropofagi, il quale avesse una religione da cannibali riprodotta nella pittura, e ciò ad onta di tante altre opere, le quali si direbbero dipinte dalle grazie stesse.
Il senso dei Romani per le figure, per i gruppi, per ogni rappresentazione scenica è generale, pronunciato in modo meraviglioso. Non havvi festa nella quale non lo si possa riconoscere. In parecchie chiese si possono vedere raffigurate scene bibliche, leggende, la nascita, la passione di Cristo. Si può osservare questo senso nelle botteghe stesse dei venditori di commestibili, nei banchi dove si fanno cuocere vivanda sulla strada pubblica. Anche questi hanno i loro santi, i loro patroni, le loro feste, e gareggiano nell’ornare le loro botteghe, con fiori, pitture, lampade, statuette. Non appena giunge il carnovale, le botteghe dei pizzicaroli, dei venditori di cacio, di salciccie, di prosciutti, e di altre specie di commestibili, assumono l’aspetto di tempietti, nei quali in certa guisa è venerata una preziosa salciccia quale divinità della specie, quasi mistica dea dei salsamentari. Nella stessa guisa che nelle cappelle mortuarie le pareti sono ricoperte ed ornate di teschi, di ossami, il pizzicarolo forma della sua bottega quasi una cappella di salciccie. Formano parete caci disposti in bella forma; altre sono composte di pezzi di lardo di carni bianche, il tutto ornate di ghirlande, di rabeschi in carta dorata, od argentata. La volta è formata di un mosaico di salciccie, di salami; altri sono sospesi per aria, tra i fiori, i rami d’alloro e di mirte, non meno graziosamente che le baccanti negli affreschi di Pompei, o le seducenti stagioni di Giulio Romano. Si possono considerare quali opere d’arte, fatte a forza di salciccie e di salami. Nella parte di mezzo, si apre una grotta misteriosa, ed ivi fra le salciccie ed i salami, è rappresentata la passione di Cristo, in un tempietto al quale si può girare attorno per contemplarne tutte le figure e figurine. In ogni angolo ardono lampade, scintillano candele, e l’imaginoso artefice salcicciaio, pieno di soddisfazione, di amor proprio pare che sclami dal suo banco, alla folla che ingombra la sua bottega, le parole solenni «Anch’io son pittore.» Popolo felice, allegro quanto un fanciullo, ma però popolo tuttora fanciullo! Possiede però tutta la storia universale, il Pulcinella, l’arte, il sole del mezzogiorno, fiori, frutta, vino in quantità inesauribile. Si osservi però come questo venditore di commestibili riduca ad una scena di fantocci la grande tragedia della umanità, come si contenga fra le sue salciccie, e vi compaia quasi trionfatore sopra la morte!
Questa città di Roma è pure un mondo di figure originali. Si può trovare in essa rappresentato in figure lo sviluppo di tutta quanta la storia del globo, partendo dai musei del Vaticano, del Campidoglio, scendendo alle chiese, alle fontane del Bernini, fino al teatro dei fantocci. Se tutte queste figure tornassero in vita, potrebbero cacciare dalla città tutta la popolazione attuale, e sarebbe allora curiosa per dir vero quello che ne risulterebbe, a cominciare dall’Apollo del Belvedere, fino al piccolo Pagliaccio di Montanara, ed al povero S. Erasmo, al quale sono strappati gl’intestini. Se non chè, non sarebbe soltanto questo un sallazzo burlesco per la fantasia, ma ancora argomento a seri pensieri. Imperocchè tutte queste figure, figurine, figuraccie di divinità, d’uomini, di animali, sono ad un tempo figure storiche della umanità, le quali rappresenterebbero lo sviluppo delle vicende di questa, durante vari e vari secoli; ed alla fine tutto questo popolo di fantocci, potrebbe prendere posto a fianco del Laocoonte, e sclamare «Anch’io sono Laocoonte.»
II.
Sono attualmente in Roma due teatri di marionette, o di burattini, l’uno sulla piazza Montanara, l’altro su quella di S. Apollinare. Il primo è il teatro dei fantocci propriamente popolare, frequentato dalle classi inferiori; il secondo possiede burattini già inciviliti, i quali recitano anche in abito nero e guanti gialli, e lo spettacolo vi termina sempre con un magnifico ballo. I fantocci percontro del teatro di Montanara sono tuttora incolti, recitano in costume del medio evo, ed il loro portamento è tuttora primitivo, rozzo, e senza garbo. Rappresentano soventi storie di cavalieri antichi, talvolta pongono in iscena il pio Enea ed il re Turno, ma sovratutto poi romanzi del medio evo, e l’Ariosto tutto quanto, in guisa che mantengono viva nel popolo la memoria di tutte quelle finzioni poetiche, la quale cosa non è poco merito. In questo giorno sta appeso all’arco dei Saponari, in vicinanza del teatro dei fantocci un grande cartellone, sul quale si legge in lettere colossali, che si recita la scoperta delle Indie, fatta da Cristoforo Colombo, nell’anno 1399, che così propriamente sta scritto sul maestoso affisso.
La piazza Montanara, la quale più propriamente si dovrebbe chiamare strada, posta a piedi della rocca Tarpea, fra questa ed il Tevere, è punto abituale di riunione per il popolo di Roma, particolarmente per le classi inferiori, e per gli abitanti della campagna, i quali vengono in città. Tutto vi respira miseria e sporcizia; dalla natura delle merci esposte sui banchi, si scorge che ivi i contratti si fanno a quattrini. Chi sarà difatti che farà compra di quei mozziconi di sigari, che i monelli raccolgono per le strade, e che si scorgono esposti in vendita in ceste di vimini? Li comprerà per la sua pipa o per la sua scattola il povero, o l’operaio di campagna. Non manca colà pure lo scrivano publico, seduto al suo tavolo, sull’angolo di una casa, con carta, penne, ed un enorme calamaio, pronto a scrivere con uguale facilità lettere amorose, lettere di ricatto, contratti, ricorsi, e suppliche. Il teatro dei fantocci ha trovato in quella strada sede adatta; lo frequentano monelli di strada, mendicanti, operai, giornalieri, i quali hanno diritto di rallegrarsi, di ricrearsi alla sera, colle favole di messer Ludovico.
Avviciniamoci alla porta tuttora socchiusa dei Saponari, dove regna tuttora oscurità, e di dove sorge un chiasso, un rumore di giovani che si contrastano, si pestano, si affollano davanti alla bottega dove si vendono i biglietti, alla scala che porta al teatro. Siamo tuttora di carnovale; il pubblico sarà numeroso. La casa vecchia, sucida, sorge in un piccolo vicolo chiuso, malamente illuminato da una lampada, quando non splende la luna. Trovasi al disotto una stanzaccia, specie di antro, dove si vendono i biglietti. I posti sono di tre specie; si pagano un baiocco per la platea, e due baiocchi per il paradiso, ed il palchettone. Noi che siamo ricchi prendiamo i primi posti, abbiamo in mano il nostro biglietto, e possiamo entrare. Se non che la non è questa impresa di poco momento. La scala ristretta, è tutta occupata da spettatori avidi d’entrare, e particolarmente di monelli, ognuno dei quali vuol arrivare il primo; tutti si spingono, e fanno un chiasso infernale. Cento piedi e cento mani sono in moto, e nessuna tasca è sicura da una perlustrazione indiscreta. Fa d’uopo passare per una porta stretta, e tanto nell’uscire quanto nell’entrare, non si va avanti che a forza di pugni, ed a spintoni. Alla porta sta un cacciatore pontificio condannato a fare continui sforzi, per non essere schiacciato dalla folla.
Siamo riusciti ad arrampicarci nel palchettone per una scala da pollaio, ed attreversata un angusta barricata che corre lungo il muro, abbiamo preso posto sovra nude panche in legno. Possiamo di là contemplare la sala. Un sipario con figure mitologiche, Apollo, ed alcune muse, le quali si possono a malapena riconoscere, tanto il tutto è vecchio e logoro, nascondono tuttora i misteri della scena. Pende dalla vôlta una specie di cassa di legno, attorno alla quale sono appese le lampade che fumano, con molti cartocci di carta negli intervalli, dei quali non riusciamo a comprendere l’uso. Attorno a quella cassa pestano dei piedi gli spettatori, a due baiocchi, imperocchè a quella altezza sorge il paradiso in terra. Sotto di noi giace la platea. Se allorquando Ercole venne a Roma per uccidervi il gigante Caco sull’Aventino, avesse visto questa platea, avrebbe probabilmente dedicata a questa una delle sue imprese; ed invece di imparare e ripetere oggidì nelle scuole, «in settimo luogo pulì le stalle di Augia,» impareressimo e ripeteressimo, «in settimo luogo, ripulì il teatro dei fantocci di piazza Montanara.» Imperocchè, questa platea dacchè esiste, non ha avuto mai nè l’onore nè il beneficio di una scopatura. Il suo suolo di nuda terra, è ricoperto da uno strato di scorze di semi di zucca, di pelature di frutta, di pezzi di carta, i quali formano un mosaico naturale. Siede sui banchi una gioventù cenciosa, rampolli di Roma, nudriti del latte della lupa, balia rapace di Romolo. E sì che considerando le loro fisonomie, contemplando le faccie abbronzate, le capigliature folte, nere ed incolte, di tutti quei mascalzoni, si può per verità ritenere di essere capitati in mezzo ai briganti ed ai banditi, a cui Romolo dava asilo. Intanto è innocentissimo il chiasso diabolico che di laggiù sale alle nostre orecchie; è tutto pacifico lo scopo di questa riunione, imperocchè tutta questa gente, non ha altro desiderio fuori quello di godersi una bella rappresentazione di marionette, piacere per certo innocente e tutto infantile. Tutta l’assemblea del resto ha l’aspetto di fantocci, imperocchè in questi giorni di carnovale vengono nella platea le maschere, e vi si scorgono Pulcinella, pagliacci colle fruste e colle vesciche di porco ripiene d’aria, dottori, ciarlatani. Prendono posto fra le risa universali; regna un’allegria generale, chiassosa, ed il romore si fa sempre più infernale. Tutta quella gente ha d’uopo di ristoro, di rinfreschi, e si vede arrivare un venditore, che con rara destrezza riesce a cacciarsi, ed aggirarsi fra i banchi, con due ceste nelle mani, le quali contengono ciambelle, paste e cartoccini ripieni dei semi di zucche cotanto graditi. Tosto, tutta la platea comincia a rompere coi denti semi di zucche, le scorze vanno sul suolo ad aumentare il mosaico, ed i cartocci vengono cacciati nelle fessure del paradiso, dove rimangono impiantati, o da dove pendono a foggia delle stallatiti in una caverna. Il romore ed il tumulto diventano indescrivibili.
Sono intanto giunte nel palchettone anche alcun dame, ninfe della rocca Tarpea; è l’ora di principiare lo spettacolo. Si grida a squarciagola «Si cominci! si cominci!» E la musica seda il tumulto. Dio mio quale musica! In un angolo del palchettone stanno tre musicanti, uomini dai polmoni di bronzo, suonatori di tromba dotati di un fiato miracoloso. Se pure non discendono da quelli che diedero fiato alle trombe di Gerico, provengono fuor di dubbio in diretta linea di quegli antichi Pelasgici tirreni, i quali primi portarono le trombe in Italia, e le introdussero nella città dei Tarquini. La loro musica è proprio musica da atterrare le mura. Ad onta dei fischi, delle grida, degli urli, di tutto quel baccano, i tre musicanti continuano imperteriti a soffiare nei loro stromenti, e di quando in quando un sonoro squillo di tromba, riesce a dominare tutto quel romore diabolico.
