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La Dama della Regina/I

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La Dama della Regina II

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I.

Finito il «Terrore», la Francia si affaticava per ritrovare se stessa e ricomporsi in un ordine nuovo. Tutto appariva ancora incerto e minaccioso. La guerra, non più un avvenimento straordinario, bensì lo stato quasi permanente della società: un modo di vivere abituale dei popoli. Molti uomini la consideravano una grande via aperta ai forti ed agli abili per giungere rapidamente ai più alti fastigi della gloria e del potere. L’Italia — specialmente l’Alta Italia — era l’agone dove gli stranieri venivano ad incontrarsi per definire le loro querele, vivendo intanto a spese nostre: una terra ricca di ogni bene e così mal difesa che tutti potevano quasi impunemente depredarla, fino a che il più forte la facesse sua.

In mezzo a tanta rovina, la Repubblica di Venezia, vecchia di quattordici secoli, aveva sognato di restarsene tranquilla, in pace con tutti e da tutti rispettata sotto il manto della [p. 2 modifica]neutralità. Vano sogno, senile illusione. Nè lealtà nè astuzia potevano salvarla in quel frangente: occorreva la forza: o la forza le era mancata. Già le provincie di «terraferma» potevan dirsi perdute: già il più formidabile capitano pensava di vendere le spoglie della moritura all’avversario più ostinato e che più gli premeva di tacitare.

Erano i primi giorni di giugno del 1796. In un piccolo paese rannicchiato sulla riva orientale dell’Adriatico, dove il rumore dei grandi avvenimenti suscitava di tratto in tratto una paurosa ripercussione, esisteva — in mezzo a circa un migliaio d’idioti — una eletta d’uomini intelligenti che a quegli avvenimenti rivolgevano continuamente il pensiero e ne formavano il tema inesauribile di ragionamenti, di discussioni, di contrasti. Questa minima parte della popolazione, quest’«alta società» in miniatura si riuniva quasi tutti i giorni in casa della contessa Anna Maria Castellani, la più grande e la più ricca tra le cinque o sei case signorili del borgo, battezzato superbamente col nome di città. La casa Castellani era pure quella che più sporgeva nel mare essendo fabbricata sull’estremo lembo di quella spiaggia.

Donna Anna Maria era vedova e aveva un unico figlio, il conte Aurelio, console della [p. 3 modifica]Repubblica in Alessandria di Egitto. La vedova viveva sola sotto l’egida dell’arciprete don Ludovico Raimondi fratello suo. A quel tempo ella era ancora una donna di bell’aspetto dalle forme scultorie, dal volto fine, espressivo, la cui superstite freschezza era accresciuta dai capelli bianchi, non per canizie, bensì per la cipria che ella portava ancora sull’alta acconciatura. Vestiva quasi sempre di bianco come era la moda, ma nel taglio degli abiti non adottava le nuove foggie che tanto scoprivano le forme femminili, giudicandole disdicevoli alla sua dignità di matrona. Stava d’incanto così, ed i suoi amici ancora l’ammiravano.

Oltre la grazia e l’intelligenza della contessa Castellani, oltre la fortunata collocazione della sua casa in vedetta su quel mare Adriatico, dove, in quei tempi, si attendeva sempre qualche nuova apparizione, un’altra cosa, una cosa futile ma piacevole manteneva ed ispessiva sempre più intorno alla dama il circolo dei devoti. Ella distribuiva senza parsimonia l’eccellente caffè che suo figlio le mandava direttamente dall’Egitto. Poco a poco casa Castellani era divenuta la vera, la grande bottega di caffè del paese. Nella bella stagione specialmente dopo l’ora della siesta, venivano, oltre gli amici del paese, quelli che abitavano in villa o nei casali [p. 4 modifica]vicini. Facevano una passeggiata o, più spesso, una cavalcata per salutare donna Anna Maria, barattare quattro chiacchiere con le persone che sapevano d’incontrare presso di lei e bere una tazza o due di quell’eccellente caffè. Le cose avendo preso quest’abbrivo, la provvigione, che il console aumentava tutti gli anni, non bastava in nessun modo; e dopo sei o sette mesi la contessa scriveva al figliuolo raccomandandogli di rinnovarle al più presto la scorta. Il console rideva e si affrettava a soddisfare il desiderio della sua mamma.

Così pure quel giorno del principio di giugno il salotto di donna Anna Maria era pieno di gente e il caffè, servito in abbondanza, spandeva intorno il suo profumo inebbriante, ignoto a noi che viviamo in quest’epoca di trust e di raffinate invenzioni chimiche. I visitatori lo sorbivano come il solito e come il solito replicavano, ma senza esternare, come in altri giorni, con belle parole la loro soddisfazione tanto gradita alla padrona di casa. Una sorda preoccupazione li rendeva inquieti, distratti. Gravi notizie si sussurravano. Il dottor Marco Apolonio — uomo maturo, ma di spiriti giovanili, vivacissimo e tutto dato alla Francia, alle nuove idee, bramoso di mutamento, infastidito del mondo vecchio — parlava ad alta voce delle ultime battaglie, dei [p. 5 modifica]trionfi di Buonaparte, delle sue infinite, miracolose vittorie.

