Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo X

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Capitolo X. Latini e Rutuli

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Capitolo IX Capitolo XI


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CAPO X.


Latini e Rutuli.



I monumenti più certi dell’antichità sono i fisici. Or quivi intorno al basso paese, che di poi fu detto Lazio, appaiono più che altrove segni evidenti di notabili fenomeni a’ quali andò soggetto il suolo di Roma nei tempi più vetusti. Tre differenti formazioni si riconoscono in fatti sì nell’interno, come nelle vicinanze dei sette colli: cioè sostanze vulcaniche in gran copia: sedimenti d’acque dolci: e residui dell’antico mare bagnante il piè de’ monti1. Dai colli albani e tuscolani hanno derivato le lave, che in tanta abbondanza si rinvengono a Capo di bove, dov’è il sepolcro di Cecilia Metella, ed in moltissimi altri luoghi circostanti: nè la quantità immensa delle materie vulcaniche d’ogni sorta ammassate per intorno i due laghi di Castel Gandolfo e di Nemi, lascia tampoco dubitare, che ivi presso non esistessero i crateri ardenti, dalle cui bocche uscirono sì fatti minerali, e correnti di lave. Queste dunque, che si ritrovano da per tutto molto a fondo, han formato la base della campagna di Roma, la quale non era in origine che un seno di mare, od una grandissima laguna. Perciò la terra vi si mantenne lungamente molto paludosa, e piena di stagni e di marosi. Tal era anche nei tempi [p. 209 modifica]istorici. Strabone2 descrive il territorio ardeatino, e l’intera piaggia fra Lavinio e Anzio, come palustre e morbosa. Pone Virgilio3 in esistenza, al tempo prefisso dalla sua epoca, una vasta palude presso di Laurento. E già fino all’epoca della fondazione di Roma il Tevere, com’è noto, impaludava da piè tanto il selvoso colle Palatino, che i terreni adiacenti d’aria infettata4. La maremma del Lazio è stata sempre una terra arenosa, limacciosa e sterile5, dove non allignano altro che piante della numerosa famiglia dei pini. Nè per certo in istato migliore, nè di natura più benigna, trovarono in più lontani tempi il paese i suoi primi abitatori.

Ma chi furono, o potevano essere, questi primi popolatori del Lazio? Sicuramente i più prossimi, o gl’incoli stessi delle altezze appennine, che salvi e sicuri per quelle cime se ne scesero giù al basso tutte volte che il terreno assodato e fermo permetteva loro di porvi senza temenza il piede. Non altro che una generazione d’indigeni montanari poteva così di passo in passo andar occupando il sottoposto paese, a misura che questo si rendeva abitabile, ed avanzarsi oltre per le vie che, in certo modo, natura stessa additava. [p. 210 modifica]E tali crediamo si fossero originalmente i Siculi, che le storie ci mostrano come i più antichi popoli della contrada, unitamente con gli Aurunci altri montanari, e legittimo ramo degli Osci6. Per le faticose e dure pene di questi Siculi-Aurunci ha dovuto il Lazio a mano a mano farsi più salubre, dimestico ed abitato: ma ben si conosce che vi lasciarono senza cura le spiagge maremmane nel loro stato naturale paludoso e malsano, poichè essi presero per se a dimora soltanto le sommità dei colli latini7. Vivendo essi, al modo degli altri popoli montani, vita pastorale, si comprende anche più aperto, come incalzati e oppressi dalle nuove tribù, che dagli Abruzzi si calarono sino al Tevere, potessero i Siculi abbandonare in moltitudine il già occupato paese, trasportando via con esso loro ciò, che unicamente li legava a quel suolo; voglio dire famiglia e gregge. Sì che di luogo in luogo, sempre inseguiti e cacciati da quelli sciami di fugatori, trapassarono nella meridionale Italia, sola via di scampo che avessero aperta, e di là in Sicilia, nel modo che abbiamo per avanti raccontato8.

