La poesia cavalleresca e scritti vari/La poesia cavalleresca/IV. L'Orlando Innamorato

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IV

L’«ORLANDO INNAMORATO»


Il poema del Pulci fu stampato sei anni prima dell’Orlando innamorato, ma era già noto da lunga pezza; da molti anni non si parlava d’altro: ché, quando in que’ tempi usciva un libro di tal fatta, era accolto con somma attenzione. Scritto che aveva Pulci un canto e lettolo alla brigata della Tornabuoni, lo faceva girar manoscritto; sicché era già popolare quando fu pubblicato. Ma se il popolo che legge senza intenzione estetica, che legge per divertirsi, accolse favorevolmente questo primo dei pochissimi libri popolari italiani, gli si scagnarono contro i preti, si perché era in voce di miscredente e si perché realmente mette la religione in ridicolo nel Morgante. Accanto a questi detrattori in nome del Vangelo sorsero detrattori in nome d’Aristotele e d’Omero: eruditi e pedanti. Vi ricorderete che gli scrittori di quel secolo vanno divisi in tre classi: i mestieranti, traduttori e raffazzonatori; gli uomini d’ingegno che perfezionavano la forma, ed i letterati provvisti d’ingegno creativo, che mettendo negli autori antichi e precedenti il modello inimitabile della poesia, non potevano concepire un tal poema, e dicevano: — Che razza di poema è mai questo, dove stanno non una ma tante azioni, ed episodi che non hanno che fare col subietto; nel quale, mentre dovrebb’essere quanto v’ò di più maestoso e solenne, trovi buffonerie ad ogni piè sospinto e riboboli tolti da Mercato vecchio. — Se il Pulci avesse avuta chiara intuizione di quanto voleva fare, avrebbe potuto rispondere: [p. 60 modifica] — Qui è il mio merito: di aver fatta la caricatura del poema, di aver iniziato un movimento importante nelle lettere (ultimato da Ariosto, da Rabelais, da Cervantes) e di aver cooperato a distruggere l’epopea del Medio evo — . Ma Pulci non avea coscienza del suo lavoro, ed aveva le opinioni dei suoi critici. Quindi, terminando il poema, recita il confiteor, protestandosi assai contento ove venga accolto

                         tra faggi e tra bifulci
Che non disprezzin le muse del Pulci,
e sperando che un altro venga e compia le sue idee.

Che c’era da fare dopo il Pulci? Da ritener questa ironia del Medio evo e sollevarla a coscienza; e da elevar questo fondo ironico a perfezione di forma, sufficiente perché ne uscisse un lavoro artistico durabile. Giacché, chi fa un lavoro comico, non è esentato dalle condizioni serie dell’arte. La forma è necessaria tanto pel serio quanto pel ridicolo. Un pittore greco, concepito l’ideale d’una brutta vecchiaccia, la ritrasse con tanto studio e verità che, vistola sulla tela, si pose a ridere così sconciamente da scoppiarne. Non avete il dritto di trascurar la forma e di dire; — Fo un abbozzo — : ci vuole la medesima perfezione artistica ovvero il lavoro rimane un abbozzo senza polpa.

Mentre il manoscritto del Pulci girava, sorgevano in Italia due poeti che si sforzavano di risolvere il problema non indovinato dal Pulci: Francesco Bello e Matteo Maria Boiardo. Francesco Bello, più conosciuto sotto il nome del Cieco da Ferrara, ha pubblicato prima del Boiardo il suo poema intitolato Mambriano, oggi perfettamente obliato per la sua lingua barbara, per l’arido stile e l’insulso racconto. Il suo protagonista è il pagano Mambriano: non era questo il modo di rendere popolare un libro fra cristiani. Se avesse preceduto il Pulci, meriterebbe di esser citato come punto di partenza; essendogli posteriore, non ha importanza alcuna.

