Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo IV/Libro III/Capo IV
Questo testo è incompleto. |
◄ | Libro III - Capo III | Libro III - Capo V | ► |
Capo IV.
Poesia latina.
Perchè fosse scarso in questo secolo il numero de’ poeti latiniI. Come veggiamo spesso avvenire che un’arte o una moda novellamente trovata faccia cadere in dimenticanza le antiche, sicchè per poco
632 LIBRO
non si vergognili gli uomini di ancor seguirle,
così avvenne ancora della poesia provenzale e
della italiana riguardo alla latina. Questa era già
da tanti secoli, per così dire, la dominante ,
e di essa sola avean usato coloro che aspiravano all’onorevol titolo di poeti. Ma dappoichè
si cominciò a conoscere e ad operare in Italia
la lingua provenzale, e dappoichè la lingua italiana ancora fu ridotta a stato che si potesse
usarne con soavità e con dolcezza, quelli che
aveano o credeano di aver talento a poetare,
si rivolsero presso che tutti all’una e all’altra;
e assai pochi furono quelli che verseggiassero
latinamente. Alcuni nondimeno ve n’ebbe, benchè non molto felici; e noi perciò dopo avere
non brevemente parlato de’ poeti provenzali e
italiani, dobbiam trattare di questi ancora, e
conchiuder così il ragionamento della poesia di
questo secolo.
IL Arrigo da Sellimello é il più antico tra’
poeti latini di questa età, perciocchè egli fiorì
agli ultimi anni del secolo XII, e al cominciar
del seguente. Filippo Villani ne ha scritta la
Vita tra quelle degl’illustri Uomini Fiorentini,
che sono state date alla luce, ma solo nella lor
traduzione italiana, dal co. Mazzucchelli (p.61).
E il ch. ab. Mehus ci avvisa (Vita Ambros.
camald, p. 145) che di questa versione è in
più luoghi diverso il testo originale latino, di
cui egli ha dato alcuni estratti. Noi dall’uno e
dall’altro, ma molto più dal poema stesso di
Arrigo, intitolato: De diversitate fortunae et
philosophiae consolatione, e da altri scrittori
verremo scegliendo le più sicure notizie intorno TERZO 633
a questo poeta. Arrigo dunque, che dal Villani
si dice uomo di potente e leggiadro ingegno,
nacque in Settimello, terra a sette miglia da
Firenze, di parenti contadini. Così ci narra il
Villani, e, ciò che è più, lo stesso Arrigo che
non dissimula la bassezza di sua condizione,
e introduce la Fortuna che a lui un po’ bruscamente così ragiona:
Te decet! horrendis vexare ligonibus arva,
Quod genus agresti postulat arte tuum.
L. 2, v. 171.
Ed egli poco appresso così le risponde modestamente:
Sim licet agrestis, tenuique propagine natus,
Non vacat omnimoda nobilitate genus.
Non praesigne genus, nec clarum nomen avorum,
Sed probitas vera nobilitate viget.
ib. vol. 125.
Nel testo latino però del Villani, come ci avverte l’ab. Mehus, si aggiugne che i genitori
di lui ottennero pe’ loro meriti la cittadinanza.
Non ostante la bassa sua nascita, ei si rivolse
da giovane, come dice lo stesso Villani, agli
studi delle arti liberali e della poesia; e Arrigo
stesso c’insegna che Bologna fu la città a cui
egli a tal fine recossi, facendo che la Sapienza
così gli dica:
Dic ubi sunt, quae te docuit Bononia quondam,
Haec, ego, dic, ubi sunt, quae tibi saepe dedi?
Te multum fovi, docui te, saepe rogavi,
Et mea secreta saepe videre dedi.
L. 3, v. 71.
Da’ quali passi chiaramente confermasi ciò che
altre volte abbiamo osservato, cioè che fin dal 634 LIBRO
secolo xii erano in Bologna gli studi non sol
delle leggi, ma delle lettere ancora e della filosofia; perciocchè se Arrigo, secondo il Villani,
attese in età giovanile agli studi della poesia
e delle arti, e se, com’egli stesso ci narra, fece
i giovanili suoi studi in Bologna, è cosa evidente che di essi avea la detta città pubbliche
scuole. Gli studi fatti da Arrigo non solo gli
conciliarono stima ed onore, ma sembra ancora che ne ottenesse ricchezze; perciocchè
egli rammenta più volte l’antica sua felicità:
O bona prosperitas, ubi nunc es? Nunc mea versa est
tu luci uni citimi a. Nunc lacrimosa lira.
L. 1, v. 25.
E poco appresso
Hinc ego, qui fueram satur omni prosperitate.
Ib. v. 39.
E ricorda ancora le numerose schiere d’amici,
da’ quali in tempo della sua felicità vedeasi circondato.
Dumi Zephyrus flabat. multis social>ar amici.*;
Nunc onines A quii o turbine flante fugat.
ib. v. 129.
In fatti narra il Villani che fatto chierico tonsurato pe’ suoi. meriti, ottenne la pieve di Calenzano, beneficio assai ricco e che gli potea
apparecchiare ozio alle lettere.
III. Ma poi per contrario, siegue a dire il
Villani, gli fu materia di contesa; perciocchè la
mala invidia che solo a se medesima desidera
ricchezze e onori, contro ad Arrigo innocente,
e ciò non aspettante, destò odii crudeli; perocchè avendo il pastore fiorentino inesplebil fame TERZO 635
e maravigliosa rabbia <£ accrescere i suoi con
ricchezze da ogni parte, tirate, per torre ad
Arrigo (quel beneficio, e darlo a’ suoi parenti,
contro a esso Arrigo prese guerra immortale;
donde prolungandosi molto la causa, avendovi
già Arrigo consumato il patrimonio, costringendolo la povertà, fu necessario di cedere e
per conseguenza poi andare mendicando, onde
poi piangendo la sua infortuna compose un operetta che comincia: Quomodo sola sedet.
