Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo XXVII

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Capitolo XXVII.
Arte della guerra

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Capitolo XXVI Capitolo XXVIII


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CAPO XXVII.


Arte della Guerra.



I duri esercizi, e gli abiti della vita campestre formano di loro natura la miglior preparazione alla guerra. Sotto i tetti rustici crebbero alla patria generazioni d’uomini pronti alle fatiche e fortissimi alle battaglie. Perciocchè il bisogno, non che l’obbligo di difendere e di conservare col viver libero quanto di più caro, o più in pregio s’abbia l’umanità, fece degl’Italiani un popolo di soldati. Tutti ugualmente stavano presti all’armi, perchè tutti non obbedienti ad altro imperio che de’ suoi medesimi, avevano un solo ed unico scopo: quello cioè di confermare i civili diritti, e mantenere la pubblica indipendenza. La professione dell’armi era non tanto un dovere prescritto dalle leggi, quanto la speranza dei valorosi che aspiravano a dignità d’ufficio o d’azione: sì che non fa maraviglia se i nostri popoli attesero di buon’ora a ridurre in arte gli esercizi della guerra, e se furono anche veri trovatori di non pochi ordini di milizia, che passarono nella disciplina romana, formatasi in grandissima parte coi modi stessi dell’italica. Sì veramente i Romani traendo a se tutte volte lezioni e norme dagli stessi nemici, sapevano con somma avvedutezza giovarsi di tutte le cose migliori1. Gli Etruschi lungamente sotto l’armi [p. 281 modifica]innanzi la fondazione di Roma, furono anche i più disciplinati e valenti nelle cose militari. I loro fanti superavano tutti gli altri nell’arte principale di starsene uniti e serrati in battaglia, combattendo a piè fermo nelle prime schiere2: e quivi, immobili nelle sue file, non curavano morire onorati bisognando. La qual virtù di ben ordinata milizia pedestre giustamente chiama uno scrittore bene instrutto muro inespugnabile; anzi muro vivente, muro ferreo, e non atto solo alla difesa d’una città, ma della repubblica intera3. Quanto studio ponessero i Romani in quest’arte, e quanto ne approfittassero lo dice Livio4. Così pure ad esempio de’ fanti etruschi delle prime classi cambiarono essi la pesante forma degli scudi sabini, adoperati nella prima età5, sostituendovi quei di rame rotondi molto più leggieri e maneggevoli6: nè diversamente dai militi etruschi alla leggiera tolsero i [p. 282 modifica]Romani una particolare specie d’aste volanti ad uso dei veliti7: arme sì molesta che in iscagliandola piegavasi al primo colpo, nè potevano i nemici rimandarla8.