Ma, frattanto, un altro, con maggior merito e serietà, imprese un poema epico e ne fece lo scopo della propria vita. [p. 61 modifica]Matteo Maria Boiardo non è un uomo volgare. Era conte, con vassalli, feudi e castelli, e dipendeva nominalmente dal duca di Ferrara. Boiardo non era obbligato, come Pulci, ad intrattener le brigate, a far da buffone; si degnava quando leggeva squarci del suo poema. Nacque in tempi in cui cominciava a non bastare l’esser conte, ma bisognava inoltre aver qualità intellettuali e morali: credette che l’esser conte non bastasse: studiò e fu laureato in legge e filosofia; poi continuò da sé, traducendo dal greco, componendo in latino, sobbarcandosi a tutti quei lavori primordiali che assuefanno alla fatica ed alla perseveranza. Formatosi con questi studi, scrisse una commedia, capitoli e sonetti mediocri per l’esecuzione nulli pel concetto, e, finalmente, concepí l’Orlando innamorato.

Un poema epico è stimato come il più alto monumento artistico d’un popolo. Gl’Italiani, nobilmente desiderosi d’emulare le letterature antiche, ne volevano uno; quindi lo sdegno contro il Pulci e quella critica che tormentò il Boiardo, l’Ariosto ed il Tasso. La stessa brama durò in Francia fino al secolo decimottavo, e fu per appagarla, che Voltaire scrisse l’Enriade.

Boiardo scelse la Cavalleria per subietto d’un poema serio. Ma evvi serietà in quel contenuto? In Italia, ve l’ho già detto, era impossibile che ne avesse più. Non poteva la Cavalleria aver nulla di serio, che, o come principio religioso, rappresentando la lotta fra il Maomettismo ed il Cristianesimo, o come istituzione politica. Il tempo delle Crociate era passato; il papato era screditato ed attaccato; le classi colte stavano in aperta opposizione; la Riforma rumoreggiava già in aria. Se il Boiardo medesimo non era un miscredente, non era neppure sinceramente religioso, come Tasso: accettava la religione come un fatto di cui aveva perduto lo spirito: quindi benché la lotta in realtà sia fra maomettani e cristiani, avviene per la conquista d’un brando o la vendetta d’un padre, non per motivi pii. Mancano elementi religiosi, che costituiscano una forza interna. Non v’è neppure culto per la Cavalleria. Come conte, conosceva per filo e per segno tutte le usanze cavalleresche; ma ride delle sue invenzioni: cita Turpino come sicuro di [p. 62 modifica]non essere creduto. Ha voluto rappresentare seriamente il trionfo della forza fisica, contro cui tutti, compreso lui, combattevano quando la stampa era inventata, e splendeva l’aurora della civiltà moderna. Fu condotto a ciò da un pregiudizio letterario: concepì il suo poema da pedante e per obbedire a pedanti.

Credette che, a trattar seriamente questo contenuto, bastasse dargli un abito serio, come se uno pretendesse di render serio Triboulet col mettergli un mantello filosofico. Cosi superficialmente concepì il suo poema; non contentandosi di fatti trovati, li volle inventare. Il poema, che non è ancor finito, consta di sessantanove canti tutti inventati da lui col fermo proposito di voler fare qualche cosa di serio, e sono tutti radicalmente ridicoli e buffoneschi.

Cerca di concepir seriamente l’ordito, in modo che i fatti non siano scuciti, ma entrino gli uni negli altri, e crede che il poema sia divenuto serio perché è ordito seriamente.

Le fila son ben ordite; gli episodi che vi getta in mezzo non vi stanno a gambe in aria come quelli del Pulci: hanno sempre uno scopo, o servono a ricreare o a variare o a spiegare avvenimenti futuri, talvolta sono introdotti con un’intenzione morale o filosofica. De’ poi venire alla rappresentazione? non lascia i fatti e le invenzioni con facilità come Pulci, ma cerca di sviscerarli. Se deve dipingere una giostra, vi dirà l’ordine delle sedie e quali personaggi vi sedessero, come vestiti, come armati. Spesso è tanto minuto da sembrare un autore moderno. Dovendo descrivere una battaglia, enumera le schiere, ve ne dice i capitani, determina l’ordine in cui si azzuffano, entra ne’ più minuti particolari che possano dare un’illusione di serietà. Mette gran cura nel colorito; se guardate le parti esterne, il suo poema vi sembrerà daddovero qualche cosa di serio. Eppure, non può darsi nulla di più intimamente ridicolo. Valgano per esempio i sette primi canti, che possono considerarsi come introduzione al poema.