— Conquistati i Paesi Bassi, ridotto il re di Sardegna in condizione servile; distrutti due eserciti austriaci, costretto il re di Napoli e il papa ad accordi umilianti!.... Non basta, scacciati gli Inglesi dalla Corsica! Ah! io spero che in poco tempo tutta l’Italia sarà annessa alla Francia.....

Un grido d’indignazione lo interruppe.

— Ah! questo è troppo, dottore! Non deve dirle queste cose, neppure pensarle. La nostra Repubblica di san Marco deve rimanere illesa. Perchè e con quale diritto la distruggerebbero? Non è stata sempre neutrale? Non ha rispettato lealmente i trattati?....

— O cara donna Anna Maria, mi perdoni se glie lo dico: la Repubblica è già quasi morta. Non c’è bisogno di distruggerla; muore di decrepitezza; muore perchè non potrebbe più mettersi al passo della nuova umanità.....

— Sarà vinta senz’essersi battuta — entrò a dire un altro signore. — Vinta dalla paura perchè non ha voluto neppure armarsi.

— Non è vero! — ribattè energicamente il nobile Alessandri, podestà del paese, un uomo piuttosto vecchio, ma ben portante, tutto bianco per canizie con un bel codino che pareva argento filato. [p. 6 modifica]

— Non è vero! Venezia non ha avuto paura. Ha creduto, rimanendo neutrale, di salvare i suoi popoli da gravi disastri; di fare il bene di tutti, ha creduto.

— Si è ingannata. Ha fatto male. Doveva armarsi, doveva mostrarsi forte anche rimanendo neutrale.

— È difficile parer forti quando si è deboli — osservò un certo capitano Gori, un altro anziano che aveva combattuto nell’ultima guerra contro i turchi. — Da troppo tempo la Repubblica si è abituata alla pace, alla mollezza. È questo il male.

— Sarebbe stato inutile qualunque cosa avesse fatto — riprese a dire il dottore Apolonio. — Inutile, ve digo. O se un mezzo di salvezza c’era, questo consisteva nell’accettare l’alleanza francese: l’alleanza che il Direttorio le aveva offerto. I francesi sono invincibili e Buonaparte è destinato a cambiar faccia all’Europa. Bisognava mettersi subito con la Francia e anche il re di Sardegna doveva mettersi con la Francia; sicuro, ve digo! Avrebbero risparmiato tante disgrazie all’Italia, e l’austriaco se ne sarebbe andato al diavolo,.... nei suoi paesi!.....

Il fratello di donna Anna Maria, don Ludovico Raimondi, l’eloquente arciprete che aveva ascoltato tali parole scrollando tristemente il [p. 7 modifica]capo e centellinando il caffè, depose la vuota chicchera e parlò solennemente. No, il dottore non diceva cose degne di buon patriotta, nè di buon cristiano. Venezia non poteva allearsi a dei filibustieri: doveva piuttosto entrare nella lega con l’imperatore e gli altri principi. Il papa e il re di Napoli e la repubblica di Genova, vi dovevano entrare anch’essi e subito, senza tergiversazioni.... e avrebbero risparmiato tante disgrazie e non solo materiali. Ma Venezia si era astenuta per delicatezza verso la Francia per la loro antica amicizia; come se la Francia che uccise il suo re fosse ancora la Francia onesta e leale di un tempo! Venezia si era ingannata, questo il suo unico torto!....

Il prete si dilungava in tali discorsi, con la voce blanda, carezzevole, un po’ nasale. Tutti l’ascoltavano con rispetto per il suo prestigio sacerdotale, a cui pochi osavano ribellarsi apertamente in quelle provincie, e per riguardo a donna Anna Maria.

Un altro signore esclamò:

— Venezia si è disonorata quando per obbedire ai francesi ha espulso da Verona il conte di Provenza, che vi stava così tranquillo celandosi sotto un nome di privato signore.

— Non si doveva mai ospitarlo! mai!.... È stato un errore — ribattè il dottor Apolonio. [p. 8 modifica]

— Generoso peraltro, generoso errore.

— Soltanto i forti possono essere generosi! La bella generosità ha costretto Venezia a mostrarsi vile, cacciando l’ospite: il quale, naturalmente, non le serberà alcuna gratitudine dell’averlo accolto, bensì un grande rancore per averlo espulso.

