Saggio critico sul Petrarca/IX. Morte di Laura

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IX. Morte di Laura

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VIII. Situazioni petrarchesche X. Trasfigurazione di Laura
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IX

MORTE DI LAURA


Nel Canzoniere in vita di Madonna Laura sentite, a volta a volta, alcun che di stanco, un contenuto che va invecchiando, e l’anima che invecchia seco. Il contenuto è una ripetizione sonnolenta degli stessi concetti e delle stesse forme; e l’anima, non che generar nuove idee, non sa neppure le antiche rinnovare e trasformare, sicché le stagnano in lei come in una morta palude. In mezzo a poesie piene di vita incontri giá il petrarchismo, cioè il cadavere del Petrarca, il poeta che imita sé stesso nello stesso modo che fecero i suoi imitatori. Ha innanzi idee logore da lui stesso, alle quali non prende piú interesse. La sventura ha rinnovato quel contenuto, ha ringiovanita quell’anima. Perché, se la sventura spesso genera l’umor nero, lo sbadiglio della noja, il vuoto del cuore, un’anticipata vecchiezza, nelle anime poetiche è una crisi salutare che le ritempra, le spigra, raduna tutte le sue potenze in un sol punto, opera come la passione; ne nasce una concentrazione ed accrescimento di forze.

La morte di Laura pose fine a quel va e vieni, a quella dispersione ed indecisione di forze, che abbiamo notato nel Petrarca. Mezzo tra il mondo e la solitudine, tra Laura e Dio, tra il politico, il letterato, il cortigiano e il poeta, tra l’amore platonico e il sensuale, tra volere e non volere, tra la riflessione e l’immaginazione, tra l’entusiasmo e la depressione; tutti questi ondeggiamenti sparirono, e la natura trionfò: vale a dire, quella sua cotal disposizione alla malinconia, al ritiro ed al [p. 176 modifica]fantasticare. Entrato e rimasto nella sua natura, vi trova il suo centro ed il suo equilibrio; le diverse forze, in luogo di frapporsi e turbarsi, cospirano amicamente; sopratutto non osservi piú quell’intromettersi della riflessione, che guasta con sottigliezze e freddure i piú bei lavori della sua immaginazione.

Il poeta giungeva a quell’etá equivoca della vita, in cui l’uomo con le cure della persona cerca invano di palliare a sé ed agli altri il segreto che s’è fatto via nella coscienza:

                                         Dicemi spesso il mio fidato speglio.
L’animo stanco e la cangiata scorza
E la scemata mia destrezza e forza:
Non ti nasconder piú; tu se’ pur veglio.
     

Sono quattro versi ammirabili; ed a nessuno sfuggirá l’evidenza di quel «piú» e di quel «pur»; la parola vecchio, quanto piú temuta e presente all’animo, tanto meno pronunziata, eccola al fine sul labbro.

Sazio di corti, di popoli, d’onori, di fama, il mondo a poco a poco gli divenne insipido; nel suo dolore sentite non pure la morte di Laura, ma la morte delle passioni, e quello che chiamasi il disinganno e il disgusto della vita. Dove gli altri, affranti dalle lunghe agitazioni, riparavano nei monasteri e cercavano calma nella preghiera, egli cerca rifugio ne’ campi, e si consola fantasticando e poetando.

Quella vena di tenerezza, di cui sentite fra le maggiori distrazioni e nelle poesie di piú diverso genere i moti soavi, sgorga ora liberamente. L’anima trabocca da un lato con forze convergenti.

Le contraddizioni durate finora con tanta persistenza sono sciolte. Amare o lasciar Laura, amare cosí o cosí, errare fra il reale e l’immaginario, tutto questo non ha piú senso. Tutto cangia, il poeta, la natura e Laura. Io posso riassumere la nuova situazione in due parole: è una tomba, che a poco a poco si trasforma in un paradiso; è la morte, dal cui seno spunta la vita nuova.

Quando Laura mori, il poeta trova vasi a Verona; e nel [p. 177 modifica]primo tumulto del dolore gli usci fuori un sonetto, che è un lungo gemito, il sonetto degli «oimè»:

                                    Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo.      

