Storia delle arti del disegno presso gli antichi (vol. II)/Libro settimo - Capo II

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Libro primo - Capo II

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C a p o   II.


De’ lavori in bronzo — I greci artisti lo preparavano per gettarlo... nelle forme — Quindi fuso lo univano... e saldavanlo — Intarsiatura fattavi sopra - Patina, verdognola. — Indoravasi il bronzo — Due maniere d'indorare — Talora fu pur indorato il marmo ~ Commettevansi gli occhi alle figure — Ragguardevoli statue di bronzo... nel museo d’Ercolano... a Roma... nella villa Albani... a Firenze... a Venezia,... a Napoli... in Ispagna... in Germania... e in Inghilterra, — Delle monete falsificate e indorate.

De’ lavori in bronzo.
I greci artisti lo preparavano per gettarlo...
Il meccanismo de’ lavori in bronzo consiste principalmente nella fusione del metallo. A questa lo preparavano gli antichi, come si usa oggidì, mescolandovi dello stagno, affinchè si fondesse più facilmente1; poichè, quando non v’è sufficiente copia di stagno, il bronzo non vuole scorrere, e allora dicesi incantato. Narrava a questo proposito Benvenuto Cellini, celebre ed esperto fonditore, che, avendo egli a gettare una statua, ordinò che mentre desinava si aprisse il foro del fornello, onde il fuso metallo colasse nell’apprestata forma; e quando uno degli operaj venne ad avvisarlo che la fusione erasi sospesa, diedegli i piatti, e tondi di stagno, di cui servivasi, acciò li gettasse nel forno; il che essendo stato fatto, il bronzo acquistò immantinente la necessaria fluidità2.

§. 1. Per avere una più sicura e facile fusione si gettavano talora delle figure di rame; e di tal materia sono i [p. 33 modifica]quattro cavalli di Venezia, de’ quali parlerò più sotto. Si preferiva anche il rame al bronzo, quando voleansi indorare le statue, sì perchè quello più facilmente di questo s’indora, sì perchè costa meno, e vana sarebbe stata la spesa nel bronzo che doveva essere coperto.

§. 2. A questa necessaria addizione dello stagno al bronzo quando ha sofferto nella sua prima composizione dobbiamo attribuire tutti que’ bucolini, o bullolette che osserviamo negli antichi lavori; poiché lo stagno, come materia più fluida, venendo più facilmente consunto dall’azione del fuoco, lascia nel bronzo voti gl’interstizj che occupava, e lo rende quasi simile ad una pomice, e assai leggiero. Questa leggerezza è ben sensibile sulle grandi monete, dette medaglioni, che sono state nel fuoco; e loro altresì avviene che essendo private dello stagno, quasi della loro parte oleosa, se dopo d’essere state disotterrate stiano per qualche tempo esposte all’aria o all’umido, vestonsi d’una patina verde che il vecchio bronzo corrode e distrugge.

...nelle forme. §. 3. Per dire qualche cosa delle forme, in cui gli antichi gettavano il bronzo,, osserverò che ognuno dei quattro cavalli, posti sul portale della chiesa di s. Marco a Venezia, è stato fuso in due forme, delle quali ognuna comprendeane la metà pel lungo, cioè dalla testa alla coda: in tal modo non era necessario rompere la forma dopo il getto, siccome far si suole generalmente3.

Quindi l’univano... §. 4. Ne’ lavori di getto è pur da osservarsi l’arte con cui i varj pezzi di metallo a varie riprese gettati insieme si univano, principalmente presso i più antichi, i quali in tal maniera formavano le statue, attaccandone fra di loro [p. 34 modifica]le parti con de’ chiodi: così fu lavorato il Giove a Sparta da’ Learco di Reggio della scuola di Dipeno e Scilli4.

§. 5. Questo più facil metodo di formare le statue si conservò anche ne’ tempi posteriori, come appare da sei figure muliebri di grandezza naturale e meno nel museo d’Ercolano, nelle quali non solo attaccate sono le teste, le mani, e i piedi, ma nemmeno d’un pezzo solo è il corpo; e tutt’i pezzi sono innestati fra di loro cogl’incastri fatti in questa forma che noi chiamiamo a coda di rondine. Il breve manto delle accennate figure, composto di due pezzi, uno dinanzi e l’altro di dietro, vien in tal maniera unito insieme sulle spalle, ove rappresentasi abbottonato.

§. 6. Con questo metodo gli antichi si esimevano dal pericolo delle fusioni fallate, o mancanti, che troppo difficilmente si evitano ne’ getti delle intere statue, principalmente su alcune parti5. Quando pur questi falli accadevano, vi si apportava il riparo con un rappezzamento, di cui vedonsi le tracce ne’ mentovati cavalli di Venezia, ove i pezzi mancanti sono attaccati con de’ chiodi, come si può vedere dalle medesime figure in rame che ne abbiamo6. Io [p. 35 modifica]posseggo un pezzo, che verosimilmente è una rappezzatura d’un getto fallato, e che appartenne ad una giovanile statua d’uomo di grandezza naturale, di cui, oltre questo pezzo, non s’è conservata che la testa, la quale stava dianzi nel museo de’ Certosini a Roma, ed è ora nella villa Albani. Questo rappresenta le parti sessuali, che alla statua erano state aggiunte di poi; ed è rimarchevole, che interiormente in quella parte, a cui corrisponde il pettignone, veggonsi tre lettere greche ΙΠΧ lunghe un palmo, che mai non si sarebbono potute vedere se non faceasi in pezzi la statua. Montfaucon fu mal informato quando credè che la statua di M. Aurelio a cavallo fosse battuta a martello, anziché fusa7.

... e saldavanlo. §. 7. La saldatura nelle figure in bronzo degli antichi si scorge ne’ capelli e nelle ciocche pendenti sì ne’ prischi lavori che in quelli del fior dell’arte. Il più antico monumento, ove ciò si ravvisi, e al tempo stesso una delle più vetuste opere, è un busto femminile del museo d’Ercolano, in cui dalla fronte fino alle orecchie a quattro o cinque giri vi hanno cinquanta ricci, che sembran fatti d’un fil di ferro, grosso quanto una penna da scrivere, e vi sono l’un sull’altro saldati. I capelli di dietro sono fatti a treccia, e circondanle il capo. Nel museo medesimo ha i capelli similmente saldati una giovane testa virile; e un’altra testa, che sembra essere un ritratto, ha così attaccati sessantotto ricci, oltre quelli che le pendono sciolti sul collo, e che sono stati gettati insieme alla testa medesima. Ognuno di que’ ricci è simile ad una piccola striscia di carta rotolata e quindi tesa pei due capi, onde vien a prendere una forma spirale. Cinque e più spire hanno quelli che cadono sulla fronte: quelli che pendono sul collo ne hanno persin dodici, e tutti hanno ai due lati incisa sull’orlo una linea.