Questo è in fatti l’argomento del poema elegiaco di-Arrigo, ch’egli perciò volle intitolare:
Dell’inconstanza della Fortuna, e della consolazione della Filosofia; perchè in esso piange
le sue sciagure, e introduce la Filosofia che lo
consola. Ch’ei fosse ridotto all’estremo delle
sciagure, raccogliesi chiaramente dalla patetica
descrizione che più volte egli ripete dell’infelice suo stato. Rechiamone alcuni versi:
Cui de te, Fortuna, querar? cui? Nescio. Quare
Perfida me cogis turpia probra pati?
Gentibus opprobrium sum, crebraque fabula vulgi;
Dedecus agnoscit tota platea meum.
Me digito monstrant; subsannant dentibus omnes.
Ut monstrum monstror dedecorosus ego.
ib. v. 3, ec.
Così egli prosiegue raddoppiando gemiti e lamenti, e prorompendo ancora talvolta in disperate maledizioni. Ma per quanto egli si dolga,
non vi ha un passo in tutto questo poema di
mille versi, da cui si raccolga qual fosse, e
donde movesse la sua sciagura. Anzi a me pare
ch’ei dolgasi più del disonore che soffre, che
della povertà a cui si trova condotto. Quindi IV.
Quando scrivesse il suo
poema.
636 LIBRO
io confesso che non parmi troppo ben accertato il fatto che narrasi dal Villani, cioè la
guerra a lui mossa dal vescovo fiorentino per
ispogliarlo del beneficio di Calenzano. E a dubitarne mi muove singolarmente non solo il vedere che Arrigo non fa di ciò alcun motto in
tutto il suo poema, ma che ancora egli il conchiude volgendosi al vescovo stesso con questi versi:
Inclyte, cui vivo, si vivo, provide Praesul
Florentine, statum scito benigne meum.
Sum passus gravia, graviora, gravissima, quarto
Passio, si velit ars, possit inesse gradu.
Ergo vale, Praesul. Sum vester. Spiritus iste
Post mortem vester, credite, vester erit.
Vivus et extinctus te semper amabo; sed esset
Viventis melior quam morientis amor.
La qual maniera di ragionare sembra totalmente
contraria a quella di cui avrebbe usato Arrigo,
se il vescovo fosse stato il principale autore di
sue sventure. Io so che anche Ovidio, benchè
rilegato da Augusto, pur gli scriveva coi sentimenti della più ossequiosa riconoscenza. Ma
pur nell’atto medesimo egli si doleva modestamente con lui della pena con cui avealo punito, e il pregava di pietoso perdono. Laddove
nè qui nè in tutto il poema d’Arrigo non vi
è nè cenno alcuno di danno che il vescovo gli
abbia recato, nè alcuna preghiera perchè cessi
dal molestarlo. E io credo perciò che tutt’altro fosse il motivo della disgrazia di Arrigo,
benchè non sia possibile lo stabilire qual fosse.
IV. Con certezza maggiore possiam ragionare
del tempo in cui Arrigo compose questo suo TERZO O07
poema. Perciocché, lasciando stare più altri
passi, da’ quali raccogliesi ch’ei lo scriveva su
gli ultimi anni del secolo xii, egli accenna come
di fresco avvenuti due fatti che accaddero l’anno 1192, cioè la morte di Corrado marchese
di Monferrato ucciso a tradimento per opera,
come si credette da molti, di Riccardo re d’Inghilterra, e la prigionia dello stesso Riccardo,
il quale tornando da Terra Santa, e passando
per le terre di Leopoldo duca d’Austria, fu
per comando di lui arrestato e chiuso in carcere. Ecco il passo in cui Arrigo chiaramente
allude a questi due fatti:
Ecce modernorum priscis esemplairelictis:
Paupertate nihil tutius esse potest.
Unicus ille leo fidei vigor, unicus immo
Murus, et hostis erat unicus ille timor;
Dux ferus et nostrae Conradus causa salutis:
Cur, quia magnus erat, proditione perit?
Qui modo regnantes, et fortes fregerat arcus ,
Cui genus et census rabora multa dabant,
Nuper idem misero sub pupertatis amictu,
Captus et inclusus Anglica facta luit.
L. 3, v. 155.
Eran dunque ancor recenti questi due fatti,
perchè da Arrigo si potessero dire avvenuti
nuper; e perciò, come abbiam detto, non si
può differir l’epoca di questo poema più oltre
che agli ultimi anni del xii secolo. Ma qual
età avesse allora il poeta, che avvenisse poscia di lui, e fino a quando vivesse, non abbiam monumento da cui ricavarlo. Solo veggiamo che in qualche codice antico egli è
chiamato col nome di Samaritano, ossia Samariensis Mehus Vita Ambros. camald p. 121), V.
Stima io
cui Isso giù
arcati: idi.
linuà iatteRf,
638 LIBRO
col quale ancora il veggiam nominato da alcuni
antichi autori che si rammentano da Cristiano
Daumio (Epist. cl. Germanor. adMagliab. n. 242).
Questi inclinava a credere che Arrigo fosse nato,
o almeno avesse soggiornato per qualche tempo
in una non so qual Samaria città di Francia ,
se pure ei non intende Amiens che latinamente
dicesi Samarobrina o Samarobriga. Ma io non
veggo che alcun natìo di Amiens sia mai stato
appellato samariense, e parmi perciò più verisimile l’opinione del ch. Mehus (l. cit.) ch’ei
fosse soprannomato Samaritano dalla miseria a
cui era stato ridotto, per cui veggiamo che
talvolta egli è ancora detto il povero.
V. Filippo Villani nella Vita di Arrigo gli dà
il nome di Semipoeta: De, Henriceto Semipoeta
Elegiaco: così leggesi nell’originale latino (Sarti
Prof. Bon. t. 1, pars 2, p. 205). Col che sembra indicarci che non fosse tenuto in gran pregio. Nondimeno lo stesso Villani aggiugne, nel
medesimo originale citato dal Mehus (l. cit.
p. 146), che il libro da lui composto era stimato tanto, che nelle scuole d’Italia veniva
agli scolari proposto per esemplare su cui formarsi: Hic Libellus, cui titulus Henriguethus
est, primam discentibus artem aptissimus per
scholas Italiae continue frequentatur; e si vede
in fatti citato con lode da molti antichi scrittori rammentati dallo stesso Mehus (ib. p. 211).