Questa fu la prima impressione del suo dolore: riafferrare un mondo, che è sparito per sempre. Tornano le stesse immagini, che abbiamo incontrate finora nelle poesie in vita di Laura; tornano, ma con un «fu», con un verbo di tempo passato, con un «oimè». Diresti che l’infortunato, con innanzi quel corpo morto, tanto amato, si diletti a rianimarne i tratti, a rifarlo bello, infino a che, esausto dallo stesso sforzo dell’immaginazione, s’abbandona e riabbassa il capo. Quando pensiamo al defunto, e ce lo figuriamo, e ricordiamo di lui questo e quello, lo scuro della fisonomia si scioglie, e ci sentiamo come disgravati, respiriamo piú liberamente: ciò cava la lagrima e raddolcisce la pena, la nutre, ma la raddolcisce. Vero è che, dopo questo obblio momentaneo, sopraggiunge piú acerba l’idea dell’annientamento, quasi l’immaginazione non avesse lavorato ad altro, che ad accrescere il sublime e l’orrore della perdita. Cosi il poeta abbozza in sette versi il ritratto dell’amata, e finisce con un verso, il verso rapido della morte, che ti fa venire il freddo (son. XXIV):

                                         Le crespe chiome d’òr puro lucente,
E ’l lampeggiar dell’angelico viso
Che solean fare in terra un paradiso,
Poca polvere son, che nulla sente.
     
Giá v’ha dipinto quelle «chiome d’oro» e quel «viso angelico»; ora il semplice ricordarlo con quel verbo passato, con quel «solean», che sveglia tante liete memorie, e con quell’ultimo pulvis est, mena a tale strazio, che ne scoppia fuori come un fulmine il sublime «ed io pur vivo!» del verso seguente:
                                         Ed io pur vivo; onde mi doglio e sdegno,
Rimaso senza ’l lume ch’amai tanto,
In gran fortuna e disarmato legno.
     
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                                         Or sia qui fine all’amoroso canto:
Secca è la vena dell’usato ingegno,
E la cetera mia rivolta è in pianto.
     
Quel movimento di disperazione è subitaneo, e cede subito il luogo ad una rassegnazione trista, che chiameresti quasi una dolce mestizia. Il poeta si sente solo, e s’intenerisce sopra sé stesso; non sa per chi o per che dovrebbe ancora cantare, spezza la cetra e piange. Questo dolore puro di amaritudine, e che cosí subito si scioglie nel tenero, ci dá la misura della poesia petrarchesca.

Il dolore senza consolazione e senza speranza, la sublime ribellione dell’anima contro il fato, che ti fa correre lo spavento per le ossa in Leopardi, sono ignoti al Petrarca. E quindi gli è ignoto tutto ciò che si può chiamare il corteggio di questo sublime, il sarcasmo, l’indignazione, il disprezzo, la collera, l’odio, l’ironia, l’umore: il suo dolore non è tragico, grandezza negata a questa natura amabile, è puramente elegiaco. Ben qua e lá ne trovi un lampo, una momentanea emozione in momenti scuri, un accidente piuttosto che una qualitá della poesia. Cosi, in virtú della semplice collocazione delle parole, l’improvviso sparire di Laura ti colpisce di un sublime terrore nel seguente verso:

                                    E i lumi bei che mirar soglio, spenti.      
Quello «spenti», cosí staccato e improvviso, ti fa l’effetto di un cielo chiarissimo che tutto ad un tratto si rabbuja, e ti fa sentire come il freddo taglio della scure sul collo, nel pieno della vita e della giovinezza. Un’altra volta la solitudine del cuore, seppellito insieme con Laura, balza innanzi alla coscienza con cupa energia (son. XLIV):
                                         Noja m’è il viver si gravosa e lunga,
Ch’i’ chiamo ’1 fine per lo gran desire
Di riveder cui non veder fu meglio.
     