Comincia il poema con una festa: s’alza il sipario fra la gioia de’ convitati ed il rumore de’ bicchieri. Spagnuoli e francesi [p. 63 modifica] si preparano ad una giostra, data da Carlomagno. Quando ecco apparisce una giovanetta, bella tanto, che tutti, compreso Carlone, si scoloriscono in volto. È Angelica, venuta d’India per far prigioni tutti i Paladini. Ha condotto seco un suo fratello dall’armi incantate, dal cavallo veloce come il vento, con una lancia d’oro che abbatte quanti tocca e con un anello che rende invisibili; e si offre in isposa a chi le vincerà il fratello: chi però ne sarà vinto, rimarrà suo prigione. Fino il vecchio Namo e Carlomagno vogliono esser primi: per conciliare le diverse pretensioni si sorteggiano i nomi. (Il Tasso ha imitato tutto questo; il principal merito del Boiardo è l’inventiva: l’Ariosto e il Tasso l’hanno saccheggiato). Astolfo esce pel primo: cavaliere ch’è agevolmente scavalcato, galante, lindo e pinto, millantatore e bravaccio. Gli succede Ferrauto, che, abbattuto con la lancia, cava la spada. Quattro giganti, difensori d’Angelica, accorrono per proteggere il giovinetto; Ferrauto li ammazza e si azzuffa col fratello di Angelica. Ma, grazie all’invulnerabilità dell’uno ed all’armi fatate dell’altro, non si facevano gran male. Mentre si riposano stanchi, Ferrauto dice all’antagonista: — Perché vuoi ch’io t’uccida a forza? Dammi tua sorella — . Il giovane consentirebbe; ma, mentre Ferrauto era bruno, Angelica aveva caro un biondo. Si rinnova dunque la pugna; ma mentre Ferrauto, trafitto l’avversario, si reputava vincitore, sopravvengono Orlando, Ranaldo ed altri, co’ quali gli è forza combattere; e frattanto Angelica, riponendosi l’anello in bocca, sparisce; ed i contendenti rimangono con le mosche in mano. Sopraggiunge un messaggiero che annunzia la venuta di Gradasso, re indiano, con un poderoso esercito per conquistare la spada d’Orlando, Durindana, ed il cavallo di Ranaldo, Baiardo. Ferrauto e Ranaldo vanno in Ispagna. Ranaldo duella con Gradasso, ed è rapito sovr’una barca fatata. Gradasso passa in Francia e fa prigioni tutti i Paladini e Carlo. Ma Astolfo, che ha trovato per caso la lancia fatata e ne ignora le qualità, sfida Gradasso, che gli promette la restituzione de’ suoi prigionieri ove sia vinto. Infatti li restituisce, e se ne torna in India.

Tutto qui è buffonesco: la guerra di Gradasso comincia per [p. 64 modifica]uno scopo ridicolo, e termina ridicolmente. Gradasso, scavalcato dopo tante gradassate, da un buffone, è una profonda ironia della vita. L’avventura di Angelica, che, morto il fratello, sparisce, mediante l’anello, dalla vista de’ cavalieri che si percuotono per lei, è ridevolissima. Ma, mentre il contenuto è buffonesco, quanta serietà e giudizio nella rappresentazione.