I popoli che costrinsero i Siculi alla fuga furono senza dubbio tribù dei montanari, che si mossero dalle parti più centrali dell’Appennino. Son chiamati nelle storie Umbri, Opici, Aborigeni: diramazioni uguali d’una stessa famiglia originata dal grande stipite ita[p. 211 modifica]liano, detto degli Osci9. Gli Umbri s’innoltrarono sin presso all’Arno: all’opposto gli Aborigeni si fermarono ne’ luoghi intorno al Tevere, e vi posero la sede. Niuna tradizione del tempo antico tien più fede di vero, che quella raccolta da Varrone, la qual dalle sommità di Rieti fa discendere gli Aborigeni nel Lazio molto innanzi a’ tempi troiani10. Occuparono essi le terre che ivi tennero i Siculi, e tra quelle Saturnia, castelletto o villaggio in sul Palatino, che fu dipoi il primo seggio di Roma11. E per la loro mescolanza ed unione con quella porzione di Siculi, che non seguitarono i fuggiaschi, e sì ancora con Aurunci, venne a formarsi un solo e nuovo popolo unito del nome di Latini. Vero è che Catone e C. Sempronio dissero gli Aborigeni genti dell’Acaja, in quel modo che Dionisio, oppugnando la loro sentenza, gli spacciava di suo talento Arcadi-Enotri12: altri più tosto Argivi: ma la leggenda greca o troiana sopra la quale tanto essi, che numero di altri scrittori s’appoggiavano, non era di fatto che una finzione, ancorchè ripetuta le mille volte: nè con altra faccia può oggimai tener posto nelle storie. E quando ancora non dimostrassero i fatti che i Latini prischi s’attenevano per origine alla razza degli Osci, lo proverebbe evidentissimamente il non greco elemento della lingua latina. [p. 212 modifica]

Il nome natale degli Aborigeni, fondatori del popolo, s’era perduto13; ma speculava, come dicemmo, Sallustio, sopra la formazione dell’umana società, rappresentandoli così senza leggi e senza freno. Perocchè, se bene i pastori Aborigeni fossero di natura uomini duri e agresti, non per questo si debbono tenere per indisciplinati affatto. Abitavano essi pe’ loro monti in rustiche dimore: lavoravano la terra: avevano religioni, e di più, dice Varrone, oracoli a Tiora, dove Marte profetizzava per mezzo d’un picchio14: laonde in tutto tenean così della credulità, e del costume semplice, ma temperato, dei montanari. Ogni vetta dei colli, ed ogni altro sito eminente del Lazio, divenne per questi nuovi occupanti un centro di popolazione, ed una specie di forte. Ne ciò avea soltanto per fine la difesa, quanto la salubrità, atteso massimamente la natura de’ luoghi bassi per ancora paludosi, acquosi e malsani. Di tal modo per l’unione di coteste genti, Aborigeni, Siculi, Aurunci, ugualmente nati alla vita faticosa e all’armi, nacque la società dei Casci o prischi Latini15, altrimenti chiamati indigeni da Virgilio16; la cui erudizione profonda nelle cose patrie, [p. 213 modifica]tanto altamente e giustamente ammirata dai Romani, debbe all’uopo servire anche a noi di testimonianza e di sussidio. Questo primo aggiunto di Casci, titolo adiettivo della lingua materna degli Osci, che davasi in comune alla nazione del Lazio, non qualificava però una gente speciale: usavasi soltanto a maggiore illustrazione della stirpe, per rispetto alla grande antichità del sangue latino17.