[p. 36 modifica]§. 8. Che quest’uso siasi mantenuto presso gli artisti anche ne’ più bei tempi, appare da una testa ideale del medesimo mufeo, che generalmente vien detta la testa di Platone; ed è senza dubbio uno de’ più bei lavori in bronzo, che ci abbia tramandato l’antichità; ha questa eziandio i ricci alle tempie saldati8.

Intarsiatura fattavi sopra §. 9. Diremo pur qualche cosa delle intarsiature in bronzo. Il diadema dell’Apollo Sauroctonos (Lucerticida) nella villa Albani, le basi di alcune figure del museo Ercolanense, e alcuni lavori riferiti dal Buonarruoti9 sono di bronzo intarsiati d’argento. Usavasi anche talora di fare alle statue le ugne d’argento, sì alle mani che ai piedi, come vedesi in due figurine del museo d’Ercolano; e tale era una statua rammentata da Pausania1011. I quattro cavalli indorati, che il celebre e ricco oratore Erode Attico fece collocare a Corinto, aveano l’ugna d’avorio12.

Patina verdognola. §. 10. Nè dee quì passarsi sotto silenzio quel colore che acquista il bronzo col tratto di tempo, e che accresce pregio alle statue. Nasce questo colore da una patina verdognola che tanto più è bella, quanto più fino è il bronzo, e da’ Romani chiamavasi ærugo, onde a ragion fu detta da Orazio nobilis ærugo13. Il metallo di Corinto prende un verde lucido14, qual si vede sulle monete e su qualche statuina15. Le statue e le teste del museo d’Ercolano sono d’un verde-cupo, che però [p. 37 modifica]è artifiziale; poiché essendo stati tutti que’ monumenti trovati rotti e in pezzi, fu necessario unirli insieme e saldarli coll’ajuto del fuoco, che distrusse l’antica patina, onde vi fu data la nuova; osservandosi generalmente che, quanto ha un più bel verde la patina, tanto più antico è il lavoro; colla qual massima gli antichi preferir solevano le antiche statue alle moderne.

Indoravasi il bronzo. §. 11. Molte statue di bronzo sono state indorate, come dimostra l’oro stesso, che ancora si scorge nella statua equestre di M. Aurelio16, negli avanzi della quadriga che stava nel teatro d’Ercolano17, nei quattro cavalli di Venezia, e nell’Ercole del Campidoglio1819. Che l’indoratura siasi conservata in lavori rimasti per molti secoli sotterra, attribuirsi deve alla grossezza delle foglie d’oro, che gli antichi non usavano tirare a tanta sottigliezza, come facciam noi20; e Buonarruoti ne ha fatta vedere la differenza21. Quindi è che sì belle e sì fresche sono le indorature di due camere nelle [p. 38 modifica]ruine del palazzo de’ Cesari nella villa Farnese sul Palatino, che sembrano fatte di recente, malgrado l’umidità cagionata dalla terra, che le copre. Non si possono ivi vedere senza maraviglia le fasce difpofte a forma d’archi, e dipinte in color azzurro con figurine in oro22. L’indoratura s’è pur conservata nelle ruine di Persepoli23.


Due maniere d’indorare. §. 12. Indorasi a fuoco in due maniere assai note. L’una dicesi indorare allo spadaro, ossia alla maniera degli spadari, cioè applicando le foglie d’oro sul metallo che vuolsi indorare. L’altra chiamasi amalgama, ed eccone il processo. Si fa scioglier l’oro nell’acqua forte, vi si versa quindi dell’argento vivo, e si mette a un fuoco leggiero, finché tutta l’acqua svapori: quindi l’oro s’unisce al mercurio, e ne risulta una pasta, con cui, finché è ben calda, si stropiccia il metallo dopo d’averlo ben pulito24. Sembra a principio che se gli sia data una vernice nera, ma esponendolo nuovamente al fuoco, tutto il mercurio svapora, e riman puro e lucidissimo l’oro. Questa maniera, in cui s’incorpora a così dire, e si compenetra l’oro col metallo, era ignota agli antichi; essi non sapean indorare se non colle foglie d’oro, dopo d’aver coperto o strofinato col mercurio il metallo25; onde, come dissi pocanzi, la durata dell’oro negli antichi [p. 39 modifica]monumenti non ad altro devesi che alla grossezza delle foglie, la quale è tuttora visibile nel cavallo di M. Aurelio.

Talora fu pur indorato il marmo. §. 13. Gli antichi adoperavano la chiara dell’uovo per indorare il marmo26; ma oggidì i nostri artefici si servono dell’aglio con cui lo strofinano, e poi vi stendon sopra una leggiera mano di gesso, fu cui applicano le foglie d’oro. Altri in vece d’aglio usano il latte di fico, cioè quel suco che esce dal picciuolo del fico, quando spiccasi immaturo ancora, e che è sommamente penetrante e caustico. In alcune statue scorgonsi tuttora indizj d’indoratura nei capelli e nel panneggiamento, come vedeansi nella bella Pallade di Portici quando fu scoperta; anzi si trovano delle teste intere indorate, qual è, fra le altre, una testa d’Apollo nel museo Capitolino. Quarant’anni fa fi trovò la parte inferiore d’una testa, che sembrava un Laocoonte, la qual era indorata; ma l’oro, in vece d’esser dato sul gesso, eravi stato applicato immediatamente sul marmo.