Ora i fantocci stanno per venire in iscena, e potremo vedere le più belle storie; Carlomagno ed i paladini, Orlando, Medoro, Lancilotto, il mago Malagigi, il sultano Abdorrhaman, Melisandra, Ruggero, il re Marsilio, e la regina Ginevra, eserciti intieri di Mori, di Saraceni, ed assistere a terribili battaglie. Oggi si recita la bella storia di Angelica e Medoro, ovvero Orlando furioso, e li paladlni. Si alza il sipario, e compaiono i burattini. Vengono fuori con un salto il prode Orlando, e Pulcinella suo scudiero, ed entrambi non toccano terra; Orlando è ricoperto di ferro dalla testa ai piedi, e tiene la durindana in mano, Pulcinella porta le brache bianche, la giacca bianca dalle larghe maniche, ed il berretto bianco acuminato. I burattini sono dell’altezza di circa due piedi, le loro membra sono perfettamente snodate, si prestano a tutti i movimenti; le loro gambe di legno si agitano di continuo battendo la scena, ed i loro moti, i loro sussulti, congiunti alla voce rauca ed al fare declamatorio dell’attore invisibile che li fa parlare, producono un effetto propriamente comico.
L’occhio intanto si assuefa alle proporzioni di questi fantocci, e quando uno non vuole obbedire alle fila che lo fanno muovere, o si dissesta, e che si vede tutto ad un tratto a comparire una mano d’uomo per richiamarlo al dovere, questa pare la mano di un gigante, ed offre qualcosa di sopranaturale.
Mentre i fantocci recitano, e si parlano enfaticamente l’uno all’altro, o si commuovono nei passi teneri, accade talvolta che un qualche giovane dalla platea vuole prendere parte alla rappresentazione, e caccia sulla scena un pezzo di legno, od altro fra i fantocci. Vidi una sera, in cui si recitava la storia dello scellerato Ganelone, un giovane cacciare un pezzo di legno sulla testa del vile traditore, e credo lo abbia fatto colla stessa eroica indegnazione che spingeva il nobile cavaliere Don Chisciotte, a mandare in pezzi colla sua spada, i fantocci di un teatrino, perchè non gli consentiva l’onor suo tollerare, che vili traditori portassero in prigione nel loro castello, una nobile e virtuosa dama. Il publico prende sempre viva parte alla rappresentazione, e non difettano le critiche e le fine osservazioni, le quali fanno prova che gli spettatori comprendono benissimo, ed apprezzano quanto si espone.
Le scene furiose, le quali si ripetono di frequente, sono quelle che vengono accolte con maggior favore. Allorquando Orlando va in furore per il tradimento di Angelica, si agita e si dimena con tanta rabbia, con tanta violenza, che tutta quanta l’armatura, elmo, corazza, bracciali, gambiere, gli cadono pezzo a pezzo e finisce per trovarsi in camicia come Amadigi delle Gallie. Allora prese ad atterrare colla spada una capanna da pastore, due alberi, ed una rupe gridando sempre «a terra! a terra!» E Pulcinella pure prende a gridare a sua volta a terra! scagliandosi contro la capanna.
Nelle scene di battaglie, le quali si ripetono quasi in tutte le rappresentazioni, si suona il tamburo di continuo entro le quinte. I Mori, i cavalieri, i paladini combattono durante tre o quattro minuti con un ardore indicibile; i burattini sono maneggiati dall’alto con somma destrezza, e le loro membra si prestano a tutti i movimenti con tanta precisione, che si sentono gli urti delle spade, e si fa un fracasso indicibile. Vidi Orlando cacciare a terra, sempre colla stessa bravura, una decina di pastori, ed una quantità sterminata di Mori. Quando ha luogo una battaglia, gli eserciti si avanzano, indietreggiano, si urtano, ed i morti cadono sempre due a due. Imperocchè i fantocci arrivano a due a due, combattono due contro due, finchè diventata generale la mischia, o trionfa un paladino, o Pulcinella, pone termine con un frizzo alla battaglia.
Il Pulcinella, il quale parla costantemente con una voce gutturale, la quale si presta stupendamente all’effetto comico, si vale per lo più del pretto dialetto dei Trasteverini. La stravaganza delle sue parole è grande, ma non di rado i suoi frizzi sono spiritosissimi. La è questa dote caratteristica dei popoli di razza latina, particolarmente degl’Italiani e degli Spagnoli. Nella loro poesia popolare riescono a fare mescolanza originalissima dell’elemento tragico, con quello comico. Leporello non è punto diverso dal Pulcinella. Calderone, meglio forse di ogni altro poeta della sua nazione, ha saputo riprodurne fedelmente e felicemente il carattere popolare, particolarmente nel suo dramma del Mago meraviglioso. Nel nostro Faust del teatro dei burattini, che pur troppo non si recita più che di raro, il Pulcinella tuttochè abbigliato alla foggia tedesca, è pure pieno di vivacità. Per contro nel Faust di Goethe, Wagner ha perduto il suo carattere originario, ed è diventato una figura intellettuale, incomprensibile per il popolo. Il Pulcinella si è rifugiato in Mefistofele, e nella scena di parodia del giardino particolarmente, il diavolo sostiene parte analoga affatto a quella di Pulcinella; imperocchè l’essenza della maschera italiana, non consiste nell’ironia, ma bensì nella parodia, della quale è carattere speciale la stravaganza delle parole.
La bella storia di Cristoforo Colombo viene riprodotta al teatro dei fantocci da ben quattordici giorni senza interruzione, e tre volte per sera. La è un’opera squisita, la quale eccita grandemente la curiosità, particolarmente per la comparsa inaspettata degli Indiani. La favola si presta a tutte le condizioni richieste ad un dramma romantico, le quali sono vile tradimento, amore, gelosia, sentimenti cavallereschi; imprese eroiche, lotte, e sovratutto battaglie in grande. Il traditore in questo dramma era Roldano, unico personaggio d’importanza oltre Colombo, in questo ottimo componimento. Roldano era passato dalla parte degl’Indiani, e non si tardò guari a vederlo seduto in trono, coperto di penne da capo a piedi, in guisa che aveva l’aspetto di un uccello di paradiso. Gl’Indiani erano parimenti coronati di penne, e ne portavano pure alle gambe alla foggia di Mercurio. Roldano loro dava nome di soldati; del resto erano ben esercitati, ed adoperavano nelle battaglie schioppi, ed armi da fuoco. Colombo era vestito alla spagnuola, con un collare, e portava un berretto nero. Non era considerato quale paladino, ma quale ammiraglio, e pertanto non cingeva la spada al fianco. Parlava poco, ma parlavano tanto più i suoi cavalieri Pisandro, Glorimondo e Sannazzaro. Si sfidarono alla sua presenza due gentildonne armate di corazza, quali le eroine dell’Ariosto, e l’offesa Martidora uccise la sua nemica, ed il di lei consorte. Pulcinella sosteneva la parte di scudiero di Colombo. Comparve un angelo, il quale diede a Colombo un anello magico, destinato ad ammaliare Roldano e suoi Indiani, nella stessa guisa che il cavaliere Jone ammaliò il soldano di Babilonia, ed i pagani col suo corno. Alla vista dell’anello gli Indiani scomparvero per aria, ma Roldano cadde esanime a terra. Comparvero tosto due demoni, muniti di nodosi bastoni, che sull’ordine avutone da Pulcinella, lo picchiarono a dovere. Questo atto di rigorosa giustizia eccitò una gioia indicibile nella platea, la quale alla vista di questo atto morale, prese a strillare quale un volo di rondini; anche il tamburo fece udire il suo rullo, ed un sonoro squillo della tromba della giustizia, pose fine alla scena. Vidi alcuni giovani scagliare pallottole di carta contro il vile traditore, quasi volessero fargli conoscere la giusta indegnazione della platea.
Allora seguì un intervallo. Chi non sia stato presente ad un intervallo fra un atto e l’altro al teatro Montanara in Roma, non può avere idea di che cosa sia chiasso o romore. Si direbbe essere nell’arca di Noè, dove tutti gli animali facessero udire contemporaneamente le loro voci. Mi venne in mente la descrizione della vita notturna degli animali delle foreste vergini fatta da Humboldt; quella gazzarra di trecento giovani, accompagnava colla voce con un sangue freddo ammirabile, un suonatore coscienzioso di tromba. Intanto salivano costantemente dalla platea giovani, per tentare di cacciarsi nel palchettone; si arrampicavano come tanti scoiattoli, martore, o lucertole. Se il cacciatore pontificio che stava di guardia nel palchettone, se n’avvedeva, regalava loro un famoso pugno sul capo, e li cacciava giù; ma quelli punto non si smarrivano di animo, e tosto ricominciavano la scalata. Appena poi era caduto il sipario, alcuni giovani si arrampicarono sulla scena, e sollevarono il telone da sotto in sù, per guardare se lo spettacolo tardasse molto a ricominciare.
Le ultime scene del Cristoforo Colombo porsero uno dei più bei quadri di battaglia, imperocchè i due eserciti, spagnuolo ed indiano, mossero l’uno contro l’altro, scaricando le loro armi da fuoco. Fu sparato pure un colpo di cannone, ed allora gl’Indiani dopo avere combattuto morirono tutti valorosamente, sempre a due a due. Lo sparo delle armi da fuoco, il rullo dei tamburi, lo squillo delle trombe, il picchiare delle gambe dei fantocci sulla scena, le grida della platea, facevano la battaglia più romorosa, che io abbia mai vista in un teatro.
D’ordinario i teatri dei fantocci danno tre rappresentazioni per sera. Cominciano all’Ave Maria, ed alla prima produzione, la quale è sempre breve, ne tien dietro una seconda alla quale si dà il nome di Camerata lunga. Rinunciammo all’essere spettatori della Camerata lunga, e preferimmo recarci all’altro teatro di fantocci sulla piazza Sant’Apollinare.
Dovettimo nell’andarvi attraversare il mercato di S. Eustacchio, fra mezzo ad una sterminata folla di persone, le quali tutti gridavano, fischiavano, strillavano, urlavano, schiamazzavano, in modo da assordare. Non è uso in Roma, come da noi, fare i regali alla sera del Natale; si è scelto giorno più adatto, quello dell’Epifania, in cui i re magi offersero i doni a Gesù bambino. Per festeggiare questa ricorrenza, si apre il 6 gennaio un mercato dietro il Panteon. Le strade che vi portano, offrono merci di ogni natura, particolarmente giuocattoli, di aspetto in generale elegante e grazioso. Ve ne ha una tale quantità da soddisfare tutti i ragazzi del mondo. Una folla immensa percorre queste strade; gli uni battono piccoli tamburi, gli altri danno fiato a conchiglie a foggia di corno, gli altri fanno risuonare tabelle, e particolarmente poi tutti fischiano entro fischietti di gesso, a foggia di balocchi da ragazzi, i quali rappresentano Pulcinella, ballerini, cani, uccelli. Ragazzi vestiti da Pulcinelta percorrono le strade a schiere, fischiando a squarciagola. Il chiasso è indicibile; tutti fischiano, fanno rumore, ed anche persone serie cedono all’esempio, e le si vedono desse pure col fischietto alla bocca. Si direbbe una radunanza di gatti arrabiati. Strano a dirsi! Quello stesso impulso che spinge talvolta gli uomini a dissimulare la loro fisionomia dietro ad una maschera, li porta quivi a fischiare, a gridare, a far chiasso, e chi fosse ingrugnito, e volesse tentare opporvisi potrebbe aversene a dolere.