Stava in principio la società dei Latini raccolta nel solo breve spazio di trentacinque miglia da Tivoli sino al mare, e di venti in circa dal Tevere alle falde del monte Albano. Secondo costume villesco dimoravano essi per casali o villaggi, quivi disposti alle utili fatiche, ma liberi e indipendenti18: e questi villaggi medesimi sortirono, in progresso di tempo, la fortuna di vere e dominanti città. Per la violenza d’una moltitudine di pastori, Preneste fondò suo stato19, ed [p. 214 modifica]ebbe sotto sua giurisdizione otto castella soggette20. Della città loro, potentemente fortificata da natura ed arte si veggono ancora notabilissimi vestigi: nè meno ragguardevoli con la buona ventura divennero Tivoli il superbo, Tuscolo, Gabio, Aricia, Lanuvio e Labico, principali città. Ma quella che sopra tutte l’altre s’innalzò di dominio e d’onoranza, molto innanzi al crescimento di Roma, fu Alba. Posta alle radici di Monte Cavo in una lunga e stretta via fra il monte e il lago21, dove la rupe tagliata per manual artificio pende a piombo, quasi come un muro, sino alla superficie del profondo lago, il sito d’Alba trovavasi così il più forte del Lazio, ed il più acconcio alle difese: ond’è che in effetto quel comune, fattosi più d’ogni altro potente, pervenne a tanto d’aver titolo e legittima ragione di capo della compagnia latina. In qual tempo, e come avvenisse l’unione politica dei popoli latini in trenta città, di cui Alba era la maggiore, sarebbe opra perduta il ricercarlo: meglio sia non saperlo, anzi che allegare da senno sopra questi fatti la leggenda comune delle presupposte origini troiane. Pure non senza fondamento istorico contavano i Romani dalla fondazione d’Alba insino a quella di Roma lunghissimo spazio, o sia, per approssimazione del vero, trecento anni22: nel qual torno di tempo par fatto [p. 215 modifica]certo, e di più concordevole alle vicende dei popoli vicini, che il Lazio tenne civile stato. Già i Latini, dato mano a bonificare intorno le campagne, s’andavano avanzando fino al mare. Dove a poca distanza posero Lavinio: indi sulla riva stessa Laurento, celebrata dalle favole come reggia dei re latini. Ma i capi legittimi delle città latine erano i suoi magistrati: e dessi, secondo gli antichi ordini, portarono sempre nell’ufficio supremo autorità e titolo dittatorio23.

Quanto la religione avesse parte nella istituzione della società latina si manifesta col significato stesso de’ suoi principali miti. Insegnatori dell’agricoltura, primi legislatori e regi, son Giano e Saturno: Pico, Fauno e Latino, di quella stirpe celeste, venerati ugualmente come numi indigeti: anzi Latino, per più manifesta allegoria, tenuto egli stesso qual Giove Laziale. Nessun altro legame meglio che il religioso avrebbe avuto forza di mansuefare uomini di tanto feroci, con ridurli a vita regolata. E in fatti troviamo che il patto politico e fondamentale dell’unione latina, fino dall’origine, si mantenne sempre radicato nella patria religione. Tuscolani, Aricini, Lanuvini, Tiburtini, Ardeati ed altri socj, sacrificavano e parlamentavano insieme nel sacro bosco e tempio di Diana in [p. 216 modifica]Aricia, già dedicato dal latino dittatore Egerio tusculano24. Un altro tempio prossimo a Lavinio, e dato in custodia agli Ardeati, serviva ugualmente all’adunanza delle diete latine25: più spesso avevano per luogo di convento il luco di Ferentino26, o sia la macchia oggi chiamata di Marino, dove l’orror medesimo della boscaglia facea religione. Il solenne sacrifizio per le ferie latine sul monte Albano, residenza del nume protettore, e l’uguale distribuzione delle carni della gran vittima ai comuni partecipanti, era stato certamente un rito pubblico instituito molto prima di Servio Tullio, qual vincolo e simbolo di legittima confederazione. Ma più che altro dimostra già nell’età prisca grandissima forza di religione l’oracolo di Fauno, nume misterioso e affatto indigeno del Lazio27, il quale rispondeva alle genti dal profondo della selva Albunea28. Con tutto questo se la santità del patto afforzava valentemente l’unione, poderosamente ancora vegliavano alla sicurezza pubblica i costumi del popolo, forte alla fatica, avvezzo al poco, ed usato a passare ogni età fra la caccia, l’aratro e l’armi29. [p. 217 modifica]

