Saggio critico sul Petrarca/X. Trasfigurazione di Laura

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X. Trasfigurazione di Laura

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IX. Morte di Laura XI. Dissoluzione di Laura
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X

TRASFIGURAZIONE DI LAURA


Questo paradiso spunta come un raggio di sole attraverso una nuvola, involuto nel passato, ma giá trasparente, spunta tra lacrime e sospiri. Le prime gioje sono tanto piú poetiche, quanto meno gustate e meno sapute; e giá riempiono l’anima della loro dolcezza, ch’ella si lamenta e si dispera ancora. È questa una delle transizioni piú delicate, nella storia del sentimento, offrendoti insieme un passato persistente con l’avvenire che traluce; il poeta è mutato e crede d’esser lo stesso. Vedete il sonetto LIX. L’occhio sta vólto a quella tomba; l’odio della vita, l’impazienza di uscirne, è espresso col vigore della disperazione; ma qui giá cominciano quei dialoghi con Laura, che lo consoleranno, e giá la morte si presenta come una seconda vita, come la sua unione eterna con Laura. E però in mezzo a grida strazianti, mentre il poeta invoca la morte, penetra giá un tono piú pacato, cosí insensibilmente, che dapprima lo chiameresti non altro che un dolore stanco:

                                         Ite, rime dolenti, al duro sasso
Che ’l mio caro tesoro in terra asconde;
Ivi chiamate chi dal ciel risponde,
Benché ’l mortai sia in loco oscuro e basso.
     Ditele ch’i’ son giá di viver lasso,
Del navigar per queste orribil onde;
Ma ricogliendo le sue sparte fronde.
Dietro le vo pur cosí passo passo,
     
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                                         Sol di lei ragionando viva e morta.
Anzi pur viva, ed or fatta immortale,
Acciocché il mondo la conosca ed ame.
     Piacciale al mio passar esser accorta,
Ch’è presso ornai; siami a l’incontro, e quale
Ella è nel Cielo, a sé mi tiri e chiame.
     
Questo sonetto comincia con gran foga, e, rallentandosi fra via, finisce in un sospiro. Quel «duro sasso», quel «loco oscuro e basso», quel «di viver lasso», quelle «orribil onde», segnano sentimenti divenuti familiari, attraversati da altri affatto nuovi. Il bel corpo tanto lacrimato è chiamato, con cristiano disprezzo, il «mortale». Una tomba non può essere guardata senza lacrime; una tomba vuol dire: — Ella è morta! — . Ma questa tomba, che nasconde il suo caro tesoro, gli dice: — Ella è in cielo! ella ti sente! — . Certo, ella è viva in cielo, in terra è morta: distinzione che giustifica le lagrime del cristiano, condannato a rimanere in terra senza di lei. Ma il poeta comincia a staccarsi dalla terra ed abitare in anima nel cielo, a volger colá tutto sé, come a sua vicina patria, e può ora, dopo d’aver, secondo la distinzione volgare, parlato d’una Laura viva e d’una Laura morta, riprendersi con una sublime correzione, e soggiugnere:
                                    Anzi pur viva, ed or fatta immortale.      
Le due Laure cominciano a confondersi in una sola; la terra comincia a sparire nel cielo. Dico comincia, perché il poeta non si può staccare dalla terra, non da quel bel corpo, senza sforzo, senza mandar fuori gli ultimi lamenti. Laura gli apparisce e lo consola; fugace consolazione, a cui succede con tanto piú di violenza l’invitta rimembranza della perdita; appunto perché può cacciarlo via un momento, risorge con piú possanza il sentimento della sua solitudine. Il passato vicino a morire morde con rabbia:
                                         Discolorato hai, Morte, il piú bel volto,
Che mai si vide, e i piú begli occhi spenti;
Spirto piú acceso di virtuti ardenti,
Del piú leggiadro e piú bel nodo hai sciolto.
     
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                                         In un momento ogni mio ben m’hai tolto;
Posto hai silenzio a’ piú soavi accenti
Che mai s’udiro; e me pien di lamenti.
Quant’io veggio m’è noia e quant’io ascolto.
     Ben torna a consolar tanto dolore
Madonna, ove pietá la riconduce:
Né trovo in questa vita altro soccorso.
     E se com’ella parla e come luce
Ridir potessi, accenderei d’amore.
Non dirò d’uom, un cor di tigre o d’orso.
     