Siamo intanto arrivati al teatro S. Apollinare. Questo secondo teatro di fantocci, il quale ebbe dapprima il nome di teatro Fiando, e che nei tempi dell’ultima republica romana ebbe rinomanza per la figura satirica di Cassandrino, la quale attualmente fu sostituita da quella, politicamente innocente di Pulcinella, è come abbiamo di già notato un teatro di fantocci inciviliti. I fantocci recitano qui davanti ad un pubblico decente, sopra una scena piccola, ma molto convenientemente disposta, con buone pitture, e con tutto quanto occorre ad una accurata rappresentazione. Gli spettatori possono prendere posto nella piccola sala alla platea, od al palchettone. Si pagano tre baiocchi i posti nella prima, cinque nel palchettone, e questi prezzi non consentono l’ingresso alle classi inferiori. Gli spettatori appartengono al ceto medio, ed anche a quello distinto, che non rifugge dal procurarsi talvolta il piacere di una recita di fantocci. Il proscenio è bene illuminato, vi ha una piccola orchestra, la quale eseguisce pezzi di musica fra un atto e l’altro, ed il sipario è nuovo ed elegante. Si recitano ivi pure drammi romantici, come quello conosciutissimo del Volfango fiero, ma i personaggi sono vestiti pulitamente e con eleganza; i cavalieri portano belle armature, le dame abiti di seta e di velluto; ma per lo più vi si recita la commedia in abito nero e guanti gialli, drammi famigliari, farse, commedie d’intrigo, nelle quali talvolta si fanno figurare ricchi inglesi. Il Pulcinella vi è abbigliato come il suo confratello del teatro Montanara, e conserva la stessa natura; se non che i suoi modi sono più civili, più adatti alla diversa sfera in cui vive. La sua destrezza però è somma, imperocchè quando siede riesce pur anco ad incrocicchiare le gambe l’una sull’altra, ed a muovere i piedi, come sogliono fare gl’Inglesi. Nelle nozze, ed in altre occasioni solenni, i cavalieri e le dame prendono posto con tutta gravità sopra cuscini, ed assistono ad un ballo, che l’orchestra accompagna colla musica. La destrezza e la grazia di cui fanno prova questi fantocci in tali balli, è per dir vero meravigliosa, imperocchè, non solo eseguiscono i passi più difficili, colla leggerezza e col garbo che potrebbero spiegare la Cerrito, o la Pepita, ma tutti i loro movimenti, tutti i loro atteggiamenti, la convenienza colla quale s’inchinano, ringraziano, salutano movendo le braccia, hanno qualche cosa di sorprendente. Nulla vi si trascura, di quanto può contribuire alla riuscita di un’azione coreografica. Sono messi a contribuzioni Goethe, Shakspeare, Dante, e tutti questi fantocci si muovono, si agitano, quasi svolazzano come farfalle, ed ogni ballo ha sempre fine con un gruppo pittorico, e talvolta con un fuoco di artificio. In una parola, l’arte di far ballare i fantocci, raggiunse al teatro di S. Apollinare il non plus ultra.
Abbiamo pertanto veduta una parte lieta almeno, di questa Roma seria, malinconica, severa, e Pulcinella lieto e festoso in mezzo a tutte queste rovine, sopra tutte queste catacombe, nè più nè meno dei grilli che cantano fra l’erbe dei ruderi del palazzo dei Cesari, e delle rondini, che cinguettano sulla tomba di Cecilia Metella.
III.
Vorrei ora portare il mio lettore ancora nel teatro popolare di piazza Navona, ma sento la voce di un ragazzo che predica, e quella mi tenta ad entrare nella antica e bella basilica di Ara Cœli, in Campidoglio. Ivi predicano mattina e sera piccoli ragazzi, tanto maschi quanto femmine, nella settimana che precede la festa dell’Epifania, nel qual giorno hanno termine le prediche. Non è troppo spiccato il salto di un teatro di fantocci, ad una predica fatta da ragazzi dai sei agli otto anni. Anche ivi, centro dello spettacolo è pure un fantoccino, il santo bambino di Ara Cœli ornato di una splendida corona guarnita di pietre preziose.
In una cappella della chiesa è raffigurata con bell’arte, la grotta di Betlemme e l’adorazione dei re magi venuti dall’Oriente; le statue sono di cera, e non mancano gli accessori delle pecore e del paesaggio. La madre di Dio è seduta nella grotta e tiene in grembo il bambino, a cui i re inginocchiati, porgono i loro doni. All’esterno sta inginocchiato contro una colonna una figura con un mantello scarlato, pantaloni larghi alla foggia turca, col turbante in testa, la quale protende le braccia verso il bambino, in atto di preghiera. Dalla parte opposta, parimenti contro una colonna, sta una dama di alta statura, di aspetto distinto, la quale pare addittare il santo bambino, a quel turco bastardo che le sta in faccia. Nella persona di questo si volle rappresentare nientemeno che l’imperatore Augusto, e nella dama la sibilla, la quale secondo una delle leggende più profonde del Cristianesimo, profetò all’imperatore la venuta di quel bambino, destinato a signoreggiare il mondo.
Di fronte alla grotta, nella navata opposta della chiesa, sorge un pulpito, sul quale salgono a predicare, l’uno dopo l’altro, ragazzi dai sei ai dieci anni, per lo spazio di circa cinque minuti, e ciò per quasi due ore, alla presenza di forse un migliaio di persone. Salì per il primo sul pulpito un grazioso ragazzetto, e dopo essersi fatto il segno della Santa Croce, prese a recitare con tutti quei gesti e quegli atteggiamenti, propri dei ragazzi allorquando declamano, una predica sulla venuta al mondo del Salvatore. Venne dopo di lui un ragazzo di maggiore età, vestito da chierico, il quale disimpegnò ancora meglio la parte sua. Gridava in modo enfatico, scagliava i fulmini della sua eloquenza nè più nè meno che un cappuccino, gesticolando quante un tiranno di compagnia drammatica. Scorgevasi che possedeva disposizione naturale per la mimica; ogni qualvolta che nella predica ricorrevano le parole di capo, di occhio, di orecchio, portava istintivamente la mano al proprio capo, all’occhio, all’orecchio. Avendo a nominare il suono dell’arpa, si atteggiò immediatamente a modo di chi volesse suonare quello stromento. Questa maniera di accennare fanciullescamente colla mimica le cose di cui faceva parola riusciva molto divertente, ed otteneva l’approvazione di tutti gli uditori, alcuni dei quali erano venuti per divozione ad ascoltare le prediche fatte dai ragazzi, e gli altri per prendervi sollazzo, quasi ad un teatro di burattini. Nessuno di quei ragazzi era menomamente imbarazzato; anzi i più parevano andar superbi di dover comparire davanti a tante persone, e superata l’impressione del primo momento, la loro voce diventava sempre più sicura, i loro gesti vieppiù teatrali. Molti oratori in parlamento avrebbero motivo di agurarsi la disinvoltura di quei ragazzi del parlare al pubblico, e pochi oratori poi, si possano vantare di avere un uditorio composto di persone appartenenti a tante nazioni, quanto quello di questi fanciulli in Ara Cœli.
Dopo i maschi vennero le femmine, graziose ragazzine ricciute, con cappellini guarniti di piume, ed abitini di raso. S’inginocchiavano un istante, facevano un segno di Croce, cominciavano il loro sermone. Era curioso, per dir vero udire quelle creaturine parlare del peccato di Adamo dal quale ci ha redenti il Signore; della credenza alla vita eterna; del Verbo che si è fatto carne in Gesù Cristo; della sua morte per mezzo del quale ha salvato l’uman genere. Sarebbe ugual cosa se i fantocci del teatro Montanara, i piccoli paladini i quali recitano con tanta enfasi azioni eroiche parlassero in onore di Gesù Cristo e snudando la spada contro i Mori, sfidassero a battaglia tutta l’oste degli infedeli; o se le damine di quella scena interrompendo le loro declamazioni sentimentali sorgessero tutto ad un tratto, a vantare le delizie dell’amor divino.
Nel vedere questi piccoli oratori, si riterebbe che anche i loro sermoni e le cose che dicono dovessero essere puerili, e si dovessero considerare quale un passatempo al quale gli uditori dovessero in certo modo assistere col microscopio. Se non che la cosa è ben diversa; sono buone e vere prediche in istile solenne, alle quali non manca l’apparato di erudite citazioni. E non è raro udire ragazzine, talora di poco più di sei anni, le quali corredano le verità che bandiscono, colla autorità dei santi padri, e dicono così asserisce S. Agostino; così c’insegna S. Paolo; così dice il Santo Tertulliano.
Credo stia scritto in qualche sito; «Allorquando taceranno i profeti, parleranno i ragazzi, ed allorquando i ragazzi taceranno i sassi diranno amen!» Del resto in qualche località ora cominciarono a parlare i tavoli. Se non che l’uomo serio non può a meno di rimanere colpito da questo culto di ragazzi in Ara Cœli, e di considerarlo quale una metamorfosi del Cristianesimo. Che cosa direbbero S. Pietro e S. Paolo se mai capitassero in quella chiesa, e scorgessero qual esito finirono per avere le loro predicazioni?
Osserverò soltanto che la signora Enrichetta Becher Stowe, autrice della Capanna del zio Tommaso, la quale esaltando fuor di misura la precocità del nostro secolo, ci additò nella sua Evangelina di cinque anni un predicatore metodista, per non dire addirittura un genio del Cristianesimo, potrebbe trovare nello spazio di un’ora in Ara Cœli, per lo meno dodici piccole Evangeline, le quali per di più hanno studiato, e conoscano in santi padri.
I ragazzi intanto che avevano sorriso alla imagine del bambino, quasi ad un fantoccio, ultimata la predica s’inginocchiavano, e recitavono una preghiera al bambinello. Una ragazzina gli disse: «O dilettissimo fra tutti i fanciulli, degnati di volgere i tuoi occhi sopra di noi e di gettare uno sguardo di misericordia sopra i nostri peccati.» La considerazione di cui gode in Roma il bambino di Ara Cœli è grandissima, e vi si rannoda pure una leggenda. Anni sono una bella e giovane Inglese, s’innamorò di lui a morte. Si recava ogni giorno alla chiesa a fargli visita, e la sua passione andò tant’oltre, che un bel giorno si decise a rapirlo. Fece fare in segreto un bambino in tutto simile, un supposto infante, lo portò in chiesa, e lo sostituì al bambino legittimo che portò seco a casa. Se non chè, venuta la notte tutte le campane della chiesa e del monastero presero a suonar a festa; le monache vennero fuori, e trovarono il bambino inginocchiato al di fuori della porta del tempio, in atto di volere picchiare. Desso era fuggito dalla casa dell’Inglese, e si era portato colà. Tale almeno è la leggenda. Dopo d’allora la sua riputazione crebbe, e lo si vede anche spesso uscire in carrozza, allorquando si porta a far visita a qualche ammalato. Nell'ultima rivoluzione di Roma ebbe pure la sua parte. Il popolo aveva distrutte ed incendiate le carrozze dei cardinali, ed aveva pure tratta fuori dalla sua rimessa la vettura da gala del Papa, che voleva parimenti annientare. Alcune persone assennate o del partito favorevole al Papa, tentavano opporsi a quell’atto di vandalismo. Volevano salvare la carrozza del Santo Padre, e fecero la proposta di offerirla in dono al bambino di Ara Cœli. Nessuno dei repubblicani si arrischiò contrastare questa proposta, ed il bambino venne messo solennemente in possesso della carrozza del Papa, ed anzi per provare che era diventata realmente sua, le monache lo mandarono un giorno a passeggio sul corso, nella carrozza papale.
Stiamo ora a vedere. La processione si muove. Il bambino è tolto di grembo alla divina madre, lo si porta in giro per la chiesa e sulla scala esterna, dove lo si addita al popolo, quindi la processione lo riporta nella sua nicchia. Vi sono stupende teste artistiche in quei frati francescani di Ara Cœli, le quali mezzo sepolte nella loro veste, hanno somiglianza ad un blocco di Trevertino romano, il quale esca di terra, con una iscrizione mezzo cancellata; vi sono teste che paiono di bronzo, altre voluminose come quelle dell’imperatore Claudio, faccie ripiene come quella di Nerone.
E basti alle prediche dei fanciulli.