Non si vuol credere però che la società latina siasi di tal modo formata senza ostacoli, senza travagli, e senza oppugnazione ostinata de’ suoi vicini. Nata tra l’armi crebbe pure di quelle: nè poco ebbe a contrastare alla prepotente forza degli Etruschi. Già dicemmo di sopra come dessi, occupato sino al Tevere il paese che avanti s’eran preso gli Umbri, consanguinei de’ Casci-Latini per comune affinità cogli Osci, si renderono a’ nuovi loro vicini nemici, e grandemente infesti, fino a tanto che il fiume non divenne per accordo d’ambedue confine fermo30. Fidene tuttavia restò colonia de Vejenti: Crustumeria, qualunque ne fosse l’origine, ebbe a un modo attenenza coll’Etruria, se non ancora il suo nome da quella31; e come suona la voce par che di più l’avesse Tuscolo32, malgrado al vanto della sua fondazione eroica. Ed era Tuscolo notabil terra, come mostrano i suoi vestigi: le mura vi son costruite di massi quadrilunghi: aveva due porte: le strade molto strette: e qua e là, accosto a fabbriche romane, vi si distinguono pur sempre avanzi di edifizj assai più vetusti33. Non è [p. 218 modifica]già poetica in tutto la storia, che il toscano Mezenzio guerreggiasse con certi patti a pro dei Rutuli contro i Latini: pe’ quali il nome terribile del re di Cere fu mai sempre sdegnoso soggetto non che d’odio invecchiato, ma di singolare detestazione34. I Sabini stessi, i Volsci, gli Equi, ed altri confinanti, dovettero pure intromettersi assai ne’ fatti interiori del Lazio: non poche terre già ne’ primi secoli di Roma son perciò dette alternatamente ora de’ Sabini e degli Equi, ora de’ Latini: ma di questi tenebrosi ed incertissimi tempi basti soltanto accennare quel poco, che men dubbiamente può trarsi dalle memorie antiche.

In mezzo a questi popoli non pienamente dirozzati s’innalzò alla fine una città, donde usciron l’arme che signoreggiarono l’Italia tutta, e il mondo. Tosto che Roma fu grande le sue vere origini s’oscurarono a fronte delle maravigliose finzioni, che il decoro, come dice Livio, concede a nobilitare i principj delle grandi città. Ed a misura che la fama s’estendeva con la potenza veniano anche in luce le novelle, che sì variamente e poeticamente narravano, come Roma sortisse la prima fortuna. Da ciò la divolgata tradizione di una colonia troiana accolta amichevolmente dagli Aborigeni, e mescolatasi con quelli: l’altra leggenda [p. 219 modifica] che fossero i Latini originati da una mano di quegli Achei, che di ritorno da Troja vennero da furia di vento trasportati alla costa del Lazio, terra degli Opici, dove le donne troiane prigioniere v’incendiarono le navi: la navigazione d’Evandro co’ suoi Arcadi; il mito d’Ercole: infine altre storie e finzioni collegate massimamente o con l’epoca pelasga, o con la troiana. Non v’ha dubbio alcuno che tutte queste variate leggende, accomodate e formate sopra le tradizioni greche, non sorgessero in origine dalla fantasia de’ Greci, sempre fecondi d’invenzioni, e sempre pronti a rinvenire il proprio sangue, ovunque fosse per venirne loro gloria e nominanza. E già si vede che al tempo d’Esiodo correva nell’Ellade un qualche mito intorno a queste contrade, note a’ naviganti, da che egli cantava per figli d’Ulisse e di Circe, Latino ed Agrio, dominatori de’ celebri Tirreni35. Ma quando Roma stessa aggrandì coll’armi, ed i Greci stanziati in Italia dal grido del suo nome furono avvertiti del potere e del valor di quei barbari, si può presumere ch’eglino, più che altri Greci alcuni, istudiassero di porre quel popol forte fra le genealogie elleniche, e quindi pubblicassero tutto quel che porgeva di meglio la feconda immaginativa greca. Una cronica di Cuma, citata da Festo36, favoleggiava non poco sopra le origini di Roma: e dappoichè sappiamo, mediante [p. 220 modifica]Strabone, che i Tarantini, temendo i Sanniti vicini, volean persuader loro con proficua adulazione ch’erano entrambi d’una medesima stirpe laconia, non fa più maraviglia, che gli Eubei della Campania37, od altri Greci italici, s’ingegnassero a un modo di ammansare con queste lusingherie l’animo dei Romani, che di conquista in conquista andavano più ogni ora avvicinandosi sotto l’armi alle loro imbelli colonie. I prossimi Siciliani, come Callia e Timeo, non favoleggiavano nulla meno di Roma: ma la piena d’ogni maniera di finzioni e di fole derivò dalla larga vena de’ mitografi alessandrini o di quella scuola. Già per avanti abbiam manifestato il nostro concetto, che sì fatte storie di greci e troiani siensi fatte propriamente nazionali nel Lazio non prima che le aquile romane s’inoltrassero nella bassa Italia, donde venne a Roma colla greca letteratura più divolgato il grido di cotali leggende elleniche38. Non erano i Romani un popolo originario al pari degli altri italici nè potevano quindi darsi vanto di grande anzianità, come ne facean pompa e Tivoli39 e Preneste ed altre città latine. Sì che il grosso intelletto dei Romani, mescolanza di genti d’ogni [p. 221 modifica]nome, non poteva non accogliere e non gradire, se badiamo alla natura umana, inclinevole ad ostentazione, tante belle favole e novelle, che sublimavano, quanto può dignità, la loro propria stirpe. La leggenda troiana, che meglio si confaceva coll’indole di popolo guerriero, vi prese più d’ogni altra radice. E come prima la casa Giulia tenne il principato, non fu più lecito dubitare di quell’origine divina.