Per diversi monumenti singolari di opera toscanica che porgiamo in esempio, può il lettore farsi una vera e giusta idea così della grave armatura etrusca, come della leggiera9. Consisteva la prima d’una corazza o corsaletto in dosso, scudo, elmo, e gambiere; il tutto di rame. I fanti delle prime file adoperavano il formidabile pilo, e altre aste armate con acuta punta di ferro, che lanciavano di piè fermo innanzi di venire alle spade. A meglio vibrare il colpo queste eran brevi, grosse, ed a due tagli a punta, appese al fianco sinistro per mezzo d’un balteo10. Amplio e rotondo lo scudo imbracciavasi nella pugna, o mediante un manubrio s’impugnava soltanto11. Gli schinieri sole[p. 283 modifica]vano essere molto alti, qual difesa delle gambe intere dal malleolo sino alla parte superiore del ginocchio12. Assai più variate nella forma erano le armature del capo, diversamente guernite o di visiere, o di nasali, o di pezzi che difendevano le gote; e, come si vede per copia di monumenti, in sulla cima degli elmi s’adattavano alle creste e pennacchiere, sì che i fanti apparissero in più nobile aspetto. Più propria dei veliti era la casside etrusca, celata di metallo liscia e disadorna senza cono, la qual passò col nome stesso ai Romani13. Poco diversa era l’armatura delle fanterie d’altri popoli nulla meno disciplinati nelle cose belliche. Sabini14, Volsci15 e Sanniti16, adoperavano al pari armi inastate d’infallibile colpo, fatte di duro frassino, di mirto e di corniolo17. Tutti con fasto uguale, ancorachè sì semplici nella vita ordinaria, amavano a un modo lo sfarzo e la beltà nelle armi: nondimeno senza la precisa descrizione fattane da Livio nessuno crederebbe possibile che i Sanniti, dopo tante [p. 284 modifica]perdite dolorose, comparissero di nuovo in campo nel 444 armati di tutto punto con scudi guerniti d’oro e d’argento, e con pettorali di maglia, vistosi elmi, e vesti a più colori18: tanto ambivano essi parer sontuosi in questi arnesi di guerra. Così vediamo i Clefti dell’Epiro, e gli altri valorosi di quelle montagne, porsi a battaglia forniti di ricche armi e di belli arredi19. Che tali generalmente per le nostre guerriere popolazioni erano le armille d’oro, le collane, gli anelli, tutti segni di qualificate onoranze e premi al valore. All’opposto i popoli del più centrale Appennino valevano principalmente come feritori alla leggiera. Per la natura del paese montuoso, e de’ luoghi malagevoli, erano essi spediti, repentini e gagliardi: franchi tiratori di mano, chi adoperava la fionda, chi la balestra, chi il verretto, o altra qualità di saettame: combattendo in battaglia sparsa fuori delle prime file si destinavano assai propriamente a investire da più parti il nemico istancandolo colle armi da tiro. Ed ottimi feritori per la forza del saettamenta non meno che per celerità di azione, erano massima[p. 285 modifica]mente i Vestini, Peligni e Marsi20. Con pari destrezza pugnavano le squadre de’ fonditori Ernici, ora vibrando insieme due dardi, ora scagliando ghiande di piombo21. Quest’arme usitatissima atta ugualmente per la sua forma a ferire ed uccidere, lanciavasi da lontano con la fromba, ordigno formato di striscie di cuoio, di piccole corde, quale si vede adoperato tutt’ora con bravura dai pastori di questi luoghi, sia per richiamare all’armento gli animali che ne deviano, sia per colpire gli uccelli e farli cadere a terra. Spesso ancora il saettame di piombo portava iscritto o il numero della legione, o il nome stesso del popolo che lo scagliava, quasi invettiva o provocazione marziale22: nè già per esser dessi di razza pelasga, come sognava Igino23, tenevano gli Ernici nuda la gamba sinistra, e la destra coperta d’un calzare di cuoio24, ma solo perchè in battaglia la sinistra veniva difesa dallo scudo, di che dà ragione Vegezio25. Altre genti [p. 286 modifica]della medesima stirpe osca adopravano tonde e ferrate mazze, che vibravan lontano con una stringa, laddove da vicino coperti di breve scudo ferivano con spade ritorte26. Usavano del pari i Lucani scudi di vimini ricoperti di cuoio: quelli de’ Marsi da imo a sommo erano molto grandi27: i Bruzzi all’incontro impugnavano piccolo scudo rotondo28; ed i Liguri scudi brevi e leggieri di rame, detti latinamente con proprietà ligustini29: di tanto quest’arme difensiva appariva variata, così nella materia, come nella forma e negli emblemi, secondo che s’addiceva alla fortuna più o meno avanzata del popolo. Assai diversa perciò dall’armatura rusticana dei tiratori Equi e degli Ernici, aventi celate fatte di scorze di suveri, o di pelli d’orso e di lupo30, era quella dei sagittarj etruschi armati alle spalle di turcassi, di frecce e d’arco31. [p. 287 modifica] Nell’armi leggiere, facili a procacciarsi con lieve spesa, stava non per tanto la forza principale dei montanari Liguri sì temuti e fieri32: anzi di tutti i popoli di scarso stato. Non altrimenti armati andavano pure a campo i militi latini nell’età prisca33.