Portiamoci al teatro popolare Emiliani, l’inferiore di tutti quelli dove si recita in prosa. La compagnia drammatica Emiliani, non meno che i fantocci di piazza Montanara, ha preso sede in località adatta al suo repertorio, vale a dire sulla piazza Navona. Su questa grande piazza, la più bella di Roma, e che fu lo stadio di Domiziano, hanno luogo nel mese di Agosto i giuochi navali, imperocchè allora si chiudono le fontane, s’innonda la piazza, e la popolazione la deve attraversare in carrozza, quando non la voglia varcare a guado, come taluni fanno per sollazzo. Sorge nel mezzo della piazza la magnifica fontana fantastica del Bernini, composta di un rozzo scoglio, agli angoli del quale stanno le statue colossali di quattro grandi fiumi, il Nilo, il Gange, il Danubio ed il Rio della Plata, ed in cima al tutto sta l’obelisco del circo di Masenzio. Due altre fontane versano le loro acque ai due lati della piazza. Attorno all’obelisco, nel tratto della piazza compreso fra le due fontane laterali, si raduna ogni giorno da mattina a sera grande quantità di persone, imperocchè prendono ivi posto venditori di legumi, di castagne arrostite, fruttaiuoli, rigattieri, ferravecchi, e la classe media accorre a farvi acquisto di quanto le occorre. La folla trae sulla piazza ciarlatani, giocolatori, esibitori di serragli di belve; e gli squilli di tromba danno di quando in quando avviso degli spettacoli offerti al pubblico. Di tanto in tanto si ode pure risuonare sulla piazza una voce potente, la quale grida «ai biglietti! ai biglietti!» Stanno sulla porta del teatro, la quale non si distingue da quelle delle case attigue se non per un enorme cartellone, venditori di paste, di semi di meloni, i quali tengono la loro merce in vista, su banchi elegantemente arredati. La folla si accosta alla cassa. Si compone per lo più di persone del ceto medio, di artieri, di piccoli possidenti, i quali sono in grado di spendere da tre a cinque baiocchi, per passare una sera in teatro.
La sala è disposta in tutto come quella del teatro di piazza Montanara, se non che è più vasta. Anche in questa non regnano nè l’ordine, nè la pulizia, ed il contegno degli spettatori in platea i quali accompagnano una musica scordata pestando i piedi, fisciando, o battendo colle dita la misura sul dorso dei banchi, ricorda più di una volta il pubblico del teatro Montanara. Sono qui in maggior numero le donne, e l’allegria, secondo il lodevole costume del popolo italiano, non varca mai i confini della decenza. Vi si possono scorgere sui banchi madri le quali danno tranquillamente il latte alle loro creature, mentre si godono la rappresentazione, alla quale prendono viva parte. Si alza il sipario sul quale sta dipinta abbastanza bene una scena di satiri, con il vecchio Sileno in istato di ebbrezza, e siccome non sappiamo quanto si recita ci è mestieri far attenzione. Compare un vecchio usuraio, il quale guadagna a sè la vivandiera di un reggimento, alla cui mano pretendono un cadetto ed un sergente. Questi sostiene la parte del buffone, non fa altro che bere di continuo acquavite. Mentre si trova solo sulla scena, compare un personaggio pallido, di statura piuttosto alta, con baffi e basette, il quale porta grandi stivaloni. Dice a parte, essere venuto per visitare suoi soldati, la qual cosa ci fa nascere il dubbio possa essere se non addirittura un re, quanto meno un grande generale. Mentre passeggia su e giù per la scena lisciandosi i mustacchi, e facendo risuonare suoi speroni, cava fuori una enorme tabacchiera, prendendo tabacco di continuo, in guisa che in breve ne ha coperta tutta quanta la divisa. Il personaggio misterioso si presenta al sergente quale un povero veterano, e gli domanda che cosa potrebbe fare per lui, qualora abbisognasse di danaro. Allora il sergente gli fa vedere la lama della sua spada in tutta confidenza, dicendo aver alienata quella di ferro, e sostituitavene altra in legno. Giunge intanto l’usuraio. Il vecchio Federico; imperocchè l’eroico veterano con mustacchi e basette è proprio desso in persona; gli vende la sua scatola d’oro da tabacco, per il prezzo derisorio di un Federico.
Nell’atto seguente il sergente ubbriaco dorme sopra una sedia, arriva un tamburo il quale lo risveglia, picchiando un gran colpo sulla sua cassa. Compaiono sei cacciatori pontifici, i quali arrestano l’usuraio; compare allora il vecchio Federico in gran divisa, con enormi mostre gialle, sempre con barba e basette, e con una canna che pare un albero di bastimento. Il sergente ubbriaco, il quale non tardò a sorgere ed a mettersi in posizione, vacilla di continuo sulle gambe, la qual cosa eccita una viva ilarità nel publico, mentre il vecchio Federico fa sembiante di non accorgesene. Intanto egli accenna volere punire severamente sia l’usuraio, sia il sergente. Vuol far tagliare la testa al primo, ed il sergente deve procedere a questa esecuzione, colla sua propria sciabola. Dopochè l’usuraio, dopo infinite preghiere e supplicazioni si è rassegnato alla sua sorte e si è posto già in ginocchio, il sergente pure, dopo molte difficoltà si piega ad eseguire la sua parte. Colloca la sua vittima in posizione adatta, segna sul collo di questo il punto su cui deve ferire, quindi si getta in ginocchio e prega la Madonna di prestargli assistenza in quel duro frangente. Finalmente quando sorge, e si appresta a dare il colpo, grida tutto ad un tratto «Miracolo! Miracolo! Osservate, la Madonna ha convertito in legno la lama della mia sciabola.» Segue il generoso perdono del vecchio Federico, il quale condanna però l’usuraio a dover mantenere per tre giorni il reggimento a tutte sue spese. Il vecchio Federico è chiamato sulla scena, e con appropriato discorso, invita il publico rispettabile, a volere onorare il teatro di sua presenza per la sera del domani, nella quale si esporrà Artaserse re di Persia annuncio il quale è accolto con viva soddisfazione.
Questa bella produzione, dimostra come il vecchio Federico sia rimasto, quasi un mito, vivo pure nella memoria del popolo italiano, il quale oggidì tuttora nei Tedeschi distingue gli Austriaci dai Prussiani. Della Prussia non conosce che la storia del vecchio Federico, che considera quale un nuovo Attila, distruttore degli Austriaci.
Gli attori del teatro di piazza Navona sono mediocrissimi. Li direi inferiori a quelli delle compagnie che recitano sui teatri più meschini di Germania, ed il personale femminino in particolare, non va distinto al certo per bellezza. Ogni rappresentazione al teatro Emiliani, termina o con un ballo, o con una pantomina, o con quadri viventi, come la morte di Abele, l’Ebreo errante, Virginia romana, Salvator Rosa fra i briganti, o cose simili.
Una sera il cartellone portava annuncio di uno spettacolo il quale prometteva molto, intitolato Ravanello spaventato da un morto parlante. Doveva essere cosa straordinaria ed allegra assai. Era la storia di Don Giovanni, travestita alla romana volgare. Desso aveva, come nel dramma spagnuolo, il suo vero nome, chiamandosi Don Tenorio, ma Laporello prendeva il nome di Ravanello, Donna Anna, Don Ottavio, ed il Commendatore non mutavano nè nome, nè carattere. In questa parodia popolare Don Giovanni non è punto rappresentato quale il Faust della sensualità, ma unicamente quale uomo leggiero, privo di senso morale. Il suo carattere è svolto in una composizione qualsiasi. Desso uccide il Commendatoro per vendetta, introducendosi di notte tempo nella stanza di lui. Più tardi nella chiesa ha luogo la scena dell’invito della statua, sedente a cavallo, quale ha luogo nell’opera di Mozart, soltanto vi mancano i frizzi di Leporello. Il Commendatore compare al banchetto, con una faccia ridicolmente orribile, di diavolo infarinato. Don Giovanni atterrito, invita lo spettro a prendere posto a tavola, ed a servirsi. «Non mangio» risponde l’ombra. «Vorreste udire musica?» gli replica Don Giovanni. «Sì» risponde lo spettro. Allora la musica suona per alcuni istanti, mentre Don Giovanni ed il Commendatore stanno l’uno di fronte all’altro, senza pronunciare parola. Questa scena è bella, e produce profonda impressione, imperocchè la musica vi compare quella potenza celeste, quasi voce insensibile di Dio, quasi annuncio del giudicio tremendo che sta per colpire Don Giovanni. Non sì tosto cessa la musica, il Commendatore invita a sua volta Don Giovanni a pranzo a casa sua, vale dire fra le tombe, ed il Tenorio, da vero cavaliere, non si arrischia a declinare l’invito rispondendo che verrà.
Lo troviamo quindi fra le tombe dove è solo. Sta apparecchiata fra mezzo ai monumenti una tavola ricoperta d’un drappo nero, sulla quale stanno fiaschi e bicchieri; la mensa è adorna di teschi umani. Tutto ad un tratto l’arrivo dello spettro è annunciato come nella prima scena da alcuni colpi sotto terra, e tutto ad un tratto si rizza solenne la bianca sua figura, «Mangia!» dice lo spettro. Don Giovanni spaventato si tira addietro e «Non posso mangiare» risponde con voce tremante. «Vuoi udire musica?» «Sì» risponde Don Giovanni. Segue una breve pausa, durante la quale non si ode che la musica; i musicanti, quattro suonatori di corno ed uno di contrabasso, fanno tutto il loro possibile per produrre un’armonia infernale, ed era facile riconoscere dalla fisonomia degli spettatori, che non avevano i musicanti mancato il loro scopo. Non appena tace la musica, lo spettro prende a parlare, e volge in tuono cappucinesco una viva esortazione a Don Giovanni, perchè voglia rientrare in sè stesso, pensare alla salute della sua anima, e volgersi a Dio. Ma Don Giovanni con alterigia di cavaliere, ricusa convertirsi. Segue allora il colpo di scena finale, il Commendatore prende Don Giovanni per la mano, e s’apre l’abisso, da cui sorgono fiamme terribili di colofonia. Don Giovanni non appena vede la voragine, novello Curzio si slancia eroicamente per entro le fiamme di colofonia.
Nell’ultima scena si vede l’inferno stesso, colle sue fiamme ultrici, rappresentate da fuochi di Bengala. Vi si scorge Don Giovanni mezzo nudo, incatenato, con i cappelli irti, steso a terra e tormentato da alcuni diavoli, ministri della inquisizione infernale. Il dannato grida: «Sono mille anni già che qui soffro! Non havvi proprio più salvezza?» Ed i diavoli dietro la scena urlano. «Nessuna! nessuna!» Cala il sipario. Tale si è la riduzione del Don Giovanni ad uso del popolo. Dessa non mira che all’effetto morale; tutta l’allegria e lo spirito sono scomparsi, ed il Ravanello è diventato una figura insignificantissima, imperocchè prima della metà del dramma, cessano i frizzi pronunciati in principio.
Sapevamo che in questo teatro Emiliani si rappresentano pure di quando in quando tragedie, e non ci siamo voluti privare del piacere di assistere alla recita della più commovente forse fra le tragedie italiane, la Francesca da Rimini. Il rinomato episodio Dantesco non ha ispirato soltanto pittori ma ancora poeti, parecchi dei quali tentarono portarlo sulle scene, se non che poco si prestò all’effetto drammatico. Byron stesso dice nel suo giornale che aveva avuto in pensiero di togliere Francesca da Rimini ad argomento di una tragedia. È da lamentarsi non lo abbia fatto; imperocchè quando anche non avesse prodotta un’opera adatta all’essere rappresentata, egli era tal poeta da scrivere cosa stupenda. La semplicità grande dell’azione, rende malagevole lo sviluppo drammatico, e richiederebbe un gran poeta, il quale sentisse e sapesse parlare il linguaggio delle passioni. Silvio Pellico fu l’unico che fino ad un certo punto vi sia riuscito. Nella sua Francesca da Rimini l’azione si svolge bene; è naturale i caratteri sono nobili e ben disegnati; è buona tragedia, tuttochè non sia grande l’effetto drammatico. Dessa è ritenuta opera classica in Italia, e viene rappresentata di continuo nei grandi come nei piccoli teatri. In questi giorni era rappresentata contemporaneamente qui in Roma su due scene, al teatro Valle quale fu scritta, ed in quello Emiliano, ridotta a parodia.