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Chi non ha provato mai la noja, chi non ha provato come ogni minuto è un peso di piombo che ti schiaccia e ti strappa nella disperazione dell’impazienza il grido suicida: — Finirla una volta — ; colui non può sentire quanto pesa quel «gravosa e lunga», e con che violenza prorompe quel «chiamo il fine». Due pensieri sopraggiungono, addossati l’un sull’altro, contraddicentisi; e non è questo il cuore umano? — Vederla, vederla ancora una volta! oh non l’avessi mai veduta! — L’uno t’innalza oltre la tomba verso il cielo; l’altro ti ripinge in tutti i dolori del passato: trovi condensata in tre versi tutta una vita d’uomo. Questo sentimento angoscioso della privazione, del deserto che lascia nell’anima la morte dell’amata, rado è che rimanga in questa purezza, in questo stato di tensione. L’anima indocile, vicina a naufragare nel vuoto, si gitta nel passato, nell’«io fui!» e trova una trista compiacenza a fare e rifare l’inventario della sua perdita, con sempre l’ultima parola di ghiaccio: — E tutto è sparito! — .

                                         Ov’è la fronte che con picciol cenno
Volgea ’l mio core in questa parte e ’n quella?
Ov’è ’l bel ciglio e l’una e l’altra stella
Ch’ai corso del mio viver lume denno?
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .
     Ov’è l’ombra gentil del viso umano,
Ch’óra e riposo dava all’alma stanca,
E lá ’ve i miei pensier scritti eran tutti?
     Ov’è colei che mia vita ebbe in mano?
Quanto al misero mondo e quanto manca
Agli occhi miei, che mai non fieno asciutti!
     
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È una melodia flebile fondata su d’uno stesso motivo, che ritorna sempre, e conchiusa con un grido di disperazione. Ma, poiché il poeta ha la forza di gittarsi nel passato e riempiere il vuoto, quel grido non ha piú l’arido e secco tono dell’assoluta privazione, ma non so che malinconia, che apre il varco alla lacrima. Il poeta gentile non sa rimaner lungo tempo con la fronte alta e scura, col fiero sorriso di Capaneo; benpresto quel capo fiacco cade sul petto. Le Ninfe si lamentano; Prometeo non fa motto. Questo silenzio altero, la solitudine dell’anima nell’indifferenza o nel vano compianto del mondo, il disprezzo d’ogni consolazione, quel trincerarsi nella propria disperazione e non volerne uscire, e farsene piedistallo, e soprastare di lá inerme al destino onnipotente, è fuori, è troppo al di sopra della sua natura. Il Petrarca nella solitudine è piú accompagnato, che in mezzo al mondo il Leopardi. Sente il bisogno di sfogo, di comunicare intorno il suo dolore, con vani lamenti, quanto piú vani innanzi alla ragione, tanto piú eloquenti e appassionati. Ora accusa la morte, ora deplora il suo stato, ora si ostina su quelle forme con un tristo: — E passato — (son. XLV), mezzo tra rimembranze e riflessioni. Qualche volta pensa (son. XLVIII, XLIX):
                                         Poco aveva a ’ndugiar, ché gli anni e ’l pelo
Cangiavano i costumi...

     Pur vivendo vernasi ove deposto
In quelle caste orecchie avrei, parlando.
De’ miei dolci pensier l’antica soma;
     Ed ella avrebbe a me forse risposto
Qualche santa parola, sospirando,
Cangiati i volti e l’una e l’altra coma.
     
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Il nostro Petrarca si sentiva giá vecchio, ed immagina: — Se Laura vivesse ancora, che bel vivere insieme! — . E si foggia questa vita ipotetica con tanta evidenza, che ci par d’assistere alla conversazione di due amanti invecchiati.— ’Io le avrei raccontate tutte le mie pene, ed ella, senza piú sospetto o paura di me, come mi avrebbe udito volentieri! — Questa scena da Bauci e Filemone, a cui consacra tre sonetti, è dipinta con una compiacenza tale, che vi obblia il presente. Notabile è sopra gli altri il sonetto quarantesimosettimo. È una esposizione riposata, come di chi abbia giá volte le spalle alle passioni, dopo «lunga e torbida tempesta» giunto in «tranquillo porto».T’abbozza quella vita immaginaria con tutta la veritá di chi ne ha giá le inclinazioni, con particolari e forme di dire originali e freschissime, piene d’ingenuitá e di grazia. È un sonetto tirato giú d’un tratto, d’una limpidezza omerica, ove le idee, i sentimenti, le parole, il tòno sono in un accordo perfetto:
                                         Tutta la mia fiorita e verde etade
Passava; e ’ntiepidir sentia giá ’l foco
Ch’arse ’l mio cor; ed era giunto al loco
Ove scende la vita, ch’alfin cade.
     Giá incominciava a prender securtade
La mia cara nemica a poco a poco
De’ suoi sospetti; e rivolgeva in gioco
Mie pene acerbe sua dolce onestade.
     Presso era ’l tempo dov’Amor si scontra
Con Castitate, ed agli amanti è dato
Sedersi insieme e dir che lor incontra.
     Morte ebbe invidia al mio felice stato,
Anzi alla speme; e feglisi all’incontra
A mezza via, come nemico armato.
     