Qualunque volta l’imperatore, capo supremo dell’armi34, chiamava a combattere, la legge stabiliva il modo di fare la scelta e di compor l’esercito: la religione ne rendeva inviolabili le obbligazioni col mezzo del giuramento35. La legione divisa per coorti, ordine proprio degl’Itali antichi, si componeva insieme di fanteria grave e di fanti leggieri, con i loro uomini di supplimento, musici e artefici: più tutta la salmeria e le bagaglie. Il servizio militare, al pari dell’imposta, si regolava secondo la facoltà o il censo: ciascuno passava nell’arme che gli si competeva di diritto, ed i militi delle prime schiere erano anche obbligati corredarsi a sue proprie spese. Lo stesso accadeva per la cavalleria composta della parte più signorile della nazione: poichè tutti coloro che in virtù del censo [p. 288 modifica]possedevano quanto basta a mantenere un cavallo avean obbligo di farlo in guerra legalmente. Tali sono le milizie che per deliberazione pubblica si coscrivevano nelle ordinarie fazioni di guerra: in quelle stava il nerbo di un esercito ordinato alla difesa o alla conquista: per esse pendeva quasi unicamente la sorte o l’onor delle battaglie. E non di meno per istraordinario bisogno, e massimamente in vigore della legge sacra era pure comandamento dei magistrati, che i più scelti e valorosi formassero da per se un corpo di guerrieri eletti: indi ciascun di loro chiamasse sotto l’armi un aiuto, di cui rispondesse: e così di persona in persona ognuno dei nominati scegliesse un altro fino al numero totale voluto dalla legge36. Quest’uso fu non solamente degli Etruschi37, ma de’ Sanniti ancora38: il che vuol dire che venne loro in origine dai padri Sabini. Nè minor forza tenea dovunque la legge sacra per gli altri popoli di razza osca, e pe’ Liguri tutti ne’ grandi frangenti di guerra39. In oltre a queste giurate milizie guerreggiavano ancora bande di volontarj sciolti, capitanati da buoni condottieri, che facean la guerra per solo mestiere40: simili per av[p. 289 modifica]ventura alle masnade che tanto travagliarono Italia dopo il mille. Sì fatto costume di militare stipendiati o per l’uno, o per l’altro, era molto antico: si dice che un condottiere etrusco prestasse soccorso a Romolo41; ma tal era sicuramente quel Cele Vibenna chiamato da Tarquinio a Roma42, e il suo fido compagno Mastarna, che simile a uno Sforza indi potè acquistarsi la corona sotto il nome di Servio Tullo. Così ancora un Oppio tusculano, e Levo Cispio d’Anagni avrebbono, secondo Varrone, presidiato Roma per Tullo Ostilio43. Le consuete fazioni di guerra si rivolgevano per lo più in scorrerie improvvise e danneggiamenti sul territorio nemico: brevi erano le campagne perchè limitate ai soli intervalli, in cui poteva il soldato agricola confidare alla natura il frutto della ricolta. Di tal modo le guerre rotte secondo legge Feciale per giuste vie, corte e spedite, riuscir non potevano nè molto distruttive, nè crudeli: in fatti non altra era la natura propria del combattere nella forma antica44. Comunemente la battaglia soleasi vincere per bene assalire nel primo scontro: quindi sì di frequente trovasi fatta menzione di guerre aperte, ch’ebbero fine nel corso di pochi giorni. Però i maestri di guerra ponevano grande attenzione nella scelta dei posti, e in ben fortificare gli alloggiamenti. Nel modo [p. 290 modifica]che usavano i Romani antichi innanzi la guerra di Pirro, ciascun corpo di milizia posto qua e là appartatamente secondo sue armi alzava d’intorno a se le trincee, facendo un zappatore d’ogni soldato45: nè mai gli Etruschi per solita cautela lasciavano indietro l’alloggiamento senza prima abbruciarlo e distruggerlo46. L’ordine più usitato e maestrevole di ben disporre un esercito grosso al combattimento si era lo schierare le fanterie in tre corpi principali: destra, sinistra, e centro: i cavalli squadronati di costa alle ali, o altrimenti disposti alle riscosse47. I cavalieri portavano elmo, aste ferrate a punta acuta, e piccolo scudo tondo, o sia la parma48. Le battaglie davansi in ordine paralello, più proprio di sua natura all’urto tutto materiale dei corpi: raro era l’ordine obliquo, migliore per la combinazione e movimento delle forze. Dove più valevano i nostri si era nelle imboscate e in altre maestrie della guerra alpigiana: basti rammentare il gran fatto delle Forche caudine; ancorachè non i soli Sanniti addurati nell’arme49, ma tutti i feroci abitatori dell’Appennino, quasi che invincibili [p. 291 modifica]tra le native montagne, erano a un pari espertissimi in quelle arti di guerreggiare, che sovvengono all’uopo per accorti strattagemmi al difetto della forza.