Rechiamoci a quest’ultimo. Gli attori vi recitano in dialetto romano, vale a dire nel pretto linguaggio dei Trasteverini. Francesca da Rimini vi è travestita, o per parlare con più esattezza, è ridotta Trasteverina. Sarebbe come se si recitassero l’Ifigenia di Goethe in basso tedesco, od il Faust, nella traduzione in lingua volgare fiammingo di Bleeschauer. Notiamo con piacere che non sarebbe possibile in Germania rendere per tal modo ridicola una tragedia classica. Non sarebbe fattibile trovare un teatro, per quanto piccolo e meschino, il quale si arrischiasse a presentare al pubblico, per cagion di esempio la Maria Stuarda, ridotta a parodia. Le tragedie presso di noi non diventano ridicole che qualche volta, quando sono male rappresentate; ma non si fanno mai tali, con animo deliberato.
Sul teatro di piazza Navona tutto contribuiva a rendere lo spettacolo ridicolo, il linguaggio adoperato dagli attori, ed il loro modo già per sè cattivo di recitare, particolarmente della Francesca. Mentre recitavano seriamente le parti loro in quel dialetto ridicolo, convertivano per così dire il coturno in pantofole. Il vecchio Guido da Polenta si era fatta una gobba, e recitava con brache di velluto, in maniche di camicia quale un Mascalzone. L’infelice Francesca aveva un aspetto esuberante di salute, da fare invidia a qualunque serva di campagna, Lanciotto e Paolo avevano l’aspetto di due volgari attaccabrighe. Recitavano però tutti con tutta serietà, seguendo l’originale passo a passo, se non che i pensieri elevati della tragedia non erano ridotti in dialetto soltanto, ma trasformati nel senso, non meno che nella forma. Era sempre la stessa tragedia, ma ridotta in forza del diritto del carnovale ad una farsa; la scena della tragedia pure si era mascherata, facendosi i mustacchi col carbone.
Lo straniero che non comprende la differenza fra la lingua italiana ed il dialetto trasteverino, non ride che della parodia dei modi tragici; ma il romano, ride pure del dialetto. È un divertimento di carattere tutto locale. Allorquando il vecchio sire di Ravenna disse, per esempio, a Francesca. «State Mosca» l’ilarità fu generale e romorosa. Domandai ad un giovanetto seduto presso di me, il quale era convulso per il gran ridere, il motivo di tutta quella ilarità «Mosca, mi rispose, vuol significare zitto in Trasteverino.» A vece di niente, i Trasteverini dicono nientaccio, ed anzi le terminazioni in accio ed in uccio sono caratteristiche del loro dialetto, e non mancavano mai di eccitare le risa. Quel dialetto, come buona parte dei dialetti italiani, aggiunge volontieri la particola ne ed ama raddolcire le finali in are ed ire, dicendo andane, partine, a vece di andare, partire. Sostituisce parimenti volentieri la r, alla l, dicendo pertanto der teatro a vece di del teatro. Del resto, anche le espressioni erano ridotte a forma volgare. Lanciotto, per esempio, disse una volta a Paolo: «Bada; ti voglio ridurre a fette come un salame.» La tragedia di Silvio Pellico termina coi versi:
«basta, onde tra poco |
nel dialetto dice «venga al suo ritorno la tremarella al sole.» Il passo di Dante, in cui Paolo e Francesca narrano che leggevano la storia di Lancilotto e di Ginevra, fu tradotto «noi leggevamo un giorno la bella storia di Chiarina e di Tamante» la quale è una canzone côrsa, difusa in tutta Italia, e la quale si vende in foglio volante su tutti i muricciuoli. «Che cosa mai avrebbero detto Dante e Silvio Pellico, domandai ad un mio vicino, se avessero potuto vedere la loro favola ridotta a questo modo, su queste scene?» Il vicino mi guardò con istupore e dopo che parve avere capito quello che io pensava. «Eh rispose, si vuol ridere!» E per dir vero, ho vedute poche cose più ridicole della scena nella quale Lancilotto uccide Paolo e Francesca; nella quale mentre sono entrambi già stesi a terra, Paolo dice all’innamorata «Checca! Perdono! Ohimè, dessa è capotto! ora sono capotto io pure!» ed il signore di Ravenna gobbo, in maniche di camicia e brache di velluto avvicinandosi ai cadaveri dice a Lanciotto. «Non più sangue perchè non venga la tremarella al sole.»
Si possono vedere pure al teatro Emiliani la Medea in dialetto romanesco, o la Didone abbandonata, nella quale Enea, quale fondatore favoloso di Roma, lusinga il popolo di ricordi eroici. Ma di ciò basti.
I due teatri dei fantocci di piazza Navona e di S. Apollinare, sono col teatro Emiliani le scene veramente popolari di Roma, le quali hanno carattere locale. Conviene aggiungervi nell’inverno il grande teatro Aliberti per l’opera, ed in principio della bella stagione il teatro popolare presso il mausoleo di Augusto. Gli altri teatri non hanno carattere nazionale; soltanto quello Capranica, il quale sta nel palazzo del collegio di quel nome, può essere considerato quale un teatro di transizione fra quelli popolari, ed i teatri seri. Vi si recitano tragedie, commedie, drammi, azioni spettacolose, opere, pantomine, e balli di ogni natura. Le parti giocose vi sono sostenute dallo Stenterello, specie di buffone toscano senza maschera caratteristica, il quale tuttochè giocoso sostiene talvolta pure parte di una certa serietà. Egli può dirsi il Pulcinella dell’Italia superiore e centrale, e lo si vede pure talvolta al teatro Emiliani a fianco del Pulcinella stesso. Per un teatro popolare toscano, un buono Stenterello è di prima necessità quanto un buon tenore, od una buona prima donna, per un teatro d’opera. I cartelloni teatrali non mancano mai di aggiungere ai titoli delle produzioni rappresentate, le parole con Stenterello come si aggiungono a quelli dei teatri di fantocci le parole con Pulcinella.
Oltre il teatro Capranica, sonvi ancora in Roma quelli di Torre d’Argentina, Valle, e Tordinona, ovvero Apollo. Il teatro Apollo è dedicato particolarmente all’opera in musica; nell’ultimo inverno vi si recitava il Trovatore, opera nuova di Verdi. Il teatro Valle è il più grande fra quelli che recitano tragedie, e comedie; nello scorso autunno vi recitava una buona compagnia torinese, della quale era principale ornamento la distinta attrice signora Ristori. Vi si recitano frequentemente, come in Germania, traduzioni dal francese, e raramente produzioni di Goldoni, di Silvio Pellico, e più raramente di Alfieri, troppo inviso alla censura papalina. Tutti questi teatri rientrano nella sfera di questi cenni, sui costumi e sulle cose di Roma.
IV.
Se non che è oramai tempo di calare il sipario, e di ricollocare tutti questi fantocci entro le loro case. «Nella comedia, del pari che in questo mondo, dice don Chisciotte, recitano imperatori, papi e cento altri personaggi; ma quando si arriva al fine, quando scompare la vita, giunge la morte, la quale tutti spoglia degli abiti, dei costumi per i quali si riconoscevano, si differenziavano; nella fossa sono tutti uguali.»
Ed ora, lettori miei, voglio presentarvi un personaggio romano, il quale sta esposto rigido, e morto sul suo letto di parata fra le torcie che ardono, contemplato avidamente a bocca aperta da numerosa folla, particolarmente di popolani, i quali non osavano innalzare i loro sguardi verso di lui mentre era in vita e che si toglievano timidi e rispettosi il cappello, allorquando passava nella sua carrozza di gala. Desso era un cardinale. Ora giace in una stanza del palazzo della Consulta, steso sul letto di parata, rivestito de’ suoi abiti rossi principeschi. Che apparato meschino, per un uomo il quale governò lo stato romano, ed il cui nome fu congiunto agli avvenimenti più grandi della storia contemporanea! La camera è piccola e neanco delle più pulite. Le stoffe di seta nera del letto di parata sono vecchie, logore, macchiate, rappezzate in più di un sito, ed hanno per certo servito già a più di un cardinale. Ardono due candele. Un sacerdote in piedi contro un leggio recita le preghiere per i defunti. La folla entra e sorte. Si compone nella maggior parte di operai, di donne, e di ragazzi, i quali contemplano con indifferenza la faccia livida del cadavere. Ricorda questo una statua rotta, di porfido rosso, di un qualche tempio antico. La sua testa è voluminosa, marmorea, con pochi capelli bianchi; suoi tratti dinotano una volontà ferrea, ed una rassegnazione tranquilla. Poco mancò che si posasse nel 1846 su questo capo la tiara pontificia, oggetto delle sue lunghe speranze. Allorquando morì Gregorio XVI nessuno dubitò della elezione a sommo pontefice di questo rinomato uomo di stato, ministro di Gregorio, arcivescovo di Genova, gran priore di Malta, abate di Farfa, antico nunzio pontificio a Parigi. Parecchi cardinali erano sue creature; il suo partito a Roma era esteso e possente; radunatosi il conclave e procedutosi alla prima votazione raccolse la maggiore quantità di voti. Desso punto non dubitava della sua elezione, e tranquillo sull’esito di questa andava già pensando al nome che avrebbe assunto. Se non che l’elezione al papato è quale una lotteria; a questo cardinale toccò un biglietto bianco. Un sacerdote che aveva bussato un giorno alla sua porta in Genova, richiedendolo di sua protezione e di suo appoggio, il povero conte Mastai Ferretti ottenne la tiara pontificale, ed il vecchio Lambruschini, gli si dovette inginocchiare davanti, e baciare i piedi di Sua Santità. Ora sta quivi esposto Lambruschini, il genovese altiero, inflessibile, che non aveva mai ceduto a nessuno; che aveva regnato per Gregorio, uomo di una grande energia, di natura dispotica, di un rigorismo monacale, inaccessibile a tutte le passioni umane, preoccupato unicamente della signoria della chiesa, uno dei pochi superstiti del tempo antico, della vecchia scuola. Vide cinque Papi sulla cattedra di S. Pietro, il sesto gli tolse la tiara. A quali solenni avvenimenti non aveva desso assistito dall’epoca della rivoluzione di Francia, a quell’ultima di Roma del 1848! Quante persone, imperatori, re, principi, regnanti, e spodestati, non aveva desso conosciuti! Invecchiato nel culto della teocrazia, promotore indefesso dello assolutismo della Chiesa, gli era toccato assistere all’ultima rivoluzione che Pio IX stesso, aveva provocato colle riforme; decrepito, sull’orlo della tomba, aveva dovuto fuggire di Roma come un malfattore. Lo avevo visto parecchie volte nelle solennità della Chiesa accasciato per gli anni, curvo, tremante, dignitoso come un patriarca, seguire vacillando la processione, ed entrare nella cappella Sistina. Tutti gli occhi erano rivolti sopra di lui, e la folla andava mormorando. «Ecco Lambruschini!» Ed ora il mendicante cencioso, il povero operaio, lo contemplano sul suo letto di parata, e ripetono franchi e liberi di ogni timore: «Ecco Lambruschini!» Ora sta colà, oggetto indifferente, estraneo al mondo, alla storia, fantoccio oramai dimenticato che ha sostenuta la parte sua, e che deve cedere il posto ad altri. Tutta questa pubblicità, questa esibizione di un cadavere, ha qualcosa che incute spavento e mi spingeva quasi a rivolgere una ultima allocuzione al defunto cardinale, mentre stavo pensando al suo grado eminente, alla sua grande attività, alla sua vecchiaia, e stavo contemplando con rispetto la sua calma.
