Il profeta velato/III

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Canto terzo

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Thomas Moore - Il profeta velato (1817)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Flechia (1838)
Canto terzo
II

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CANTO TERZO



     Oh! di chi son quelle dorate tende
Che ingombrano la via dove pur ieri
Taciturni e deserti erano i campi?
Chi fabbricò questa città di guerra
5Che sopra il piano all’improvviso è surta
Quasi colui che, in men che non sfavilla
Tremolando una stella, erge l’eccelse
Sale di Chilminar, levato avesse

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Con magica virtù queste infinite
10Cupole e tende e il lucido apparecchio
Che, quant’occhio comprende, in vago aspetto
D’armi e d’armati la contrada ingombra?
Vedi regali padiglioni a cui
Fanno schermo dal sol vaghe cortine
15In porpora tessute e vagamente
Di palle d’oro il culmine risplende;
Vedi superbi e nitidi cavalli
Che le loro coverte han ricamate
A fil d’argento e splendide pettiere
20E borchie e freni luminosi e vaghi.
Vedi camelli a cui pendon vezzosi
D’ogni parte fiocchetti e cordicelle
E conchiglie leggiadre e ad ogni scossa
N’esce per l’aure un’armonìa gioconda.
     25Quando in mare scendea l’ultimo sole
Questa vasta pianura era sì muta
Che suono non s’udia, tranne il lontano
Mormorar del torrente ed il ronzio
Dell’augello che penne ha di locusta.
30Or odi! un alto ed indistinto al vento
Si diffonde schiamazzo e d’ogni lato
Sorgon gridi e cachinni; odi i nitriti
Di frementi corsieri; odi il tintinno

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De’ sonagli che scotono incedendo
35Lentamente i camei, mentre cantando
Li sospingono avanti i condottieri;
E un suon d’armi percosse, un agitarsi
Di mille e mille banderuole al vento;
Un’armonia guerresca, un cupo e grave
40Di tamburi frastuono e di timballi;
O, se questi son muti, un più pacato
Suonar di corno e di liuto a cui
Lontan lontan dell’abissine squille
L’aquilino risponde aspro concento.
     45Chi questa poderosa oste conduce? —
Chiedete «chi?» nè ravvisate erette
Sulla tenda regal quelle bandiere
D’un oscuro color, la Notte e l’Ombra?
Queste son le temute e glorïose
50Insegne del califfo; — egli sedeva
Nel suo palagio, allor che subitano
Lo riscosse il rumor delle vicine
Armi e dell’oste che sfidando Islamo
Traea contr’esso il menzogner profeta.
55Benchè la guerra, che co’ Greci egli ebbe,
Stanchi avesse i suoi prodi, e riposata
Vita in regno di pace or si godesse
All’ombra di sua reggia il gran Califfo,

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Pur non ei sofferì che di cotanta
60Nota fosse macchiato il puro occaso
Del suo regnar, nè invendicato andasse
Un tanto oltraggio; ma sull’Urna Santa,
Giusta il rito de’ suoi, proferto il giuro
Di vincere o morir, novellamente
65I suoi neri vessilli all’aura sciolse
E con prodi guerrieri al vincer usi
Viene or coll’armi ad atterrar l’orgoglio
Di cotestì ribelli onde si copre
La sua beata regïon del sole.
     70Tale non mai di Mahadì le truppe
Ricca pompa d’arnesi han dispiegata,
Neppur quand’esse mossero a migliaia
Al tempio della Mecca, e a pascer tanti
Pellegrini restaro impoverite
75Per vastissimo tratto le contrade;
Nè mai tant’armi da’ reami usciro
Dagli antichi califfi, quante or quivi
Ne raguna costui. — Primo ne viene
E compone le file antesignane
80Il popol della Rupe, cavalcando
I suoi leggieri corridor montani;
Seguono di Damasco i battaglieri
Che lavorate in oro hanno le spade;

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Poscia vengono quei che abbandonaro
85La terra dove impetüoso irrompe
Nell’Oceàno il Volga, e son pur seco
Di mezzogiorno i colorati arcieri;
Dalle lontane regïon di Sinda
E dalle sacre rive dell’Attocko
90Venne pur l’indïano lanciatore
Che ha di bianco turbante il capo avvolto;
Dalla terra di Mirra ultima viene
L’abbronzata falange e molti ha seco
Mori di mazze poderose armati.
     95Non minore di copia, abbenchè rozza
Nel mestiero di guerra, era l’armata
Che, in zelo accesa o dalla forza oppressa,
S’accoglieva d’intorno ai bianchi segni
Di quel falso profeta. Oltre a’ suoi mille
100Ciechi credenti, numerosa e densa
Una folla il seguìa che de’ feroci
Islamiti provata avea la spada
O temea di provar. Vi sono i prodi
Della razza d’Usbecco, a cui sul capo
105Bianca una piuma d’aïrone ondeggia.
V’han Turcomanni, in numero simìli
Alle pecore lor quando del norte
Sono guidate ai dilettosi paschi.