Pieno il guerriere d’ardire e di baldanza s’avanzava con misurati passi alla volta dell’inimico, cantando bellici carmi, o le geste degli eroi50. Nobile trovato dei Tirreni si fu la tuba metallica, perciò detta propriamente tirrena, che metteva fuori un suono eccessivamente fragoroso e penetrante51. Alla tornata degli Eraclidi, ottanta anni in circa dopo la caduta di Troja, l’uso di questo importante strumento guerriero passò, come dicesi, dalla Tirrenia in Grecia52: ma, comunque il fatto avvenisse, certo è almeno che i nostri Etruschi adoperavano in guerra come arnesi nazionali tanto la tuba ricurva, che altre trombe toscane53, con la buccina, il corno ritorto, ed altri stru[p. 292 modifica]menti militari da fiato romoreggianti54. Vuolsi oltr’a ciò giustamente lodare il saggio intendimento, per cui gli Etruschi a tanti studi di milizia sapean riunire tutto quanto può la forza e l’energia morale. Di qui è che facevano onore ai prodi e valenti di corone d’oro, fra le quali era più riputata la corona specialmente chiamata etrusca55, fregio una volta dei Lucumoni56, e che veniva sostenuta per maggiore orrevolezza sopra il capo di chi trionfava. Se diamo fede a Floro anche il trionfare in cocchio dorato a quattro cavalli fu costumato in Roma secondo l’usanza toscana con magnifica pompa57: però, conforme al costume più antico, il trionfatore a piede portava egli stesso il trofeo58.

Sì tanta era la bravura e l’intelligenza per cui generalmente i nostri popoli disponevano a’ loro fini, secondo l’ordine della ragione, le cose della guerra. Ed è per certo notabilissimo fatto, allegato ancora dai filologhi, che l’armi stesse per esso loro adoperate, sia per batter da lungi il nemico, sia da vicino, [p. 293 modifica]sia per sostenerlo ed aprirlo, abbiano tutte nomi propri italici d’origine etrusca, sannitica o sabina. Così l’innato valore fortificato e dall’educazione e dalle leggi era portato a tal sublime grado che, in mirando alla patria soltanto, non curavano i difensori del sacrifizio della persona. Quel sentimento profondo di virtù nazionale, che presso agli Umbri, antichissimo e vero popolo italico, rendeva indispensabile il vincere o il morire combattendo, dice un antico59, non era nulla meno vivace in petto dei Sanniti, de’ Marsi, de’ Lucani, e di tanti altri prodi. Ben lo sperimentarono mille volte i Greci stanziati nell’Italia inferiore: nè senza verità diceva Alessandro Molosso qua essersi affrontato a suo danno con uomini, dove che suo nipote, il Magno, s’era in Asia riscontrato solo con femmine60. In tempi sì fattamente gloriosi di libertà e di vittoria era non pure sopportabile, ma onorando a ciascuno il servizio militare: la costanza dell’animo, la frugalità, il lavoro, riparavano prontamente ai danni della fortuna nemica61. Quindi tante repubbliche di poco stato potevano ad ogni occorrenza levare in casa [p. 294 modifica]nuovi eserciti, e commettere alle proprie spade la rischievole sorte. Che oltre? nessuno ignora qual resistenza facesse Italia per cinque secoli interi alla prodezza di Roma: se non più tosto quest’ultima, accortamente rivestendosi delle forze e dei talenti, che le porgeva l’unione italica, non dovette al suo raccolto vigore la conquista del mondo romano62.