Cosa dunque è nato, che qui con tanta amarezza ricominciano i lamenti, come se pur ora fosse morta? «Ben torna a consolar». Quel «bene» indica una soddisfazione incompiuta: al «bene» la mente fa seguir subito un «ma». E l’attende il lettore, s’attende questo «ma», che riconduca il passato, quando con uno di quei bruschi movimenti d’animo cosí notabili nel Petrarca, e pieni di tanta poesia, il filo logico delle idee è rotto, dimenticato nella contemplazione di Laura: e la vede e la sente, ed obblia il suo stato. E pure agl’insoliti lamenti v’accorgete che il cuore non è guarito e che il passato regna ancora come tiranno. Il poeta sa che piú ci pensa, e piú la ferita s’inacerbisce, e pure ci pensa; sa che è inutile pensarci, che i morti non ritornano piú dalle loro tombe; e pure ci pensa. Sa che non dee cercarla in terra e che in terra tutto è vanitá e dolore; e pure i suoi occhi rimangono in terra, e quell’immagine non vuol lasciarlo. Nascono nuovi sentimenti: una tenerezza di sé stesso, un bisogno d’essere palpato ed accarezzato, e un palparsi e accarezzarsi da sé, un dirsi in aria di compatimento: — Oh sventurato! — , un esortarsi, un incoraggiarsi, accompagnato da una voce interiore:— È inutile!— , un dispetto che ne sente e che lo porta a rivoltarsi contro quell’immagine, a bestemmiarla come il suo carnefice: — Vattene! — . Piú grida e si dibatte, piú lo sentite avvinto. Un solo sonetto contiene in sé tutta questa ricchezza di contenuto e di sentimento: mai il poeta non è stato cosí vero, cosí semplice ed eloquente. Il cielo, a cui vorrebbe alzarsi, è ancora un’astrazione;il passato, da cui vorrebbe sciogliersi, è la vita, la realtá. Cerca il cielo e non fa che parlare del passato; lo maledice, e ne parla; lo ingiuria, e lo dipinge; è morto, e mai non se lo ha sentito cosí implacabile intorno: perché lo ama, perché gli piace d’esser tormentato, e mentre la bocca dice: — Vattene!— , il cuore soggiunge:— Torna!— .Sentite l’amore nella stessa sua collera, collera di amante:
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                                         Che fai? che pensi? che pur dietro guardi,
Nel tempo che tornar non potè ornai,
Anima sconsolata? che pur vai
Giugnendo legne al foco cve tu ardi?
     Le soavi parole e i dolci sguardi,
Ch’ad un ad un descritti e dipint’hai,
Son levati da terra; ed è (ben sai)
Qui ricercargli intempestivo e tardi.
     Deh non rinnovellar quel che n’ancide;
Non seguir piú pensier vago fallace.
Ma saldo e certo, ch’a buon fin ne guide.
     Cerchiamo ’l ciel, se qui nulla ne piace;
Che mal per noi quella beltá si vide,
Se viva e morta ne devea tor pace.
     
Questi ultimi versi danno luce ad un verso piú celebre che inteso:
                                    Quella ch’io cerco e non ritrovo in terra.      
Finora ha cercato Laura in terra: — Che fai, misero! invano guardi nel tempo che tornar non puote ornai; quella Laura è morta, non può piú tornare, non la troverai piú: volgiti al cielo. — Se non che per una di quelle esagerazioni che sono proprie della passione, qui il cielo si offre in violenta reazione contro il passato, ed è non solo l’obblio, ma la maledizione di quella beltá che gli toghe la pace, un voler sradicarsela dal cuore, lei e tutto ciò che è terreno, con pensare a Dio e finire come un romito. Questa situazione è anche essa poetica, quando il cuore sia ancor vivo, quando sia una passione religiosa che cacci l’amorosa; ma quando indica un cuore esausto, il raffreddamento delle passioni e l’impero della tranquilla ragione, è la fine della poesia. Il Petrarca giugnerá a questo punto: verrá tempo che Laura sparirá, e dará luogo alla Vergine. Ma ora è troppo presto, il suo cuore ancora caldo è pieno di Laura; la maledice e, appunto perché la maledice, sentite che gli sta fitta nel cuore come uno strale. Se guarda nel cielo, guarda per cercarvi Laura.
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Questo cielo del Petrarca è per ora non l’annullamento, ma la santificazione della passione, la trasfigurazione di Laura. Finora gli si è presentata come morta; lamentata, cercata in vano tra pianti e gemiti. Ora ei la trova in cielo: — Ella vive, ella parla, ella mi ama — . Non è piú solo; e quando può vederla, intrattenersi con lei, si sente felice. Talora l’immaginazione non ha la forza di figurarsela; ed al poeta tutto s’annebbia, come se fosse morta un’altra volta, come se un’altra volta l’universo fosse morto con lei (son. LXXXVII):

                                         Nel tuo partir partí del mondo Amore
E Cortesia, e ’l Sol cadde dal cielo,
E dolce incominciò farsi la Morte.
     