Quai secoli eran mai questi in cui tante lodi
si davano a un sì barbaro verseggiatore? Nondimeno non si pensò se non assai tardi a darlo
alle stampe; e la poesia latina avrebbe anche
sofferto non mal volentieri ch’esso si giacesse TERZO OòiJ
ancora nelle polverose biblioteche. Ma anche
questi rozzi componimenti son di qualche vantaggio non a formare un elegante poeta, ma
a darci de’ lumi sulla storia e sul gusto de’ secoli bassi. Cristiano Daumio fu il primo che
intraprendesse di darlo alla luce; e abbiamo
più lettere da lui perciò scritte al celebre Magliabecchi (Epist. cl. German. ad Magliab,
p. 107, ec.), dalle quali si vede quanto ei fosse
sollecito e nel cercare codici antichi per farne
un’esatta edizione, e nel raccogliere quante più
potesse notizie intorno all’autore. Ei ne avea
già cominciata la stampa; e quella parte che
già erane stata impressa, conservasi nella Magliabecchiana in Firenze (Mehus, l. cit. p. 146,
147) con alcune note a penna del medesimo
Magliabecchi. La morte non permise al Daumio di finire questa edizione. Il poema dunque di Arrigo fu per la prima volta dato alla
luce da Policarpo Leisero nella Storia de’ Poeti
de’ secoli bassi da lui pubblicata l’anno 1721
(p. 453), la quale edizione però è piena di
gravi errori. Un’altra ne ha fatta in Firenze il
ch. sig. Domenico Maria Manni l’anno 1730, la
quale duolsi il sopraccitato ab. Mehus (l. cit.)
che sia priva di quei monumenti e di quelle
notizie che dalle fatiche de’ valentuomini nominati poc’anzi si sarebbon potute raccogliere.
In essa all’originale latino vedesi aggiunto il
volgarizzamento in prosa italiana, che da alcuni fu creduto del medesimo Arrigo, ma che
dal medesimo Manni si crede a giusta ragione
fatto più di un secolo dopo. Il dottissimo monsignor Mansi ha pubblicate le diverse lezioni VI/
Errori del
P. EH-ri.
64o LIBRO
ili questo poema tratte da un codice di Lucca
(ad calccm lì ibi. med. et iiif’. Latin, t. 6, p. 340).
E altre se ne potrebbon trarre per avventura
da un codice che si conserva nella Biblioteca
Ambrosiana, e che accennasi dal Muratori
(Antiq. Ital. t. 3, p. 925), in cui Arrigo è detto:
Henricus Samariensis Versilogus Doctor Granijnalicus.
VI. Il P. Negri ha fatto due scrittori di un
solo (Scritt. fior. p. 72), distinguendo Arrigo
o Arrighetto, ch’egli dice autore di un Trattato dell’avversa fortuna, da Arrigo Simintendi,
com’egli il dice, da Settimello, a cui attribuisce il mentovato poema: e insieme di due
scrittori ne ha fatto un solo, attribuendo al
poeta Arrigo da Settimello una traduzione in
lingua toscana delle Metamorfosi d’Ovidio manoscritta, che vien citata nel Vocabolario della
Crusca. Or egli è certo che il Trattato dell’avversa fortuna non è cosa diversa dal poema
del nostro Arrigo, poichè così appunto s’intitola in alcuni codici la traduzione di esso italiana, di cui abbiamo or ora parlato. La traduzione poi delle Metamorfosi d’Ovidio appena
è possibile che potesse farsi da questo Arrigo,
il quale vivea in tempo in cui appena cominciavasi a scrivere in lingua italiana. In fatti in
un codice, citato dall’Argelati (Bibl. deVolgarizz. t. 3, p. 139)), esse si dicon tradotte da
Arrigo Simintendi, e in un altro, accennato
dallo stesso Argelati, egli è detto Arrigo Simintendi da Prato. Quindi non veggendosi mai
il cognome di Simintendi dato al nostro poeta,
ed essendo egli natìo non di Prato, ma di TKHZO 64*
Settimello, ella è cosa evidente che si è confuso
l’uno coll’altro. E questo secondo Arrigo, a
qualunque età ei vivesse, è probabile che fosse
ancora il volgarizzatore delle Eroidi d’Ovidio,
la qual traduzione ancora per errore si è attribuita ad Arrigo da Settimello (ib. p. i55).
VII. Dobbiamo qui accennar parimente e ripetere i nomi di F. Stefanardo da Vimercate,
di cui già abbiam parlato nel trattar degli storici, il quale, in versi per l’età a cui visse non
dispregievoli, scrisse la Storia di Ottone Visconti: e di Goffredo da Viterbo che versi parimenti
mischiò alla Storia da sè composta 5 e di Gherardo Maurisio che alcuni suoi versi e alcuni
ritmi aggiunse alla sua Storia di Ezzelino. Lo
stesso Gherardo appiè di essa ha pubblicate alcune poesie ritmiche in onore del medesimo
Ezzelino, composte da un certo Taddeo notajo
di Vicenza (Script. rer. ital. vol. 8, p. 56, ec.).
Tra gli autori di cotai ritmi debbonsi annoverare ancora S. Tommaso d’Aquino e S. Bonaventura, tra le cui opere ne leggiamo alcuni.
Altri ancor se ne leggono del Cardinal Tommaso di Capova, celebre personaggio nelle Storie ecclesiastiche dall’an 1219, in cui fu sollevato all’onor del cardinalato, fino al 1239 in
cui finì di vivere. Essi sono inseriti in una sua
opera intitolata Summa Dictaminis, in cui tratta
della maniera che dalla curia romana si usa nello
scrivere le lettere} della qual opera che mai non
è uscita in luce, e di qualche altra da lui composta, veggansi l’Oudin (De Script, eccl. t. 3,
p. 86) e il Fabricio (lì ibi ined. et inf. Latin,
t. 6, p. 248). A questi tempi par che debbasi
Tiuaboschi, Voi. IV. 41
VII.