Più volte abbiamo fatta menzione della molta perizia degli Etruschi nel munire le loro principali città. Consistevano le loro fortificazioni in alte e fortissime mura costrutte di grandi pietre paralellepipedi disposte per piani orizzontali, e fiancheggiate da torri, distanti le une dalle altre quanto comportava il tiro dell’armi da lanciare. Per il che adoperavano nella fabbricazione sassi di mole grandissima murati a secco, ma connessi insieme con tale artifizio, che mediante i piani e gli angoli in essi lasciati venivano a ben combaciarsi l’uno all’altro, ritenuti solidamente in sito dalla stessa loro mole e dall’enorme peso senz’altro legamento63. Per buon accorgimento dei costruttori si collocavano a posta i pezzi più massicci vicino a terra, ed a quell’altezza dove sogliono più duramente percuotere le macchine murali, affinchè l’impressione del colpo si diffondesse meno per tutta la linea, nè mai venisse a scollegare il muro assalito. Poco valeva agli oppugnatori anche lo spediente di minare le mura per rovi[p. 295 modifica]narle: poichè il maestro ingegnere tenendo dietro alle sinuosità naturali del monte soleva fondare, come si vede, le muraglie in sul vivo del sasso e al capo dei precipizj64: nè ciò tanto per sola sicurezza delle munizioni, quanto perchè il nemico entrando in que’ golfi vi rimanesse oppresso dalle armi de’ sagittarj e lanciatori. Che tal era il modo principale della difesa: tener lontano con ogni sorta saettamenti, e ferire di fianco gli assalitori. Le porte della terra doppie per maggior difesa, e piantate in obliquo, erano di più afforzate con le saracinesche, come son quelle di Volterra e di Cossa65. Torri si veggono soltanto interne ed esterne nelle fortificazioni di Cossa: quelle di fuori hanno i due fianchi retti, e la faccia convessa inverso la campagna. Oltre a ciò ciascuna città teneva entro al suo proprio cerchio la rocca nel luogo più eminente: ella era negli stremi casi l’ultima difesa. Or tutto questo sistema di fortificazione fa palese il militar senno, e lo studio grande, che a fermezza del loro impero posero in ogni tempo gli Etruschi nel munire gagliardamente le città maggiori quasi con eterne difese. Nè per ciò è incredibil fatto il narrato lungo assedio di Vejo, o quello di Volsinio: più certa tuttavolta l’ostinata resistenza che valorosamente fece Volterra nella guerra di Silla. [p. 296 modifica]

Dall’Etruria in fuori assai diverso era il modo dell’architettura militare. Murate chiama Virgilio Laureato, Antenna, e Ardea nei Rutuli, prima che fosse Roma66: però rapportandoci alle storie medesime di Livio si conosce apertamente la debolezza di coteste munizioni, dacchè qualunque terra del vecchio Lazio, o degli Equi, o dei Volsci, raramente potea resistere all’impeto d’un grosso e violento assalto, quando, circondata a un tratto la piazza a guisa di corona, riusciva appoggiar le scale e salire in sulla muraglia67. Con tutto ciò miglioratasi in tra questi medesimi popoli la forma della difensione per più avanzata civiltà, anche l’arte di fortificarsi si ritrovava in buono e gagliardo stato, come si vede per gli avanzi di non poche città situate per le montagne, cominciando da Preneste insino ad Alba nel paese dei Marsi. Dove da per tutto si rinviene la stessa costruzione di muraglie con smisurate pietre tagliate a poligoni irregolari di cinque, sei e sette lati, connesse fortemente insieme senza calce o cemento alcuno. Uguale edificazione di mura hanno le città del Sannio, e d’altre limitrofe regioni nel centrale Appennino: per lo che discorrendo altrove a proposito intorno a ciò ho già manifestato essere cotesta maniera di fabbricazione, al mio parere, un’antica opera italica usata nei tempi vetusti, e se[p. 297 modifica]guitata pur anco senza interruzione per lungo corso di tempo nei secoli romani68. Tal è senz’altro quella costruzione che vuol chiamarsi ciclopica; e per fola di romanzo attribuirsi conseguentemente alla maestria dei Pelasghi, là dove veri Pelasghi non furono stanziati giammai69.