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Sonvi gli aspri guerrieri abitatori
110Dell’Azzurre Colline e quei che stanza
Hanno oltre il ghiaccio e le perpetue nevi
Dell’Indoo-Kosk, indomiti soldati
Che in procellosa libertà cresciuti
Han per rocca le rupi, e campo il letto
115D’asciutto fiume. Ma fra quante in guerra
Venner devote al condottier velato
Schiere d’arditi battaglier, nessuna
Mosse di più tenace odio ripiena
E con più audace man che la proscritta
120Stirpe d’Iran, del foco adoratrice;
Un desio di vendetta immoderato
Contro l’inviso Saraceno infiamma
L’adorator del foco; egli vorrìa
La cara alfine vendicar contrada
125Conculcata ed oppressa, il trono infranto,
E gli splendidi altari al suol gittati;
Da Yedz, là dove sì nutrica eterno
Nella montagna il foco, e dalle ardenti
Fonti di Nafta che di fiamma azzurra
130Colorate si spingono nel mare,
D’ira caldi costoro eran venuti,
E, purchè ne’ tiranni insanguinati
Possan pascere il guardo e in parte almeno

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La vendetta s’adempia, a lor non cale
135Per chi s’ impugni o per qual causa il brando.
     Tale una fiera e di diverse genti
Oste raccolta all’aure iva spiegando
Suoi vessilli dipinti a color mille
Sparsa intorno al profeta, ed ogni sguardo
140A quel velo splendente, ovunque ei mova,
Stassi rivolto, e lo contempla e guata
Siccome faro tra la notte oscura
Della battaglia, o come iride accesa
Sopra il lor campo, la cui pioggia è sangue.
     145Era due volte in mar caduto il sole
Dacchè fra loro accesa era la zuffa,
E in fiera mischia tuttavia pugnanti
Li trovò quando surse; un caldo e grave
Si solleva frattanto atro vapore
150Da quei fiumi di sangue e par l’ardente
Nebuloso coperchio onde si vela
Là nel rosso deserto il cielo irato
Quando il turbo s’infuria e di spavento
Stringe agli incauti vïandanti il core.
155«Battaglieri di Dio!» grida il califfo:
«Siate valenti! — Per chi vive, il trono!
Ma per chi cade combattendo, il cielo!»
«Valorosi guerrier!» Mokanna esclama:

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«Vendicate il passato ora col sangue
160E d’Eblisse sia preda il vil che fugge!»
Or la zuffa è più fera; or si decide
La sorte della pugna; — impeto ei fanno —
Si scontrano le spade — odesi il cozzo
De’ ferri fulminanti — Ah! del califfo
165Danno addietro le schiere isgominate!
Mokanna istesso a lor strappa di mano
La nera insegna e già dell’orïente
L’imperïal diadema era vicino
Sul suo capo a passar — quando improvviso
170S’intende un grido ed una mano amica
I fuggenti rattiene — ei voltan fronte —
Ricompongon le file — ed un guerriero
Condottier li precede impetüoso
E audace, quasi spargere dovesse
175Mille vite dal seno, egli s’avventa
In mezzo all’irrüente oste nemica.
Piegâr dinanzi a lui quell’infinite
Squadre d’armati, e tuttavia più fero
Ei le incalza e le sperde, e ridestando
180La speranza e il valor ne’ suoi seguaci,
Apre, ovunque si volge, ampio sentiero
Colla sua spada, e la vittoria il segue.
Mokanna invan tra le fuggenti torme

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Si solleva e s’oppone a par del disco
185Di luna rubiconda allor che immota
Sta fra le nubi che fugaci e preste
Trascorrendo pel cielo in notte estiva
Le si fendono innanzi e via trasvolano.
Invano ei bestemmiando ed imprecando
190Mena a cerchio la spada e mette a morte
Quanti vengongli a mano, o sian nemici
Che gli piombino sopra, o sian seguaci
Che fuggitivi ei colga; e in tanta strage
Di nemici e d’amici egli rassembra
195Di tutte genti l’avversario antico.
Ogni guerriero appena ebbe veduto
Quel giovinetto che parea ricinto
Di splendore e di gloria approssimarsi
Qual ne’ sogni talor forma ne appare,
200«Miracolo!» gridossi e tostamente
Quel grido si diffuse infra le schiere,
Ed ogni spada lo seguì, siccome
Segue l’astro d’Arturo indica pietra.
Difilato a Mokanna egli si schiude
205Quinci e quindi il sentiero e corre e vola
Senza colpo menar, quasi l’orrendo
Fulmin dell’ira, che dal cielo ei reca,
Disdegnasse cader su meno forti

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Capi e su meno maledetti spirti
210Per proromper intero indi su quello
Che fra tutti è il più forte e maledetto.
Ma fu vana la foga; — abbenchè tutti
In quell’ora di sangue i serafini
Avessero le spade ignee rivolte
215Contro Mokanna, intrepido e parato
Di tal morte a perir, tutti li avrìa
Disfidati Mokanna in quell’istante;
Ma pur la calca de’ fuggenti, a cui
Mal resister potrebbe umana forza,
220Seco l’avvolge nella sua rapina
Pur suo malgrado; invano egli contende
Ed opporsi vorrebbe alla corrente
Di mille fuggitivi — è strascinato
Dalla crescente calca inondatrice.
225È strascinato — e in questa fuga, a cui
Pur suo malgrado è astretto, egli ritrova
Un conforto a sua rabbia — uccide o fere
Quanti aggiugner ne può colla sua spada.
Fera tigre così, cui di torrente
230L’impetüoso corso abbia travolto
Ne’ suoi vortici ondosi a notte oscura,
Anche nell’affogarsi il suo non perde
Crudel talento, ma spietata affigge

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I denti suoi nell’infelice armento
235Tratto con lei dal furïar dell’acque,
E finchè le rimane aura di vita
Fa strage in suo cammino ed in vermiglio
Tinge quell’onda che frenar non puote.
     «Allà» si grida; «Allà!» suonan le vie
240Mentre in Merou vincente entra il califfo.
Festa, gran festa sia degli Islamiti
Nella contrada; di festoni adorne
E di roridi fiori incoronate
Risplendano le vie; faci accendete
245Ne’ vostri templi e il lieto inno si canti
Della vittoria; Islamo ha trionfato,
Il califfo seduto è sul suo trono
E il velato guerrier prese la fuga.
Or chi mai non vorrebbe esser quel prode
250Giovinetto campione a cui s’inchina
Il signore d’Islamo ossequïoso,
E grazie rende pel serbato impero?
E chi non fia di meraviglia ingombro
Quando, fra mille che l’acclaman forte
255Disposando il suo nome a quella santa
Armonìa della fama i cui concenti
Volvonsi alle gentili anime intorno
Come d’intorno al rotëar d’un astro,