Con queste riflessioni inutili s’accompagnano rimembranze inutili, di tanto piú acerbe. Non può svellersi dal cuore il passato; quel lugubre: — L’ho perduta! — ritorna sempre, come un avoltojo affamato. Fra queste rimembranze ce n’è una, che piú l’assedia, materia di parecchi sonetti1: l’ultima volta che vide Laura. Ed è la rimembranza che sopra le altre fa una impressione piú profonda e piú generale: quanto pochi sono, che non ne abbiano provata la puntura! L’ultima visita è una visita come tutte le altre, finché non diciamo a noi stessi: — Quella visita fu l’ultima! — . Allora ci scopriamo tanti particolari, ci vediamo tante cose, a cui prima non avevamo badato; leggiamo l’evento ferale nelle circostanze piú insignificanti. [p. 182 modifica]L’interesse di questi sonetti è appunto in queste circostanze. Giá sinistri sentimenti tormentavano il poeta:

                                         Deposta avea l’usata leggiadria.
Le perle e le ghirlande e i panni allegri
E ’l riso e ’l canto e ’l parlar dolce umano.
     Cosí in dubbio lasciai la vita mia:
Or tristi augurii e sogni e pensier negri
Mi danno assalto; e piaccia a Dio che ’nvano.
     
Fra questi sogni ce n’è uno, misera ed orribil visione!
                                         Non ti sovven di quell’ultima sera,
Dic’ella, ch’i’ lasciai gli occhi tuoi molli,
E sforzata dal tempo me n’andai?
     I’ non tei potei dir allor né volli.
Or tei dico per cosa esperta e vera:
Non sperar di vedermi in terra mai.
     
Aspettavasi una grave sventura, come chi, nel giorno in cui suol venir la febbre, se la senta giá addosso prima (son. LVI):
                                         Qual ha giá i nervi e i polsi e i pensieri egri,
Cui domestica febbre assalir deve,
Tal mi sentia...
     
Ed ora ch’ella è morta, corre spesso col pensiero all’ultima sera, che le disse addio. Ricorda quei presentimenti; s’immaginava una sventura, ma non la morte di lei; e pure tutto glielo diceva, piú che altro lo sguardo, e si accusa e si chiama stolto e cieco (son. LVII):
                                         Ma ’nnanzi agli occhi m’era posto un velo,
Che mi fea non veder quel ch’i’ vedea,
Per far mia vita subito piú trista.
     
Carnefice di sé stesso, rimemora tanti particolari strazianti, a cui allora non avea posto mente, e se ne pasce e se nestrugge. Laura era amorosa piú dell’usato, come presentisse di non doverlo piú rivedere; ardevano tutti e due; e pure in tanta dolcezza il poeta era «pensoso e tristo»; gli occhi non sazii, sempre in quegli occhi; non sapea risolversi a partire, e mentre il piè si volgea, «a mover tardo», Laura lo guardava con occhio «non contento», e parea volesse dirgli ancora qualche cosa. Non capi; e pure era si chiaro «agli atti, alle parole, al viso, ai panni», alla sua mestizia, a quegli occhi «sfavillanti oltre lor modo»; tutto gli dicea:
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                                    Qui mai piú no, ma rivedrenne altrove.      

Se il Petrarca avesse rappresentato l’amore con questa pienezza di particolari, avrebbe cansate le sottigliezze e le freddure; il dolore lo ha meglio ispirato. Quell’ultima sera è descritta con la solennitá e il raccoglimento d’una tristezza, per entro alla quale s’insinua verso l’ultimo un movimento di tenerezza, che la scioglie nel pianto (son. XLVI):

                                         Mente mia, che presaga de’ tuoi danni,
Al tempo lieto giá pensosa e trista,
Si intentamente nell’amata vista
Requie cercavi de’ futuri affanni;
     Agli atti, alle parole, al viso, ai panni.
Alla nova pietá con dolor mista,
Potei ben dir, se del tutto eri avvista:
Quest’è l’ultimo di de’ miei dolci anni.
     Qual dolcezza fu quella, o miser’alma!
Come ardevamo in quel punto ch’i’ vidi
Gli occhi i quai non devea riveder mai!
     