Se non che, chi si dà pensiero della vita o della morte di imperatori, re, papi, cardinali, o di qualsiasi altra persona, qui in Roma? In mezzo a tutte queste grandi rovine della storia universale, tutto quanto altrove sarebbe grande, solenne qui compare piccolo, meschino, quasi una rappresentazione di fantocci; imperocchè qui regna quasi un tanfo di porpora, e l’aere vi è come impregnata, di nomi d’imperatori, e papi defunti.
Proseguiamo a passare in rivista questo mondo di fantasmi, se non che dove dovrò io condurre i miei lettori? Sul corso, dove pendono da ogni finestra tappeti rossi gallonati d’oro; dove mille belle donne sorridono dai balconi, cacciando un nembo di fiori, che cadono sul suolo come quelli della pianta del pesco, allorquando il zefiro di primavera agita i suoi rami? Portiamoci alla chiesa di S. Antonio presso le terme di Diocleziano, dove si dirigono in lunga fila cavalli bardati in varia foggia, dove potremo ammirare le carrozze del Papa, e la sua bella mula bianca, e lo stupendo equipaggio, del duca Boncompagni-Ludovici tirato da sedici cavalli, che l’abilissimo cocchiere guida da solo a cassetto. Se non che, tutto ciò trae meno a sè la folla, che la comparsa della meravigliosa invenzione del grasso lucido.
La nostra attenzione però è fissata su quella lunga fila di persone, le quali camminano solennemente due a due, e che paiono appartenere al medio evo quasi altrettante figure dipinte da Giotto, dal Ghirlandaio, o da Sandro Botticelli. Tutti questi uomini sono vestiti di una lunga tonaca rossa, hanno il capo coperto di un cappuccio fatto a punta, il quale ricopre pure loro la faccia, con due aperture per gli occhi. Camminano tutti a piedi scalzi. Hanno i lombi ricinti da una fune, alcuni portano croci, ma i due spettri rossi che aprono la marcia, portano in mano teschi umani, ed ossa di morto. Mormorano preghiere nell’andare. Sono la confraternita dei Sacconi rossi; il loro aspetto è propriamente bizzarro, e vi riporta nei tempi antichi. Se non che vi sono pure confraternite di altri colori, e la sera passeggiando per Roma, è facile imbattersi in sepolture dove i fratelli hanno cappuccio nero, o celeste, o sono vestiti di bianco o di giallo. Sono queste, figure che si possono vedere ogni giorno in Roma, e quando s’incontrano nei quartieri più deserti e più antichi della città, come le regioni di Monti, di Capitelli, od il Trastevere, o soltanto quando i cappuccini precedono un feretro colle loro tonache di colore oscuro, colle loro barbe bianche, portando una candela accesa preceduti dalla croce, le piazze e le strade deserte di Roma, assumano un aspetto indicibile di morte, e di malinconia.
Il culto di Roma, anzi tutta la vita interna della città, ha il carattere di una processione; ed è questo propriamente la città delle processioni. E quando non hanno luogo processioni religiose, le quali cominciano principalmente in maggio od in giugno, sonvi altre compagnie le quali vanno a due a due per le piazze della città, e le danno un aspetto di festa. Osservate; sono ragazzine le quali vanno processionalmente, guidate e dirette da monache. Sono vestite di nero con un fazzoletto da collo bianco, portano una cuffia bianca con nastri neri; precedono le più piccine, quindi in linea crescente arrivano giovani dai diciotto ai venti anni. Sono allieve di un istituto, le quali escono a passeggio. S’incontrano con una schiera di giovanetti, che sono portati parimenti a passeggio guidati da sacerdoti. Anche questi vanno a due a due, disposti parimenti in linea crescente. Vestono abito nero, portano un cappello nero anche i più piccini, e questa schiera di un trenta a cinquanta ragazzi, vestiti in questa foggia severa, produce un’impressione che eccita propriamente l’ilarità. Quando s’incontrano questi ragazzi neri con quelle ragazze nere, si gettano a vicenda sguardi pieni di vivacità, e di desiderio; ma si passano a fianco senza pronunciare parola. Poverini! Non parlano non odono, sono sordomuti gli uni e le altre, ed a segni soltanto, si possono comunicare i loro pensieri.
Sarebbe impossibile l’enumerare tutte le corporazioni, comunità che s’incontrano in Roma, procedenti per tal guisa due a due, in costumi svariati ed uniformi. Sono a centinaia in questa città le provincie del Socialismo clericale, a centinaia i falansteri ecclesiastici, da superare la fantasia di Goethe o di Fourier.
Ecco, compare un’altra schiera di giovani vestiti di una specie di caftan alla turca, con colletto diritto, guernito di una striscia rossa. Sonvi fra essi due mori, e parecchie fisionomie olivastre, abbronzate. Parlano tutte le lingue, d’Europa, dell’Africa, dell’Asia; parlano il chinese, l’indostano, il persiano, l’abissino, il cofto, l’idioma del Malabar, degli orangotani. Sono gli allievi del collegio della Propaganda, futuri missionari. Questi altri giovani per contro che arrivano, biondi di capigliatura, vestiti tutti di rosso, parlano tutti tedesco; sono allievi del collegio germanico. Ed ecco altri collegi; giovani vestiti di colore turchino, nero, bianco; sono Inglesi, Scozzesi, allievi del collegio Nazareno, di quello dei Nobili. Chi li potrebbe nominare tutti?
Intanto questo grasso lucido il quale ci ha sempre seguiti ed accompagnati, vuole oramai che si parla di lui; abbia però ancora alquanto di pazienza, che ci resta tuttora un altro spettacolo curioso a vedere. Vogliate venir meco, o lettori, sulla piazza di S. Giovanni in Laterano, e ricordare che siamo nello splendido mese di giugno. Colà, deve aver luogo una grande processione; vi saranno tutti gli ordini religiosi, numerose contraternite, parecchie belle ragazze con piccole corone d’argento in testa, ed abiti che non furono cuciti, ma messi assieme unicamente a forza di spille, quasi un mosaico; vi vedrete croci gigantesche oscillare per aria, non sostenute dagli uomini che le portano, ma che prendono il loro appoggio unicamente in una borsa di cuoio che hanno quelli sul petto, e che ciò nonostante le maneggiano con una destrezza da far invidia a qualunque giocolatore. Questa processione sterminata partiva dal Lazzaretto, per recarsi alla Basilica, passando in mezzo ad una schiera di mendicanti, fra quali sarannovi donne e ragazze ammalate, le quali riceveranno la benedizione. Avreste visto od udito mai lettori miei qualcosa di simile? Ragazze ammalate le quali ricevono visite non solo dai loro cari, ma dal popolo romano, da tutti i Quiriti? Le porte dello spedale sono aperte, dovunque sono fiori e fronde, a nessuno è vietato l’ingresso, entrano le persone a centinaia; entriamo noi pure. Qual vista! Dove siamo mai? Passiamo adagio, non ci è permesso fermarci presso i letti, nè volgere il discorso a quelle rosee ammalate, dobbiamo contentarci di contemplarle. Osservate, quanto è bella ed ariosa la sala, con qual gusto è decorata! Oggi si è la festa delle ammalate, e tutto qui spira salute, gioia, eleganza, ed ornamento, imperocchè in questa Roma, tutti vogliono fare la loro comparsa almeno una volta, tutti avere la loro festa, la gente ricca e felice, i mendicanti, e gli storpiati, i morti dessi pure. Osservate la doppia fila di letti, come sono puliti e bianchi, come sono ornati di tappeti rossi, gallonati in oro, di fiori disposti in forma artistica. Ogni letto pare una poesia di Mathison, o di Geibel. In ognuno di essi sta seduta o coricata una ragazza od una donna, vestita di pannilini, bianchi quanto la neve. Molte hanno l’aspetto aggravato, ma molte compaiono più belle per la malattia. Osservate quella ragazza, come la sua fisonomia è trasformata dalla malattia, e come splende dal fascino incontrastabile della debolezza. Gli occhi suoi nerissimi, scintillano quasi illuminata dalle reminiscenze. Non tarderanno a ricquistare tutto il loro splendore. Voi vorreste fermarvi, o miei lettori? Ma ciò non è permesso; sorge ai piedi di quel letto, quale custode dell’onore un giovane soldato armato di schioppo, nè più nè meno che fosse di sentinella ad una polveriera. E colà, dove sta seduta quella giovane ragazza, a cui l’ardore della febbre imporpora le guancie, ed i cui sguardi si perdono quasi vaganti nello spazio; colà seggono le vecchie infermiere, vestite di giallo, simili alle parche. Usciamo, usciamo, che questa stanza è più pericolosa della malaria stessa, al lume di luna. Potrete ora dire di avere vista una scena di spedale, di questa singolarissima città di Roma.
Come potressimo intanto sfuggire al grasso lucido, che ci perseguita? Eccolo un circolo di persone, in una strada qualunque, dal cui centro sorge una voce, la quale declama. Andiamo a quella volta, che cosa ci troviamo? il legittimo grasso lucido. Scorgiamo sull’angolo d’una casa un cartellone rosso, affisso di recente; ci affrettiamo di portarci a leggerlo, imperocchè che cosa sarà mai? Il legittimo grasso lucido. Siamo seduti al caffe Ruspoli, un garzoncello gira per le sale, offrendo un foglietto agli avventori. Che cosa vi sta scritto? il legittimo grasso lucido. Questo legittimo grasso lucido ha pertanto desso pure un diritto incontestabile, per trarre a sè la generale attenzione, che non è poco merito al certo, lo avere scoperto nell’anno 1850 dalla nascita di Cristo, una vernice lucida; la quale non contiene nè vetriolo, nè alcun’altra sostanza corrosiva, e che non solo rende flessibile in sommo grado qualunque cuoio, ma possiede per di più la virtù di renderlo durevole, in modo incredibile, e maraviglioso. Una tale invenzione è degna di una mostra pubblica, ai piedi dell’obelisco, di fronte al Panteon. Stanno colà presso ad un tavolo carico di scatolette di latta, contenenti la preziosa vernice due oratori popolari, i quali parlano ore intere con un fiume di eloquenza, il quale mai non si ferma nel suo corso, della eccellenza del grasso lucido. Se si desse al più grande fra tutti i filosofi l’incarico di dire qualcosa in encomio di un lucido da scarpe, in due minuti sarebbe finito; ma quest’uomo con un abito unto, con un panciotto di velluto, macchiati l’uno e l’altro della sua vernice, parla delle ore intere senza mai interrompersi, sulle materie che compongono il grasso lucido, sui pregi di questo, non esce mai dal suo argomento; trova sempre nuovi pensieri, novelle idee, novelle imagini, rifererentisi al grasso lucido richiedendole alla economia domestica, alla umana civiltà, alla varia specie di corami, al tempo, alla temperatura, al sole, alle stelle, alla loro influenza sul mondo fisico.
Nella prima mezz’ora cadono le squamme dagli occhi degli uditori, cominciano quasi ad essere persuasi delle particolarità, della eccellenza del grasso lucido; poco a poco arriva a comprenderne l’immensa importanza, e quasi quasi non riesce a capire come abbia potuto vivere sino a quel punto, privo di quel trovato sublime. Intanto l’oratore continua a spolmonarsi. Gorgia, Protagora, e Carneade, non hanno mai vantato cotanto la giustizia, quanto desso il grasso lucido. Meriterebbe che si creasse nella Università di Padova una cattedra, dalla quale potesse parlarne ex professo; egli si da già per professore, e membro di parecchie accademie scientifiche, come parimenti il suo collega; ed additando questo, dice che il signor professore ha scritto non meno di undici volumi intorno al grasso lucido. «Non è egli vero, professore, che tu hai esposto nel tuo decimo volume, che questo pregevole grasso lucido, unico in Europa, possiede la proprietà di ammollire il cuoio il più duro di bue, e di renderlo soffice al pari di un velluto?» Il professore afferma, e siccome l’altro è rauco, e non può oramai più parlare, prende a sua volta a vantare i pregi dell’incomparabile prodotto.