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Quel guerrier si rimira immoto starsi
260Al suon di tanti plausi e in muto aspetto
Ritrarre altrove il piè, quasi sul core
Una tal gli si aggravi ombra d’affanno
Che non la puote dissipar trionfo,
O tal dentro il consumi aspro tormento
265Per cui di gloria tutta luce è scura.
Infelice garzon! tale pur troppo
È il tuo dolor che la speranza istessa
Allevïar nol puote, od il terrore
Di quante ha il mondo disperate angosce
270Accrescerlo pur dramma; è sul tuo core
Un’atra, grave, gelida quïete
Cui nulla move o colorisce o scalda
A quella guisa che del sirio lago
Sulla faccia brillar puote il mattino,
275Puote l’estate spargere il suo riso,
Ma tutto invano, chè quell’onda è morta.
Cori vi furo, è ver, su cui de’ mali
Tutto il peso versossi; oh! ma que’ cori
Temprati furo a sopportar gli affanni
280Da lunga prova, e non restaro oppressi.
Ma sul tuo core subitano e forte
Venne il dolore e venne in tal momento
Quando tutto parea riso di cielo

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A te d’intorno e la speranza allegra
285Vedea solversi in luce il tenebroso
Passato, e alfine tremolar gioconda
La tanto ahi lasso! sospirata aurora.
Fu allora oimè! che di sventura il soffio
Spietatamente le tue gioie uccise
290Fiorite appena, e de’ tuoi caldi affetti
La sorgente fu chiusa al par d’un fonte
A cui la linfa nell’uscir s’aggela,
E simìli alla linfa oimè! restaro
Dentro al tuo cor que’ desolati avanzi
295Ond’or si nutre un disperato affanno.
     Un desiro, un affetto ancor rimane
Che nelle vene sue viva tuttora
Mantien la febbre della vita — è questo
Il desìo di vendetta! — alta vendetta
300Sopra il malvagio che gettò sovr’esso,
E su quella che amò, tanta rovina.
Per questo — allor che negli amari passi
Di lontano esular, dopo l’orrenda
Notte d’inferno, ragunarsi intese
305Armi all’assalto del velato capo —
Per questo ei ritornò rapido come
Avoltoio che vola ove disciolte
Vede insegne di guerra, e appunto ei venne

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Quando tutto parea vinto e perduto,
310E gittatosi cieco entro il conflitto
Aiutò le sorti e fu salute ai vinti.
Per questo ei vive ancor, spregiando i serti
Che gli getta la gloria in sul cammino,
Per questo esiste ei sol, come baleno
315Per scatenare un fulmine rovente,
Fulmine di vendetta, indi morire.
     Ma pur, qual prima, a salvamento addotto
Quell’iniquo vivea; pochi il seguiro
Disperati fuggenti, unico avanzo
320Di quell’oste che stette ardimentosa
Sfidando il ciel pur dianzi; e con que’ pochi,
In Merou ripassando e bestemmiando
Sul perduto suo trono, alla corrente
Di Gïone si trasse ove, raccolti
325Quanti ancora vedean ciechi e delusi
Nel caduto lor duce un salvatore,
Sollevò di Neksebo entro le porte
La bianca insegna e non domato ancora
Stette aspettando il vincitor nemico.
     330Fra tutte le bellezze, onde leggiadro
Era l’Harèmo suo, seco traeva
Una soltanto al suo fuggir compagna —
Non per amor — nè per beltà tampoco,

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Chè Zelica appassita era siccome
335Il fior che dal materno arbore a terra
Cade smarrito e muor, mentre in suo loco
Tostamente germoglia un fior novello.
Non per amor — chè dell’eterno riso
Il raggio splenderìa sopra i dannati
340Pria che un demone tal sentasi in core
Del santo amor scintilla — ahi di quel mostro
Vittima è dessa! — in lei tutti si stanno
Dell’iniquo gl’incanti, i tristi incanti
Che mai vani non fieno infin che move
345Suoi pensieri l’inferno e un sol pur resta
Vestigio in lei dal paradiso impresso.
Torre un angiolo al ciel, della virtude
Il più candido foglio annerir tutto
Colle sue dita e un ruolo indi comporne
350Di dannevoli colpe e suggellarlo
Col fuoco oimè! d’un’anima infiammata
Questo è il trionfo suo, questa la gioia
Maledetta che il pone infra le torme
Degli esecrati spiriti consorte.
355Questo — mentre a’ suoi piè giace prostrata
Quella vittima lassa — a lui colora
Di gloria tal le orribili pupille
Che la fiamma rassembra onde d’inferno

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Il fuoco accende un condannato spirto.
     360Ma or altr’opra l’aspetta — opra a cui vuolsi
Intender tutta la feroce possa
E di mente e di mano onde lo fêro
Ricco i demoni in copia: — ecco; rimira!
Vedi quelle pianure a cui la notte
365Le sue tenebre addusse? Ivi contempla
Quei mille fochi numerosi al pari
Delle lucciole vaghe onde s’ingemmano
Dell’India i campi nelle notti ombrose;
Or ben; colà per tratto ampio e lontano,
370Quanto que’ fochi invian la formidata
Loro luce all’intorno, ingombra è tutta
La campagna di tende e lunga fila
Corre di padiglioni oltre i confini
Dell’oscuro orizzonte infin che splende
375Tra le fonti e i boschetti a cui sovrasta
Dall’eccelsa collina in maestosa
Pompa di guerra la regal cittade.
Pure Mokanna impavido dal sommo
Di sue rocche eminenti il guardo inclina
380Su quel campo infinito — anzi sorride
In pensar che, quantunque assedïato
Ed esausto di forze, una cotanta
Oste incontro gli mova; e senz’amici,