Allora ripiglia i lamenti con nuova lena, e la chiama con un ardore di preghiera, che nessuno mai cosí calda ed affettuosa ha volto a Dio (son. XXXVII; son. LXVIII).
                                         Anima bella, da quel nodo sciolta
Che piú bel mai non seppe ordir Natura,
Pon dal ciel mente alla mia vita oscura.
Da si lieti pensieri a pianger volta...
     Mira ’l gran sasso donde Sorga nasce,
E vedravi un che sol tra l’erbe e l’acque
Di tua memoria e di dolor si pasce.

     Tu che dentro mi vedi, e ’l mio mal senti,
E sola puoi finir tanto dolore,
Con la tua ombra acqueta i miei lamenti.
     
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E quale gioja, quando l’invocata gli raggia innanzi! È dessa! quell’andare, quella voce, quel vólto, quei panni (son. XIV):
                                         Quanto gradisco ch’e’ miei tristi giorni
A rallegrar di tua vista consenti!
Cosi incomincio a ritrovar presenti
Le tue bellezze a’ suoi usati soggiorni.
     La ’ve cantando andai di te molt’anni,
Or, come vedi, vo di te piangendo;
Di te piangendo no, ma de’ miei danni.
     Sol un riposo trovo in molti affanni;
Che, quando torni, ti conosco e ’ntendo
All’andar, alla voce, al volto, a’ panni.
     
La bellezza di questi versi è una certa voce di pianto, con la quale il poeta esprime la sua gioja, come chi, nella sventura accarezzato, ancora tutto lacrimoso sorride. Si vede all’imbarazzo ed improprietá dell’espressione che il linguaggio della gioja gli è ancor nuovo, e fra il gioire guaisce con tenerezza e semplicitá. Il primo ternario vale tutto il sonetto.

Questi ultimi tempi del Petrarca sono commoventi. E un ritorno di gioventú, ma non si che non t’accorga, a un non so che di flebile e di tenero nel tòno, del corso degli anni. Il suo dolore ha purificata l’anima, l’ha nettata delle scorie del passato, come direbbe Dante, e l’ha fatta capace di nuove gioje. Tutto si rabbella. La vita ritorna nell’anima, e ritorna nel tutto. Laura rinasce: intorno a lei la natura racquista il moto e il riso.

Certo, il poeta non pensa mai a Laura sotterra, che subito non la metta in cielo; ma gli occhi velati dal dolore non possono alzarsi colá, non distaccarsi dal cadavere (son. IX):

                                                             è sotterra; anzi è nel cielo.
Onde piú che mai chiara al cor traluce;
     Agli occhi no, che un doloroso velo
Contende lor la desiata luce,
E me fa si per tempo cangiar pelo.
     
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La mente dice: — È in cielo— ; e l’occhio guarda in terra. Ecco vere finezze, non concetti astratti costretti a combaciare, cercati col fuscellino quando il cuore è vuoto, ma venute fuori da ciò che ci è di piú delicato nella storia del cuore umano. Perché ora quegli occhi guardano in su? perché in quell’uomo, che cangia pelo si per tempo, fiorisce una seconda primavera. Questo mi ricorda il venerando Schlosser, il quale nel suo libro su Dante sotto la modesta spoglia del cementatore mostra una emozione giovanile, gli occhi fisi nel paradiso, deliziantesi in quelle immagini. Il Petrarca si rasserena; le inutili lamentazioni vanno via; la sua immaginazione si mette in moto, e crea trastullandosi amabili fantasmi; un nuovo amore s’impossessa dell’anima, senza le distrazioni e le sottigliezze del primo; una melodia uguale, d’una gioja mescolata di tenerezza e pura d’ogni dissonanza, si effonde in versi facili e semplici. Quell’anima debole, rimasa vergine e calda, dove non è mai entrata altra immagine dominatrice che Laura, sedate le passioni, si raccoglie tutta intorno a lei, e ne fa il suo paradiso. Che fresche impressioni, quando Laura s’affaccia all’anima! Diresti che è un giovine innamorato, la prima volta che, innalzato dal riso deH’amata, sta per chinar le ginocchia e adorarla (son. XVI):
                                         Come donna in suo albergo, altera vene,
Scacciando dell’oscuro e grave core
Con la fronte serena i pensier tristi.
     