Commettevansi gli occhi alle figure. §. 14. Al meccanismo della scultura appartengono gli occhi incastrati, quali trovansi in molte teste sì di marmo che di bronzo. Né parlo io già di quegli occhi argentei incassati in testa alle figurine di bronzo, delle quali parecchie sen veggono nel museo d’Ercolano, né delle gemme incastrate entro la pupilla d’alcune grandi teste di bronzo per imitare il colore dell’iride, quali vedeansi nella Pallade d’avorio lavorata da Fidia27, e in altra Pallade collocata nel tempio di Vulcano in Atene, la quale avea perciò gli occhi cilestri, [p. 40 modifica]γλαυκοὺς τοὺς ὀφθαλμοὺς28. Tali cose sono già state da altri osservate, e altronde molto importanti non sono per l’arte. Io parlo principalmente del bulbo intero incastrato nell’occhio, e fatto d’un marmo candidissimo e tenero detto palombino29. Quello v’era talora non solo incastrato, ma fortemente attaccato, come vedesi in una bella testa muliebre presso il sig. Cavaceppi, nella quale entro il concavo dell’occhio, sì sotto che nel tondo, veggonsi ancora i forellini in cui il bulbo era fissato. Avean occhi fissatti non solo le figure degli dei, ma quelle eziandio degli uomini30, come argomentasi da quella statua dello spartano Jerone, da cui caddero gli occhi prima della battaglia di Leutra, nella quale restò ucciso; e si pretese allora che la sua morte dal danno avvenuto alla sua statua venisse indicata31. Scorgesi ciò ancor più chiaramente in alcune teste del museo Ercolanense, ove siffatti occhi hanno il più grande dei due busti d’Ercole, una piccola testa d’ignoto giovane, un busto di donna, ed il preteso busto di Seneca. Tali teste son già da lungo tempo esposte al pubblico32, ma ne fu poscia scoperta un’altra con simili occhi, unitamente all’Erme marmoreo su cui stava, con questo nome inciso: CN. NORBANI. SORICIS.

§. 15. Ma particolari fra tutti sono gli occhi della bellissima testa colossale d’Antinoo nella villa Mondragone a Frascati33, e della Musa nel palazzo Barberini, di cui [p. 41 modifica]parlerò in appresso. In quella il bulbo dell’occhio è formato del suddetto marmo palombino, ma intorno intorno le palpebre e negli angoli vi si scorge ancora l’indizio d’una sottilissima foglia d’argento, con cui probabilmente avea l’artista tutto coperto il bulbo, affine d’imitare col lucido dell’argento il bianco della cornea, che tende alquanto al ceruleo, tagliandone poi nel mezzo il circolo dell’iride: questa è incavata, ed ha in sé un forellino più profondo al luogo ove si suppone il lume dell’occhio; ond’è probabile che sì l’una che l’altro fossero indicati da due differenti pietre preziose, analoghe pel colore a quelle parti dell’occhio che doveano rappresentare. Incassati nello stesso modo erano gli occhi della mentovata Musa, come si argomenta da un avanzo di sottil foglia d’argento rimastole fra le palpebre34.

Ragguardevoli statue di bronzo ... §. 16. Poiché fra tutti gli antichi monumenti dell’arte più rari degli altri sono i lavori in bronzo, spero che non farà discaro al mio leggitore, se qui gl’indicherò i più ragguardevoli bronzi antichi che fino a noi si sono conservati, e che non molti erano prima che si scoprissero quelle città che il Vesuvio ha distrutte e sepolte.

§. 17. Non credasi però che io voglia qui tutte nominare le opere in bronzo del museo Ercolanense, che possiede un immenso tesoro in questo genere: troppo lunga farebbe, e qui non necessaria impresa. Mi basterà l’indicarne alcune più ragguardevoli statue di grandezza naturale, tanto più che in molti luoghi di questa Storia già di molti altri monumenti di quel museo ho fatta menzione. Ma poiché in Roma, e più ancora negli altri luoghi i bronzi antichi son rari, tutte rammenterò le statue e le teste a me note, omettendo però quelle figure che non sono più grandi di [p. 42 modifica]due palmi, e che numerosissime sono, principalmente di lavoro etrusco. Se però indicheronne alcune, faranno opera greca, e d’un merito singolare.

... nel museo d’Ercolano... §. 18. Fra le statue di grandezza naturale d’Ercolano le più ammirabili sono un giovane Satiro che siede e dorme, tenendo la destra sul capo, e la sinistra pendente35, e un altro Satiro ubbriaco sdrajato su un otre, sotto il quale è stesa una pelle di leone36. Questo Satiro colla sinistra si sostiene, e colla destra alzata sta in atteggiamento di fare scoppio colle dita in segno d’allegrezza, com’era la statua di Sardanapalo che vedeasi ad Anchiale nella Cilicia37, e come s’usa anche oggidì in alcuni balli. Più pregevole ancora a molti riguardi è un Mercurio sedente38, inchinato avanti col corpo, il quale stende indietro la gamba sinistra, e si appoggia sulla man destra, restandogli ancor nella sinistra una parte del caduceo. Questa statua, oltre l’esser bella, è pur rimarchevole per un affibbiaglio in forma di piccola rosa, posto in mezzo della cavità che formasi al di sotto del piede, e per le stringhe de’ talari ivi legate, le quali, siccome impedirebbongli di posar a terra il piede senza incomodo, così sembrano messe per indicare che quel Mercurio non è fatto per correre, ma bensì per volare. Del suo mento, che ha una fossetta al di sotto, ho già parlato altrove39, Dopo di queste tre statue sono stati disepolti due giovani Lottatori ignudi di grandezza naturale, che stanno un contro l’altro, e colle braccia in atteggiamento di venir alle prese nel miglior modo40. Queste statue hanno il loro luogo in differenti stanze, e possono [p. 43 modifica]con ragione annoverarsi tra i più pregevoli monumenti rimastici dell’antichità; il che si può dire eziandio delle quattro o cinque statue muliebri in atto di danzare, poste sulla scala che conduce al museo, non meno che di quelle de’ Cesari, e delle romane imperatrici, più grandi ancora delle mentovate, e che si vanno successivamente restaurando. Essendomi proposto d’indicare, tra le statue di questo museo, quelle soltanto che sono di grandezza naturale, ometto di parlare del preteso Alessandro e d’un’Amazzone, amendue a cavallo e alte tre palmi41, di un Ercole, di molti Sileni, altri sedenti sugli otri, ed altri a cavallo di essi, i quali serviano per bocche di fontane, e di altre figure di consimil grandezza, oltre le più piccole che moltissime fono. Così nulla dirò de’ ventiquattro busti, parte di grandezza naturale e parte minori, i quali sono stati pubblicati nel Tomo V. del museo d’Ercolano.

..a Roma... §. 19. Non oserei asserire che maggior numero d’antichi bronzi sia in quel museo, che in tutta Roma; ma tengo per fermo esservi colà maggior numero di statue, sebbene pur qui parecchie io ne possa annoverare. Comincierò dal Campidoglio. Oltre la statua equestre di M. Aurelio poco men che colossale posta sulla piazza del Campidoglio, v’è nel cortile interno alla destra la pretesa testa colossale di Commodo, ed una mano, che probabilmente appartennero alla medesima statua. Nel palazzo de’ Conservatori si vede il famoso Ercole maggiore della grandezza naturale, che ha tutta ancora l’antica indoratura: di grandezza naturale sono la statua d’un Camillo, ossia d’un di que’ fanciulli che ministravano ne’ sagrificj in semplice sottoveste succinta42, quale soleano essi portare, e quale lor vien data su varj [p. 44 modifica]bassi-rilievi; e quella d’un altro fanciullo sedente che si cava una spina da un piede43. E’ pur ivi la Lupa etrusca che allatta Romolo e Remo, di cui s’è parlato nel Lib. III.44, il busto che passa sotto il nome di Bruto, e due oche o piuttosto anitre, che sono state indorate, come la Diana triforme del museo Capitolino, la quale però, non avendo più che un palmo d’altezza, non dev’essere qui rammemorata. Indorati similmente sono due pavoni di bronzo posti nel giardino interno del palazzo Vaticano, vicino ad una gran pigna dello stesso metallo, la quale avea forse servito di ornamento sulla cima del sepolcro d’Adriano45, entro cui è stata trovata46.