Venti anni addietro io dava opera ad impugnare con franca libertà le stesse favolose opinioni, esponendo come le prime antichità latine s’erano convertite in un bel romanzo istorico. Non piacque a tutti che io chiamassi favole le favole. Ma i progressi della sana critica, ed il secolo ragionatore, hanno da se operato con tal forza, che la tradizione greca e troiana, Evandro, il regno Albano, gli Eneadi, ed altre molte novelle accomodate con colorata cagione a congiungere insieme la fondazione di Roma fatale con la caduta di Troja, non possono altrimenti addursi che per trovati poetici e finzioni. Non i soli Quiriti però si piacquero di trar principio dalla frigia colonia, che dalle rive del Xanto portò nella terra Ausonia il destino e la gloria futura di Roma40: tutta la terra del Lazio fu a un modo tramutata da penne amplificatrici in un paese di finzioni. Le città e le borgate stesse latine, esaltate [p. 222 modifica]con vanità municipali, si ritrovarono aver per fondatore un eroe greco o troiano, e per nume protettore una qualche straniera deità. Così Tuscolo, Tivoli, Preneste, Ardea, non sol vantavano a grande onore Ulisse, Telegono, o il nocchiero del navilio di Evandro; ma possedevano in casa reliquie per autenticare le bugie. Mostravasi a Circeo la tazza che aveva servito ad Ulisse41: qui presso s’additava infra ombrosi mirti la tomba di Elpenore42: ed a Lavinio serbavano i sacerdoti il corpo insalato della troia che fu d’auspicio ad Enea43; nè d’altra lega han dovuto essere quei Penati ivi custoditi nel santuario, che fu detto a Timeo esser vere immagini troiane; ma nè l’istorico le vide, nè poteva divolgarsi mai per mistero di religione quali elle fossero44. Ad accreditare tuttavia e radicare coteste pompe false molto contribuiva, come suole ne’ grandi, la ruggine della vanità; nè rare erano le famiglie indigene latine che, al pari della Mamilia tuscolana discesa d’Ulisse, non innestasse i suoi rami col tronco di alcun’altra generazione eroica45. Non occorre il dire che tali borie signorili [p. 223 modifica]si ripetevano ne’ libri a dispetto del vero, e si credean con fede dalla plebe riverente, posta dovunque sotto lo clientele de’ suoi patroni. Pure non mancavano al Lazio, nè mai poterono obliarsi in alcun tempo, le sue proprie deità, ed i miti nazionali più confacenti alle forme del primo vivere, come, per tacer d’altri, il silvestre Fauno, nume tutelare della cacciagione, de’ greggi e delle campagne; Silvano il santo, nulla meno propizio alle opre villesche; e Pale, dea benivolente ai pastori. Ma coteste favole disadorne non più s’addicevano al Lazio ingentilito. Laonde, come all’ultimo le vetuste religioni tolsero quivi affatto fogge pellegrine, così pure i miti ed i nomi antichi perdettero quasi del tutto il primo loro significato46.