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Senza trono, qual è, pure in suo core
385Ben ei si crede a sostener bastante
L’urtar di quelle numerose schiere.
«Oh! pel poter dell’ala onde l’oscuro
Angiolo di rovina in un momento
Spazzò le schiere dell’assirio rege
390Nelle gole d’abisso interminate!
Ch’io possa in questa notte empier d’averno
I neri alberghi con quell’oste immensa!
Sia qual vuolsi il destino; e in suo mal punto
Il califfo o il profeta il trono ascenda,
395Pur sempre l’uomo gemerà — sì, sempre!
Che il califfo lo strazii od il profeta,
Quest’aborrito mondo udrà pur sempre
Delle vittime i gridi e degli schiavi,
E a me quei gridi suoneran sì cari
400Che mi fien di conforto entro la tomba.»
Così parla a sè stesso; indi rivolto
Ai pochi, onde si cinge, apre le labbra
Ad un parlare di tenor diverso:
«Glorïosi guerrier! voi difensori
405Della sacra corona a me dal cielo
Posta in sul capo, la cui luce indarno
Tenterebbe appannar macchia di sangue
Od ombra di quaggiuso, alle cui gemme

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Lo smarrito fulgor de’ dïademi
410Di questa terra, la regal corona
Di Gerasidde, il luminoso trono
Di Kosro, e il fiocco d’aïron splendente
Sulla fronte d’Alì cedono a guisa
Di stelle allor che i cieli apre il mattino;
415Esultate o guerrieri! alfin risplende
Vicino il porto a cui volgemmo il corso
L’oscuro mare del destin varcando.
Vittoria è nostra! — nel volume aperto
Solo allo sguardo de’ celesti è scritto
420Che lo scettro d’Islamo andrà spezzato
Sotto la possa del suo gran nemico
Allorchè della luna il maestoso
Disco dal Santo Pozzo di Neksebo
Sorgerà per divina opra — mirate!»
     425Ei si volsero a un tratto, e, mentre ancora
Favellava il profeta, un subitano
Splendor si sparse, e si mirò lucente
Quasi un disco di luna ampio levarsi
Dal santo pozzo e saettar lontana
430La sua luce d’intorno alla cittade,
E sopra la pianura, un tal mandando
Torrente di splendor sulle dorate
Torricelle frequenti, e sul leggiadro

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Culmin de’ minareti, qual d’autunno
435Soglion gittar le nuvolette a sera.
Subitamente allor d’infra la turba
De’ riguardanti un grido alto levossi,
E tutti salutâr la portentosa
Opra del cielo. Il Ghebra ossequïante
440Inchinossi, e credè che la divina
Sua stella, ridestata innanzi tempo,
Di mezzanotte impazïente avesse
Urtata la barriera, e sorta fosse
Per infiammarlo ad attaccar battaglia.
445Mentre quei che di Mossa eran devoti
In que’ raggi vedean la glorïosa
Luce, che a’ dì più lieti era comparsa
Sopra l’arca de’ padri, ed or splendea
Promettitrice di novella etate.
     450Tutti or gridan vittoria, e non assonna
A quel grido il profeta; apronsi a un cenno
Le late porte, e impetüosi erompono
Di Mokanna i seguaci, e feri avventansi
Sui nemici guerrier con quella furia
455Che dall’erta montagna si precipita
Gonfia e torba fiumana in grembo al pelago.
Le sentinelle, che dintorno al campo
Camminavan vegliando, appena vista

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Quella luce improvvisa, eransi fermi
460Per lo stupore, ed obblïato il rombo
Avean del tamburino onde contati
Erano i passi che la notte segna;
Côlte in tale stupor dall’inattese
Armi nemiche, caddero trafitte,
465E in ululi di morte il loro estremo
Segnal mandaro. — «Il brando ora volgete
A quelle lampe, o prodi; ivi risorge
Il padiglion del re; la vostra spada
D’esti imbelli nel sangue oh! non macchiate.
470Ma volgetevi là dove riposa
Il califfo dormendo; — avanti! avanti!
Deh! possa or qualche avventurosa spada
Recar salute all’universo intero!»
     Disperata è la zuffa e qual s’appicca
475Quando l’evento della pugna è tale
Che l’intiero destin libra e governa
De’ combattenti. Ma la sorte ha vôlto
Al profeta le terga; in breve istante
Mille spade nudârsi ad incontrarli
480Fra quell’ombra lucente, e mentre orrendo
Tuona il cozzo dell’armi, ecco novelle
Legïoni sorgiugnere affollate,
Come soglion le pecchie a sciami a sciami

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Fra i boschetti volar di Kanserone,
485Finchè tutto l’esercito s’accolse
In sua fiera possanza, e il suol coprendo
Di nemici trafitti alla rinfusa,
Di Neksebo alle porte ebbe sospinto
L’avventurier squadrone; e mentre in fuga
490Si ritraean dal campo, infra l’estreme
File si rimirava ad ora ad ora
L’argenteo velo folgorar siccome
Sopra nave agitata in mar fremente
Candida vela, che de’ lampi attrae
495La subitana luce e lo spavento.
     E questa rotta non depresse ancora
Quell’anima superba, e fren non pose
A quello spirto tracotante e fiero?
No. — Quantunque si giaccia estinta in campo
500Quasi tutta l’armata, a cui pur dianzi
Vantando impromettea vittoria e troni,
Nondimeno il mattino ancor l’intende
Con indomita fronte ir millantando
Vittoria e troni, e confortar que’ pochi
505Che gli avanzano ancora — e fede intera
Pur gli danno que’ stolti! — Oh! l’amatore
Può ben del guardo che gli ruba il core
Riconoscer l’inganno; il fantolino