Il podestà Alessandri si credè ancora in obbligo di difendere la Serenissima. Anche don Ludovico, eccitato, tornò ai suoi insulti contro i francesi. Perfino il farmacista Carlo Furegoni — conte anch’esso, ma decaduto — un omino smilzo molto amante del caffè genuino di Moka, si lasciò trasportare dall’eccitazione nervosa e lanciò qualche insolenza contro il saccheggiatore e il rapinatore del Monte di Pietà di Milano, di Pavia, di Bologna.

Fu un vocìo generale che durò alcuni istanti.

— Per carità, amici miei, finite di gridare — supplicò la contessa mettendosi tra coloro che piò accesamente discutevano. — A che vi serve?... Quello che è avvenuto è avvenuto; nè voi potete influire su ciò che si sta preparando. Quietatevi, sapete bene che sono già tanto angosciata per mio figlio che non so dove sia!

Tutti la guardarono, sorpresi.

Il dottor Apolonio le domandò scusa: il farmacista, rosso come un gambero, balbettò parole confuse. Quelli che nella furia del [p. 9 modifica]ragionare si erano alzati in piedi e giravano per la sala, tornarono ai loro posti.

— Non è più in Egitto il conte Aurelio? — domandò Annibale Rigo, nobile di dentro terra, sempre all’oscuro, sempre dimentico d’ogni cosa, ma devotissimo alla Repubblica.

— Oh! no. È un pezzo che la Serenissima l’ha richiamato. Ha avuto vari incarichi. Nell’ultima lettera, di un mese fa! mi parlava appunto dell’espulsione del conte di Provenza... o di Lille; e di una dama... tutto un po’ confusamente. Era alloggiato in casa di mio cugino che è intimo amico del procurator Francesco Pesaro... Ora io temo che sia andato a Verona..... in questi momenti... Non so... Certo egli non si risparmia; i pericoli non lo trattengono. Epperò sono inquieta. Speravo che si mettesse in pace una buona volta; ma chissà, quando lo farà!

Qualcuno osservò che il conte era ancora troppo giovine e col suo ingegno, il suo nome, aveva dinanzi a sè uno splendido avvenire.

Donna Anna Maria sorrise nel suo orgoglio di madre, pure affermando che Aurelio aveva trentaquattro anni, il buon momento per rientrare in famiglia.

— Ma egli è un uomo prezioso per la Repubblica — osservò l’Alessandri. — È impossibile che se ne privino in momenti come questi. [p. 10 modifica]

— Donna Anna Maria può consolarsi, se non è che per la vecchia Repubblica, suo figlio le sarà presto reso.

— Oh! dottore, cosa volete dire?

— Che questo governo non può durar molto....

— Crepi l’astrologo — mormorò per conto suo l’arciprete.

La contessa seccata di quel ritorno alle eterne dispute cambiò discorso: parlò di se stessa: si sentiva invecchiare, non aveva più l’energia di un tempo e il suo fattore se ne accorgeva.

— È molto abile però il suo fattore — osservò il capitano Gori, il veterano.

— Abilissimo — rispose l’arciprete. E soggiunse che lo credeva onesto, nonostante certe insinuazioni. Era molto economo il fattore Testi e molto avveduto; così egli comprava terre e boschi e arrotondava il suo piccolo patrimonio, mentre i grandi proprietari vendevano.

— In casa nostra non si è mai saputo fare veri risparmi — disse donna Anna Maria sorridendo.

— È il destino di tutti noi — affermò il dottor Marco Apolonio. — In Francia hanno ucciso o spodestato i nobili, nelle nostre province le cose si trasformano placidamente, per forza d’inerzia. Da qui a trent’anni, quaranta al più, le nostre famiglie — le famiglie dei [p. 11 modifica]nobili veneti — saranno scomparse, livellate: i nostri fattori, i nostri coloni, i bottegai saranno i signori. La nostra Repubblica si dissolve, e noi con essa.

— Ritorno al tema — mormorò un signore che di solito non parlava.

L’arrivo di altre visite scongiurò momentaneamente il pericolo.

Primo venne un signore che abitava molto in villa e faceva tutti i giorni una cavalcata al paese per visitare donna Anna Maria e bere almeno una tazza del suo moka. Era costui un uomo alto, robusto, dal possente torace, con una bella testa e una folta chioma leggermente brizzolata. Gran cacciatore e cavalcatore instancabile, di razza: aveva i difetti di queste qualità: le gambe cavalline; l’abitudine di strizzare un occhio, come nel prender la mira e una leggera sordità proveniente dal rumore dei colpi vicino all’orecchio. Avverso per istinto a tutte le novità e patriotta, odiava tedeschi e francesi, e si dichiarava pronto all’odio universale per tutti gli stranieri. Adorava la sua vecchia Repubblica, ne approvava tutti gli atti indistintamente e non poteva neppur immaginare che quella magnifica istituzione, famosa per le sue vittorie, per saggezza, prosperità, splendore d’arte ed atti generosi, dovesse finire un giorno. Egli quindi [p. 12 modifica]non si affannava troppo per l’avvenire. San Marco, il gran protettore di Venezia non l’avrebbe mai abbandonata, non avrebbe mai cessato di raccomandarla all’Altissimo che non poteva a meno d’accontentare il nobile e santo Evangelista.