E, come un innamorato, tutto dietro alle peste delle care piante, che che faccia o dove che vada, pensa a Laura, cerca Laura. Eccolo nel silenzio della notte, seduto sul letto, tremante, languente, pallido, invocare l’amata: ella viene! (son. LXX):
                                                             al letto in ch’io languisco,
Vien tal ch’appena a rimirar l’ardisco,
E pietosa s’asside in su la sponda.
     
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Eccolo per i campi, e pur lá, dove l’avea tante volte veduta, eccolo in fuga, incalzato alle spalle da lui stesso, gittarsi fra le ombre de’ boschi cercando Laura: ella viene! Ora la vede assisa sulla riva del fiume, come una ninfa; ora la vede camminare sui fiori (son. XIII):
                                         Quante fiate al mio dolce ricetto,
Fuggendo altrui, e, s’esser può, me stesso,
Vo con gli occhi bagnando l’erba e ’l petto,
Rompendo co’ sospir l’aere da presso!
     Quante fiate sol, pien di sospetto,
Per luoghi ombrosi e foschi mi son messo,
Cercando col pensier l’alto diletto,
Che Morte ha tolto, ond’io la chiamo spesso!
     Ora in forma di ninfa o d’altra diva,
Che dal piú chiaro fondo di Sorga esca,
E pongasi a seder in su la riva;
     Or l’ho veduta su per l’erba fresca
Calcar i fior com’una donna viva.
Mostrando in vista che di me le ’ncresca.
     
Queste liete apparizioni sono raccontate con uu candore infantile, come farebbe un ingenuo romito, e producono una perfetta illusione. Talora con la sua mano di ghiaccio sopravviene il disinganno (son. LXII):
                                         Si nei mio primo occorso onesta e bella
Veggiola in sé raccolta e sf romita,
Ch’i’ grido: eli’ è ben dessa; ancora è in vita:
E ’n don le cheggio sua dolce favella.
     Talor risponde e talor non fa motto.
I’, com’uom ch’erra e poi piú dritto estima,
Dico alla mente mia: tu se’ ’ngannata:
     Sai che ’n mille trecento quarantotto,
Il di sesto d’aprile, in l’ora prima.
Del corpo uscio quell’anima beata.
     

Tutti gli artificii e gli splendori dello stile non hanno niente di comparabile a questa semplicitá. Il Muratori ammira «la [p. 200 modifica]notizia cronologica della morte di Laura, che il poeta volea lasciare a’ posteri, e l’ha felicemente chiusa in versi». Qui c’è ben altro che una notizia cronologica. Quella precisione di date ti serra il cuore e mette in fuga ogni illusione. Mai le cifre non sono state cosí patetiche nella loro inesorabile freddezza. È questa la sola volta, che la voce discordante dei disinganno turba e disperde la giojosa danza de’ fantasmi; laddove in vita di Laura quella voce implacabile risuona senza posa, e strazia. Ed è naturale: perché allora, se il poeta può, come fanno gli amanti, figurarsi Laura secondo il desiderio, sente in fondo che non è cosí; dove ora, se non può farsi illusione e sa che la è un’ombra, sa pure che quell’ombra della sua immaginazione è una realtá. Nelle sue aspirazioni verso di lei entrano le naturali aspirazioni dell’anima verso il paradiso, la stanchezza della terra, la calma delle passioni; si che l’immaginazione, in luogo di cadere e morire nel disinganno, come avviene di fantasmi e desiderii terreni, sogna lietamente ciò che innanzi alla coscienza è il vero, e con l’impazienza di un’anima sitibonda ne pregusta la dolcezza, ne abbozza l’immagine.