L’espressione di questo colloquio coll’anima, nella sua sobrietá grave, indica un dolore raccolto, ma che sta lf li per espandersi. L’affetto trattenuto prorompe con impeto e quasi con gioja nel sonetto LVIII. Quegli occhi, che non avea capiti, ora se ne accorge, era cosí chiaro quello che voleano dire.

E par che voglia divorarseli: di tanti, di si amorosi epiteti [p. 184 modifica]gli assale; divorarseli, mentr’essi par che gli dican addio, e con espressioni si tenere, con la familiaritá di persona vivuta lungo tempo seco. Ne nasce un movimento brusco, un impeto di stizza, e di dispetto contro sé stesso, e con tanto piú affetto un ritorno a quegli occhi, di cui non si sa saziare. Le ultime parole di addio sono affettuosissime. L’amore di Laura, trattenuto fino a quel tempo, trabocca nel punto stesso che la mano del destino s’aggrava sulla insperata felicitá e li divide per sempre:

                                         Quel vago, dolce, caro, onesto sguardo
Dir parea: to’ di me quel che tu puoi;
Che mai pili qui non mi vedrai da poi
Ch’arai quinci ’l piè mosso a mover tardo.
     Intelletto veloce piú che pardo,
Pigro in antiveder i dolor tuoi,
Come non vedestú negli occhi suoi.
Quel che ved’ora, ond’io mi struggo ed ardo?
     Taciti, sfavillando oltra lor modo,
Dicean: o lumi amici, che gran tempo,
Con tal dolcezza feste di noi specchi.
     Il Ciel n’aspetta; a voi parrá per tempo:
Ma chi ne strinse qui, dissolve il nodo;
E ’l vostro, per farv’ira, vuol che ’nvecchi.
     

Questo dolore, gustato con una specie di voluttá, raramente puoi chiamarlo abituale e letterario; anzi quanto piú il poeta ci s’immerge, piú l’aria si rinnova: voglio dire, piú il cerchio delle idee e dei sentimenti s’allarga. È un dolore fecondo, che stuzzica l’anima e tutto ringiovanisce intorno a lei, le dá quel che dicesi la vista del genio, quel veder le cose da altri punti e con altri colori. E forse questo ringiovanirsi del mondo innanzi all’anima attonita e compiaciuta è il segreto di quel desiderio, col quale ella corre dietro al proprio dolore e lo nutre e se lo tien caro: diresti quasi che non ne vorrebbe restar senza. Il Petrarca finisce col tuffarvisi entro e compiacersene, farsene bello, sentirne bisogno, come d’un compagno. Fino il desiderio della morte si affaccia con immagini che chiameresti quasi voluttuose. Eccolo li [p. 185 modifica]innanzi al sepolcro di Laura, e guardar con invidia quella terra che possiede il bel corpo, e pregarla che ricetti anche lui, e chiamare l’amata co’ nomi piò teneri, con l’ardore d’innamorato che la tenga tra le braccia; ed è l’abbracciamento della morte, lá, sotterra, l’uno accanto all’altro (son. VIII):

                                    E tu che copri e guardi ed hai or teco,
Felice terra, quel bel viso umano;
     Me dove lasci, sconsolato e cieco.
Poscia che ’l dolce ed amoroso e piano
Lume degli occhi miei non è piú meco?
     