— Oh, signor de’ Grassi, ben venuto. È arrivato tardi oggi, temevo quasi di non vederla. — Così dicendo donna Anna Maria gli porse la mano, che egli baciò.

— E lì, cosa porta?

— Oh, contessa: una cosa da nulla, una piccola pernice che ho preso stamattina. Ecco, Beppo penserà a farla cuocere da qui a due o tre giorni.

— Si disturba sempre...

— Ma le pare?... Non posso mangiare io tutta la selvaggina che prendo; e se non sapessi di poterla offrire alle persone amabili che mi fanno il favore di gradirla, perderei anche l’amore della caccia. E allora cosa farei? M’infiacchirei, come dice il capitano Gori che la lunga pace ha infiacchita la Repubblica. No xe vero, capitano Gori?

— Non fa una grinza...

— Ecco il caffè, signor Virgilio.

— Grazie, contessa. Il suo caffè è una delizia.

Entrarono due signore: una donna matura ed una giovinetta: madre e figlia Alvisi, la cognata [p. 13 modifica]e la nipote di donna Anna Maria. La signora Alvisi nasceva Castellani ed era sorella al defunto marito della contessa.

Le due signore entrarono spaventate, pallide, senza fiato. Tutti le circondarono sgomenti, interdetti.

— Abbiamo i corsari alle viste — esclamò la giovine.

— Il generale Buonaparte ha dato alle fiamme Verona!. — .. gridò la madre. E, visto che tutti protestavano increduli, ella replicò. — È arrivato Nane Corsi col traghetto da Capodistria: sono le ultime notizie.

— Impossibile! sono pazzie: Buonaparte non è un barbaro — affermò l’Apolonio.

— Eppure — insistè la signorina. — Nane ha detto che tutti scappano da Verona: è un esodo. E il francese minaccia di mover guerra alla Repubblica. Minaccia anche i nostri porti. Intanto abbiamo i corsari!

— Ma dove? Santo Iddio, dove?

— Qui.... qui....

Il dottore scrollava le spalle.

— Non s’allarmi, contessa, per carità.. Non può essere.... Piange?

— Penso a mio figlio che può essere a Verona...

— I corsari, chi li ha visti? — domandò il podestà. [p. 14 modifica]

— Tonio, il figlio della Margherita, ha visto un legno sospetto mentre stava alla pesca.... un armatore!

— Ah, ecco qui il cavaliere Ettore Almerighi! Traversa la strada. Egli sarà certamente il meglio informato.

Ettore Almerighi, così annunziato dal farmacista conte Furegoni, fece le scale in due salti e si presentò sulla soglia col cappello in mano e un bel gesto di cavaliere elegante.

Molti gli mossero incontro, ma egli andò con passo lesto verso il divano dove sedevano le signore, fece un profondo inchino e strinse calorosamente le loro destre senza baciarle. Si voltò poscia a salutare gli amici.

— Parla dunque! — gli gridò Marco. — Queste signore narrano che sono arrivate notizie allarmanti col traghetto, e Tonio pretende di aver visto un armatore.

Sorrise il giovine con la sua aria amabilmente baldanzosa.

— Mi dispiace che le signore si sieno inquietate. Su, su, coraggio. Quanto ai corsari, li avrà inventati Tonio per vendere più care le sue sardelle. Del resto, c’è del nuovo, sì. Ma lasciatemi prima sedere e sorbire il caffè che già mi aspetta. Il paese non brucia per il momento.

Egli si accomodò con disinvoltura accanto alle signore, s’informò della loro salute e cominciò [p. 15 modifica]a sorbire lentamente il caffè senza zucchero come sempre usava.

Ettore Almerighi, nobile cavaliere, era l’amico di Aurelio Castellani, e più ancora del dottor Apolonio nonostante i diciotto anni che li separavano, poichè egli aveva venticinque anni e Marco Apolonio quarantatre. Li univa l’indole avventurosa; cementavano l’unione, gli studi, l’intelligenza, le abitudini signorili e più di tutto le idee. Ettore Almerighi passava in provincia tutta la bella stagione; l’inverno a Venezia. Marco Apolonio che aveva sciupato quasi tutti i beni in viaggi e follie d’ogni sorta, non si concedeva che un mese l’anno di dimora alla Dominante, ed era di solito il carnevale; poi, ridotto al verde, ritornava in provincia, dove s’annoiava assai ed era anche piuttosto mal visto.