§. 20. Poche statue di bronzo veggonsi nelle altre gallerie e musei di Roma. La più nota è quella di Settimio Severo nel palazzo Barberini47, in cui però moderno lavoro sono le braccia e i piedi; ivi pur è la mentovata figura etrusca tenente un cornucopia di recente lavoro, e nel museo di quello palazzo conservasi un bel busto femminile.

§. 21. Il museo del collegio Romano abbonda di antiche opere in bronzo, che però fono per lo più piccole figure48. Le più grandi, rappresentanti un fanciullo e un [p. 45 modifica]Bacco, compresovi lo zoccolo pur antico, oltrepassano di poco i tre palmi: ivi è la bella testa d’Apollo di grandezza naturale, di cui s’è dianzi parlato, ed una, alquanto minore, testa giovanile indorata. La figura del fanciullo in atto di correre49, posseduta dianzi dal rinomato antiquario Sabbatini, è ora presso il signor Belisario Amidei, che comprolla per 350. scudi romani.

§. 22. Fra le ville o case di diporto a Roma, tre sono qui da rammentarsi principalmente, cioè Lodovisi, Mattei, ed Albani. V’è nella prima una testa colossale di M. Aurelio, e nella seconda una testa alquanto offesa, che dicesi di Gallieno50.

... nella villa Albani... §. 23. La villa Albani è, dopo del Campidoglio, il luogo di Roma in cui siavi maggior copia di lavori in bronzo; e quanto ivi contiensi fu tutto comperato o scoperto dal signor cardinale Alessandro, che la villa stessa con regia magnificenza ha fatta edificare. Due teste in bronzo vi sono di grandezza naturale, una d’un Fauno, e l’altra d’un giovan eroe, che dicesi di Tolomeo, non per altro che per esser cinta d’un diadema. Amendue collocate furono fu un busto moderno, e la seconda è quella di cui ho fatta menzione nel Capo antecedente, parlando delle parti naturali segnate al di dentro con lettere greche51. Vi si vedono cinque statue, due delle quali si sono conservate intere, due hanno di bronzo la testa, le mani, e i piedi, ma d’alabastro n’è il panneggiamento: e intera è pur la quinta, che di tutte è la più bella e la più grande. Le due prime stanno su i loro zoccoli antichi di bronzo, ed hanno circa [p. 46 modifica]tre palmi d’altezza: una di queste rappresenta un Ercole nell’attitudine del Farnese, e fu pagata dai signor cardinale 500. scudi romani; l’altra è una Pallade, che appartenne dianzi alla regina Cristina di Svezia, e gliene costò 800. Le altre due figure insieme unite di varj pezzi sono una Pallade, ed una Diana. La quinta è il bell’Apollo Sauroctonos52, di cui già più volte ho parlato in quella Storia, e ne parlerò nuovamente, mentovando le opere di Prassitele, di cui potrebbe credersi lavoro: ha cinque palmi d’altezza compresavi l’antica base53. Fu fatta disotterrare questa statua dal sig. cardinale medesimo in una sua vigna sul colle Aventino sotto la chiesa di santa Balbina.

§. 24. Non sembreranno certamente eccessivi i riferiti prezzi a chi ha letto in Cicerone che a’ suoi tempi in Roma ne’ pubblici incanti le figure in bronzo di mediocre grandezza (signum æneum non magnum) vendeansi H-S CXX. millibus54, cioè 3000. zecchini55; e si troverà che, sebbene ve ne fosse allora molto maggior copia che oggidì, pur a più caro prezzo si comperavano. Si potrà quindi inferire quanto apprezzar si debba il mentovato Apollo di grandezza poco men che naturale, essendo uguale ad un ben formato fanciullo di dieci anni.

...a Firenze... §. 2j. La galleria Granducale a Firenze è dopo Roma il luogo, in cui siavi maggior copia d’antiche figure in bronzo. Oltre molte piccole statue, due ve ne sono di grandezza naturale e ben conservate: una è vestita alla romana, ma nell’orlo del panneggiamento ha incisi de’ caratteri etruschi; e l’altra, scoperta a Pesaro presso il mar adriatico, pare che rappresenti un giovan eroe ignudo. Ivi pure [p. 47 modifica]sta la famosa Chimera, mostro composto d’un leone e d’una capra, con un’etrusca epigrafe. Ometto la Pallade di grandezza naturale, che solo intera e bella ha la testa, ed è malconcia nel resto. Ben mi ricorda d’aver fatta menzione di questi lavori nel Libro iiI. Capo iI.56; ma era necessario di nuovamente indicarli in questo luogo57.

...a Venezia §. 26. Forse Venezia avrebbe dovuto nominarsi prima di Firenze, a cagione di quattro cavalli di grandezza naturale di rame indorati, posti sulla porta della chiesa di s. Marco. Questi cavalli furono presi a Costantinopoli nel secolo XIII., allorché per breve tempo vi signoreggiarono i Veneziani. Oltre questi monumenti, che sono unici nel loro genere, non v’è, ch’io sappia, nessun altra figura grande antica dì bronzo. Non rammenterò le figure del museo Nani, perchè son troppo piccole58, né la testa che è in casa Grimani, poichè non l’ho veduta, e non vuò qui riportarmi al giudizio altrui.

... a Napoli ... §. 27. A Napoli nel cortile interno del palazzo Colobrano v’è la bellissima testa di cavallo, che dal Vasari viene erroneamente attribuita al Donatello scultor fiorentino59. [p. 48 modifica]Nel real museo Farnese son molte figurine in bronzo, ma per la maggior parte moderne e di cattivo gusto. Lo stesso dicasi della collezione Porcinari, ove il pezzo più grande è un fanciullo alto tre palmi di meschino lavoro. La figura più pregevole è un Ercole alto un palmo, che ha la pelle di leone avviluppata al braccio sinistro; e sembra esser opera etrusca60.