Dimostra in primo luogo in che consista il grasso lucido. «Si vorrà sostenere che questo grasso lucido, dice egli, contiene sali alcalini, sostanze corrosive. Ora io domando, credete voi che un uomo vivente possa tranguggiare impunemente vitriolo? Credete voi effettivamente che un uomo si possa cibare di zolfo? Ebbene, io voglio darvi una prova convincente; mangierò alla vostra presenza di questo grasso lucido, desso non mi darà la morte, non mi cagionerà verun disturbo, mi procurerà soddisfazione quale potrebbe fare la polenta la più squisita.» Su di ciò, il professore si fa a trangugiare una discreta pallottola di grasso lucido, l’uditorio rimane profondamente scosso, e persuaso che il grasso lucido non contiene punto vitriolo. «Compratelo pertanto, urla il professore, valetevi di questo solo ed unico grasso lucido eminentemente economico, utile, ed inocuo. La scatoletta non costa che tredici baiocchi. Ma che ho detto tredici balocchi? Sono dodici. Vedete! anzi ve la do per dieci.»
E per dimostrare che il grasso rende lucida ogni sostanza, prende un pezzo di carta e gli dà la vernice con singolare destrezza, e con un sorriso di compiacenza; quindi afferra un giovinotto, e sempre declamando e gesticolando gli dà il lucido ad una scarpa. Il giovane è raggiante di soddisfazione, quasi non è persuaso ancora della fortuna toccatagli, imperocchè non gli è accaduto mai, dacchè si trova al mondo, di avere una scarpa lucida. «Vedete, dice il professore, questa scarpa pareva non ha guari la scarpa di un porco, ora riluce al pari di argento; un bambino appena nato la potrebbe rendere tale, senza la menoma fatica.» Il giovanetto se ne parte con una scarpa lucida e coll’altra no, e non leva l’occhio per tutta la strada dalla sua scarpa lucida, quasi si volesse specchiare nella sua felicità.
Lo avere assistito a questa rappresentazione popolare del grasso lucido, non ci toglie però il diritto di frequentare la buona società, e di recarci anzi ad una festa da ballo.
V.
Non avrà questa luogo nè presso il duca Torlonia, nè presso il duca Braschi; ma sarà più interessante e più degna di osservazione, che un ballo in appartamenti principeschi, e nei costumi del tempo di Luigi XIV. Sarà il così detto ballo dei modelli, in una vasta e deserta sala della via Claudiana.
Havvi in Roma una classe di persone, la cui vita è tanto strana e singolare, che potrebbe prestare ai novellieri migliori argomenti, che la vita di quella Fior di Maria, e di quelle sartine che la moderna letteratura francese tolse ad ideale della donna, ed innalzò al grado di muse novelle della poesia. Le persone che troveremo a questo ballo, sono i modelli degli artisti, tanto uomini quanto donne, che hanno la triste sorte di dover stare perecchie ore della giornata in una immobilità perfetta, davanti a coloro i quali li vogliono disegnare, o scolpire. Guadagnano la loro sussistenza mercè le forme belle, e caratteristiche del loro corpo. Compaiono davanti a questi, in tutti gli atteggiamenti possibili. Una ragazza figurerà oggi la Venere dei Medici, domani una Diana, un’Arianna, una Madonna, una Baccante, una Psiche, una Dea, una schiava, una Miriam, una Vestale; oggi sarà nuda, domani tutta velata, vestita dei costumi i più ricchi, i più svariati, ora di Turca, ora di Greca, ora di donna di Albano, o della campagna romana o di antica Romana. La povera creatura deve ridursi ad una specie di statua, il cui incarico si è di rimanere quanto più gli sia possibile immobile, nella posizione assegnatale dagli artisti; questi la trattano quasi un fantoccio, facendole muovere e gambe e braccia, e tutto il corpo, infino a tanto l’abbiano ridotta a quella attitudine che desiderano.
Oltre le grandi accademie, nelle quali si fa a giorni ed ore determinate la scuola del disegno, sonovi pure accademie private, le quali provvedono modelli, ed a cui si può aver accesso pagando una modica retribuzione. Il più famoso di questi provveditori di modelli, è Nicola della via Claudiana, il quale una abilità particolare nel rinvenirli, e nel disporli in modo da soddisfare i desideri e le richieste degli artisti.
Una sala di modelli offre uno spettacolo propriamente nuovo e singolare; non l’avevo vista mai nemmeno dipinta, ed il vederla in natura, mi persuase che potrebbe dare argomento ad un bel quadro di genere. In una sala deserta, il modello, sia uomo sia donna, sta mezzo nudo, immobile come una statua, sovra una specie di piedestallo. Seggono intorno a questo, disposti in anfiteatro i disegnatori, in numero talvolta di un centinaio, appartenenti a tutte le nazioni, Francesi, Inglesi, Tedeschi, Americani, Polacchi, Russi, Danesi, Belgi, Italiani. Ognuno ha un piccolo tavolo, ed una piccola lampada. Ognuno copia il modello ora seduto, ora in piedi, di fronte, a tergo, di fianco; gli uni lo disegnano col lapis, gli altri col gesso, gli altri all’acquarello, taluni addiritura da principianti, altri mediocrementa, taluni eccellentemente. Gli uni lo disegnano tal quale si è gli altri lo abbelliscono, e quella specie di statua assume diversi caratteri, quale uno scritto in un’officina di copisti. Ricorda questa sala una stamperia, dove ogni compositore, seduto colla sua lampada, getta a capo inclinato il suo sguardo alternativamente sul manoscritto, e sulla composizione. Nel vedere i movimenti simultanei di tutti quei disegnatori silenziosi, collo sguardo continuamente rivolto al modello, che sorge sul suo piedestallo immobile, quasi un idolo, mentre da una parte non è possibile astenersi dal sorridere, si prova dall’altra un sentimento di compassione per quella povera creatura, bersagliata da continui ed incessanti sguardi, condannata ad un supplicio di nuovo genere, il supplicio di farsi vedere, e di lasciarsi disegnare.
Sono già due ore che la vittima si trova nella stessa posizione; la sua fisonomia è accesa, l’occhio infuocato, tutti i suoi lineamenti, la respirazione affannosa accennano la stanchezza. Che cosa mai penserà quella statua vivente? Probabilmente a nulla. Di quando in quando spunta sulla sua bocca un sorriso, e si scorge che chiude convulsa le labbra, per non prorompere in uno scoppio, il quale manderebbe tutto ad un tratto in rovina tutta la sua fatica nel conservare la posizione assegnatale. Forse trova ridicola sè stessa; forse le paiono imbecilli e ridicoli tutti quei disegnatori; forse fu la fisonomia di uno di quei tanti scarabocchiatori biondi di capelli, la quale parve ridicola alla giovane romana, e che eccitò la sua ilarità.
Il proprietario di quella sala, si fa un onore di dare nel carnovale una festa da ballo a suoi modelli, alla quale intervengono questi in costume, ed a cui sono invitati gli artisti, i loro conoscenti, e per la quale possono ottenere biglietti, anche gli stranieri.
Per avere una idea dei balli nazionali dei Romani, per vederli eseguiti in tutta la loro varietà, in tutta la loro grazia, fa d’uopo assistere ad uno dì questi balli dati ai modelli. Lo spettacolo è reso più seducente ancora dalla varietà dei costumi. Primeggiano fra questi quelli della campagna di Roma, e sono i migliori quelli di Albano, e quello così ricco di Nettunno. Anche la musica, composta di mandolini e di tamborini, ha carattere del tutto nazionale. Anche nel mese di ottobre, si può vedere la gioventù romana eseguire nelle osterie e nei campi le sue danze nazionali, imperocchè all’epoca delle vendemmie accorrono alle feste di Roma, e particolarmente alla porta Angelica, numerose schiere di ragazze, e di giovanotti; e le si possano vedere suonare il tamburino, e ballare ai piedi di Monte Mario, sulle strade, o nelle osterie. Talvolta alla sera queste ragazze rientrano in città, cantando, e quando le si vedono percorrere le strade, talune con un tirso ornato di fiori, altre con fiaccole, cantando vivaci ed allegre canzoni, si crederebbe di vedere passare una processione di Menadi o di Baccanti.
Entriamo ora in una ampia sala della via Claudiana, che il proprietario ha decorata con una cura particolare. Pendono dalla volta ghirlande di fiori, altre corrono lungo i muri, altre sostengono un lampadario. Non mancano striscie di carta d’oro e d’argento, nè numerose lampade a colori. La decorazione ha qualcosa di campestre, il suolo è nero come la terra, e per di più disuguale; i musicanti sono di già al loro posto, con i loro stromenti, tamburini e mandolini, attorno alle pareti seggono i modelli, liberi questa volta della loro immobilità, pieni anzi di vivacità e di brio. Parecchie vengono dal corso, dove sono state sedute sopra scranne prese a nolo lungo i palazzi, a ricevere od a distribuire fiori. Le madri accompagnano le lore figliuole al ballo, imperocchè tutti i modelli che hanno cura della loro riputazione, sono sempre accompagnati dalle loro madre, anche quando si recano nelle accademie per essere copiate e disegnate.
La società è molto variata, imperocchè vi giungono pure dal corso numerose maschere di second’ordine, e la sala non tarda ad essere invasa da forastieri di ogni nazione, i quali vogliono vedere ballare i modelli. La decenza naturale, i modi piacevoli e disinvolti di queste povere ragazze sono propriamente sorprendenti; la finezza naturale del popolo italiano si trova sempre e dovunque in tutte le classi della società. Se questo ballo nel quale i modelli ballano con trasporto, durasse pure fino a giorno chiaro, lo spettatore non vi potrebbe mai osservare un atto meno conveniente, nè che varcasse sovratutto i confini della decenza.
Sono tutti briosa ed allegra gioventù, la quale gode nel ballare; ed è un vero piacere contemplare la vivacità e la grazia dei loro movimenti, non che il loro aspetto di gioia e di contentezza. Chi non avesse mai assistito ad un ballo nazionale nei paesi meridionali, o vi avesse veduto soltanto le feste del gran mondo, e le assurdità dei balli di teatro, non potrebbe a meno di prendere viva parte alla mimica, animata e vivace, di uno di questi balli veramente popolari. La musica adatta dei mandolini e dei tamburini, colle loro voci alquante stridule, la varietà dei costumi e dei colori, l’oro, il rosso, il verde; le belle e giovanili forme dei ballerini e delle ballerine, la distinzione e la nobiltà di quei profili romani, producono un effetto stupendo, e spesso l’intrecciarsi di tutte quelle figure, il loro volteggiare, mutare di posizione, comparire, scomparire, ricomparire, sempre con grazia, vivacità, disinvoltura, danno l’idea di una scultura fantastica in rilievo.
Vi si ballano varie specie di danze, tanto nazionali che straniere. Il ballo nazionale, prettamente romano, si è il saltarello, il quale è ballato da una coppia sola di ballerini. Desso non si svolge in grande linee; consiste piuttosto in piccoli movimenti molto rapidi, particolarmente della parte superiore del corpo. Possiede una grande vivacità mimica, ha qualcosa delle baccanti, meno grazia però di un ballo saltato, e che si svolge in linee circolari. Le ragazze ballano pure la polka, oramai estesa a tutto il mondo, e si provano pure nel waltzer strisciato, senza raggiungere però l’eccellenza dei Tedeschi, i quali si muovono in linee orizzontali, mentre in Italia, secondo l’indole della loro danza nazionale, lo si salta. Il ballo tedesco è piuttosto una danza comune a due persone, mentre il ballo italiano consite piuttosto nella esibizione della bellezza delle forme corporali, in una danza di due persone l’una di fronte all’altra, ed è quindi più drammatico.
Mentre le belle e giovani romane se ne stanno ballando, e facendo pompa delle loro grazie, ci recheremo frettolosi a vedere innalzare la girandola, cosicchè tutte le svariate figure che abbiamo visto, e che ebbero principio colla danza dei morti, abbiano, siccome si conviene, termine con un fuoco di artificio.