Un dolore pieno di tanta espansione, cosí facile a sfogarsi e raddolcirsi in lamenti, è ciò che dá un significato al mondo; tolto lui, cosa resta? Solitudine e deserto, solitudine nel mondo, solitudine nell’anima. Se il mondo vive ancora, gli è che è pieno del suo dolore. Se tutto è animato, se tutto è poetico, gli è che in tutto trova il suo dolore. Una volta la natura era l’eco e il riflesso di Laura, illuminata dalla sua presenza; Laura è morta, la natura muore con lei; ma quando è stata mai si bella? Appunto perché gli sembra morta, ha un significato, una nuova vita estetica, nuove forme, fresca e giovane, come se fosse rinata. La sensibilitá del poeta, divenuta piú squisita, lo rende facile alle impressioni e alle emozioni. Mai la natura non gli sembrò cosí bella, che ora che non è piú bella per lui; e descrive quelle bellezze, come se volesse annoverare ad una ad una tutte le sue perdite. Nella sua felicitá non ha mai cantato con tanta grazia il ritorno della primavera, come ora che per lui non c’è piú primavera (son. XLII):

                                         Zefiro torna, e ’l bel tempo rimena,
E i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia,
E garrir Progne e pianger Filomena,
E primavera candida e vermiglia.
     Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena;
Giove s’allegra di mirar sua figlia;
L’aria e l’acqua e la terra é d’amor piena;
Ogni animai d’amar si riconsiglia.
     
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                                         Ma per me, lasso, tornano i piú gravi
Sospiri, che dal cor profondo tragge
Quella ch’ai ciel se ne portò le chiavi:
     E cantare augelletti, e fiorir piagge,
E ’n belle donne oneste atti soavi,
Sono un deserto, e fere aspre e selvagge.
     

Chi non ricorda l’aria piú serena, l’erba fatta più verde dalla presenza di Laura, e le «chiare, fresche e dolci acque»? Ora torna colá; e solo chi dopo lunga lontananza rivede il suo paese, e nel tumulto confuso di mille memorie felici trova vòta la casa paterna, può sentire, appena giunto, l’indefinibile tenerezza delle prime impressioni, si che l’aria stessa par che abbia qualche cosa di proprio e di caro, l’aria del paese; e poi come tutt’a un tratto si faccia scuro intorno, avanti a quel nido vóto!

                                         Sento l’aura mia antica, e 1 dolci colli
Veggio apparir, onde ’l bel lume nacque
Che tenne gli occhi miei, mentre al Ciel piacque,
Bramosi e lieti, or li tien tristi e molli.
     O caduche speranze! o pensier folli!
Vedove l’erbe, e torbide son Tacque;
E vóto e freddo ’l nido in ch’ella giacque...
     

Ripassa per quella valle, per quei sentieri, per quel colle, testimoni superstiti di tante gioje, e tutto è sparito: quella valle suona di lamenti, ed il colle giá tanto desiderato, onde vedea il suo bene, or gli rincresce, ché vede di colá avviarsi l’anima al cielo:

                                         Valle, che de’ lamenti miei se’ piena,
Fiume che spesso del mio pianger cresci.
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .
Colle che mi piacesti, or mi rincresci,
Ov’ancor per usanza Amor mi mena;
     Ben riconosco in voi l’usate forme,
Non, lasso, in me, che da sf lieta vita
Son fatto albergo d’infinita doglia.
     
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                                         Quinci vedea ’l mio bene; e per quest’orme
Torno a veder ond’al ciel nuda è gita.
Lasciando in terra la sua bella spoglia.
     

Quantunque la natura immutabilmente serena sia qui in contrasto con l’amarezza della sventura, pur senti che quest’amarezza è giá vinta, poiché il poeta ha la forza di guardarsi intorno, contemplar la natura, paragonarsi con quella, volgerle la parola. Sa che la vista di quella valle, di quel colle, gli è dolorosa; e pure ci ritorna, perché vuol piangere. Ne nasce una specie di consonanza funebre tra il poeta e la natura, divenuta come il coro che risponda a’ suoi gemiti, e quasi la sua amica e la sua confidente, si che non sa vivere, non sa dolersi senza di lei. Non gli basta dire: — Io sono infelice — ; ma vuole che gli altri lo sentano, ma vuole la natura a testimonio e partecipe (son. XXXV):

                                         Fior, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi,
Valli chiuse, alti colli e piagge apriche,
Porto dell’amorose mie fatiche.
Delle fortune mie tante e si gravi;
     O vaghi abitator de’ verdi boschi,
O ninfe, e voi che ’l fresco erboso fondo
Del liquido cristallo alberga e pasce,
     I di miei fur si chiari, or son si foschi;
Come morte, che ’l fa. Cosi nel mondo
Sua sventura ha ciascun dal di che nasce.
     