Altri autori
ili poesi« latine. 642 LIBRO
riferire, se pur non è anche più antico, il poema
inedito de Sancta Jerusalem di Niccolò di Michele Buonaiutifiorentino, diviso in sedici libri;
del quale qualche saggio ci ha dato il ch. signor
canonico Bandini (Cat. Codd. lat. Bibl. Laur.
t. 2, p. 221; t 3, p. 863). E più altri autori
di cotai ritmi potrei qui annoverare, se volessi
andare in cerca minutamente di cotai cose. Ma
troppo poco è il vantaggio che i loro autori
hanno comunemente recato alle lettere, perchè
se ne debba far conto. Solo è da avvertire che
il favore in cui furono di questa età le rime
italiane e le provenzali, fu quello per avventura che invogliò molti ad usar della rima ancor ne’ versi latini, sperando forse che ugual
plauso ne avrebbono aneli essi avuto. Ma furono
delusi nelle loro speranze; e per quanto incolta
fosse ancora l’Italia, ella non degnossi mai di
accordare grandi onori agli autori di sì strane
poesie.
VIIT. Il Muratori nomina alcuni poeti de’ bassi
tempi, dei quali egli ha lette poesie latine in
un codice della biblioteca Ambrosiana (Antiq.
Ital. t. 3, p. 914, ec.). Io non parlo di quelli
che certamente sono stranieri all’Italia , ne di
altri de’ quali ignorasi il nome. Ma alcuni di
essi sono italiani. Tali sono Riccardo giudice di
Venosa , di cui produce dodici versi tratti da
un poema elegiaco in più libri da lui composto, e intitolato De. pertractatione nuptiarum,
di cui è parte probabilmente quel Carmen ludicrum de Sponsalibus Paulini senis et Pollae
anus che trovasi nella biblioteca del re di Francia (Cat. Codd MSS. Bibl. reg. Paris, t. 4) TERZO 643
coil. 8409, 8498), e Jacopo da Benevento, di
cui pur recita qualche verso, e di cui anche
nella Riccardiana di Firenze (Cat. Codd. MSS.
Bibl. riccard. p. 239) si hanno poesie intitolate Carmina Moralia. A qual tempo essi fiorissero, non abbiamo nè indicio nè congettura
che cel dimostri. Ma il fiorire che fecer gli studi
d’ogni maniera nel regno di Napoli a’ tempi di
Federigo, di Manfredi e de’ lor successori, ci
rende non improbabile ch’essi vivessero a questi tempi medesimi. « A’ poeti del regno di
Napoli qui rammentati, deesi aggiugnere quel
maestro Ruggiero di cui il Fabricio rammenta
un componimento poetico scritto verso l’anno 1240, che ha per titolo: Miserabile, Carmen super destructione Regni Hungariae per
Tartaros facta (Bibl. lat. med. in/’, acini, t. 6,
p. 119). Dal suddetto e da più altri scrittori
egli è creduto natìo dell’Ungheria e della città
di Gran Varadino, di cui fu canonico. Ma la
Storia Salonitana di Tommaso arcidiacono di
Spalatro, che a que’ tempi viveva, pubblicata
e con sue note illustrata di Giovanni Lucio
(De regno Dalm, p. 367, 473, ed. Amstel. 1666),
ci dimostra che questo fu natìo del ducato di
Benevento, e di un luogo ivi detto Turris cepit, che fu prima cherico e cappellano del Cardinal Giovanni da Toledo, da cui venendo più
volte mandato pei suoi affari in Ungheria, accadde una volta che ivi fu preso da’ Tartari, e
tenuto due anni in barbara schiavitudine, della
quale ei ragiona nella citata opera, e che finalmente liberatone a istanza del Cardinal medesimo , fu eletto arcivescovo di Spalatro. Ciò 644 LIDRO
accadde l’anno ia4y, come ha osservato ancora il P. Farlati, il quale pure ha fatta questa
medesima osservazione sulla vera patria di Ruggiero (Illiricum sacrum t. 3, p. 274)- Più antico di Ruggiero è quel Pietro da Eboli nella
provincia di Salerno, detto Magister Petrus de
Ebulo, che in versi elegiaci scrisse le guerre
della Sicilia tra Arrigo VI e il re Tancredi
dal 1189 al 1 iy5, opera pubblicata solo nel 1746
in Berna per opera di Samuele Engel. Di essa
e dell’autore parla con esattezza il sig. Francescantonio Soria (Storici napol. t. 1, p. 216) ».
11 Muratori nomina ivi parimente Montenaro da
Padova, e ne reca un verso tratto dal medesimo codice Ambrosiano. In fatti conservasi ancor manoscritto un poema da lui composto, e
che con titolo alquanto strano s’intitola de Luna
Cleri, a spiegare che in esso egli tratta de’ chierici che cantan nel coro fatto a foggia di mezza
luna. Di esso veggasi il Papadopoli (Hist Gymn.
patav. t. 1, p. 277) e gli altri scrittor padovani
da lui citati. A me però non sembra abbastanza
provato ciò che alcuni di essi asseriscono,
cioè ch’ei sia quel Domenico che tra i professori di gramatica e di rettorica in Padova si
annovera da Rolandino all’anno 1260 nel passo
altre volte da noi citato. Più probabile è ciò
che afferma il Pignoria (misc. 8 Antiq. patav.),
ch’egli seguisse nell’esilio a Verona Pace suo
nipote colà rilegato per aver trattato segretamente di togliere a’ Padovani la signoria di Vicenza, e che ivi morisse vecchio l’anno 12815
perciocchè il Pignoria ne reca in pruova l’autorità di Geremia da Montagnone scrittore di TERZO 645
questi medesimi tempi, di cui abbiamo altrove
parlato. Un poema elegiaco intitolato Speculum
Vitae si rammenta ancora dal Muratori come
esistente nel detto codice, e se ne fa autore
Bellino dottor gramatico, che al nome sembra
italiano; ma di cui non possiamo accertare se
vivesse a’ tempi di cui parliamo, benchè cel
renda probabile il riflettere che molti erano di
questi tempi, come nel seguente capo vedremo,
i dottori in gramatica (‘). Finalmente veggiamo
ivi pur nominato come poeta Ursone genovese,
E questi è appunto quell’Ursone o Orso notaio
di Genova, cui l’Oldoino afferma (Alimi, ligust.