Vi sono delle circostanze poetiche che ajutano l’anima a salire in fantasia e le danno un occhio, che vede con la stessa chiarezza dell’occhio corporeo. Tali sono quelle che preparano l’apparizione di Laura, la solitudine del letto nel silenzio della notte, la vista del luogo dove solea passare, campi ombrosi e foschi: men l’occhio vede, e piú vede l’immaginazione. Uno de’ momenti piú poetici per queste visioni è il primo apparir del giorno, quando in quel misto di luce ed ombra l’anima è piú affettuosa, e piú disposta a sognare: «Lá verso l’aurora», fra l’incerta luce apparisce l’amata; e quali dolci colloquii! C’è. qui un capitolo di romanzo, serrato in pochi versi. Soffrire per l’amata, e dirsi: — Ella noi sa! — , e amarla a distanza, timido, tacito! Ma tutto è obbliato, il df che, la mano nella mano, puoi dirle quanto l’hai amata, e quanto hai penato per lei. Laura è ora la sua fidanzata; lo attende in cielo; il felice amante le parla con confidenza, le narra le sue pene, ha la gioja di veder le sue lacrime (son. LXXI): [p. 201 modifica]

                                         O che dolci accoglienze e caste e pie!
E come intentamente ascolta e nota
La lunga istoria delle pene mie!
     Poi che ’l di chiaro par che la percota,
Tornasi al ciel, che sa tutte le vie,
Umida gli occhi e l’una e l’altra gota.
     
Un canto lamentevole d’uccello, un mover di fronda, un mormorar d’onda operano sull’immaginazione malinconica non meno che il silenzio e le ombre. Quei placidi moti, quei flebili susurri, che sono come le mezze tinte della natura, ti tolgono per forza dalla chiarezza prosaica dell’esistenza, e ti attirano nel regno de’ misteri, al di sopra del finito. E allora che comparisce Laura (son. XI):
                                         Se lamentar augelli, o verdi fronde
Mover soavemente a l’aura estiva,
O roco mormorar di lucid’onde
S’oda d’una fiorita e fresca riva.
     Lá ’v’io seggia d’amor pensoso, e scriva;
Lei che ’l Ciel ne mostrò, terra n’asconde,
Veggio ed odo ed intendo, ch’ancor viva
Di si lontano a’ sospir miei risponde.
     
Queste circostanze, che precedono la visione, non sono descritte; la figura fa obliare il paesaggio, schizzato appena. Eppure, meno il poeta descrive, e piú fissa gli oggetti. I quali, quando sono materia indifferente, che il poeta contempli con l’occhialino, di rado rimangono nella memoria. Qui si congiungono immediatamente con l’anima, prima che abbiano tempo di spiegarsi nelle loro parti, appariscono da un punto solo, da quel punto che ha operato nell’immaginazione, appariscono e passano, ma lasciando di sé un lungo suono nell’anima. Né c’è cosí bella descrizione presso il Petrarca, la quale ne’ suoi ricchi colori non sembri povera allato a questi mormorii e lamenti, a queste note patetiche della natura, indicate appena, dove par che Laura stia nascosta ed alle prime armonie ne balzi fuori. È reale tutto ciò che è legato col nostro essere; il resto, esista o no, è indifferente. E perché qui il poeta non si ha messo la natura innanzi come un modello immobile da dipingere, perché ne ha sentito immediatamente l’impressione, ha potuto con solo qualche epiteto e col solo ajuto della melodia fissarla in quattro versi immortali, dove presentite giá la grazia di Poliziano e la malinconia del Tasso. Il medesimo è di Laura. Dicono che sia poco reale. Divenuti grossolani, vogliamo palpare per sentire l’esistenza. I capelli biondi, l’incesso divino, tutt’i varii particolari rappresentati con si belle frasi, con concetti tanto ingegnosi, sono scomparsi. Eppure ora la conoscete meglio. Prima era una donna rappresentata come dea, chiusa nella sua serenitá, inaccessibile al cuore, tacita alle nostre dimande; ora che è Dea, ora è divenuta una donna. Gli è che il poeta prima la guarda piú come poeta che come uomo, e talora ne fa un tipo di convenzione, e, mentre descrive il corpo, obblia l’anima. Ora quelle forme sono evaporate; cosa è rimasto di Laura?
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                                                             ancor viva
Di si lontano a’ sospir miei risponde.
     
Ecco tutto. Quante poesie sugli occhi! quanti concetti sulle gote! Ora si contenta di dire:
                                    Umida gli occhi e l’una e l’altra gota.      