Comincia con una festa ed una giostra, per presentarvi e farvi conoscere i personaggi, anzi che agiscano. Né solo fate la loro conoscenza personale tra’ bicchieri e tra’ brindisi. Questi sette canti sono destinati a conoscere il personale del poema. Vi trovi Angelica e il suo contrapposto, Malagigi, che, rivaleggiando di magia, sono le due potenze soprannaturali del poema. Vi fa conoscere il terreno su cui accadranno gli avvenimenti, Francia e Spagna. Anche i particolari, gl’incidenti e gli accessori servono a qualche cosa, gettano i semi degli avvenimenti successivi. Ranaldo, che motteggia Gano nel banchetto, vi mostra la prima origine dell’odio fra le case di Maganza e Chiaromonte, ch’è una delle chiavi del poema. Tutto questo è fatto seriamente. Metteva gran cura alle più minime cose. Soleva nella bella stagione ritirarsi a Scandiano, un suo castello, e li domandava il nome a ciascun suo vassallo, affinché potesse sceglierne di belli pe’ suoi personaggi: in premio, la massima parte de’ suoi nomi è rimasta popolare, tanto corrispondono bene alla natura de’ personaggi. Una volta, rimase più giorni scervellandosi, come un padre di famiglia, che debba battezzare il figliuolo, per trovare un nome ad un guerriero che fosse forte di membra, feroce e millantatore: trovatolo, ordinò che tutte le campane del castello suonassero a festa. «Habemus pontificem!».

Pure, Boiardo ha avuto il maggior castigo possibile. Cinquant’anni dopo, un fiorentino bizzarro e spiritoso, avvedutosi della discrepanza fra il buffonesco del contenuto e la serietà della forma, ritenendo il primo cambiò la seconda. Aggiunse il colorito, cangiò qualche frase, alterò la fine di qualche episodio; e, con questi pochi tocchi, quella grave epopea è divenuta un poema buffonesco per eccellenza. E questa alterazione era [p. 65 modifica]tanto nella natura delle cose che il poema del Boiardo è dimenticato e quello del Berni è rimasto.

Non dobbiamo esser ingiusti e disconoscer ch’egli sia l’inventore della più parte dei fatti ricreati dall’Ariosto e dal Tasso. Esamineremo il suo poema seriamente, come egli l’aveva concepito.

★ ★ ★

Ne’ sette canti compendiativi v’ho presentata quasi un’introduzione al poema del Boiardo. Le due azioni, narrate, cominciano, continuano e finiscono col settimo canto: sicché il poema inaridirebbe sul bel principio ove venissero considerate come azioni integrali del poema; ma è una larga introduzione che ci fa conoscere i personaggi. Il poema sembra finito laddove veramente principia. Giacché, se Angelica non ha fatto materialmente prigioni i Paladini, li ha però fatti prigioni con gli occhi, con la bellezza; e, ritirandosi nel Cataio, non va sola, ma è seguita da’ principali cavalieri di Francia e di Spagna. Dimentichiamo la Francia Parigi e Carlomagno, con cui era cominciato il poema; e l’interesse si concentra in Angelica e ne’ cavalieri che la seguitano. Angelica è il vero centro d’azione.

Angelica, camminando con l’anello, cioè vedente non veduta, giunge al fonte di Merlino nella foresta d’Ardenna, dove erano due fontane incantate. Chi beve dell’una s’innamora, chi beve dell’altra disama la persona che amava, e Ranaldo assetato ed Angelica assetata giungono lá. Angelica s’innamora di Ranaldo, Ranaldo tramuta il suo amore in odio feroce. Angelica gli si scopre e gli dichiara il suo amore. Ranaldo la rifiuta. Essa torna nel Cataio, dove era Malagigi, da lei fatto prigione, e gli dà la libertá, a condizione che le procacci l’amore di Ranaldo. Malagigi torna in Francia; ma Ranaldo lo vuol piuttosto veder ritornare in prigione che far le voglie di Angelica. Malagigi fa prendere ad un demonio la forma di Gradasso, e fa ch’e’ fínga di fuggire innanzi a Ranaldo. Ranaldo gli tien dietro, e dietro lui salta in una barchetta incantata che lo conduce in un’isola dov’era Angelica, ch’egli schiva come un serpente, risaltando [p. 66 modifica] nella barca da cui è condotto in un’altra isola, dove un mostro starebbe per divorarlo quando Angelica gli apparisce e gli dice: — Amami e ti salverò — . Ranaldo rifiuta; ma Angelica, non avendo cuore di farlo morire, uccide il dragone; Ranaldo fugge, e, dopo una strepitosa avventura, acquista Rabicano.