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Non più creder ben può che la celeste
510Iride il piede a’ suoi trastulli assenta,
Ma la fede, oh! la fè cieca, che forte
Una cara menzogna abbia sposata,
Abbracciata la tiene eternamente.
     E bene all’empio fingitor palesi
515Erano tutte le lusinghe ed arti
Che ad avvincere i cori unqua insegnato
Satàno avesse, nè fra questi estremi
Di sua trama istromenti incontro all’alme
Di Zelica obblïossi il nequitoso.
520Sventurata Zelica! Oh in te sopita
Stata non fossa la ragion fra tanto
Orror di colpe e di spaventi, mai
Mai non l’avrebbe sostenuto il core!
Chè in tuo scampo sarìa morte venuta
525E seco a un tempo il tuo spirito lasso
Rapito avrebbe; ma nol volle il fato.
Da quell’orrida notte, in cui lasciaro
E di pace e di ciel tutte speranze
Della misera il petto, un rio torpore,
530Una morte de’ sensi, un languor grave
L’occupò, la ricinse; e abbenchè un breve
Raggio talor le colorasse il viso
D’un vivido pensier, come vediamo

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Infra i globi di fumo, onde s’avvolve
535Cupo vulcano, scintillar fiammelle
Che attestano i volumi agglomerati
Del foco ribollente in grembo al suolo,
Pur quasi ognor sepolta era fra il buio
Dell’intenso suo duol la sventurata.
540Non come Azìmo, che, nel sen premendo
Il suo fiero martir, calma e pacata
La sembianza offerìa, quale si mostra
D’un estinto l’aspetto allor che interni
Già gli rodono il cor lubrici vermi,
545Ma in profondo torpor tutta sommersa,
Sgombra d’affanni e di pensieri, e chiusa
Da sì forte apatìa che alito appena
Le sommoveva lievemente il seno.
     Quale in Merou soleva, ecco il profeta
550Di leggiadri, raggianti adornamenti,
Come de’ riti suoi sacerdotessa,
Nuovamente la cinge, e in tanta pompa
La conduce dinanzi a’ suoi guerrieri,
Quasi vittima all’ara, a quella guisa
555Che pallida, tremante un dì veniva
Al sacrifizio la devota sposa
Del fiero Nilo allor che tutta avvolta
Di risplendenti nuzïali ornati

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Dovea nella corrente esser sommersa;
560Tal veniva Zelica, e mentre il capo
Inclinato sul seno ella teneva,
Com’uom che fosse di sotterra uscito
Quel demone si stava infra la turba
Meravigliante, e ai creduli diceva
565Che da magica possa o incantamento
Ell’era posseduta, e che dal guardo
Estatico di lei sorger dovea
Indi a non lungo andar la sospirata
Alba di loro libertà foriera;
570E se talvolta dal rimorso acuto
Di sue colpe trafitta ella agitava
Per tremor la persona, e strani accenti
Proferìa delirando, esso l’audace
Bestemmiatore nelle sue parole
575Gli oracoli del fato interpretava;
Dicea spirto del cielo il vivo foco
Che negli occhi le ardeva, ed i suoi gridi
De’ celesti linguaggio egli chiamava.
     Ma quell’arti nefande alfine usciro
580Inefficaci, e squallida e tremenda
La disperazïon videsi accolta
Intorno intorno. La rabbiosa fame
Colse quanto lasciato avea non tocco

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De’ combattenti la vorace spada.
585A mane, a sera invano egli protende
Il guardo impazïente alla pianura
Donde spera che l’armi a lui promesse
Delle torme selvaggie, e degli alpestri
Tartari all’uopo suo rechino aita;
590Ma non venner quell’orde: — intanto i fieri
Nemici suoi saettano novelle
Armi di morte, sconosciute in pria:
Giavellotti, che, mentre alto per l’aura
Trascorron fiammeggiando, una vorace
595Pioggia di foco gittano sull’oste
Quale di Nafta la fontana erutta;
E paiono, volando infra la fosca
Ombra notturna, que’ selvaggi augelli
Che spesso i maghi nell’allegre sere
600Delle feste del foco han per costume
Ridar liberi al cielo, alle larg’ale
Recanti avvinte luminose faci.
Tutta notte s’udîr gemiti ed urli
De’ sciagurati che periro ancisi
605Da quei dardi letali, e veramente
Da quella fiera piova alcun non v’era
Schermo o riparo, chè per tutto il foco
Piovea dirotto in dilatate falde.

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I delubri e le guglie, i solitari
610Padiglioni con loro auree cortine,
I lavacri di marmi ove or zampilla
Misto il sangue coll’onda, i minareti
Che pur dianzi si stero illuminati
Dal sol cadente, nè da loro uscìo
615La sacra voce che le preci impone,
Tutto, tutto dell’atre si ricopre
Ignee quadrella, e in ogni via cammina
Fieramente esultando incendio e morte.
     Vede or Mokanna alfin ch’ei della terra
620Ha perduto l’impero e, pria che scenda
Dal suo trono, vorrebbe anco una prova
Porger di sua possanza. — «E che! temete?»
Così l’inverecondo ai pochi parla
Che pur l’odono ancora infra gli schiavi,
625Che languenti di fame a lui d’intorno
E dalle fiamme voratrici attinti
Giaccion vicini a morte: — «E che! temete?
Temete, e vi scorate or che premiamo
Il limitar della vittoria istessa?
630Or che, divelti dalle nostre file
I rozzi stecchi che tenean lontana
L’alma luce d’Allà, noi pochi eletti,
Di suo splendor vestiti e di sua forza