p. 541) aver in versi eroici celebrata la vittoria che l’anno 1243 riportarono i Genovesi contro l’armata navale di Federigo II, e avere inoltre composte in versi alcune favole morali,
le quali opere però conservatisi solo a penna,
(’) Di Bellino dottor gramatico e poeta da me qui
nominato, senza poterne dare più esatta contezza , alcune particolari notizie mi ha gentilmente comunicate
il ch. sig. D. Jacopo Morelli. Egli ha veduto un codice
ms. del 1325 scritto da un Prosdocimo da Cittadella
custode del duomo di Padova, in cui v’erat Speculum
Vitae a Magistro Belini compositum, opera in verso
elegiaco, che cominciava: Historias recitare novas vela t e nova fama. Inoltre: Li ber Legum moralium Belini Bixoli de Mediolano, esso pure in verso elegiaco
con questo principio: Dum juvenes nati reputo vos, esse
timendum. E finalmente, ma senza il nome di Bellino,
Libellus de regimine vitae et sanitatis, anche esso in versi
elegiaci , che comincia: In Camera munda retine cubile
decorum. Par dunque che Bellino fosse della famiglia
Bissoli, e di patria milanese, e sarà questi perciò un
nuovo scrittore da aggiungersi alla Biblioteca dell’Argelati. 646 LIBRO
coni’ egli slesso aggiugne, in alcune biblioteche (’).
. IX. A questa medesima età appartengono gli
■ Epigrammi su i bagni di Pozzuoli, di cui più
! edizioni si sono fatte, in alcune delle quali essi
attribuisconsi ad Alcadino di Siracusa medico
in Salerno, in altre ad Eustazio di Matera (a).
Intorno a che veggansi le belle ed esatte osservazioni dell’eruditissimo P. Paciaudi (De sacris Balneis c. 6), il quale dopo un diligente
esame non solo delle diverse edizioni, ma di
più codici mss. di questi Epigrammi, crede
probabile che alcuni sieno di Alcadino, altri
di Eustazio. Alcadino, secondo i recenti autori
siciliani (V. Mazzucchelli Se riti. ital. t. 1 ,par. 1,
p. 350), era medico in Salerno a’ tempi di Arrigo IV e di Federigo II, e ad istanza di questo principe compose i suoi Epigrammi. Eustazio si vuol che fiorisse in Napoli al fine di
questo secolo stesso a’ tempi del re Carlo II
(Paciaudi l. cit.). Io però non so se di questi due medici e poeti si trovi menzione presso
alcun antico autore. Ma chiunque essi siano,
i codici mss. che de’ loro Epigrammi conservansi in molte biblioteche, ci provano che
(*) De’ poeti qui nominati, cioè di Riccardo giudice
di Venosa, di Jacopo da Benevento, di Montenaro da
Padova, di Bellino dottor gramático, e di Urson genovese, trovami sparsi alcuni versi morali in diversi copi
dell’opera di Geremia intitolata Epitome Sapientiiie,
di cui in questo tomo medesimo si è Catta menzione.
(a) Di quest’opera intorno a’ bagni di Pozzuolo parla
ancor lungamente il suddetto eli. sig. Francescantonio
Sona ne’ suoi Storici napol. (t. a, }>■ 36G, ec.). TERZO 647
vissero di questi tempi. Ed uno ne ha questa
biblioteca Estense, che anche più chiaramente il
dimostra. Esso non ha nome d1 autore, e solo
vedesi al principio una nota che sembra di
man più recente, in cui si dice ch’essi son
traili dall1 antico medico Oribasio, errore, come
osserva il P. Paciaudi, comune ad altri codici. Al fine poi leggesi questo epigramma:
Verbo. A udoris.
Hoc quicumque legis vicium quodcumque repertum
Corrige: correctum, crede , placebit opus.
Suscipe sol mundi tibi quem presento libellum.
De tribus ad Dominum tertius iste venit.
Primus habet patrios civili Marte triumplios *,
Mira Frederici gesta secundus habet:
Tam loca quam vires quam nomina pene sepulta
Tertius abhocys (l. euboicis) iste reformat aquis.
Caesaris ad laudem tres scripsimus ecce libellos:
Firmius est verbum quod stat in ore trium.
Si placet annales veterum lege Cesar avorum:
Pauper in angusto nemo Poeta fuit.
Euboici vatis Cesar reminiscere vestri.
Ut possint (l. possit) nati scribere facta tui.
Questi è un solo autor che ragiona, e parrebbe
perciò che a un solo si dovessero attribuire
tutti i mentovati epigrammi; e io confesso che
seguirei volentieri questa opinione, se l’autorità d’altri codici non mi rendesse dubbioso.
Ma o sia uno, o sien più gli autori di tali
poesie , è certo che molte almeno di esse son
dell’autore di quest’ultimo epigramma. Or questo crederem noi che sia di Alcadino, ovver
di Eustazio? Se Eustazio visse a’ tempi di Carlo II, sembra difficile ch’ei possa avere scritto
questo epigramma e le altre poesie in esso 648 I.1BR0
accennate in lode di Federigo II, morto l’anno i 25o. Inoltre l’autore si chiama Vates Euboicus, e in una nota aggiunta alla pagina
stessa del codice Estense si dice: Euboici idest
de Cumis in Calabria, unde nemo Poeta est
propter paupcrlatem loci. Sembra dunque che
fosse natio di Clima f autor di questo e degli
altri epigrammi. La qual città qui dicesi con
generale espressione posta nella Calabria, ma
è veramente nella Campania ossia Terra di Lavoro , non molto lungi da Pozzuoli. Or se egli
era di Cuma, non si può dire ch’ei fosse Eustazio , il qual si dice natìo di Matera città
della Terra d’Otranto. Questa riflession medesima proverebbe eli’ ei non era Alcadino natìo
di Siracusa. E quindi converrebbe dire che o
niun di questi due sia l’autore de’ mentovati
epigrammi, o, ciò clic è più probabile, che quel
di essi che gli compose, non fosse nato nè
in Siracusa, nè in Matera, ma sì in Cuma; se
pure non vogliamo anzi credere che il poeta
qui diasi il nome di Euboico non dalla sua
patria , ma dall’argomento de’ suoi versi, cioè
de’ bagni euboici, de’ quali egli cantava. Chiunque egli fosse , dall’epigramma medesimo noi
raccogliamo che due altri libri in versi avea
egli scritti, uno in lode di Arrigo padre di
Federigo II, come sembra indicare con quelle
parole: Primus habet patrios civili Marte triumphos, colle quali par che voglia accennare le
guerre civili, onde quel regno a’ tempi d’Arrigo fu travagliato; altro in lode di Federigo II, da cui l’affamato poeta aspettava pietoso sovvenimento. che gli accrescesse il vigore TERZO 649
a cantare ancora le imprese de’ figliuoli dello
stesso monarca. Ma questi due libri non solo
non sono mai stati, eli’ io sappia, dati alla
luce , ma non mi è pure avvenuto di vederli
citati tra’ manoscritti di alcuna biblioteca.