Ranaldo, che vorrebbe restarsene a Parigi, è condotto lontano lontano. Orlando, che vorrebbe tener dietro ad Angelica, cápita nel giardino di Dragontina: chi vi entrava, smemorava, e divenne Orlando, con molti altri guerrieri, schiavo di Dragontina.

Intanto, il centro d’azione, Angelica, perduta ogni speranza di acquistar Ranaldo, torna nel Cataio. Agricane, fortissimo re pagano, aveva radunato un potente esercito per impossessarsi di Angelica. Ma Sacripante, altro re pagano, che l’amava anch’egli, muove per liberarla con un esercito sotto Albracca.

Qui ha luogo la prima battaglia del poema. Le battaglie del Boiardo sono monotone: quest’infiniti eserciti sono la canaglia che un guerriero fa a pezzi e distrugge. Tutti questi combattimenti vanno a finire in un duello. Questa prima battaglia è famosa perché s’approssima più d’ogni altra alla grandezza ariostesca. L’autore è fresco, Agricane e Sacripante s’incontrano. (Tasso ha imitato questo duello per fare quello fra Tancredi ed Argante.) Sacripante, destrissimo e provvisto d’un rapidissimo cavallo, Frontalatte, resiste per più di sei ore ad Agricane; finché finalmente, ferito in più luoghi, non si ritiri nelle camere di Angelica per farsi medicare. Agricane entra co’ fuggiaschi in Albracca, e rimane solo chiuso nella città. (Ariosto ha imitato questo luogo, cambiando Agricane in Rodomonte ed Albracca in Parigi.) Vorrebbe ritirarsi, quando, sfondate le porte, entrano i suoi d’ogni parte nella città: Angelica, ormai indifesa, abbandona la fortezza, che le era rimasta, a Sacripante, e parte, cercando un nemico ad Agricane. Cápita nel giardino di Dragontina, provveduta dell’anello che la rendeva invisibile e distruggeva ogni incanto. Trova che Grifone ed Aquilante cantavano l’uno da basso e l’altro da soprano, Brandimarte che [p. 67 modifica]fischiava. Orlando stava solo in disparte. Angelica gli pone l’anello in dito, si ch’egli risensa. Dopo, rimettono l’anello a tutti i nove guerrieri, che, risensati, distruggono il giardino, si mettono in via dietro Angelica. Oltre Sacripante, nella fortezza d’Albracca era rimasto anche Truffaldino, uomo che non serbava fede a nessuno. Costui, pensando che Sacripante era ferito ed Angelica partita, imprigiona il suo compagno e manda ad offerir le chiavi della fortezza ad Agricane; il quale, da vero Fabrizio, le rifiuta, minacciando la forca a Truffaldino. Angelica ed i guerrieri giungono; ma fra loro e la fortezza erano due milioni d’uomini; si formano in battaglia, si slanciano, e, volere o non volere, fanno uno sdrucito nell’esercito nemico, e picchiano alle porte, che Truffaldino apre loro solo quando hanno giurato di difenderlo contro chi che sia.