In un angolo del Lazio presso alla foce del Numicio abitavano i Rutuli; popolo distinto dai Casci o prischi Latini, ancorchè suoi consanguinei47. E pare che anch’essi ugualmente s’attenessero per origine agli antichi Aurunci48. Furono secondo la fortuna del secolo, potenti e doviziosi49: mandarono fuori nelle forme consuete alcuna colonia sacra50: ed Ardea, [p. 224 modifica]città principale51, ricinta d’ardue mura52, e di più adorna di belle pitture avanti che fosse Roma53, mostra non ch’altro quanta fosse la sua forza e ricchezza antica. Questa bensì le venne dal commercio marittimo: ed una sua colonia, condotta in Ispagna, vi diede principio con quei di Zante alla celebre città di Sagonto54: prova certissima che i viaggi ed i traffici oltremarini, che sostener non si possono senza grande energia, e facoltà d’industria, già s’estendevano lontano ne’ paesi intorno al mediterraneo occidentale. Gli Ardeati infatti ed i Laurentini, con i prossimi Volsci, si trovano compresi nel primo trattato fra Cartagine e Roma con dritto di franchigie ne’ mari di Sardegna, di Sicilia e dell’Affrica55. Notabilissimo esempio dell’antico gius convenzionale dei popoli marittimi, stabilito in vigor d’accordi e di reciprochi patti, atteso massimamente che ciascun di loro, senza molto rispetto alla libertà dell’elemento, teneasi a signore de’ suoi propri mari. Ed ecco il perchè stipularono i Cartaginesi non fosse lecito navigare più oltre del promontorio, che è alle radici del monte Atlante, detto dai moderni Capo Bon: tanto [p. 225 modifica]la punica gelosia stava desta ed avvisata ad impedire, che Roma ed i suoi compagni non ampliassero i traffichi, nè avessero mai piena conoscenza dei fertili paesi dell’Affrica. In quell’epoca stessa ritroviamo nella storia la società dei Rutuli ancor franca e potente56. Molto cautamente in vero vuol darsi fede agli annali de’ primi secoli di Roma; con tutto questo ella è credibilissima cosa, che le ricchezze vantate di Ardea fossero, come dice Livio, grande incentivo alla rapacità di Tarquinio nell’ultimo periodo della monarchia romana.