Una volta la girandola si lanciava dal Mausoleo di Adriano nel giorno in cui s’illuminava S. Pietro; ora invece la si lancia dal monte Pincio, sulla piazza del Popolo, la quale sta di fronte a quella stupenda passeggiata. Si dice che da Castel S. Angelo producesse molto migliore effetto, ed è probabilissimo, imperocchè di là s’innalzava sopra tutta la città. Ad ogni modo, anche dal monte Pincio, è tuttora uno spettacolo magico.
Appena parte il segnale da Castel S. Angelo con un colpo di cannone, tuonano le artiglierie sul monte Pincio, e la girandola quasi una eruzione volcanica, od un fiume di fuoco, si slancia fumando e sibilando di dietro la facciata della passeggiata. Sorge da terra simile ad un manipolo gigantesco di grano, ovvero ad una pianta di palma, e fischiando, scoppiettando, sale verso il cielo, che pare voglia ricoprire per intiero. L’occhio affascinato da tutto quel lampo di luce, non ha tempo di discernere i particolari; prima che la si possa fissare, tutta quella mole di fuoco trovasi di già al disopra del capo di chi la sta osservando ai piedi dell’obelisco sulla piazza del Popolo; e nel mentre va scomparendo, pare piovano miriade di stelle dal cielo. Non è propriamente uno spettacolo, ma una vista subitanea e repentina di una immensa fiamma, la quale in un batter d’occhio abbaglia e scompare, lasciando memoria quasi di una visione fantastica.
La girandola è scomparsa, una nuvola di fumo si dissipa lentamente sulla piazza del Popolo; le stelle splendono di bel nuovo nel cielo limpido e sereno. Ora comincia dietro le piante del Pincio lo scoppio dei mortaretti, e dei petardi senza luce, quasi forieri di nuove apparizioni. Uno di questi ultimi scoppia a tergo della sfinge di marmo, la quale sta sull’ingresso del Pincio, e mentre seguono il vivo colpo alcune scintille, le quali salgono verso la nuvola di fumo, la fisonomia cupa e misteriosa della sfinge appare quasi essere diabolico evocato dall’abisso. Ora un fuoco artificiale illumina la facciata di una chiesa gotica, o di un tempio, la quale sul fondo scuro dei pini assume l’aspetto di una creazione magica. Il tempio va scomparendo poco a poco, ed allora scoppiano bombe, e si sprigionano razzi tinti in rosso, in turchino, in bianco, i quali cadono in innumerevoli scintille, quasi pioggia di fuoco. La piazza è di continuo illuminata da tutti questi fuochi che salgono nell’aria, ed in mezzo a questa luce, l’obelisco dei Sesostri dedicato un tempo al sole nella lontana Eliopoli, sorge solitario offrendo alla vista i geroglifici della sua meravigliosa scrittura figurata. La sfinge, l’obelisco orientale, i pini, i cipressi le varie e molteplici statue del Pincio, le colonne rostralli, le fisonomie malinconiche degli schiavi daci con il berretto frigio, Roma armata di lancia, e le tante altre immagini marmoree che ora compaiono, ora scompaiono in quella luce dubbia, producono un aspetto propriamente magico. Tutto ad un tratto l’intera città è rintronata dallo scoppio di una bomba e delle artigliere, ed appare immersa in un mare di fuoco ardente, bella imagine della Roma eterna, la quale in tutte le vicende della storia mantenne costantemente la sua maestà, a cominciare dalla prima invasione dei Galli tuttora barbari, all’ultima dei discendenti di questi.
Ecco ora un nuovo spettacolo! Sboccano ai due lati del monte Pincio cascate di fuoco, onde fumanti, fosforescenti, le quali producono il preciso romore di una cascata d’acqua, e sono una rappresentazione stupenda e naturalissima delle cascatelle di Tivoli. Anche queste scompaiono; ma continuano i razzi, i fuochi d’artificio di ogni natura, di ogni forma, che riempiono l’atmosfera di luce, di fumo; si direbbe un carnovale, una ridda di demoni infuocati.
Tutto è di bel nuovo silenzioso ed oscuro. Sono estinti gli ultimi avanzi della facciata della chiesa gotica sul Pincio, e comincia un altro spettacolo. Sorgono fra le piante del monte, fra i pini, i cipressi, gli allori, figure di animali, di pesci, le quali illuminate si alzano lentamente, e si librano nell’aria sopra la porta del Popolo. Sono palloni volanti illuminati internamente, i quali salgono ora isolatamente, ora tre o quattro per volta; s’innalzano, scendono, vanno a destra, a sinistra; obbediscono a tutti i capricci dell’atmosfera. Anche questi scompaiono, tuonano ancora una volta tutte le artiglierie, s’innalza ancora una piccola girandola di razzi; un ultimo colpo di cannone, e tutto è finito.
Ma come è mai possibile far ritorno a casa, rinchiudersi in una stanza oscura e malinconica, nel mentre la luna nel suo pieno splende in questo cielo trasparente, ed illumina della magica sua luce queste moli gigantesche della città eterna!
È d’uopo girare per Roma al chiarore della luna, evocando i morti; non tardano a sorgere dalle loro tombe tutti, imperatori e re, guerrieri e poeti, papi e tribuni, cardinali e nobili del medio evo, non tardano a dar vita a tutte queste rovine.
Saliamo al palazzo dei Cesari, i cui ruderi giganteschi, colonne, archi, mura, sorgono dai cespugli. Abbiamo sotto i nostri piedi illuminato magicamente dalla luna, il colosseo, simbolo della storia grandiosa della Roma imperiale, quasi gigantesca conca di granito, nella quale pare abbia questa Roma radunato tutto il sangue della storia universale; a fianco di esso sorge l’arco di Costantino, limite di separazione fra il mondo pagano ed il Cristianesimo; più in là l’arco di trionfo di Tito, limite di separazione fra il Giudaismo ed il Cristianesimo; dovunque si spinga lo sguardo, s’imbatte in rovine della storia, e tutto è silenzioso, tutto tace. Nelle rovine del palazzo dei Cesari, non si ode che il grido della upupa. Quanti avvenimenti si avvicendarono in questi luoghi! Quante persone si aggirano in queste sale imperiali! Augusto, Tiberio, Caligola, Nerone, Tito, Domiziano, gli Antonini, Eliogabalo, gli Dei della terra, e suoi demoni. Qui regnarono tutte le passioni; virtù, vizi, generosità, follia, saviezza, malizia infernale; qui si provarono tutti i sentimenti a cui può dar ricetto cuore umano. Qui il mondo fu governato, torturato, sciupato, giuocato in una notte. Qui regnarono persone di ogni età, e di ogni sesso; vecchi e donne; uomini e ragazzi; schiavi ed eunuchi; qui, tutti dettarono leggi. Ora tutto è morto, tutto è silenzioso, quando non si sente il grido dell’upupa, la quale svolazza sotto le volte cadenti. Volgiamo lo sguardo alla parte opposta, verso la città eterna; splendono in essa migliaia di lumi. Centinaia di cupole, di torri, di colonne, di obelischi, s’innalzano verso il cielo azzurro, rischiarate dalla luna, di quando in quando si ode il suono di una campana, tranquillità magica, profonda, quasi il tempo stendesse su questa città di Roma un velo impenetrabile di silenzio e di riposo.
Due colonne emergono nella notte de quel laberinto di case, sormontate da due statue di bronzo, le quali rappresentano i padroni della città dopochè scomparvero gli imperatori. Sono gli apostoli S. Pietro e S. Paolo, i quali hanno preso posto sulle colonne di Antonio e di Traiano; il primo colle chiavi in mano quale conquistatore del cielo, di cui può aprire e chiudere le porte, il secondo colla spada in pugno quale conquistatore della terra. Stanno questi due guardiani di Roma nel silenzio della notte, nella loro aerea dimora, dominando tutte le rovine e tutti i palazzi.
Stanno preparando probabilmente una solenne allocuzione, od una lode di Maria, imperocchè fra breve non saranno più soli a dominare Roma; fra breve sorgerà sopra una terza colonna un’altra statua di giovane donna, che comparirà al lume di luna coronata di stelle. Potrete scorgere sulla piazza di Spagna l’antica colonna pagana sormontata da un casotto di tavole in legno. Furono già poste le fondazioni e benedette solennemente; stanno di già lavorando gli artefici a pulirne il fusto, ed altri nei loro studi stanno preparando la statua della Vergine Immacolata, che Pio IX vuole innalzare su quella colonna.
Roma nel dì 8 dicembre 1854 assunse tutto ad un tratto l’aspetto di Nicea. Duecento cinquantacinque vescovi e prelati, convocati da tutte le parti del mondo, un popolo di vecchi, un’assemblea di patriarchi dell’orbe cattolico, uomini i quali ricordavano Matusalemme e Noè, si erano radunati a Roma. Non s’incontravano fra tutte le rovine della città, che apostoli, padri della Chiesa. In quelle stesse strade che pochi anni prima brulicavano delle bandiere tricolori della libertà moderna, non si scorgevano più che le teste canute, monumentali, dei vescovi della Spagna, del Portogallo, del Brasile, dell’Irlanda, dell’Austria, delle Indie, della Scozia, della Francia; uno avrebbe potuto credere ad una magia; che il tempo fosse retrocesso di alcuni secoli, risorta la Roma del medio evo con un concilio lateranense.
Si fu nel dì 8 dicembre 1854 che Papa Pio IX proclamò solennemente il dogma della Immacolata Concezione. Si fu questa la conclusione delle riforme del Papa. Su queste riforme del 1847, sulla rivoluzione alla quale diedero desse origine, sorgeranno d’innanzi quella colonna e quella Madonna, per insegnare ai posteri come ogni cosa al mondo rapidamente si muti e si trasformi.
Fra non molto la Madonna della piazza di Spagna, di fronte al palazzo della Propaganda, terrà compagnia ai due apostoli, e molte cose avrà loro da narrare e seco loro da lamentare; poichè ad ogni modo sarà pure dessa la Madonna la più recente, ed in certa guisa figliuola della rivoluzione. Se non che io dimenticavo la sorella maggiore di lei che già sorge sulla più bella colonna di Roma, e che da due secoli e mezzo tiene compagnia ai due apostoli. È questa la Madonna di Santa Maria Maggiore, collocata sulla grandiosa colonna corinzia dell’antico tempio della Pace. Dessa è figlia della ristaurazione della religione cattolica, eretta nel 1614; una bella Madonna di bronzo, la quale fu spettatrice della guerra de’ trentanni. Quanto non dovrà dessa meravigliarsi allorquando vedrà comparire la giovane sua sorella, in atto d’implorare protezione.
Ho mentenuta la mia parola. Avevo promesso a miei lettori di presentare loro una varietà di figure romane, le une più degne di attenzione delle altre; non mi è possibile salire più alto, a meno di volermi portare in cielo sulle ali degli angioli, e sulle nuvole, con quegli uomini e donne che Pio IX ha santificati in questo stesso anno. Se non che un tale volo, a foggia d’Icaro sarebbe troppo pericoloso. Rimarremo pertanto presso S. Pietro e S. Paolo, che anche la loro dimora aerea, in cima ad una colonna, sarà sempre più ferma e più sicura, che lo stare sulle nuvole.
Intanto mi domandava un amico, «che cosa ne pensate? verrà tempo in cui S. Pietro e S. Paolo dovranno scendere dalle loro colonne, avviarsi fuori delle porte di Roma, incontrarsi con il Salvatore, e domandargli Domine quo vadis?» Quale pazzia il fare una tale domanda! e pazzia ben maggiore sarebbe quella di darvi risposta. Imperocchè diceva il savio Apollonio di Tiana, convien prestar fede a Sofocle, il quale ha detto stupendamente; «Soli gl’Iddii non invecchiano e non muoiono; ogni altra cosa annienta e distrugge, l’azione inesorabile del tempo.»
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