Le proposizioni sono migliorate: l’interesse rinasce, perché rinasce l’opposizione. Agricane sfida Orlando; come l’uno è invulnerabile e l’altro provvisto d’arme incantate, la battaglia durerà a lungo, malgrado lo spesseggiar de’ colpi. Ma il poeta comincia a stancarsi ed a ripetersi nelle battaglie. Mentre questi duellano, si vedono nugoli di polvere, s’odono nacchere e tamburi: è Galafrone, padre d’Angelica, che viene con un esercito infinito a liberarla. Non vi può essere interesse in un esercito infinito che quando vi sia un gran guerriero. Galafrone ha seco due grandi guerrieri: l’uno è il gigante Archinoro, e nei poemi cavallereschi i giganti sono destinati ad esser bastonati e tagliati a pezzi da’ Paladini; l’altro è una donna, valorosa non meno di Orlando e Ranaldo, Marfisa, che aveva fatto voto di non ispogliarsi mai delle armi sue, finché non avesse fatti prigioni Agricane, Gradasso e Carlomagno. Sul punto in cui sta per appiccarsi la battaglia, costei, assonnata, chiama la cameriera e le raccomanda di non destarla che quando l’esercito fosse distrutto e Galafrone ucciso. Archinoro faceva strage. Agricane prega Orlando d’interrompere un poco il duello, uccide Archinoro e sgomina l’esercito. Ma, rientrando Orlando in battaglia, Agricane pensa che, uccisolo, checché fosse per accaderne de’ suoi, avrebbe vinto. Lo sfida, e vannosene in una selva per vincere [p. 68 modifica]o morire. È questo il più stupendo episodio del Boiardo, imitato poi dal Tasso. Combattono tutto il giorno: non vedendoci più si sdraiano l’uno accanto all’altro. Orlando parla di Cristo, del Cristianesimo, ed anche un po’ d’astronomia. Agricane gli risponde: — O non parlarmi, o parlami di guerra ovvero d’amore — . Orlando gli parla d’amore, e così Agricane appura ch’egli è non solo suo nimico, ma anche suo rivale. Comincia un combattimento notturno (Clorinda e Tancredi), che si prolunga poi per un’altra mezza giornata, finché Orlando non uccide e battezza Agricane (idea che ha poi germogliato nel Tasso). Orlando toglie per sé Baiardo, allora posseduto da Agricane.

Galafrone, rinculando, giunge dove Marfisa saporitamente dormiva. Costei viene svegliata in fretta: — Correte, tutto è perduto — . Marfisa sale a cavallo, e, scorgendo Ranaldo giunto pur allora con alcuni pochi sul campo di battaglia, dice: — Aspettate ch’io prenda questi quattro ghiottoni, e poi verrò da Agricane — . Mentre Marfisa combatte con Ranaldo, Galafrone, riconoscendo Rabicano, si scaglia addosso a Ranaldo, sciamando: — Tu hai ucciso mio figlio! — . Marfisa, presa dal più comico o meglio dal più terribile sdegno, si unisce a Ranaldo, dichiarandosi contro Angelica e Galafrone. Sembra che qui l’interesse debba illanguidire. Da un lato stanno Marfisa e Ranaldo. Dall’altro, i nove cavalieri ed Orlando. Orlando è ritornato da Angelica, ha saputo di Ranaldo e lo ha creduto li perché amante d’Angelica, ed è dispostissimo ad ammazzarlo. Ranaldo aveva giurato d’impiccar Truffaldino, Orlando di difenderlo. I due guerrieri prima scambiano improperi, poi vengono alle mani. Baiardo, riconoscendo Ranaldo, ricalcitra, caccia la testa fra le gambe. Mentre Orlando è impacciato, Ranaldo corre addosso a Truffaldino, lo trascina a coda di cavallo pel campo, e l’uccide. Orlando cambia cavallo, e duella con Ranaldo, tirano colpi sformati. Ranaldo ne riceve uno sull’elmo incantato che gli fa scorrere sangue dal naso, l’elmo gli si riempie di sangue: perde il vedere, e resta immobile. Orlando sta per raddoppiare i colpi, quando Angelica, appurato chi fosse il cavaliere che era per esser vinto, corre da Orlando e gli chiede che disfaccia [p. 69 modifica]l’incanto del giardino di Falerina. Angelica, pensando d’ingraziarsi Ranaldo, gli rimanda Baiardo.

★ ★ ★

Il Wagner, editore di una collezione di classici italiani in Lipsia, professa una grande ammirazione pel Boiardo, anteponendolo, nonché al Pulci, ma all’Ariosto, e proprio per la ragione che lo dovrebbe far biasimare, perché solo fra gl’Italiani, ha trattato seriamente la Cavalleria. Wagner s’indegna contro gl’Italiani di quell’epoca che non guardavano l’epoca dell’amore, dell’onore e delle grandi imprese con la serietà stessa de’ romanzieri stranieri.