Note

  1. Brocchi, Dello stato fisico del suolo di Roma. 1820.
  2. v. p. 152.
  3. Virgil. x. 709.; xii. 745.
  4. Cicerone disse bene del sito di Roma: salubri loco in regione pestilenti. De rep. ii. 16.
  5. Ager macerrimum littorosissimumque. Fabius Max. Annal. i. ap. Serv. i. 3.
  6. Vedi p. 67, 161.
  7. Dionys. i. 16.
  8. Vedi pag. 69.
  9. Vedi pag. 164.
  10. Aborigines, ex agro Reatino, qui adpellatur Palatium ibi consederunt. Varro l.l. iv. 8.; Solin. i.
  11. Varro l.l. iv. 7.; Plin. iii. 5.; Fest. s. v.; Virgil. viii. 358.
  12. Dionys. i. 11.
  13. Vedi pag. 174.
  14. Dionys. i. 14.; Plin. x. 18.; Nonius xii. 3.; Steph. v. Ἀβοριγῖνες.
  15. Quam primum cascei populi genuere Latinei. Enn. Frag. p. 14. Priscis illis, quod Cascos appellai Ennius. Cicer. Tuscul. i. 12.
  16. Prisci.... indigenae Latini. Virgil. v. 598. xii. 823. Indigenas Latii populos. Lucan. ii. 432.; Prisci Latini propie appellati sunt ij, qui prius quam conderetur Roma fuerunt, Paul. ex Festo.
  17. Cascum significat vetus: eius origo Sabina, quae usque radices in oscani linguam egit. Varro l.l. vi. 3. Questa stessa voce vive ancora nel vernacolo della Sabina e dell’Umbria: e noi pure toscani diciamo accasciare, accasciato ec. equivalentemente al senso primitivo.
  18. Ὧν ἔνια κατὰ κώμας αὐτονομεῖσται συνέβαινεν, ὑπ’οὐδενὶ κοινῷ φύλῳ τεταγμένα. Strabo v. p. 158.
  19. Il mito di Preneste (ut Praenestini sonant libri) aveva un Ceculo a fondatore, capo di quei feroci: indi trasformato in figlio di Vulcano: hic collectitiis pastoribus Praeneste fundavit. Cato in Originibus, et Varro libro qui inscribitur Marius aut de Fortuna ap. schol. veron. ad Virgil. vii. 681. E per la chiosa di Servio: hic collecta multiudine, post quam diu latrocinatus est, Praenestinorum civitatem in montibus condidit.
  20. Liv. vi. 29.
  21. Altri pone il sito d’Alba alquanto più indentro sotto di Monte Cuccu.
  22. Liv. i, 29.; Justin:. xliii. i.; . Virgil. i. 272. Questo numero 300, così spesso ripetuto, veniva comunemente adoprato dai nostri antichi per quantità indefinita. V. sopra p. 78. n. 4: e senza addurne altri esempj li 300 Fabj.
  23. Cicer. pro Milon. 10.; Liv. vi. 26. — cf. Marini Fratelli Arvali p. 221. 358. 417.
  24. Cato Orig. II. ap. Priscian. iv. 4. p. 629.
  25. Strabo v. p. 160.: Cass. Hemina ap. Solin. 8.
  26. Liv. i. 50. vii. 25.; Dionys. passim.
  27. Varro l.l. vi. 3.; Virgil. viii. 314. Georg. i. 10.
  28. Virgil. vii. 81.
  29. Cato in Orig. et Varro in gente pop. rom. ap. Serv. ix. 603.
  30. Vedi p. 116.
  31. Fest. v. Crustumeria
  32. Festus v. Tuscos.
  33. L’architettura negli ornati tiene molto dello sfile egizio (Vedi i monumenti tav. cxx. 2): anche le pitture mostrano altre fogge egiziane. Vi furono trovati vaselli dipinti di poco pregio; ma le fabbriche principali oggidì scoperte come il teatro, case, sepolcri ec. sono dell’epoca romana. Le iscrizioni latine bensì vi sono scritte con ortografia molto antica: m. decumus: l. aemulius; altre più moderne vi hanno desinenze greche: diruaos poetes: telemachos.
  34. Cato in i. Orig. ap. Macrob. iii, 5.; Varro ap. Plin. xiv. 3.; Ovid. Fast. iv. 879 sqq.
  35. Theogon v. 1011-15. V. sopra p. 101.
  36. Fest. v. Romam.
  37. Quel Dionisio di Calcide citato da Dionisio (i. 82) ed Euforione di Calcide, ugual favolatore delle cose romane avevano per avventura usato essi stessi coi loro connazionali di Cuma, o d’altra colonia euboica di quel lido.
  38. V. pag. 39.
  39. Tiburtes quoque originem multo ante urbem Romam haberant. Plin. xvi. 44
  40. Ruma è voce italica antica: il Tevere istesso chiamossi altra volta Rumon: Nè dubbiamente Rumula o Rumulea, città montana del Sannio, portava nome osco o sannite. Varro ap. Non. ii. 756.; Plin. xv. 18.; Serv. viii. 63. 90.
  41. Strabo v. p. 161.
  42. Scylax p. 5.; Theophrast. Hist. plant. v. 9.
  43. Varrone r.r. n. 4. I titoli di coteste vanità municipali si tramandarono ugualmente ai secoli bassi: narrando Procopio (iv. 22.) aver veduta incorrotta e sana la nave con la quale Enea venne in Italia.
  44. Dionys. i. 67.
  45. Vedi p. 53.
  46. Vedi più distintamente T. ii. c. xxii.
  47. Consanguinei Rutuli. Virgil. xii. 40.
  48. Aurunci Rutulique serunt, et vomere duros
    Exercent collis, atque horum asperrima pascunt.

    Virgil. xi. 3 18.; Idem. vii. 795.
  49. Rutuli gens... in ea regione atque in ea aetate divitiis praepollens. Liv. i. 57.
  50. Serv. vii. 796.
  51. Ἀρχαίαν Αρδέαν. Strabo v. p. 158.
  52. Audacis Rutuli ad muros: .....
    ..... et nunc maguum manet Ardea nomen:
    Sed Fortuna fuit. Virgil. vii. 409-413.

  53. Plinio xxxv. 12.
  54. Livio xxi. 7.; Silius i. 377-379. ii. 603.
  55. Polyb. iii. 22.
  56. Dionys. v. 62.