Note

  1. Majores nostri.... arma atque tela militaria a Samnitibus sumpserunt: postremo quod ubique apud socios aut hostes idoneum videbatur, cum summo studio domi exsequebantur. Caesar ap. Sallust. Catil. 51.; Nicias Nicen. ap. Athen. vi. 21.; Arrian. Ars Tactica pag. 75.
  2. Ἔλαβον δὲ καὶ παρὰ Τυῤῥηνῶν τὴν σταδίαν μάχην φαλαγγηδὸν ἐπίοντων. Nicias Nicen. ap. Athen. vi. 21.
  3. Firmini (an Frontini?) etrusci rite instrictum peditatum vocat murum inexpugnabilem, murum viventem, murum ambulantem, murum mente praeditum, murum ferreum, murum qui non unam urbem, sed universam remp. protegit. Petr. Magistri, de scientia polit. fragm. in script. vet. Coll. Vat. T. ii. p. 592.
  4. Qua pugnandi arte (in aciem) Romanis excellant. iii. 2.
  5. Plutarch. Romul.
  6. Diodor. fragm. xxiii. Excerpt. in Coll. Vat. T. ii. p. 48.
  7. Hastas velitares. Plin. vii. 56.; Isidor. Orig. xviii. 57.
  8. Polyb. vi. 22.
  9. Vedi tav. xxxviii, xxxix. xxxvii. 13. 14.
  10. Questa voce è d’origine etrusca. Varro Ant. rer. hum. ap. Charis. i. p. 59. Putsch.
  11. Di tal foggia sono due grandi scudi della circonferenza di dodici palmi romani, tutti ornati a fasce circolari, in cui si veggono figurate a stampa non interrotte file di figurine e d’animali. Furono trovati a Corneto nel 1823 entro il sepolcro d’un guerriero tutto armato giacente sopra d’un letto: teneva appresso al corpo una corta spada, aste e giavellotti. Vedi Annali di corrisp. Archeolog. T. i. p. 96. tav. B. Altri consimili scudi di metallo con manubrio, benchè di minore circonferenza, mi è occorso vedere più volte.
  12. Vedi tav. cxiii. 10.
  13. Fest. v. Cassilam.; Isidor. xviii. 14. Vedi tav. cxiii. 9.
  14. Curis est Sabine hasta. Festus.; Ovid. Fast. iv. 477. Macrob. Sat. i. 9.; Serv. i. 292.
  15. Volcosque verutos. Virg. Georg. ii. 168.
  16. Pila manu saevosque gerunt in bella dolones;
    Et tereti pugnant mucrone, veruque Sabello.

    Virg. vii. 664.; Festus v. Samnites.
  17. At myrtus validis hastilibus, et bona bello

    Cornus. Virg. Georg. ii. 447.; Aen. ix. 698. Et fraxinus utilis hastis. Ovid. Met. x. 93.
  18. Liv. ix. 40. Duo exercitus erant: scuta alterius auro, alterius argento caelaverunt: forma erat scuti: summum latius, qua pectus atque humeri teguntur, fastigio aequali: ad imum cuneatior, mobilitatis causa, spongia pectori tegamentum; et sinistrum crus ocrea tectun: galeae cristatae, quae speciem magnitudini corporum adderent: tunicae auratis militibus versicelores, argentatis linteae candidae.
  19. Fauriel. Chants pop. de la Grèce.
  20. Enn. Fragm. pag. 150.; Sisenna ap. Macrob. Sat. vi. 4.; Horat. ii. od. xx. 17.; Silius viii. 523-524.
    Μαρσῶν θοὰ φῦλα. Dionys. Perieg. 376.; Eustath. ad h. l.
  21. ... pars maxuma glandes
    Liventis plumbi spargit; pars spicula gestat
    Bina manu.

    Virg. vii. 686.; Dionys. viii. 65.
  22. Vedi tav. cxiii. 11. 12.
  23. Ap. Macrob. Sat. v. 18.
  24. . . . . . vestigia nuda sinistri
    Instituere pedis; crudus tegit altera pero.

    Virgil. vii. 689.
  25. De re milit. i. 20.
  26. . . . . . . Teretes sunt aclydes illis
    Tela: sed haec lento mos est optare flagello.
    Laevas caetra tegit: falcati comminus enses.

    Virg. vii. 730.; Serv. ad h. l.
  27. Festus, v. Albesia scala.
  28. Festus, v. Bruttianae parmae. Tale foggia di scudo si vede scolpita nelle loro monete.
  29. Strabo iv. p. 140.; Diodor. v. 39. Scuto ligustino. Liv. xliv. 35.
  30. Tegmina quis capitum raptus de subere cortex.

    Virg. vii. 742., Idem 668.; Sil. iv. 561.
  31. . . . . . . quis tela, sagittae,
    Corytique leves humeris, et letifer arcus.

    Virgil. x. 168. Vedi tav. xxx. 1.