X. Questi sono i soli Italiani che in questo
secolo coltivarono la latina poesia 5 o almeno
son essi i soli de’ quali io ho potuto trovar
notizia, se pur non pretendasi ch’io dovessi
qui favellare di tutti quelli de’ quali abbiam
qualche distico , o qualche epitafio in versi,
o altre simili coserelle, delle quali non parmi
proprio di questa mia opera l’andare in cerca.
A questi Italiani però vuolsi aggiugnere un Inglese che molto del suo sapere dovette all’Italia 7 com’egli stesso confessa, e di cui perciò
abbiam diritto di ragionare; e molto più che
ci riuscirà forse di rischiarare, più che non
siasi fatto finora, ciò che a lui appartiene. Abbiam molte opere, altre manoscritte, altre venute in luce, di Gaufrido o Galfrido o Galfredo
soprannomato da Vinesauf, o, come scrivesi
latinamente, de Vino salvo. E primieramente
abbiamo un’Arte Poetica da lui composta in
versi eroici e intitolata Poetria Nova; la quale
sembra che dal ch. P. Fattorini (Prof. Ron.
t. 1, pars 1, p. 507) sia stata creduta inedita.
Ma essa è stata data alla luce da Policarpo
Leisero (Hist. Poet. medii aevi p. 855) l’anno 1721, e il Fabricio ne accenna ancora un’altra posteriore edizione (Bibl. med. et inf. Latin,
t. 3 , p. 12). Ella è dedicata a un pontefice I11nocenzioj perciocchè Gaufrido con sentimento
x.
Gaufrido
inglese , ma
vissuto in 1lalia: limi
trattali rattorici. 650 LIBRO
che allora sarà sembrato leggiadro, così comincia:
Papa stupor Mundi, si dixero Papa NOCENTI,
Acephalum nomen tribuam tibi. Si caput addam ,
Hostis Crit mari, ec.
E che questi fosse il pontefice Innocenzo III,
pruovasi chiaramente e da alcuni manoscritti
ne’ quali si legge espresso il nome di questo
pontefice (Cat. Bibl. reg. Paris, t. 4, cod. 8171,
8246), e dalla giovanile età che in lui ammira
Gaufrido, e che conviene al suddetto pontefice
sollevato alla cattedra di S. Pietro in età di 37
anni, oltre più altre pruove che da questo poema
medesimo si potrebbon raccogliere. Or in esso
egli dice che dall’Inghilterra venuto era a Roma, e da Roma riconoscer sembra il sapere
di cui si era fornito:
Me transtulit Anglia Romam,
Tamquam de terris ad caelum: transtulit ad nos (l. vos)
De tenebris velut ad lucem. v. 31.
Ed ecco già un sufficiente argomento a rimirare in certa maniera qual nostro questo poeta. Ma ciò non basta. In alcune biblioteche conservasi manoscritta un’altra opera dello stesso
Gaufrido intitolata Ars Dictaminis, in cui tratta
della maniera di comporre e di scrivere con
ordine e con eleganza. Simone Federigo Annio
ne ha pubblicato il prologo (Praef. ad Syllogen
vet. Monum, t. 1) in versi eroici, e nell’epilogo Gaufrido si volge a Bologna, e le consacra questo suo libro:
Hoc a Gaufrido , veneranda Bononia , cultus
Semper habe, gratumque geras, quod gratia pundit TERZO 65I
Non merrps; noe enim mercator spargere veni
Venales titulos: gratis tibi dedico gratus
Exiguum exiguo natura de cespite florem.
Queste espressioni di Gaufrido a me sembrano
indicare che egli avesse fatti i suoi studi in
Bologna, e ch’egli perciò per mostrarle la sua
riconoscenza le offerisseFonte/commento: Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo IV, Classici italiani, 1823, IV.djvu/773 questa sua fatica. Ma
dal prologo si raccoglie inoltre, come il P. Fattorini osserva (l. c. p. 5o5). ch’egli era professore in Bologna, perciocchè egli così comincia:
Saepe mihi dubiam traxit sententia mentem,
Taxavique diu mecum, sociisne valerem
Dictandi reserare viam. Sed me titubantem
Vester cogit amor tanto servire labori.
Già abbiam altrove osservato che la voce socii usavasi spesso a que’ tempi a denotar gli
scolari; e la stessa maniera di ragionare che
qui tiene Gaufrido, ci rende evidente eh’egli
era maestro, e che ad uso de’ suoi scolari
prese a scrivere questo libro. Ma questa è ella
veramente opera diversa dalla Poetica, o non
è anzi la stessa col titolo diverso? Il P. Fattorini confuta il Cave che pensa non esser amendue che un’opera sola; e a confutarlo osserva
che la Poetica da Gaufrido fu scritta in versi,
e l’Arte dello scrivere, in prosa; perciocchè al
fine del prologo sopraccennato così ei dice:
Ne tamen auditu prolixa proemia laedant,
Hic metris praecludo viam, masaeque quietem
Largior, et faciles ad cetera dirigo cursus.