Appartenevano entrambi al partito allora detto dei novatori e nutrivano una fede sconfinata nelle promesse di libertà, di elevazione, di benessere che i francesi dispensavano così generosamente ai popoli d’Italia attoniti e sgomenti, o troppo facilmente illusi. Essi erano nel paese i due soli rappresentanti di tale partito, odiato e disprezzato nella persona del dottore; mentre invece Ettore Almerighi era ben voluto da tutti: anche le sue bizzarrie venivano scusate perchè ne incolpavano il suo cattivo compagno. [p. 16 modifica]

L’arciprete aveva insinuato a sua sorella di sfrattare i due amici dal suo salotto. Ma ella vi si oppose. Sfrattare i due cavalieri più spiritosi, più amabili e per di più amici di suo figlio? Mai più.

A quarantatre anni il dottor Marco Apolonio era ancora assai attraente, slanciato e robusto egli conservava un volto armonico, una bella voce, una scioltezza di modi piena di distinzione. Ettore Almerighi, nel fiore degli anni, possedeva tutte le attrattive esteriori e spirituali. Molte giovani dame e non dame sospiravano per lui. I suoi occhi ammaliavano. Vi era nella sua fisonomia un non so che di geniale e di arguto: e in tutta la sua persona una grazia inesprimibile che forse era il risultato di un miscuglio bizzarro della sua natura aristocratica con lo spirito ribelle, avventuroso e le idee democratiche. Aveva i capelli castani, e li portava lunghi e sciolti alla repubblicana: una bella figura non troppo alta, fine e gagliarda.

Quando egli ebbe vuotata la sua chicchera, donna Anna Maria gli chiese subito quali notizie politiche egli avesse ricevuto da Venezia e specialmente dalle provincie di terraferma... da Verona.

— Teme che suo figlio sia a Verona?

— Non so dove sia, e temo il peggio. Mia cognata ha sentito che Buonaparte vuol dar fuoco alla città.... [p. 17 modifica]

— Ma le pare?... È una follia: è la paura di Foscarini che si è attaccata al popolo come al Senato e li fa delirare. La notizia più strabiliante è questa: il Senato ha deciso che la Repubblica si deve armare...

Un «oh!» formidabile echeggiò nella sala.

— Adesso?.... — Armarsi?.... —

— Troppo tardi! — È impossibile!

Quando le esclamazioni cessarono e vide che il suo uditorio attendeva altri particolari, Ettore Almerighi riprese la parola.

— Avrete giù appreso dall’ultimo corriere che Buonaparte è entrato in Peschiera portando via quella nostra fortezza al generale austriaco Beaulieu che per inganno se n’era impadronito.

— Sì — rispose Marco Apolonio. — Il Senato con la solita debolezza e imprevidenza aveva permesso al tedesco il passaggio traverso quella piazza: e in compenso il tedesco se l’era appropriata. E Buonaparte l’ha punito.

— È vero: Buonaparte lo ha punito. Una buona bastonata gli ha dato: ma ora vuol punire anche la Repubblica con la speciale accusa di aver ceduto Peschiera all’Austria infrangendo la neutralità. Questa accusa egli la rinforza con l’altro fatto dell’ospitalità accordata al conte di Lille, ossia, di Provenza. È irritato con Venezia. Vuole entrare in Verona liberamente perchè quel [p. 18 modifica]punto gli è necessario, si capisce, per tagliar la strada al tedesco, il Senato gli mandò il provveditore Foscarini a parlamentare. Pare che Buonaparte abbia espresso terribili minaccie contro Venezia, contro Verona; Foscarini preso da una tremenda paura ha spaventato il Senato e i veronesi, e ha spalancato le porte della città al vincitore. Ma i veronesi scappano. Ecco qui una lettera del mio amico nobile Rota il quale mi scrive che è una pietà vedere tanta povera gente che scappa terrorizzata. Dicono che Buonaparte vuol bruciare Verona; che tutto è finito per loro. Le strade sono ingombre di carri e carrozze, di veicoli d’ogni sorta: sul fiume tutte le barche sono utilizzate per trasportar masserizie: ma tanti e tanti se ne vanno a piedi, gli uomini trascinando quel poco che possono delle loro robe: le donne co’ bambini in collo.

— Non vi era un presidio a Verona?

— Sì, ma il Foscarini l’ha fatto uscire per non dare sospetti a Buonaparte.

— Oh! bella! — esclamò il capitano Gori, il fiero veterano. — Oh! bella! E cosa avete detto che adesso la Repubblica si vuol armare?