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Rinfrancati le membra alfin restiamo
635Per camminar sugli abbattuti troni
Vincitori del mondo? E che! si spense,
Mormoratori, in voi tutta la fede
Riposta in me, che vi fui guida e luce?
Evvi uscito di mente il luminoso
640Folgorar di quest’occhio ond’io, togliendo
L’ampio velo che il copre, abbatter posso
Sbalorditi a migliaia i combattenti
Che il califfo conduce? A lungo, o prodi,
Troppo a lungo il baleno ho ricoperto
645Di quest’occhio — la terra ora lo senta.
Questa notte, o guerrier’, questa medesma
Notte a festa solenne io vi convito,
E là tra il fumo di celesti dapi
De’ cori allegratrici, e fra le coppe
650Di quel vin puro che si mesce in cielo
Dall’Uridi vezzose a’ lieti spirti,
Colà giuro io medesmo a voi dinanzi
Svelar la luce della mia sembianza,
Indi, da voi seguito, all’improvviso
655Irrompendo, n’andrò con un baleno
Di questo ciglio a dissipar que’ mille,
Che abbagliati e percossi a tanto lume
Si spargeran per l’universo urlando.»

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     Stanno attenti gl’illusi — e nuova intanto
660Vita infonde in lor core ogni parola,
Ma vita tal che rassomiglia a quella
Che riceve il morente allor che bagna
Di gelid’onda il suo palato e spira.
Ei colla punta delle lance i raggi
665Del sol cadente accennano gridando:
«Stanotte!» — «Sì, stanotte!» a lor Mokanna
Risponde in voce d’infernal deriso
Che l’abisso rallegra. — Oh sciagurati!
Non mai vide la terra una sì trista
670Scena che il lutto di lor gioie eguagli.
Quì gl’infelici, che gridâr trionfo
Come ride il demente, ora s’aggrappano
Con braccia fiacche e moribonde ai pochi
La cui tempra di ferro ha resistito
675Della guerra al flagello e della fame;
Là delle fiamme tormentose al lampo
Fra salme esangui e battaglier morenti
Altri vanno danzando a somiglianza
Di spettri intorno alla funerea pira,
680Mentre strappasi alcun dalla ferita
L’infocato quadrello, e colla mano
Sollevandolo in alto a correr dassi
Siccome larva che la notte infesta.

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     A mezzo il corso e più stava la notte;
685Un silenzio tremendo erasi sparso
Ne’ giardini regali ove Mokanna
Tra festivo clamore ed urli insani
Tenne pur or la maledetta festa;
Quando Zelica — oimè! dannata sempre
690Ad esser parte in ogni orrida scena —
Al banchetto feral venne chiamata
Per uno schiavo che, non anco avendo
Sposto intero il comando, annerì tutto
Come se l’ombra sepolcral l’avesse
695D’un subito accerchiato, e in pria che pieno
Proferisse il messaggio, egli si cadde
Esanimato di Zelica a’ piedi.
Ella uscì trepidando; un’affannosa
Ansia del core, un rio presentimento
700Del vicino suo fato in lei riscosse
Le potenze dell’alma, e un’altra volta
Rifulse in lei della ragione il lume;
Ma per più strazio di quell’ultim’ora!
     Tutto intorno era queto — o almen parea —
705E lo stesso nemico avea cessato
Di foco saettar, quasi foss’egli
Conscio di quel satanico banchetto.
Ode un rumor Zelica — ella s’arretra —

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Porge intenta l’orecchio — ahi suono orrendo! —
710Ode del suo tormentator le risa,
Quindi un gemere intende — un angoscioso
Gemer di morte; oh cielo! esser può questa,
La sede della gioia! Entravi e vede...
Oh santo Allà che vede! — Al dubbio lume
715Della pallida aurora, a cui si mesce
Il moribondo fiammeggiar de’ tizzi
Che dispersi giaceano ahi! dalla mano
Degli spiranti portator caduti,
Una mensa s’offerse alla meschina
720Splendidamente apparecchiata a scherno
De’ convitati; — d’odorosi incensi
Olezzavano l’aure — ivano intorno
Intrecciate ghirlande — e l’urne e i nappi,
Ove i labbri pur or s’eran tuffati,
725Splendean d’auro e di gemme; — ah! ma in lor seno
Chi mi sa dir qual s’accogliea bevanda?
Ahi! chi non l’indovina in rimirando
Di que’ meschini il livido sembiante,
Mentre il capo gravato essi reclinano
730Languidi sopra il seno, o innalzan smorti
Lo sguardo in su con gelida pupilla,
Quasi cerchin nel cielo alle lor colpe
E non trovin mercede; e quasi in petto,

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Mentre il velen le viscere consuma,
735Dar del veleno più cocente ancora
Il rimorso li crucii. Altri frattanto,
Che valorosi e intrepidi nel campo
Sotto quel falso duce incontro a morte
Sarìeno iti esultando, ora, infelici!
740Quì si muoion traditi, e in sul morire
Spiran dall’orbe de’ fiammanti sguardi
Orribile vendetta, e il traditore
Segnano indarno con mancante mano.
     Terribili a mirarsi eran gli sguardi
745Che feroci, rabbiosi e disperati
Talun fra queste vittime fingeva
Su quel demone orrendo, il di cui velo
Or levato svelava alla pupilla
Di que’ morenti in agonìa d’inferno
750Non la da lungo tempo a lor promessa
Luminosa sembianza onde redento
Esser doveva l’universo intero,
Ma tale un ceffo che l’averno istesso
E ribrezzo ed orror ne avrìa sentito.
755Non del deserto il demone, non quello
Che i sepolcri governa, alla gioconda
Luce del sole apparsi, unqua mostraro
All’occhio umano un sì deforme aspetto