Col che egli sembra che voglia dire che dopo
aver fatto il prologo in versi, passava omai
a svolgere in prosa i precetti. A ciò nondimeno 65a Mimo
si oppone primieramente la somiglianza e, direi quasi, l’identità dell’argomento; perciocchè, benchè la Poetica sembri dal titolo essere
indirizzata a dar precetti di poesia, pure i precetti in essa racchiusi son generali, e appartengono per lo più al verso ugualmente che
alla prosa. Or non sembra probabile che Gaufrido volesse fare due diverse opere sullo stesso
argomento. Inoltre in un codice ms., citato dal
Leysero (l. cit. p. 861), la Poetica di Gaufrido
è intitolata: Libellus de artificio loquendi, Poëtria nova in arte rethoricae facultatis; e in un
altro della biblioteca del re di Francia (Cat.
Codd. MSS. Bibl. reg. paris, t. 3 , cod. 1 o5):
Epistola ad Innocentium III et artificium loquendi. Il vedere che anche la Poetica è intitolata talvolta artificium loquendi, che è poi lo
stesso che Ars Dictaminis, non deeci egli muover sospetto che non sia veramente che un’opera sola sotto diverso titolo, e con diverse
dediche, come talvolta anche in altr’opere veggiamo avvenire? Ma a ben decidere la contesa , converrebbe esaminare alcuno de’ codici
del libro intitolato Ars Dictaminis, per vedere
se veramente esso sia lo stesso colla Poetica.
Checchessia di ciò, dai passi fin qui recati è
dimostrato abbastanza che in Bologna era stato
ancor probabilmente scolaro. La Poetica da lui
composta fu a’ suoi tempi in sì gran fama ,
che si prese ad ornarla, o, a dir meglio, ad
ingombrarla di comenti e di chiose; e perchè
essa cominciava con quelle parole al papa:
Papa stupor Mundi, ella da queste parole stesse
prese talvolta il titolo, come raccogliesi da TEHZO 653
alcuni codici citati dal P. Fattorini, Tractatus
super Papa stupor Mundi per Galfridum Anglicum; ed altri simili.
XI. Un’altra opera abbiamo del nostro Gaufrido, cioè la Storia divisa in sei libri del viaggio in Terra Santa, e della guerra ivi fatta da
Riccardo re d’Inghilterra, e dell1 altre cose avvenute fino alla morte dello stesso monarca ucciso l’an 1199. Egli si protesta di narrar
cose da sè vedute: Quod vidimus, testamur,
et res gestas adhuc calente memoria stilo duximus designandas; e non si può perciò dubitare eh1 ei non sia quel Gaufrido medesimo che
dedicò la sua Poetica a Innocenzo III. Era egli
adunque passato in Terra Santa verso l1 anno 1190, nel qual anno Riccardo intraprese
quella spedizione j e forse al ritorno da essa
ei si trattenne in Bologna, e vi continuò per
più anni il suo soggiorno. Questa Storia fu pubblicata già, ma imperfetta e senza nome di
autore, dal Bongarsio (Gesta Dei per Francos
t. 1), poscia corretta ed intera e col nome di
Gaufrido, da Tommaso Cile (Script. Hist. Anglic. t. 2), il quale vi ha aggiunte alcune poesie
dello stesso autore in lode di Riccardo e sulla
morte di lui; alcune delle quali però son tratte
dalla Poetica medesima di Gaufrido, ove ei
l’avea inserite. Di lui pure conservasi manoscritto in alcune biblioteche un trattato della
maniera di conservare i vini, dal quale credesi
da alcuni eli’ ei traesse il soprannome di Vinosalvo. Intorno al qual libro, e ad alcune altre operette meno importanti di Gaufrido , veggasi, oltre gli autori già da noi mentovati di
XI.
All re oprr»
ili Guulcido. XII.
Si prtiova
<-h’ l i non •*
l’anlore del
poema sugli
Ufficiali della Corte romana.
(55 4 LIBRO
sopra, anche l’Oudin (De script, eccl. t. 2
p. 247).
XII. In una cosa però io non penso di dover seguire il parere de’ sopraccitati scrittori.
Essi attribuiscono comunemente a Gaufrido un
altro poema elegiaco che per due diversi fini
da due diversi scrittori è stato dato alla luce.
Mattia Flaccio , uno de’ più fervidi Protestanti
del secolo xvi, volendo mostrare che anche
ne’ tempi addietro la corte di Roma era stata
oggetto di scandalo a tulle genti, pubblicò una
Raccolta di Poemi di diversi autori de’ bassi
secoli in biasimo di essa; e fra gli altri quello
di cui ora parliamo (De corrupto Eccl. statu.
Basil. 1557). In esso introduconsi a favellare
tra loro Gaufrido o, come altri leggono, Gaufredo, e Aprile. Il primo interroga Gaufrido
sullo stato di Roma, sulla corte del papa,
su’ costumi dei cardinali, ed altre particolarità
di quella corte. Gaufrido gli risponde, e del
papa e della corte romana gli dice le giù gran
lodi del mondo. Ma esse al Flaccio sembrarono una continua ironia, e molto più che nel
codice usato dal Flaccio terminavasi il poema
con questo verso in bocca di Gaufrido:
O miser Aprilis, hic fuit Antifrasis.
Al contrario il P. Mabillon, avendone trovato
un codice nel monastero di Einsidlen, e non
sapendo eli’ esso fosse già stato pubblicato dal
Flaccio, lo diè alla luce ei pure (Vet Analecta p. 396, ed. 11011 però come una
satira, ma come un elogio della corte di Roma,
e intitolato perciò. Adversus obtrectatores Curiae TERZO •* 655
romanac. In fatti in questa edizione non sol
non leggesi il verso poc’anzi recato, ma al
poema si premette un’elegia, in cui l’autore
dice di essere stato esortato dal papa a intraprendere f apologia di quella corte. E forse non
mal si apporrebbe, chi sospettasse che il detto
verso fosse stato aggiunto dal Flaccio, o da
altro Protestante, per volgere in ironia ciò che
nel decorso del poema sembrava detto con verità. Or di questo poema ancora si fa comunemente autore Gaufrido, e ciò argomentasi dal
vedere che questo è il nome del principale interlocutore di questo poetico dialogo. Ma a me
sembra troppo difficile che possa essere il medesimo l’autore della Poetica Nuova e di questo poema. In questo veggiam espresso il cappello rosso de’ cardinali, de’ quali così dice il
poeta:
Vestibus incedunt communibus; attamen illud
Quod caput insignit, ut rosa verna rubet.
v. 617.