— È l’ultima notizia: si vuol armare, ma non in terraferma: oramai capisce anche troppo che le provincie di terraferma sono perdute. Vuol difender Venezia e l’Estuario, l’Istria e la [p. 19 modifica]Dalmazia, se potrà. Il capitano in golfo ha avuto l’ordine di ridur l’armata nelle acque di Venezia, le navi che ora sono nel Jonio verranno qui nelle acque nostre. Vedremo poi cosa succederà,

Gli astanti erano atterriti.

— Povera Venezia! Poveri noi! — sospirava l’arciprete.

— Per noi c’è poco da temere: siamo tanto piccini che possiamo cadere senza farci male: basta che facciamo buon viso al nuovo padrone.

Così parlava il conte Furegoni farmacista. Il dottor Apolonio lo riprese.

— Al nuovo padrone?..... No, no, non sarà un padrone. Bonaparte ci darà la libertà, non le catene. Egli farà morire la vecchia Repubblica per farne sorgere una nuova, libera e fiera. Quando verrà quel giorno innalzeremo l’albero della libertà sulla nostra piazza e faremo ballare anche l’arciprete.

Questi tacque indignato. Virgilio de’ Grassi scattò:

— Voi, Apolonio, non avete cuore di patriotta!...

— Io?... Più di voi. La vecchia Repubblica non è la patria: è un governo di tiranni infrolliti.

Gli adoratori di San Marco protestarono con alte grida. I pochi rivoluzionari strillarono del [p. 20 modifica]loro meglio: e strillando tutti in una volta, non s’intendevano affatto.

Donna Anna Maria piangeva: alzava le mani congiunte in alto di suprema preghiera: poi le lasciava ricadere, scorata, in grembo. Implorava il figlio: l’unico diletto figlio. Dov’era egli? Quali pericoli lo minacciavano? Perchè non giungeva ancora?

Don Ludovico cercava di confortarla, esortandola a confidare in Dio, nella provvidenza. Anche il farmacista e le due signore Alvisi, madre e figlia, le stavano appresso con dolci parole di speranza.

Mena veramente, la giovinetta figlia dell’Alvisi, nipote della contessa, di parole ne diceva poche; durava molta fatica a celare una parte almeno della sua commozione: Elena amava Aurelio di un amore incomprensibile, avendolo veduto così di rado: lo amava fin dall’infanzia.

Entrò improvvisamente quasi fuori di sè la nipote del podestà, nobile Alessandri, gridando che arrivavano i corsari, che le guardie del porto avevano riconosciuto la nave sospetta. La nipote del podestà era una ragazzina di quattordici anni, di poca salute, nervosa, eccitabilissima. Le sue strida empirono la sala. Nessuno poteva calmarla, ma pochi le credevano. Un domestico si presentò sulla soglia gridando alla sua volta: [p. 21 modifica]

— Signora Contessa, vi è davvero un corsaro che viene verso di noi inseguendo una piccola barca!

A tale annunzio, fatto ad alta voce dal servo spaventato, cessarono di un colpo le discussioni.

Donna Anna Maria balzò in piedi e la signora Emilia Alvisi esclamò:

— Aveva dunque ragione Tonio: la nave sospetta non era un sogno!

La sala di ricevimento della contessa Castellani occupava l’angolo Nord-Ovest della casa che era l’ultima del paese dalla parte del mare. A Nord la sala aveva due porte, munite di antiporte a vetri, che mettevano in una larga terrazza, il cui muro di cinta aveva il piede nell’acqua e si univa ad Ovest col muro della casa che scendeva diritto in mare. In questo muro si apriva una sola finestra a ciascun piano; e i piani erano tre col solajo. Essendo il mese di giugno, porte e finestre stavano spalancate. Gli uomini si precipitarono in terrazza, dove si trovava un buon canocchiale da spiaggia montato sul suo cavalletto girabile in tutti i sensi.

Donna Anna Maria andò alla finestra, ne chiuse le imposte esterne e preso un canocchiale abbastanza grande, lo appoggiò in un pertugio praticato per tale uso nel legno di un’imposta.

— Sono corsari di Corsica — ella disse subito alle signore Alvisi che le stavano accanto. — Ne abbiamo viste di queste navi negli anni scorsi [p. 22 modifica]quando gl’inglesi e Genova e la Corsica e i francesi si contrastavano nel Mediterraneo. Di tratto in tratto giungevano qui. — Detto ciò, ella invitò la cognata a guardare, poi la nipote.

— Ah! quella povera barca! guarda come la incalza il corsaro! È impossibile che si salvi....

— Chi sarò in quella barca?....

— Si vedono due uomini che vogano disperatamente: forse pescatori.

— Non mi pare una barca da pesca quella... Ha piuttosto l’aria di una scialuppa da trasporto...


Dopo quest’ultima osservazione donna Anna Maria cominciò a tremare; poi, staccatasi dalle sue parenti corse in terrazza.