E quella mano descritta giá con tanta galanteria, la mano e le dita tutte e cinque, cosa è divenuta? Ora dice: — M’asciuga gli occhi con la mano — . Eppure questa Laura cosí nuda, ogni volta che comparisce, ti tocca il core, ti lascia un’impressione, perché ha un’anima, perché non è solo una santa, ma una donna. L’equivoco è finito: Laura vive della stessa vita del poeta, entra a parte di tutte le sue emozioni, lo consola, gli asciuga gli occhi, lo ammonisce, gli apre il core, diviene la sua confidente, gli parla e lo ascolta, in somma, acquista una storia. E non è giá una storia artificiale: il poeta non s’è detto: [p. 203 modifica]— Farò di Laura un tipo celeste, farò un paradiso poetico — . Non c’è qui né l’astrazione teologica e scolastica di Dante, né l’insipidezza arcadica del paradiso descritto da’ moderni. È una storia nata dalle impressioni, da’ sentimenti, dai bisogni morali d’un’anima sconsolata, disingannata, affettuosa, tenera, che si volge al cielo e non si può staccar dalla terra. Quest’uomo sogna un’altra vita, e ci mescola molto di questa vita. Nel suo volo verso l’avvenire senti la presenza del passato, il suo sorriso è accompagnato da lagrime, nel suo amor puro verso la santa entra la rimembranza d’un altro amore, e fino un certo avanzo di voluttá, come di chi serba ancor vivo il desiderio di godimenti indelibati. Con che ebbrezza egli sogna Laura alla sponda del suo letto! come si fa guardare da lei amorosamente! e si fa prender per mano!

                                         Con quella man che tanto desiai,
M’asciuga gli occhi.
     
«Che tanto desiai!» Sentite qui la trepida voluttá della carne. Onde nasce un paradiso profondamente umano, appassionato e commovente. Laura poco la vedete; ina parla, opera, gestisce, sente e pensa. Ogni volta che apparisce, si rivela una faccia della sua anima. Come santa, il suo linguaggio è nobile e semplice. Niente di quel vaporoso, che annunzia il desiderio impotente di figurare l’infigurabile. Nella mente del Petrarca non entra che solo ciò che è chiaro, dote principalissima dello spinto italiano. Laura dice:
                                    Mio ben non cape in intelletto umano...
Spirito ignudo sono, e ’n ciel mi godo:
Quel che tu cerchi, è terra giá molt’anni...
     
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Questa gioja celeste è congiunta con qualitá tutte umane, che tanto ci commuovono, massime nella donna. La sua gioja non è compiuta, perché l’amante piange. Il tenero poeta si fa consolare da lei con parole che la pietá, la tenerezza, l’amore rendono eloquenti:
                                    Non pianger piú; non m’hai tu pianto assai?      
Ditemi, dunque, che magia c’è in questo verso, cosí facile, cosí semplice, di tanto effetto sul cuore? «Non pianger piú»: eppure questo v’invita a piangere, di un pianto che fa bene, che allevia, precursore d’un sorriso. Quel fanciullo, che sta li duro e tetro innanzi alle riprensioni del padre, se la madre sopraggiunta gli accarezza la guancia, s’intenerisce, scoppia a piangere, e fra le lacrime si rabbonisce e si consola. Ciascuno è un po’ fanciullo. Se, mentre piangi, l’amata t’asciuga gli occhi, e in tono carezzevole, insinuante, ti dice: — Non piangere — ; non è vero, che le lacrime scorrono in piú abbondanza, e che senti ad un tempo stesso che sei giá guarito? (son. LXX):
                                                             al letto in ch’io languisco,
Vien tal ch’appena a rimirar l’ardisco,
E pietosa s’asside in su la sponda.
     Con quella man che tanto desiai,
M’asciuga gli occhi, e col suo dir m’apporta
Dolcezza ch’uom mortai non senti mai.
     Che vai, dice, a saver, chi si sconforta?
Non pianger piú; non m’hai tu pianto assai?
Ch’or fostú vivo com’io non son morta.
     
Quest’ultimo pensiero giunge repentinamente, e nella sua rapiditá d’espressione sorprende, ma resta nell’intelligenza, non ha tempo di colpire l’immaginazione. Fa l’effetto come di un brusco passaggio di tono, d’una dissonanza. Altrove è sviluppato in modo, che da un moto d’irresistibile tenerezza ti senti gittato come percosso da improvviso splendore nella regione del sublime (son. XI):
                                         Deh perché innanzi tempo ti consume?
Mi dice con pietate: a che pur versi
Dagli occhi tristi un doloroso fiume?
     