  32. Hostis levis, et velox, et repentinus. Liv. xxxix. i.
  33. Virg. vii. 629 sqq.; Propert. iv. el. i. 28.: miscebant usta praelia nuda sude.
  34. Vedi sopra p. 78. n. 49. La partenza di un capitano di guerra per l’esercito in abito militare, preceduto da due littori, si vede bene figurata in un cippo di pietra con etrusca iscrizione ap. Dempster. tav. 46.
  35. Primum militiae vinculum est religio, et signorum amor, ei deserendi nefas; tunc deinde facile cetera exiguntur mandaturque jusjurandum adactis. Senec. ep. 95.
  36. Ut vir virum legeret.
  37. Liv. ix. 39.
  38. Liv. ix. 40, x. 38.
  39. Vedi Tom. i. p. 258, e di sopra p. 19.
  40. Voluntarios dicerent militare ubi vellent (Liv. vi. 6): ed altrove parlando dei Volsci: non publico consilio capessentibus arma, voluntariis mercede secutis militiam iv. 55.
  41. Dionys. ii. 37.; Propert. iv. el. 2. 51.
  42. Tacit. iv. 65.
  43. Varro ap. Fest. v. Septimontium.
  44. Dionys. iii. 34.; Cicer. de Offic. i. 11.
  45. Castra antiquitus Romani, ceteraeqne gentes passim per corpora cohortium velut mapalia constituere soliti erant, quam solos urbium muros nosset antiquitas. Frontin. Strat. iv. i. 14.
  46. Dionys. v. 34.
  47. Tal è l’ordine delle più principali battaglie narrate con notabile precisione dagli annalisti, che avevano dinanzi Livio e Dionisio.
  48. Vedi tav. lii. 1., lxi. 2. 5.
  49. Μεγάλῳ τε καὶ χαλεπῷ ἔθνος. Appian. Bell. Pun. in praef.
  50. Ibant aequati numero regemque canebant.

    Virg. vii. 698.; Silio (viii. 40) dice lo stesso dei Sabini. Dionisio parla più specialmente delle canzoni militari dei Volsci. viii. 86.
  51. Plin. vii. 56.; Diodoro v. 40.; Pausan. ii. 21.; Polluc. iv. 85. 86.; Athen. iv. 25.; Clem. Alex. Strom. i. 16.; Tatian. Orat. ad Graec. 2. Davasi per inventore della tuba Meleo, imperatore dei Tirreni. Plac. Lutat. ad Theb. vi. 404. Il suo fragore è ben espresso con armonia imitativa da Ennio; at tuba terribili sonitu taratantara dixit. Fragm. p. 50.
  52. Schol. Sophocl. Ajax. 17. cum schol. Euripid. Phoeniss. 1379. 1386.; Suid. v. Κώδων – Τυρσηνική σάλπιγξ si trova sempre chiamata dai tragici. Sophocl. l. c.; Euripid. Phoeniss. l. c. Rhes. 988. Heraclid. 830.
  53. Polluc. vi. 70. sqq.
  54. Che fossero questi bellici strumenti insegna Vegezio: tubicines, cornicines et buccinatores, qui tuba vel aere curvo, vel buccina committere praelium solent. ii. 17. Vedi tav. cxiii. 7, ed i Monumen. dell’Italia ec. tav. xxxiv. xxxv.
  55. Plin. xxxiii. 1.; Tertull. de corona mil. 13; hoc est coronarum gemmis et foliis ex auro quercinis.
  56. Dionys. iii. 61. 62.
  57. Flor. i. 5. conf. Appian. Punic. p. 58. 59.
  58. In questo modo vedevansi figurate le immagini stesse di Romolo. Plutarch. Romul.
  59. Ὁμβρικοὶ ἑν ταῖς πρὸς τοὺς πολεμίους μάχαις αἰσχιστὸν ἡγοῦνται ἡττημένοι ζῆν. ἀλλ’ ἀναγκαὶον ἢ νικᾷν, ἢ ἀποθνὴσκειν. Nic. Damasc. ap. Stob. Serm. x.
  60. Aul. Gell. xvii. 21. Quinto Curzio pone in bocca di Clito le stesse parole; verum est quod avunculum tuum in Italia dixisse constat, ipsum in virum incidisse, te in foeminas. viii. 1.
  61. Veteres illi Sabini.... quamquam inter ferrum et ignes hosticisque incursionibus vastatae fruges, largius tamen condidere, quam nos. Columel. r. r. praef.
  62. Sic romana potens Itala virtute propago. Virgil. xii. 827.
  63. Vedi tav. ix-xii.
  64. Vedi massimamente la pianta di Volterra tav. i.
  65. Vedi tav. iv. vii. Una porta con due ingressi si vede soltanto nelle mura di Cortona tav. iv. 5.
  66. Turrigerae dice Antenna il poeta: dove chiosa Servio bene muratae. vii. 631.
  67. Oppidumque corona circumdatum scalis captum. Liv. iv. 47 et alibi.
  68. Vedi Tom. i. p. 194.
  69. Vedi Tom. i. p. 229.