Non v’ha chi non sappia che questo ornamento
fu dato ai cardinali solo nel Concilio di Lione
del 1245, e perciò è certo che qualche tempo
dopo questo concilio fu composto il poema di
cui parliamo. Or ciò presupposto, se Gaufrido
fin dall’anno 1190 era già in età sufficientemente
matura per entrare a parte della guerra sacra,
è egli probabile che 60 anni dopo avesse ancora e forze per ritornare da Roma in Inghilterra , e brio per poetare? Io so che ciò non
è del tutto impossibile, ma so ancora che non
è sì agevole ad avvenire. L’autore di questo 656 LIBRO
poema (lice che fu il Cardinal Gaetano che lo
introdusse al papa.
Ille tamen, qui me promovit, et ante tribunal
Duxerut, a Ijecit i flecte, poeta, genu,
Cajetanus erat, ec. v. 745.
Questi potè essere quel Cardinal Giovanni Gaetano Orsino che fu sollevato a quella dignità
da Innocenzo IV l’anno 1244 e che poscia
l’anno 1278 fu eletto pontefice e prese il nome
di Niccolò III. E io credo che di lui appunto
parli il poeta: ma credo ancora che il papa a
cui il Cardinal f introdusse, non fosse già Innocenzo, ma Urbano IV che tenne la cattedra
di S. Pietro dall’anno 1261 fino al 1264. Ciò
mi si rende probabile da un passo di questo
poema medesimo, ove assai a lungo descrivonsi
gli eruditi ragionamenti e singolarmente le dispute filosofiche che dal pontefice si tenevano
co’ suoi commensali. Or noi abbiam altrove
provato colla testimonianza del famoso matematico Campano, il quale era uno degli eruditi
dal pontefice onorati della sua mensa, che Urbano IV di ciò assai dilettavasi, e che eran
questi gli ordinarii discorsi della sua tavola e
della sua conversazione. Egli è dunque probabile assai che questi sia il pontefice di cui il
poeta intende qui ragionare, e quindi sempre
più si comprova ch’ei non può essere quel Gaufrido medesimo autore della Nuova Poetica e
delle altre opere da noi mentovate poc’anzi. In
fatti a provare eli’ ei sia l’autore ancora di questo poema, l’unico argomento che si suol recare , si è l’essere un Gaufrido il principale TERZO 007
interlocutore di esso; argomento, come ognun
vede, troppo mal fermo, perciocchè qualunque
altro poeta poteva introdurre un Gaufrido a
parlare; e ancorchè si volesse- concedere che
l’autore di questo poema si chiamasse Gaufrido, non ne segue perciò ch’ei fosse quel desso
di cui abbiamo favellato. Non debbo però a
questo luogo dissimulare che a questo mio sentimento si oppone l’autorità, benchè da niuno,
per quanto io sappia, avvertita, di Riccobaldo
da Ferrara , il quale fa il medesimo Gaufrido
ossia Gualfredo autore di amendue i poemi
(Script. Rer. ital. vol. 5, p. 126): Huic (a Innocenzo III) scripsit Gualfridus librum, qui dicitur Poetria Novella, Orator Regis Angliae, et
alium librum de Officialibus Romanae Curiae,
qui incipit: Pastor Apostolicus. Ma forse ancor
Riccobaldo dalla somiglianza, o dall’identità
del nome fu tratto in errore; nè ciò dee parere strano , trattandosi di un italiano scrittore
che parla di un poeta inglese. E certo Riccobaldo ha errato scrivendo che Gualfredo avea
anche il secondo poema dedicato a Innocenzo III, e perciò questo passo non ha quell’autorità che a far certa pruova ci converrebbe.
XIII. Quando però sia vero che l’autore di
questo poema sia quel Gaufrido che in esso
s’introduce a parlare, chiunque egli fosse, e
di qualunque nazione, noi abbiamo qualche diritto ad annoverarlo tra’ nostri. Egli dice di
se medesimo ch’è stato lungamente in Roma:
Iste (Aprilis) locum nondum Romanae viderat urbis;
Alter (Gaufridus) erat tota cognitus urbe diu.
Ver. 5i.
Tiraboscui, Voi. IV. 42 658 duro
E altrove più chiaramente afferma che quattro
volte era venuto a Roma e che vi era notissimo:
Sacra meam quater hanc viderunt limina frontem,
Et sum rimatus urbia operta sacræ:
Unde tibi, cum sim toii notissimi!s Urbi,
De rerum serie vera referre scio.
I er. 64!•
E quindi, s1 ci non fu italiano, ci convien dire
eli1 egli vivesse per non breve tratto di tempo
in Italia e in Roma. Dal prologo in versi a questo poema premesso, raccogliesi che l’autore
di esso avea poco prima scritto de’ mali onde
era allora travagliata la Chiesa, perciocchè egli
si fa esortar dal pontefice a scrivere l’Apologia
della Corte romana in tal modo:
Ille mihi dixit, ut qui nuper cecinisti
Ecclesiae lacrimas , scribe , resume stilum.
v. 5.
Alcuni che credono autor di questo poema quel
Gaufrido che scrisse la Poetica Nuova, pensano che voglia qui alludersi a un tratto di
essa, ove parla di tale argomento. Ma se la
Poetica fu dedicata a Innocenzo III, morto
nel 1216, e se il poema, di cui trattiamo, fu
scritto solo dopo il 1245, come si è dimostrato, non sarebbesi certamente detto che poco
prima egli avesse scritta la sua Poetica. Egli è
dunque assai più probabile che un altro poema
avesse scritto f autore di questa Apologia della
Corte romana; e che in esso egli avesse descritto i mali onde gemeva oppressa la Chiesa.
Ma convien dire ch’esso sia interamente perito.