...in Ispagna... §. 28. Ignoro quali antiche figure in bronzo siano ia Francia61. In Ispagna, col museo Odescalchi comprato dalla regina Elisabetta Farnese per 50000. scudi62, v’è stata portata una testa di grandezza doppia della naturale, rappresentante un giovanetto: trovali ora a sant’Idelfonso.

...in Germania... §. 29. In Germania vedesi a Salisburgo una statua di grandezza naturale, di cui parlerò al Lib. VIII. Capo IV. Il re di Prussia possiede una figura ignuda, che tiene alzate al cielo le mani e lo sguardo, simile in ciò ad una egualmente ignuda statua di marmo di grandezza naturale esistente nel palazzo Panfili sulla piazza Navona. Posso qui pur [p. 49 modifica]rammentare una testa di Venere, minor della grandezza naturale, su un antico busto di bell’alabastro orientale, che fu donata dal sig. cardinale Alessandro Albani al principe ereditario di Bruniwich.

... in Inghilterra. §. 30. Degli antichi lavori in bronzo, che potrebbero essere in Inghilterra, un solo n’è a mia notizia, cioè il busto di Platone che si dice aver ricevuto il duca di Devonshire dalla Grecia trent’anni fa. Dicesi somigliantissimo al vero ritratto di quel filosofo, che aveane scritto il nome sul petto, e che al principio del secolo antecedente, essendo stato imbarcato per la Spagna, si perdè in un naufragio. A quello pur somiglia un Erme del museo Capitolino, annoverato fra le figure non conosciute63.

Delle monete ... §. 31. Tra i lavori in bronzo, se meno considerevoli delle statue e d’altre grandi opere sono le monete, sono esse però sovente più importanti per le cognizioni che somministrano; e alla maggior parte de’ miei leggitori faranno utili le notizie che quelle risguardano; poichè, laddove pochi hanno l’opportunità di vedere statue antiche di bronzo, molti possedono, e quasi tutti veder possono delle antiche monete, le quali, e per la piccolezza loro e per la copia in cui ci pervennero, in ogni colto paese s’incontrano. Per quella ragione già innumerevoli libri abbiamo intorno alle monete antiche, e in parecchi eziandio si ragiona della maniera con cui furono coniate; onde io poche cose ne dirò64.

[p. 50 modifica]§. 32. Vedonsi delle antiche monete greche coniate con doppio impronto, uno incavato e l’altro rilevato. Tali pur sono alcune monete d’imperatori e di famiglie romane. In queste l’impronto incavato vi fu fatto per abbaglio; ma dei due differenti conj o ponzoni si veggono dipintamente le prove fu alcune monete: ed io posso mostrarne una, in cui Nettuno dal lato rilevato ha la barba e i capelli crespi, la verte gli pende sulle braccia per dinanzi, e gira intorno all’orlo un fregio di due cordoncini d’una tessitura poco stretta; laddove dalla parte incavata è senza barba con chioma liscia: pendegli per di dietro la veste, e vi gira intorno una ghirlanda di spiche: da amendue i lati il tridente è rilevato. Il signor abate Barthelemy è d’opinione che ce’ primi tempi le monete fossero battute sopra il conio col martello in guisa che naturalmente venissero ad avere nel rovescio un campo quadrangolare ed incavato, Osservasi che l’impronto delle monete sì ne’ primi tempi, che mentre l’arte fioriva, per lo più è quasi piano65; ma ne’ secoli seguenti ed ai tempi degl’imperatori romani vedesi questo più rilevato.

... falsificate e indorate. §. 33. Meritano la nostra attenzione, non meno delle monete legittime, quelle che dagli antichi medesimi sono state falsificate, delle quali altre sono state coperte d’argento, altre d’oro. Le prime, che sono di rame vestito d’una sottil foglia d’argento, s’incontrano sovente fra le monete de’ Cesari. Più rare son le seconde, e una ve n’ha nel museo del duca Caraffa Noya colla testa e nome d’Alessandro il Grande si ben conservata che l’inganno non si può conoscere da altro che dal peso66. Porterò qui un’iscrizione [p. 51 modifica]esistente nella villa Albani e non ancor pubblicata, in cui si fa menzione dell’arte d’indorar le monete.

D               M


FECIT MINDIA HELPIS. C. IVLIO. THALLo
MARITO. SVO BENE MERENTI QVI EGIT
OFFICINAS PLVMBARIAS. TRASTIBERINA
ET TRIGARI SVPERPOSITO AVRI MONETAE
NVMVLARIORVM. QVI VIXIT ANN. XXXIIIMVI
ET. C. IVLIO THALLO FILIO DVLCISSIMO QVI VIXIT
MESESIIII. DIES XI ET SIBI POSTERISQVE SVIS67.