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                                         Di me non pianger tu: ch’e’ miei di tersi,
Morendo, eterni; e nell’eterno lume,
Quando mostrai di chiuder, gli occhi apersi.
     
La celeste letizia e la sollecitudine per l’amante è la doppia aureola di Laura. E perché il primo sentimento è sempre alcun che d’astratto e di negativo, riceve dal secondo calore e affetto. Quell’eterna pace è insipida per sé stessa, e ci piace che la sia turbata da un pensiero terreno. Laura sale al cielo; e gli angioli pieni di maraviglia (son. LXXIV):
                                         Che luce è questa, qual nova beltate?
Dicean tra lor; perch’abito si adorno
Dal mondo errante a quest’alto soggiorno
Non sali mai in tutta questa etate.
     
Con buona pace degli angioli, la loro estetica non è fatta per noi; per noi poveri mortali Laura è veramente bella, quando talora volge le spalle agli angeli e guarda se Petrarca la segue:
                                    E parte ad or ad or si volge a tergo,
Mirando s’io la seguo, e par ch’aspetti.
     
Questo desiderio dell’amante nella beatitudine, questo vóto del cuore in paradiso sará poco teologico, ma è umano; né dubito che un pittore non iscelga questo momento, come il piú poetico in tutto il sonetto. La santa «è troppo alta al peso terrestre», come dice il poeta nel sonetto LXI; la cui mediocritá dipende da questo, che l’espressione è sempre negativa, come:
                                         Niente in lei terreno era o mortale,
Siccome a cui del ciel, non d’altro, calse.
     
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In lei niente è terreno o mortale, perché in questo sonetto il poeta non ha quella disposizione affettuosa e malinconica, che è la fonte della sua ispirazione; e te ne accorgi anche alla pocasemplicitá della forma. Cosa che in questo stadio della vita gl’incontra ben raramente: scrive col cuore e si fa un paradiso ad uso del suo cuore. E se tanto s’ammira il sonetto XXXIV, saputo a mente da tutti gl’italiani, gli è che Laura non è stata mai tanto donna, che lá, nella stella dell’amore, tra’ raggi della sua gloria. Il Petrarca con l’ordinario affetto congiugne qui una forza giovanile che l’imparadisa fino all’entusiasmo. Finora notate in lui un po’ di languore; sono le ombre, i silenzii, i mormorii della terra che gli aprono il cielo; qui d’un salto spicca il volo con l’ali del pensiero. Onde nasce il magnifico effetto che vi fa l’entrata, quasi un improvviso alzar di sipario e fra vive luci l’apparire d’un mondo poetico. La maestá e la pompa del primo verso ve lo annunzia a suon di tromba:
                                         Levommi il mio pensier in parte ov’era
Quella ch’io cerco e non ritrovo in terra.
     
Questo cercare e non trovare in terra, che è stato finora materia di lamento: — Dove sei? dove sono le chiome d’oro? dove il riso angelico? — è gittato qui rapido e a guisa d’incidente, come qualche cosa di oltrepassato, rimembranza fuggevole, di cui non sente piú la pena innanzi al giojoso presente: — L’ho trovata! — . Il sentimento è qui nella cosa, non nell’espressione; il poeta gioisce, e non ha tempo di raccogliersi e di dire: — Io gioisco! — . Rimane attirato fuori di sé nello spettacolo. Ed è proprio d’animi sani e forti questo vivere nel di fuori, godere nella vista o nell’azione, e non interrompersi continuamente a gittare un’occhiatina nell’anima, e tastarle il polso:— Stai bene? sei contenta? cosa senti? — . Il che spesso avviene al Petrarca e a tutti coloro che soffrono, che, scontenti e fuori della vita, si ripiegano tristamente in sé. Qui è in un obblio compiuto della sua persona, tutto nelle cose, di cui ciascuna è un grido di gioja:
                                         Ivi, fra lor che ’l terzo cerchio serra,
La rividi piú bella e meno altera.
Per man mi prese e disse...
     