Il dolore sfogato va a finire nella rassegnazione, e l’ultimo motto è un: ad hoc nati sumus. Non v’attendete però da questa tenera natura ciò che la rassegnazione ha di logico o d’eroico; non c’è propriamente né ribellione, né rassegnazione, ma un lamento inesausto che rasenta i due estremi, un bisogno d’espansione che rende loquace il dolore e lo allevia (son. VIII):
                                    Cerco, parlando, d’allentar mia pena.      
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Materia principale di questo lamento è la caducitá e la varietá delle cose umane, che torna sempre innanzi al poeta. Non giá che si alzi alla civile concezione d’un dolore universale, nel quale trasfiguri e plachi il proprio dolore. La poesia è sempre un lamento elegiaco, il cui centro è la sua persona e la sua sventura, ma intorno a cui comparisce in forma di sentenze, a guisa di coro lacrimoso, il genere umano. Sentenze badiali, ammesse da tutti, ma di cui si acquista il sentimento vivo ne’ momenti di passione o di sventura. Il pensiero, per esempio, della mortalitá di tutte le creature non ci agita, non ci atterrisce, perché rimane una pura conoscenza, senza immediato rapporto col nostro essere; ma se la morte percuote uno de’ nostri cari, sentiamo la morte, e ce ne maravigliamo, come se non lo avessimo mai saputo. Le idee piú comuni sono qui vestite di maraviglia e di commozione:

                                    Veramente siam noi polvere ed ombra;
Veramente la voglia è cieca e ’ngorda;
Veramente fallace è la speranza.
     
Quel «veramente», ripetuto con la terribile solennitá del «per me si va», vuol dire: — Ora so, ora che ne ho fatto la prova — . Di tal sorta sono ancora i due celebri versi:
                                         La vita fugge e non s’arresta un’ora;
E la morte vien dietro a gran giornate.
     
L’immagine della vita in fuga con la morte dietro a gran corsa mostra con quanta vivacitá s’è presentato questo luogo comune, quasi fosse la prima impressione dell’anima, stupefatta di non averci pensato prima. Se il poeta guarda gli altri, gli è per guardare ivi sé stesso, per trovarci similitudini col proprio stato e per conchiuder sempre: — Il piú infelice son io — ; come nel sonetto:
                                    Vago augelletto, che cantando vai.      
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Quelle similitudini gli fanno lampeggiar dinanzi delle veritá generali, ch’egli esprime non come filosofo, ma col gusto amaro di chi le assapora. Di che è rimasto esempio immortale il sonetto del rosignuolo. Dolce è il canto del rosignuolo: è un luogo comune, che per le anime malinconiche ha tutta la poesia delle prime e delle nuove impressioni. Il Petrarca sente nel dolore del rosignuolo cantare il suo proprio, se ne fa un amico, presta avido l’orecchio a quel lamento pieno di dolcezza, s’intenerisce e si lamenta anche lui. La morte di Laura, la caducitá di tutti i piaceri e beni terrestri sono fatti fatali; e pure non ci avea pensato, non gli era venuto mai in mente che Laura dovesse morire. Ora, dopo il fatto esprime questa legge inevitabile della creazione con l’angoscia di chi n’è vittima. Semplicitá, affetto, naturalezza attestano qui una forza geniale, generata dal dolore, ma da un dolore soave cullato dalle grazie:

                                         Quel rosignuol che si soave piagne
Forse suoi nati o sua fida consorte,
Di dolcezza empie il cielo e le campagne
Con tante note si soavi e scorte;
     E tutta notte par che m’accoropagne
E mi raramente la mia dura sorte:
Ch’altri che me non ho di cui mi lagne;
Che ’n Dee non credev’io regnasse Morte.
     O che lieve è ingannar chi s’assecura!
Que’ duo bei lumi, assai piú che ’1 Sol chiari,
Chi pensò mai poter far terra oscura?
     Or conosch’io che mia fera ventura
Vuol che vivendo e lagrimando impari
Come nulla quaggiú diletta e dura.
     