Note

  1. Plinio lib. 34. cap. 8. sect. 20., e ivi Arduino not. 9.
  2. Cellini racconta nella sua vita p. 275., che assisteva al getto d’una statua; e avendo veduto, che il metallo non correva per essersi consumata la lega dello stagno colla forza terribile del fuoco, fece prendere tutti i suoi piatti, scudelle, e tondi di stagno, i quali erano in circa duecento, e in parte li mise a uno a uno nelli canali, e parte li fece gettare dentro alla fornace; con che la fusione andò a perfezione.
  3. Per fare le forme gli antichi si servivano della creta mescolata con fiore di farina, come bene osserva l’Arduino nelle note a Plinio lib. 18. cap. 10. sect. 20. § 2.; e lo ha notato anche Winkelmann nel Tom. I. pag. 25. princ.
  4. Paus. lib. 3. cap. 17. pag. 251. in fine.
  5. Gli antichi, per quanto scrive Filone di Bisanzio De septem orb. spect. cap. 5. p. 13. non facevano statua alcuna, intendendo di grandi, tutta d’un sol getto; ma le facevano a pezzi membro per membro, unendoli poi insieme a norma del modello, che ne avevano fatto da principio: Simulacra artifices primum fingunt, deinde in membra divisa constant, tandem omnia recte composita erigunt. Ma non dice come unissero le parti, se per mezzo di chiodi, o di saldatura. Il colosso famoso di Rodi fu fatto anche a pezzi, ma in altro modo; cioè, come seguita a dire Filone, prima si gettava una parte, cominciando dalle gambe, la quale poi si circondava tutta di terra, e sopra vi si gettava l’altra; e così di mano in mano. Dal che pare che possiamo arguire, come osserva Guasco De l’Usage des stat. l. par. ch. XIV pag. 159., che gli antichi sapessero unire il getto freddo al caldo; come fra i moderni fu praticato dal le Moine nella statua equestre gettata in Bourdeaux, a cui fece la metà superiore con un secondo getto per riparare al primo fallato.
  6. Si veda anche per esempio la Tav. V. del Tomo antecedente di questa Storia. Quel taglio, che dal mento scende fino alle spalle della figura, indica, che essa fu rotta in quel luogo, o era vicina a rompersi; e da tempo antichissimo fu assodata con un perno della stessa materia sotto al mento, che si vede indicato anche nella detta Tavola. Nelle altre figure in bronzo, che ho veduto, e specialmente in una mezza gamba di cavallo grande quasi al naturale, i molti falli, che v’erano flati, si vedono rappezzati con de’ piccoli pezzi quadrilunghi dello stesso metallo, perfettamente saldati, per quanto mi pare, collo stesso metallo, come ora diremo, che facevano gli antichi.
  7. Diar. ital. cap. 13. princ. pag. 169.
  8. Dal giureconsulto Paolo nel luogo citato sopra alla pag. 23. not. a. abbiamo, che si saldassero alle statue anche le braccia, le gambe, ed altre parti restaurate; e che si saldava o col piombo (volendo forse intendere del piombo bianco, o stagno, di cui parla Plinio lib. 34. cap. 17. sect. 48.), o collo stesso metallo; nelle quali maniere si usava saldare anche l’argento, come si rileva da Pomponio nella l. Quidquid 27. princ. ff. De adquir. rer. dom. L’oro, al dire dello stesso Plinio lib. 33. cap. 5. sect. 29., si saldava colla crisocolla, temperata con ruggine di Cipro, urina di fanciullo, e nitro.Il primo, che trovò l’arte di saldare il ferro col ferro medesimo, fu un certo Glauco da Scio. Pausania lib. 10. cap. 16. pag. 834.
  9. Pref. alle osserv. sopra alcuni medagl. pag. XIX.
  10. lib. 1. cap. 24. pag. 57. princ.
  11. Un busto riportato in rame dal P. Paciaudi Monum. Pelop. Tom. iI. pag. 69. ha le labbra d’argento.
  12. Idem lib. 2. cap. 1. pag. 113. princ.
  13. Non ho saputo trovare ove dia alla patina l’epiteto di nobile.
  14. Plin. lib. 37. cap. 10. sect. 55.
  15. Questo metallo più tardi degli altri si copriva di verde rame, o patina, come notò Cicerone Tuscul. quæst. lib. 4. cap. 14. Vedasi anche Plutarco Cur nunc Pythia non reddat orac. carm. princ., op. Tom. iI. p. 395., ove cerca la ragione per cui questo metallo prendesse la patina. Plinio lib. 34. c. 11. sect. 26. riferisce varie maniere di fare artificiosamente il verde rame; ma non dice, che si adoprasse a colorirne i lavori dell’arte.
  16. Scipione Metello di quelle statue equestri indorate, ne collocò una turma in Campidoglio. Cicerone ad Attic. i. 6. ep. 1. Vedi qui appresso cap. IV. §. penult.
  17. Di questa quadriga, e delle varie vicende a cui fu soggetta, parla a lungo l’Autore nella lettera, che nel 1762. scrisse al conte di Brühl sulle scoperte d’Ercolano pag. 23. & seqg. Ivi pure ragiona di tutti quali quegli altri monumenti Ercolanensi che nell’Opera presente ha egli non di rado indicati. [Vedi anche le lettere dello stesso Autore, che daremo nel Tomo iiI. di questa edizione romana; e Tom. I. pag. 389. not. a.
  18. Maffei Racc. di Statue ant. Tav. 20.
  19. In Velleja (città tra Piacenza e Parma che fu coperta da un monte, probabilmente nel secondo secolo, e fu a caso scoperta e sgombrata in parte non sono molti anni) furono disotterrati varj bronzi e trafportati poi a Parma. Tra questi vedesi una testa colossale dell’imperadore Adriano di rame dorato, alta 13. pollici, che appartenne ad una statua, di cui s’è pur trovata una mano, un piede, e parte del paludamento.
  20. Sapevano tirarle sottilissime, come attesta Plinio lib. 33. cap. 6. sect. 32.; ma non ne facevano uso, perchè l’argento vivo, che si adoprava per dorare, come si dice qui appresso, faceva comparire l’oro di un color pallido; perciò adopravano grosse foglie, a le raddoppiavano. Gli indoratori, che volevano rubare, come siegue a dir Plinio, trovarono l’arte di correggere questo difetto, usando la chiara d’uovo, o l’idrargiro (che male in qualche lessico si traduce per argento vivo) invece dell’argento vivo. Plin. l. cit. cap. 8. sect. 41. La vera maniera dunque, e più ricevuta, come più grandiosa, e più durevole, era coll’argento vivo, e foglie d’oro grosse: Æs inaurari argento vivo legitimum erat, l. c. c. 3. sect. 20.; o come scrive Vitruvio lib. 7. cap. 8.: Neque argentum, neque æs fine eo potest recte inaurari.
  21. Osserv. istor. sopra alc. med. Tav. 30. pag. 370. e 371.
  22. V’è qualche differenza da questa descrizione.
  23. Greave Descript. des Antiq. de Persepolis, pag. 23.
  24. Secondo che si usa in Roma, e come viene anche esposto nell’Enciclopedia, art. Dorure, l’oro si mette a liquefare coll’argento vivo in un crociuolo, finché si amalgamano, o si uniscono insieme come un unguento; poi si ravviva, o come dicono quì gl’indoratori, si schiarisce il pezzo da indorarsi con acqua forte al fuoco, e in appresso vi si stende sopra con uno strumento un suolo di quella mistura, dalla quale per mezzo del fuoco svaporando il mercurio, resta l’oro fortemente attaccato, e quasi incorporato al metallo. Ciò sia detto in coerenza di quello, che dice il nostro Autore; che del resto l’operazione è molto più lunga come si descrive nell’Enciclopedia.
  25. Plin. lib. 33. cap. 6. sect. 32. [ Questo scrittore nel cap. 3. sect. 20. espone meglio il metodo, che si teneva nell’indorare il rame, e il bronzo. S’infuocava prima il metallo, e si batteva, poi si smorzava con sale, aceto, e allume. Dopo si ripuliva, e dal colore rilucente si capiva se era purgato abbastanza. Si rimetteva quindi al fuoco, e portato a quel grado di calore necessario vi si spargeva sopra della pomice, dell’allume, e dell’argento vivo mescolati insieme per meglio schiarirlo; e dopo tutto ciò vi si stendevano le foglie d’oro. Credo che il signor Dutens Orig. des decouv. attrib. aux mod. iiI. par. ch. 3. §. 201. Tom. iI. pag. 51. non avrà letto tutto intiero quello luogo di Plinio; mentre colle sole parole, che ho riportate sopra pag. 37. nota b., e con quelle di Vitruvio ivi pur riferite, stabilisce, che gli antichi indorassero anche nella maniera dei moderni accennata pocanzi.
  26. Plinio lib. 33. cap. 3. sect. 20.
  27. Plat. Hypp. maj. op. Tom. I. p. 290. C. [ Winkelmann nel Tratt. prelim. ai Monum. ant. ined. par. iI. capo IV. pag. LV. a questo stesso proposito ha scritto per equivoco Giove olimpico di Fidia, in vece della Pallade fatta dallo stesso artista, come qui dice bene; e il signor Falconet, che pur dice di aver rincontrato Platone al luogo citato, poteva capire l’equivoco, e non farne argomento di una forte critica all’Autore, come fa nella sua diceria Sur deux ouvrages de Phidias, Œuvr. Tom, V. pag. 95.
  28. Paus. lib. 1. cap. 14. pag. 36. lin. 8.
  29. Tra i mentovati bronzi di Velleja v’è una testa femminile, alta un palmo e mezzo, con occhi d’alabastro, e un piccol Ercole Bibace, alto poco più d’un palmo, con occhi d’argento, fui cui zoccoletto leggesil la seguente ancor inedita iscrizione:

    SODALICIO. CVLTOR.
    HERCVL. DOMITIVS.
    SECVNDIO. OB HON.
    PATROC. SH. DED.

  30. E delle bestie, come li aveva di smeraldi quel leone di marmo posto al sepolcro del regolo Ermia nell’isola di Cipro; ed erano così lucenti, che i tonni in mare al vederli fuggivano. Plinio lib. 37. c. 5. sect. 17.
  31. Plutarch. Cur nunc Pythia non reddat orac. carm., oper. Tom. iI. pag. 397. E.
  32. E date nel Tomo V., ossia nel Tomo I. de’ bronzi di quel Museo.
  33. Monum. ant. ined. par. iiI. cap. XIV., num. 179. pag. 235.
  34. Pare che vi fossero artisti, che unicamente incastrassero gli occhi; arguendosi da quel fabbro oculariario, di cui si è parlato alla pag. 27. not. 1., e da un altro presso lo Spon Miscell. es. sect. 6. p. 232., e Buonarruoti Osserv, ist. sopra alc. med. pref. p. XII.
  35. Bronzi d’Ercolano, Tom. iI. Tav. 40.
  36. Ivi Tav. 42. e 43. Ne abbiamo parlato nel Tomo I. pag. 292. not. *.
  37. Strab. lib. 14. pag. 988. C., Plutarch. De fortit. Alexandri, Orat. 2. op. Tom. iI. pag. 336. C. [Ateneo l. 12. c. 7. p. 529. D.; e può vedersi ciò, che scrivono intorno a questa statua di Sardanapalo, e all’uso di quello scoppio presso gli antichi i dotti Accademici Ercolanesi nelle osservazioni sulle dette Tavole 42. e 43.
  38. Tav. 29 - 32.
  39. Tomo I. lib. V. capo V. §. 23. p. 372.
  40. Tav. 58. e 59.
  41. Vedi Tomo 1. pag. 389. e seg., ove se n’è parlato dall’Autore, e da me.
  42. Vedi Tom. I. pag.320. not. a.
  43. Queste tre veggonsi presso Maffei Racc. di stat. Tav. 20. 24. e 23.
  44. capo iiI. §. 11. pag. 202.
  45. Come viene rappresentata in tante stampe in rame.
  46. Narra Flaminio Vacca nelle sue Memorie, n. 61., che sia stata trovata nel fondare la chiesa vecchia della Traspontina, alle radici del Mausoleo di Adriano, ove crede che facesse fine al medesimo come impresa di quell’imperatore. Altri opinano, che abbia servito alla piramide degli Scipioni, altri al sepolcro di Onorio. Ma non può essere quella stessa pigna, di cui parla un canonico antico romano in un manoscritto conservato nell’archivio della sagristia Vaticana, in cui descrive lo stato della Basilica Vaticana a’ suoi tempi; e le parole del quale vengono riportate dall’Orlandi nella nota al Nardini Roma antica, lib. 7. cap. 13. in fine, p. 430.; imperocchè scrive, che una tal pigna era bucata nelle noci per gettar acqua, e che serviva ad una fontana del Panteon: Pinea ænea, quæ, fuit coopertorium cum sinino æneo, & deaurato super statuam Cybelis matris deorum in foramine Pantheon, in qua videlicet pinea subterranea fistula plumbea subministrabat aquam ex forma sabatina, quæ toto tempore plena præbebat aquam per foramina nucum omnibus ea indigentibus: il che non si può dire di quella del Vaticano, che non è bucata.
  47. Maffei loc. cit. Tav. 92.
  48. Si possono vedere in parte portate in rame, e descritte dal P. Contucci nel T. I. e iI. della descrizione dei bronzi di quel Museo.
  49. O piuttosto in atto di equilibrarsi reggendo un festone, o altra cosa nell’angolo di qualche tempio, a cui ne sarà stato contraposto un altro.
  50. Monum. Matthæj. Tom. iI. Tab. 31. fig. 1. È di Triboniano Gallo, ed è passata nel Museo Pio-Clementino, ove le si è adattato un bellissimo petto di alabastro fiorito ritrovato negli ultimi scavi della villa Negroni sull’Esquilino.
  51. pag. 35.
  52. V. Monum. ant. ined. par. I. cap. 18. n. 1. pag. 46. n. 40.
  53. Sono palmi quattro, ed once sei, come lo notò anche il P. Paoli nella più volte lodata opera Della relig. de’ Gentili, ec. parte iiI. §. LXV. pag. 176. princ. Vedi appresso lib. IX. capo iiI. §. 14.
  54. in Verr. Act. 2. lib. 4. cap. 7.
  55. Non zecchini, ma scudi.
  56. §. 9. e 10. pag. 179. e 180.
  57. Per maggior esattezza riporterò qui ciò, che di queste quattro figure scrive il sig. Lanzi nella più volte citata descrizione di quella galleria inserita nel Giornale de’ Letterati, Tom. XLVII. cap. 2. pag. 41. „ La prima, ch’è una Minerva, non è finita; anzi alla rozzezza, che vi rimane, e a’ due canaletti, pe’ quali fu introdotto il bronzo nella forma, può congetturarsi, che fosse già un un falso getto non ripulito dall’artefice. L’esser trovata in Arezzo mostra che fu opera di fonditor etrusco, e la meravigliosa bellezza, che vi si vede, fa conoscere, che all’antica Etruria non mancarono i suoi Lisippi. Bella, e unica per la lunga iscrizione etrusca, è la statua, che siegue d’Aulo Metello, o Metellino; se già que’ caratteri dicono ciò, che ne parve agli antiquarj. La terza è una chimera col nome etrusco, che pretendesi essere quel dell’artefice. L’ultima è statua di un Giovane, che in vista de’ corti capelli, e dell’atto simile a un Genio in bronzo del Museo Barberini, crederei anzi un Genio, che un Bacco; quantunque io veneri l’opinione contraria per l’autorità di quegli, che la difesero; fra’ quali fu il Bembo„. Delle altre molte figure in bronzo di poca grandezza, che stanno nella galleria medesima ne parla a lungo questo dotto espositore nel c. 3. p. 54, e segg.