Non ho fatto molto caso di questa che credevo un’opinione personale e fondata sopra princípi assoluti, cavati dalla religione, dalla politica, dalla morale, non dall’arte, ch’è indipendente; poco preme se sia o no religiosa, morale, seria; la quistione è di sapere se in un certo periodo sociale l’arte debba prendere o no una data forma.

Ma mi è capitata fra le mani un’opera dello Schmidt, ch’è un’analisi de’ poemi cavallereschi italiani, e non solo ne racconta il contenuto, ma vi soggiunge alcune osservazioni estetiche. Lo Schmidt non ha un’idea molto vantaggiosa dell’Ariosto. Dice che per piacere a differenti classi di gente, innamorati, guerrieri, uomini d’immaginazione e buffoni, mescolò amori, armi, avventure favolose, plebeitá senza serietá.

Così vidi uno de’ poemi più seriamente concepiti, ed eseguito con quella superstizione che un genio mette ne’ suoi lavori, trasformato dallo Schmidt in una mascherata, in una caricatura! Lo Schmidt pensa come il Wagner riguardo al Boiardo, perché primo e solo rappresentò seriamente la Cavalleria; indegnandosi contro gl’Italiani d’allora e soprattutto contro l’Ariosto e il Pulci. Ora in quel tempo, tutta l’Europa, non la sola Italia, combatteva contro il Medio evo, aspirando ad uscire di quella barbarie; ed una poesia epica seria sulla Cavalleria come oggi una poesia epica seria sulla guerra troiana o punica, non avrebbe avuto un sentimento sociale. [p. 70 modifica]

Lo Schmidt ragiona così: — Il serio è un elemento positivo; il comico è un elemento negativo; il si vai più del no; quindi Boiardo, che ha l’elemento affermativo, vale più degli altri, che hanno solo l’elemento negativo — .

Ora, la società in certi tempi ha istituzioni ed opinioni e ci crede; ed è possibile una poesia epica che le rappresenti seriamente. Ma, corrotte che siano quelle istituzioni e quelle opinioni, la società si ribella, senza avere un’idea chiara di altre opinioni ed istituzioni, e sorge l’elemento negativo. La poesia non rappresenta, ma combatte; è un momento particolare dell’arte necessario nella storia della società. Quando la società non se ne contenta più, nascono altre istituzioni e può sorgere un’altra poesia seria. Basta gettare un’occhiata su que’ tempi per persuadersi che allora mostrava ingegno chi vedeva fracido ciò che le masse credevano serio. Questo è il merito del Pulci e la grandezza dell’Ariosto. Lodiamo tanto il Cervantes perché portò il colpo mortale all’ideale del Medio evo, con l’immortale suo Don Chisciotte: e perché dovremmo biasimare gl’Italiani, suoi precursori, che l’hanno confusamente sentito?

Il Boiardo, per intenzioni pedantesche, ha voluto fare seriamente quanto è sostanzialmente ridicolo. Me ne appello a voi. V’ha nulla di serio nel fondo immaginato? Voi chiederete: — Volendo essere serio com’ha potuto riuscire così ridicolo? — . Era la forza de’ tempi. Scartiamo i sette primi canti, di cui vi ho dimostrato quanto sia buffonesco il contenuto — . Prendiamo i trenta canti ne’ quali si ragiona d’Angelica. È chiusa in Albracca, assalita da un innamorato e difesa da un altro; burla Sacripante ed Orlando, amando Ranaldo; e finisce per andarsene con Orlando senza che nulla si concluda. Angelica è una civetta magicamente innamorata; non v’è né interesse, né serietà. Orlando non aveva mai fatto all’amore; è timido, grottesco e ridicolo; amava seriamente, e quindi è geloso, si cruccia e s’addolora. Ma anche l’amante serio divien ridicolo, posto in situazioni ridicole. Quando, trovata Angelica sola, e presentandolese, balbetta e dice cose ridicole, costringe il Boiardo medesimo a dire: [p. 71 modifica]
Turpin, che mai non mente, di ragione
Chiama Orlando in quell’atto un babbione,