Un poeta che si consola col rosignuolo e col vago augelletto, che fa del suo dolore segretarii i monti e le valli, e grida ben alto ch’egli è l’infelicissimo dei viventi, appunto per questo è giá meno infelice. Ben presto quel sepolcro si schiude, e n’esce Laura trasfigurata.

Laura non è morta; anzi ora comincia a vivere. Questa [p. 190 modifica]donna avvolta in vita di tanto mistero, appena lirica, punto drammatica, bell’apparenza con un’anima in gran parte convenzionale e filosofica, questa donna muta e fredda, che non sai se ami, se si compiaccia o si dispiaccia; morendo nasce alla vera vita, voglio dire, si scioglie da tutte le condizioni reali che la rendevano prosaica, e diviene creatura libera, la creatura dell’immaginazione.

Mentr’ella fu in vita, l’immaginazione del poeta si dibatteva in mezzo a quelle condizioni, e pur talora in certi momenti d’obblio potè dire come Pigmalione: — La statua diviene una donna, sento il calore e il tremito della carne sotto ai miei baci — . Ma il reale sopravveniva, come il riso di Satana nel paradiso terrestre, e disfaceva il fantasma: l’infelice avea sognato. Ora il reale è passato e si ricorda come un sogno; tutto ciò che è stato e che si chiama la vita, è innanzi a’ cangiati occhi del vecchio poeta un breve sogno, la vera morte; e ciò che si chiama la morte, ciò è la vita. Ne nasce un contenuto straordinariamente maraviglioso, un mondo che è proprio il rovescio del mondo volgare. Vivere è sognare e morire, morire è lo svegliarsi ed il vivere; il supremo chiuder degli occhi è un aprirli:

                                                             e nell’eterno lume,
Quando mostrai di chiuder, gli occhi apersi.
     

Con questa immagine viva e inaspettata ci balza innanzi tutto questo nuovo mondo: chiusa stupenda di un magnifico sonetto, nella quale il poeta ha conseguito, ciò che rado gl’incontra, l’effetto del sublime. Piú s’avanza negli anni e nel disinganno, e piú quei primi impeti di dolore si raffrenano, e piú s’accosta a questo sublime cristiano. Il passato quasi stanco ha men forza di turbarlo, e comparisce in lontananza. Altri sentimenti, altre idee invadono l’anima, nel primo istante attonita del cangiamento, insino a che s’avvezza a guardare con altr’occhio le cose. Sarebbe pedanteria a voler cercare il momento di questo passaggio. I nostri sentimenti entrano gli uni negli altri con tal rapiditá e inconsapevolezza, che le [p. 191 modifica]transizioni sfuggono, e quando penetra la coscienza del cangiamento, non si sa il come e il quando: e qui, anche in un breve componimento, anche in un sonetto, trovi tale fusione di sentimenti, che ti rivela un’espressione spontanea dell’anima, anzi che un’artificiosa costruzione letteraria. La prima impressione di questo mondo nuovo, dico nuovo non innanzi alla ragione, a cui la religione lo avea reso famigliare, ma innanzi al cuore, la prima impressione strappa dal poeta accenti di maraviglia pieni di veritá! Il passato che lo avea per tanto tempo assediato, cagione di gioje e di affanni, gli fa l’effetto di un sogno; ed — Or comincio a svegliarmi! — grida il poeta (son. XXI), maravigliato e contento insieme della nuov’anima che si forma in lui (son. XXII):

                                         Come va ’l mondo! or mi diletta e piace
Quel che piú mi dispiacque; or veggio e sento
Che per aver salute ebbi tormento,
E breve guerra per eterna pace.
     
Forse la vita non è che quale s’offre all’occhio pensoso e disincantato del vecchio; certo, questa maniera di considerarla apre la via a nuova poesia. Attutite le passioni, errante fra le ombre del passato, con l’occhio volto al cielo, il poeta può dire (son. LV):
                                         Dormito hai, bella donna, un breve sonno:
Or se’ svegliata tra gli spirti eletti,
Ove nel suo Fattor l’alma s’interna
     
Il cuore, morto con Laura, risuscita insieme con lei in questo paradiso dell’amore.
  1. Alcuni di questi sonetti si leggono alla fine del Canzoniere in vita di Laura; ma sembra che siano stati composti dopo la morte e poi messi lá. come presentimenti. Tali sono i sonetti CXCI e CXCII, citati giú.