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Quale or costui, che digrignando i denti
760Con orribil dileggio altrui schernisce.
«Ecco, o devoti miei, la venerata
Maestà del mio volto! ecco la luce,
Ecco la stella che toglieste a guida!
Insensati! voleste esser lo scherno
765E le vittime altrui? — bene — lo foste.
Siete paghi? o degg’io, mentre vi resta
Pur nel seno di vita una favilla,
Pigliarvi ancora a gabbo? Or via; giurate
Che la morte vorace, onde consunte
770Son le viscere vostre, è appena un lieve
Saggio del gaudio che v’appresta il cielo;
Che questo sozzo ceffo, abbenchè sozzo
Quant’altro mai si sia veduto in terra,
E pur d’Allà la più gentil fattura,
775E che — ma ve’! — quest’anime villane,
Pria d’udir tutto il mio saluto, han preso
Il loro volo. — Addio, spirti soavi!
Se diletti ad Eblisse ora giugnete
Quali a me foste, non morite invano.
780Oh! tu quì, sposa mia! — bene! t’assidi;
Non tremar — t’avvicina. — E che? paura
Ti fan gli estinti? Non ricordi, o cara,
Ch’ei furo al rito nuzïal presenti

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Quando mia ti giurasti? Essi stanotte
785Convitati al mio desco hanno colmato
Con tal valore dell’addio le coppe
Che una tu pure tracannar ne devi.
Ma che? vuote son tutte? Arse davvero
Eran le labbra che sì ben vôtaro
790Questi nappi; — ma taci — ecco: nel fondo
Di questa tazza vi rimane ancora
Prezïosa una stilla, e fia che basti
Per accendere il sen d’una gentile
Sacerdotessa qual tu sei, Zelica.
795Bevi or dunque — ed il tuo fido amatore
A stringerti s’affretti in pria che tutto
Abbian perso l’incanto i labbri tuoi;
E di questo veleno un cotal poco
Tu nel baciarlo lo cospargi, ed io
800Del mio rival la gioia a te perdono.
     «E morirò pur io, — ma non già quale
Morîr coteste a imputridir dannate
Abbiette creature; — io di villani
Il trionfo adornar colla mia testa
805Dopo orrendi martìri — esser gittato
Nella polve a marcir, mentre superbi
Schiavi con voce di dileggio e d’ira
Diran: di lui la deïtà quì giace! —

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No; — maledetta stirpe! — io dall’istante
810Che gli occhi apersi primamente al sole,
Coll’arti mie vi presi e v’ingannai,
Ed ingannar vi voglio anco morendo.
Vedi quella cisterna? Essa è ripiena
Di tal mistura che temprato io stesso
815Ho per quest’ora estrema; ivi gittarmi
Vogl’io nel grembo del cocente umore,
Atto lavacro a tergere le membra
Di morente profeta, e là consunto
Tutto mi rimarrò, prima che cessi
820De’ tuoi polsi il tremar, nè fia che resti
Un sol vestigio ad attestar mia morte
All’universo; e ovunque errin frattanto
I miei devoti, proclamar s’udranno
Che al ciel sua patria ritornato è il santo;
825Ch’io sol per poco di quaggiù disparvi,
Ch’indi ritornerò, ma più lucente,
E coronato d’immortal sorriso.
Ma tuonar forte la tempesta io sento
Dell’armi oppugnatrici incontro ai muri —
830Or ben; s’apran la breccia — io li disfido.
Ouand’ei saran nella cittade entrati
Orma di me non fiavi, e tu serbarmi
Ben vorrai, spero, la tua fè — chè spenta

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Sarai pria di vederli. Ora rimira
835Come un mio pari con un salto ardito
Chiude i suoi giorni, e si trasmuta in nume.»
     Come questi proferse ultimi detti
Balzò nella vorago, e la bollente
Onda veloce sovra lui si chiuse.
840Zelica intanto si trovò deserta
Infra quell’ampie mura, unico oggetto
Che la vita attestasse in mezzo a tanto
Di morte aspetto; e somigliava ad uno
Di quegli spettri che, siccome è grido,
845Nelle cittadi del silenzio han sede,
E invisibili a tutti ivi si stanno
Ciascun vegliando sul suo corpo esangue.
     Ma risorge il mattino, e tutto il campo
De’ federati s’agita e si volve
850In tumulto guerresco. Estinti or sono
Gli atri globi di foco, orribil arme
Che Grecia al Turco vincitore apprese;
Ma l’eccelse baliste onde lanciati
Sono i rudi macigni, e il clipëato
855Stuolo de’ prodi, che sospinge il grave
Oppugnator montone, assai fan chiaro
Che impazïente l’Islamita anela
Provare alfin se le turrite mura

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E l’ardua rocca incontro alle percosse
860Men gagliarde si sieno e men ritrose
De’ battaglier che la città racchiude.
Primo fra tutti si travaglia e tenta
Fra le mura percosse adito aprirsi
Azimo impazïente. — Oh! potess’egli
865Stretto fra le sue mani un sol momento
Il profeta tener — non di lione
Le fortissime zampe, e non le spire
Di rio serpente pareggiar l’amplesso
Potrìa della vendetta in quell’istante,
870O la dell’odio intensità feroce.
     Odi! al crebro cozzar del ponderoso
Monton rimbomba l’agitato muro,
E or si scoton gli spaldi, or si dissolve
La compatta muraglia — oh! ma nessuna
875Breccia finor s’aperse. — «Anco una volta!
Anco un colpo gagliardo uniti tutti
Avventate, o guerrieri!» Oh vedi! il muro
In quel lato si sfascia — urlan di gioia
A tal vista le schiere: «Una percossa,
880Una sola percossa a quella parte
E nostra è la città.» Vinta è la prova,
E la lata muraglia in duo partita
Da quel colpo fatal scindesi a guisa