[p. 207 modifica]— La rividi, dopo d’averla cercata e non trovata mai: la rividi! — . Questo solo si trae appresso una folla d’impressioni. «Piú bella» riceve meno splendore dal cielo che grazia e leggiadria da quel «meno altera». «Piú bella» ti dá le fattezze, «meno altera» ti dá la fisonomia; e l’uno e l’altro sono le prime impressioni non ancora analizzate di un occhio terreno; è la nuova Laura, quale apparisce al Petrarca memore dell’antica. Il poeta non si arresta a descrivere; lo spettacolo l’incalza: «Per man mi prese». Altrove dice:
                                         Con quella man che tanto desiai.      
Ora par che non senta il tocco di quella mano; ma aspettate quando riverrá a sé. Laura parla. Non fa dimostrazione di sentimento, il suo dire è tutto cose; ma con qual melodia accompagnate, da quali particolari animate! Non le basta dire: — Ancor tu sarai «in questa spera» — ; ma ci aggiunge un «meco», particolare d’un valore infinito: che cosa è il paradiso senza Laura? Ed ella con che grazia casta gli fa sapere il desiderio che le è rimasto di lui! «Se ’l desir non erra», è una di quelle frasi tanto poetiche, che al disotto del loro significato logico tengono inviluppato un sentimento. Decomponendola, vuol dire: — Io desidero che tu venga, e, «se il desir non erra», verrai — . Ma quell’«io desidero che tu venga», ci sta come velato castamente in un altro pensiero: s’intravede, non si vede; è una testimonianza d’amore, espressa piú con un sospiro che con la parola. Gli dá notizia di sé, non come santa ma come amata ed amante. La santa non direbbe: — Io ti fei guerra — ; o aggiungerebbe almeno: — Per tua salute — . Ma non è il tempo di sermoneggiare; e la pietosa vede con l’occhio dell’amante, giudica la sua azione secondo le impressioni di quello, e con quel «tanta guerra» ha l’aria di ricordargli grandi dolori e raddolcirli col suo compatimento, di dirgli: — Quanto hai sofferto per me! — . Parimente la santa si rallegrerebbe di esser morta innanzi tempo; ma qui è la donna che lamenta la sua fine prematura, è l’amata che si sente allontanar dall’amante: onde quel non so che di tenero e di flebile, che suona nella rimembranza di un passato doloroso, rimaso vivo in paradiso:
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                                    I’ son colei che ti die’ tanta guerra,
E compie’ mia giornata innanzi sera.
     
Quante memorie si aggruppano intorno a quel «tanta»; e che immagine malinconica è quella giornata compiuta innanzi sera! Bentosto la santa si nasconde ne’ suoi rai come in un santuario, inviolabile all’occhio mortale; si sente distinta dall’uomo, sopra l’umanitá: — Voi, uomini, non potete capire la mia beatitudine — :
                                    Mio ben non cape in intelletto umano.      
Ma in quel santuario l’umanitá la raggiunge, come cosa sua; la donna si rivela immediatamente. In grembo all’eterna beatitudine si sente sola, perché l’amante non è seco; e non sol questo. Con uno di quei sentimenti, che costituiscono il piú delicato ed il piú intimo della natura femminile, la santa desidera anche il bel corpo, perché bello e perché la rendea cara all’amante; e dall’alto del paradiso volge uno sguardo laggiú, dov’è rimaso:
                                    Te solo aspetto, e, quel che tanto amasti,
E laggiuso è rimaso, il mio bel velo.
     
Non dubito di dire che queste poche parole di Laura la fissano piú nell’immaginazione, che tutte le descrizioni fattene dal poeta. Il quale, rimaso immobile, sospesi tutt’i sensi e direi quasi ogni apparenza di vita nel suo rapimento, come la voce tace, e non sente piú quella mano, prorompendo in un gemito, s’accorge che si trova in terra:
                                         Deh perché tacque ed allargò la mano?
Ch’ai suon de’ detti si pietosi e casti
Poco mancò ch’io non rimasi in cielo.
     
[p. 209 modifica]Eppure la forma di questo sentimento esprime meno il dolore del disinganno, che uno sforzo verso la visione, un ultimo sguardo verso il cielo, come chi, desto da un bel sogno e caldo ancora di quelle immagini, chiude gli occhi per riafferrarle.

Tale è questa Laura eternamente giovine, a cui il poeta ha drizzato un monumento piú durevole del marmo, profetandole l’immortalitá con questi celebri tre versi (son. LV):

                                         Se le mie rime alcuna cosa ponno,
Consecrata fra i nobili intelletti,
Fia del tuo nome qui memoria eterna.