  58. Ne riporta alcune il P. Paciaudi nell’opera sua Monumenta Peloponnesia, ec.; ma qui si deve almeno ricordare la figura greca di antichissmo stile, di cui ha parlato Winkelmann nel Tomo I. pag. 10., riportata dallo stesso P. Paciaudi nella detta opera Tom. iI. pag. 51., senza però indicarne la grandezza.
  59. Vite de’ più eccell. pitt. scult. ed archit. Tom. iI. nella vita di questo artista p. 166., ove l’editore ha notato lo sbaglio del Vasari.
  60. Altri antichi lavori in bronzo esistono in altre parti d’Italia. Nel real museo di Torino, oltre la celebre Tavola Isiaca, detta anche Bembica dal celebre card. Bembo, che ne fu possessore, vi sono de’ bronzi disotterrati nella distrutta città d’Industria. Di alcuni bronzi di Parma abbiamo parlato nelle due note precedenti, e molte altre statuette vi si sono trovate nel medesimo luogo pregevoli pel lavoro, ma tali che per la loro piccolezza non denno essere qui rammentate. Non parliamo della famosa Tavola Trajana già pubblicata [ dal Muratori ], ne d’altra tavola pur di bronzo, larga 14. once su 19. d’altezza, che facea parte d’una Tavola molto più estesa, contenente alcune leggi relative alla Gallia Cisalpina. Questa è inedita ancora. [ Nè parleremo delle famose Tavole Eracleensi illustrate dal Mazocchi, né di tanti altri monumenti di questo genere trovati non ha molto. ]
    A Pavia sulla piazza del Duomo v’è la statua equestre, detta il Regisole, creduta da alcuni di Commodo; ma che rappresenta Lucio Vero, come dirassi al libro XII. capo iI. §. 10. Avremmo noi pure un pregevole monumento di questa specie, se l’ignorante avidità non avesse fatta spezzare e fondere una statua colossale, trovata a principio di questo secolo a Lambrate, sito distante tre miglia da Milano. Una parte del piede ed un pezzo di panneggiamento coperti di bellissima patina verdognola, esistenti presso il signor D. Carlo de’ Marchesi Trivulsi, ci fanno argomentare quanto maestrevolmente fosse lavorata.
  61. Nel giardino reale di Versailles vi è la statua di un giovane nudo, incisa in rame da Simone Tomassino nel suo Recueil des stat., group. ec. de Versailles, Tom. I. pl. 26.; e per quanto sgli dice nella sua prefazione, dovrebbe avere 6. in 7. palmi di altezza. A questa li possono unire le moltissime figure riportate dal conte di Caylus nella sua grande Raccolta di antichità tante volte citata, benché siano per la maggior parte di poca grandezza; e qualcuna riportata dal padre Montfaucon nell’altra sua Raccolta.
  62. Comprato dal re Filippo V. per 25000. doppie, che fanno circa 75000. scudi.
  63. Varj lavori di bronzo collocò nel suo Museo il signor Conyers Middleton, e poi li diede incisi in rame nella sua opera intitolata, Antiquitates Middletonianæ, nella quale descrive il detto suo Museo. Egli però non dice la grandezza.
  64. Possono qui nominarsi alcuni de’ principali di questi scrittori per coloro, che non sono molto versati in questa materia: e sono, l’Agostini, l’Erizzo, l’Avercampio, l’Arduino, Vaillant, Spanhemio, Buonarruoti, Begero, Bandurio, Haym, Gesnero, Morelli, Pellerin, Frölich, Patino, Eckhell, Dutens, Neumann, Magnan. Altri possono vedersi presso Hirsch Bibliotheca numismatica.
  65. La testa di Alessandro il Grande nella moneta, che daremo in appresso incisa in rame, è molto ben rilevata.
  66. Fra quelle, che illustra il Buonarruoti nelle Osservaz. istor. sopra alc. medagl., non poche ve ne sono de’ Cesari in metallo rosso, o giallo, che sono state inargentate, o dorate, e anche prima inargentate, e poi dorate. E siccome tante se ne ritrovano, io non le direi con tal sicurezza falsificate dagli antichi; giacchè l’inganno si poteva scoprire facilmente; ma crederei piuttosto, che ciò fosse fatto per giuste ragioni, e forse nella zecca stessa per esser date in regalo a persone cospicue; oppure, che i particolari se le facessero indorare per la loro bellezza, e per conservarsele, come pensa il Buonarruoti l. c. Tav. 30.pag. 373.
  67. Ho ridotta cosi questa lapide alla sua vera lezione, come era stata anche riportata nel Giornale de’ Letterati, Tom. VI. p. 258. anno 1772. Non vi si parla punto dell’arte d’indorate; ma soltanto di un Cajo Giulio Tallo, che fu padrone, o direttore, e soprastante (come può spiegarsi in amendue i sensi, quell’egit officinas) a due botteghe, ove si lavorava il piombo, situate una nella regione di Trastevere, e l’altra nella regione IX. in quella parte, che si chiamava Trigario; e in seguito, oppure nello stesso tempo, anche direttore di coloro, che lavoravano le monete d’oro. Credo che ognuno possa essere facilmente persuaso, che questo ne è il vero senso; onde non mi estenderò di più a ripeterne le prove, che darà altrove in una lunga esposizione il più volte lodato signor abate Gaetano Marini assai vantaggiosamente noto anche per le sue molte erudizioni nella materia riguardante la lapidaria. Il ch. Autore della Istit. antiquario-numism. avendo trascritta quella iscrizione alla pag. 39. come qui la riportava Winkelmann, vi ha per conseguenza ripetuti i medesimi errori.