Tutti gli uomini erano là a guardare discorrendo con animazione. La contessa si avvicinò all’arciprete che aveva girato il grande canocchiale in direzione della barca inseguita.

— Cosa ti pare? — ella domandò. — Quella barca....

— È in grave pericolo. Il legno da preda, uno dei soliti armatori, sta per raggiungerla.

— Non si potrebbe tentare qualche cosa per salvarla?.. Tremo tutta. Se fosse il mio Aurelio in quella barca?....

L’arciprete alzò le spalle.

— Cosa ti salta in mente?... Poco fa te lo figuravi a Verona, in mezzo alle fiamme; ora nella barca.... È una ossessione... [p. 23 modifica]

Ella non rispose subito. Fece alcuni passi, andò al parapetto: poi ritornò all’assalto.

— Non si potrebbe fare dei segni a quegli uomini perchè entrassero da noi?... Farei aprire la porticina. Perderebbero forse la barca, ma sarebbero salvi.

— Brava! Per attirarci la visita dei corsari! Sei pazza?

Ella non parlò più. Non poteva darsi pace. Le pareva che se avesse potuto salvare quei disgraziati, anche suo figlio avrebbe trovato aiuto se per caso fosse in pericolo. Si accostò al dottor Marco che stava al parapetto con Ettore Almerighi. Questo diceva appunto:

— Sono molto abili i due marinari. Come remano! Vanno contro vento e tuttavia come corrono!

— Perchè vanno contro vento? Se fossero venuti in qua si poteva tentare di nasconderli in casa, qui....

I due signori sorrisero.

— Vanno contro vento perchè il brigantino volendoli inseguire sia costretto a bordeggiare e rimanga indietro. Se andassero col vento in poppa il brigantino che ha le vele grandi li avrebbe già presi.

— È vero! — mormorò donna Anna Maria.

E non osò dire altro: capiva che il suo progetto di salvataggio non trovava alcun appoggio. [p. 24 modifica]Del resto la barca inseguita aveva preso una direzione affatto opposta alla casa dei Castellani.

— Pare che volino — diceva il dottore. — Ma se cambia la direzione del vento son presi. Il brigantino è armato...

— Saranno presi in tutti i modi.

— Chissà! — disse il podestà Alessandri.

Il Gori che guardava intento affermò che potevano salvarsi ancora, se riescivano a raggiungere il porto d’isola. Essendovi là un presidio di truppa il brigantino non si sarebbe avvicinato.

— È troppo lontano — affermò l’arciprete che aveva continuato ad osservare il dramma. — Troppo lontano: sono già stanchi.

Il Gori contraddisse. Il prete non gli badò. Tutti gli occhi seguivano intensamente il tragico spettacolo.

Sotto il cielo nitido di un azzurro metallico che il sole ancora alto rendeva sfolgorante, il mare cominciava a gonfiarsi e a fremere come sferzato dalle raffiche dell’aquilone. Nella imminente lotta tra le più grandi forze della natura, la ferocia umana si manifestava nella sua forma più odiosa, la caccia all’uomo per opera di altri uomini.

Donna Anna Maria, la signora Alvisi, sua figlia e la piccola Irene Alessandri, nipote del podestà, pregavano sommessamente. La contessa aveva [p. 25 modifica]ordinato alla cameriera di accendere le candele benedette davanti all’immagine di Maria e intonava le litanie dei santi:

«Ora prò ei: ora pro ei —» rispondevano le donne sommessamente.

— Ecco! — esclamò il podestà. — Vanno veramente verso Isola.......

— Ma il veliero gli è sopra! È riescito a prendere il vento di traverso.

Virgilio de’ Grassi, il cacciatore, osservò:

— Quello che io non comprendo, che non so neppure immaginare è per quale interesse il corsaro si ostini a perseguitare una barca che non ha nessun carico.

— Per impadronirsi della barca, per far prigionieri gli uomini. E poi, chissà....

— Io lo so il perchè — esclamò l’arciprete. — L’ho scoperto adesso. Vi è una donna nella barca. Una donna che a giudicare dalla linea sembra giovine... bella...

— Una donna?

— Una donna!

Le signore interruppero le loro orazioni e corsero al parapetto.

— Noi non l’abbiamo veduta, neppure col canocchiale! — esclamavano gli uomini.

— Neppure io, prima, perchè era nascosta sotto il boccaporto. Guardate... [p. 26 modifica]

— È vero! — affermò la signorina Alvisi. — L’ho vista anch’io!

E si allontanò per fare posto agli altri.

Ettore Almerighi accostò l’occhio alla lente.

— Per bacco! È una donna alta e snella. Gestisce: discute con uno dei suoi compagni. Ah! vuol buttarsi in mare. Uno dei due uomini la trattiene.

— Lascia vedere anche a me!

Ettore si scostò a malincuore. Ad uno ad uno tutti guardarono.