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D’un antico che s’apra ampio cratere,
885E si scopron le vie della cittade
Desolate e di fumo orrido ingombre.
Ma qual portento! non di vita un segno;
Non un oggetto che si mova intorno
O di sopra o di sotto! — Or; che s’acchiude
890In cotesto silenzio? — A tale aspetto
Ogni sguardo, ogni cor resta sospeso
Per breve istante. «Entriamo!» Azimo esclama;
Ma lo scaltro califfo, a cui nel core
Quell’oscura quiete ha suscitato
895Timor d’insidia, le falangi affrena.
Ed ecco in quella uscir d’infra gli sparsi
Rottami una figura e lenta lenta
Brancolando avanzarsi; e mentre il sole
D’un raggio la percote, ogni pupilla
900Vede steso sovr’essa il noto ahi! troppo
Argenteo velo. «È desso! è desso!» esclama
La turba circonfusa; «Ecco Mokanna!»
A cotal vista esulta Azimo, e ratto,
Non sceso no, gittatosi di sella,
905E rivolto al califfo: «A me s’aspetta»
Terribilmente ei grida; «a me s’aspetta
Ferir quell’empio; la mercede è questa
Che da te voglio.» E impetüoso ei move

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Quel nemico a scontrar, che fra l’ingombro
910De’ sparsi muri tuttavia cammina
Con piè lento e mal fermo infin che giunto
L’uno dell’altro a fronte, egli s’avventa
Precipitoso d’Azimo sul brando,
E nel cader, dal viso il vel rimosso,
915Appare — oh! il sangue di Zelica è questo.
     «Deh! mi perdona o caro,» ella gli disse
Con soave parlar, mentre faceva
Sostegno al capo colla man tremante,
E fisandolo in volto ivi mirava
920Angoscia tal che ogni ferita eccede
Ond’esser possa lacerato un core.
«Deh! mi perdona o caro; io non volea
Darti questo tormento, ancorchè morte
Ricevuta così dalla tua mano
925Gioia tanta mi sia che tu medesmo
A me non la torresti ove palese
Ti fosse quanto supplicato ho Dio
Di morire così; ma del veleno,
Che il demone mi diede, oh! lenta troppo
930È la fatal virtù — quindi pensai
Che se quel velo — oh! non mirarlo — avesse
Delle tue schiere folgorato al guardo,
Denso un nembo di strali immantinente

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M’avria coperta; ma più dolce, il credi,
935Sì, più dolce è il morir della tua mano.
Da questo core dileguarsi io sento
L’orrore onde pur dianzi era ricinto;
Da’ tuoi guardi una luce in me discende,
Che, come l’alba del perdon celeste,
940Mi rallegra lo spirto, e se pietoso
Dicessi a me che perdonata io sono,
Ridirìa quegli accenti in paradiso
Tutto festante de’ celesti il coro.
Ma tu deh! soffri e vivi, Azimo mio;
945Vivi se unqua m’amasti, e se pur brami
Tornare un giorno colla tua Zelica
Vivi e prega per lei; vivi ed inchina
Supplicante i ginocchi a mane, a sera
Nanzi a quel Dio che mai pregato invano
950Non fu da core immacolato e puro
Siccome è il tuo; da lui deh! tu m’implora
E pietade e perdono ond’ei m’accolga
Nella tua santa compagnia beata.
Vanne a’ campi felici, ove congiunti
955I nostri furo giovinetti cori;
Ivi in ogni aura, che ti mova intorno
Dall’olezzo de’ fiori imbalsamata,
Novellamente sentirai l’ebbrezza

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Di quell’ore innocenti, e, qual solevi
960In que’ tempi beati, un’altra volta
Sarai commosso per la tua Zelica.
Così le preci tue, come rugiada
Che su rai del mattino ergesi al cielo,
S’innalzeranno al nume avvalorate
965Di tutto il foco d’un primiero amore,
E perdonata — oimè! sento mancarmi;
O cielo! anco un istante — e perdonata
Sarò pel tuo pregar; quindi, se l’alme
Rivelar puonno dall’eterna sede
970Lor gaudio ai cari che pur sono in terra,
Verrò spirto beato in lieto sogno
Per dirti — oh cielo! io moro, io moro! — addio!»
     Anni ed anni eran corsi, e pochi in vita
Erano ancora di color che visto
975Avean quel giorno luttüoso il fato
Della fanciulla, e del garzon le angosce,
Quando, in ripa all’Amôo, presso un sepolcro,
Un vegliardo che avvezzo era da lungo
A sera, a mane accanto a quella tomba
980A prostrarsi e pregar, l’ultima volta
Le ginocchia piegava, e benchè l’ombra
Della morte il cerchiasse, una gentile
Luce di gioia tuttavia splendeva

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Nel guardo e nelle gote, e la medesma
985Morte di tale chiarità la fronte
Gli adornava, qual suol pingere a sera
I confini del cielo allor che notte
Già l’altre parti del creato adombra.
Pur dianzi in lieto sogno eragli apparsa
990Una celeste visïon: la bella
Creatura, per cui sì lungamente
Pregato avea quell’infelice e pianto,
S’era mostrata a lui tutta vestita
D’angelico sorriso, e gli dicea
995Che fortunata ell’era. Il buon vegliardo
Grazie al cielo ne rese, indi morìo.
Or sulla riva dell’amato fiume
Presso la sua Zelica ei si riposa!