Il dramma s’intensificava.

— Attenti — esclamò il capitano Gori. — Il brigantino non è un corsaro: ha inalberato bandiera tricolore.

Era vero. Ettore Almerighi impallidì. Tutti ammutolirono.

— La cosa cambia aspetto — notò il podestà, perplesso. — E un dramma politico.

— Hanno inalberato la bandiera tricolore perchè quelli della barca si arrendano.

— Certo.

— Cosa faranno?

L’Alessandri che aveva sempre l’occhio alla lente rispose:

— Si gitteranno in mare. Vogliono morire piuttosto che arrendersi. Povera brava gente! Ma chi saranno? Chi possono essere? [p. 27 modifica]

Le signore singhiozzavano.

— Poveretti! Poveretti! Dio! Dio!

Era troppo grande strazio: assistere ad uno spettacolo così crudele nell’assoluta impossibilità d’intervenire, di soccorrere.

Virgilio de’ Grassi, sempre più calmo degli altri, e che osservava attentamente i movimenti del brigantino, si lasciò sfuggire una esclamazione di meraviglia.

— Il brigantino non ha più la bandiera tricolore.

— No!... E non vi pare che si sia fermato?..

— Si è fermato.... non può più lottare col vento....

— Si volta!.... gridò l’Almerighi che aveva lo sguardo acuto. — Vira di bordo.

— Sì — affermò l’arciprete.

— Vira di bordo...

— Ma che cosa è avvenuto?

— Intanto la povera barca inseguita fugge, vola. Hanno ripreso lena i bravi marinai.

— E il brigantino l’abbandona. Si ritira...

— Fugge a sua volta!

Restarono alcuni minuti senza parole, in preda alla più viva curiosità.

— La brava barca è già lontana! — esclamò tutta giuliva donna Anna Maria. [p. 28 modifica]

— Il Signore si è degnato di ascoltare la nostra preghiera.

— Venite un po’ qui, Antonio — disse don Ludovico al podestà.

— Cosa vedete laggiù? Guardate bene.

— Una grossa nave, mi pare da guerra; una fregata!...

Si accostarono uno dopo l’altro, meno Ettore Almerighi che ci vedeva abbastanza co’ suoi occhi.

— Una fregata inglese — affermò egli dopo alcuni momenti!

— Il corsaro.... o quello che sia... l’ha vista prima di noi.

— Sicuro. Guarda come fila. Va a prendere la rotta della Dalmazia.

— Ma la fregata non lo abbandona: fe proprio una bella fregata e porta bandiera inglese! — affermava con gioia Virgilio de’ Grassi.

— Il brigantino non ha più bandiera di sorta.

Il cavalier Almerighi osservò con la voce un po’ aspra:

— Non è un legno di Francia quello: dev’essere di quegli armatori levantini che si fanno lecito d’inalberare qualunque bandiera.

— Certo — confermò il dottor Apolonio. — Un legno francese non avrebbe abbassata così la sua bandiera. [p. 29 modifica]

Mentre i due francofili mortificati cercavano di consolarsi con buone supposizioni, neppure gli altri erano troppo lieti. Il passaggio di navi armate, navi da preda, o grosse navi da guerra non era cosa che potesse rallegrarli su quella solitaria spiaggia senza difesa. Sapevano bene che se fossero sbarcati, inglesi o francesi, tedeschi o levantini, non avrebbero mancato di danneggiare in un modo o nell’altro il povero paese.

Il sole era scomparso. Grandi nuvole nere orlate di sanguigno salite a poco a poco dall’orizzonte oscuravano il cielo.

Il vento soffiava sempre più forte e sull’immensa superficie del mare, nerastra, convulsa, apparivano le prime creste spumose. Il brigantino non era più che un punto bianco nell’oscurità; e la grande nave da guerra scivolava sulle onde come un fantasma, tutta avvolta nelle sue grandi vele. Un colpo di cannone rimbombò improvvisamente.

Le donne mandarono un grido.

La piccola campana della parrocchia intonò l’Ave Maria. Il prete si scoprì e cominciò a recitare l’Angelus. Le donne s’inginocchiarono. Gli altri rimasero al parapetto a capo scoperto.

Un secondo colpo di cannone interruppe la prece. [p. 30 modifica]

— Bene! — esclamò il capitano Gori, il vecchio veterano ringagliardito dalla gran voce del cannone.

— Viva la Francia! — gridò Ettore Almerighi.

— Evviva sempre — rispose Marco Apolonio.

— Viva san Marco! Viva Venezia! — gridarono gli altri in coro.

Qualche altro colpo rumoreggiò in lontananza; poi tutto tacque. La notte si addensò, profonda, cupa. La terrazza fu abbandonata ai sibili del vento e allo sciacquìo delle onde.