Orlando ama anche Origille; cavalca con lei in groppa, sospirando la sera; venuta la sera, mentre si disarma, Origille gli dice d’aver visto un dragone. Orlando ne va in cerca, e frattanto Origille si mette a cavallo e vassene. Orlando la ritrova; essa arrossisce, gli chiede perdono. Cavalcano un’altra volta assieme, annotta un’altra volta: quando si affaccia una giovane e dice ad Orlando che il giardino della Fata Morgana, ch’e’ doveva distruggere, era li presso, ma che per ottenere il suo intento dovrebbe rimaner casto per tre giorni. Orlando si decide a rimaner casto quella sera: si sdraia sull’erba. Mentre russa, Origille gli ruba il cavallo e la spada. Non basta, ed Orlando è canzonato una terza volta da Origille. È questo un eroe, o non piuttosto l’Arlecchino e il Don Chisciotte del poema?

È dunque messa fuori discussione la lotta tra il fondo e la forma: tra il ridicolo che soverchia e la serietà con cui vengono trattati que’ fatti ridicoli.

Esaminiamo i pregi ed i difetti dell’ordito, che vi è sembrato stanchevole e noioso. Primo difetto è il suo illimitato: non ha principio né fine, manca d’un disegno centrale che ne dia la misura. Non ebbe il Boiardo tempo né di finire né di limare il suo poema, che termina al sessantesimo ottavo canto e giusto dove dovrebbe cominciare: giacché la parte seria è la guerra fra pagani e cristiani. Ariosto ha sagacemente ripreso quel principio, e fatto il vero poema del Boiardo:

     Le donne, i cavalier, l’armi, gli amori.
Le cortesie, le audaci imprese io canto.
Che furo al tempo che passaro i Mori
D’Africa il mare e in Francia nocquer tanto,
Seguendo l’ire e i giovanil furori
D’Agramante lor re, che si dié vanto
Di vendicar la morte di Troiano
Sopra re Carlo, imperador romano.
[p. 72 modifica]

Vi è un secondo difetto. Boiardo ha voluto riunire i due cicli d’Arturo e Carlomagno, egualmente popolari, in Italia; volle riunire i due elementi. Il proprio del ciclo di Carlo sono le guerre, i grandi fatti d’armi; il proprio del ciclo d’Artú, la galanteria e le imprese amorose. Boiardo ragionò così: — Voglio cantare le donne e i cavalieri, le armi e gli amori, le cortesie e le audaci imprese; farò due azioni: nell’una rappresenterò l’amore; l’altra avrà per principio le armi. Il primo è la guerra intorno ad Angelica; il secondo la guerra fra pagani e cristiani: i due elementi saranno rappresentati da due azioni distinte — .

I primi storici, che vollero trattare filosoficamente i fatti, stimandoli di per sé solo stupidi accidenti, esponevano in un capitolo i fatti, in un altro la filosofia. Mentre invece la storia deve fondere fatti e filosofia insieme, per modo di dare una rappresentazione unica. Cosi il Boiardo, volendo unir gli amori e le armi, ha dato un’azione all’amore ed un’azione alle armi, mentre avrebbe invece dovuto prendere un’azione e fondere in essa i due elementi. Di qui doppio e debole interesse, noia e fastidio. Vi è una quarta osservazione da fare intorno agli episodi: parte in lui più interessante. Il Boiardo ha introdotto nuovi elementi: le fate e l’amore, sotto il punto di vista intimo e drammatico.

II merito del Boiardo è d’aver introdotte le fate; rimaneva a dar loro tutto il lusso della fantasia orientale, e questo fu fatto dall’Ariosto e dal Tasso.

L’elemento drammatico è scarso in Dante; in Petrarca quasi nullo. Il primo ad introdurlo fu il Boiardo. L’episodio di Tisbina è sopravvissuto. Costei era maritata ad Iroldo ed amata da Prasildo; e volendo Prasildo ammazzarsi, gli promise d’esser sua purché disfacesse un giardino incantato, contando ch’e’ non sarebbe mai per riuscirvi. Ma Prasildo riesce, ritorna, e reclama l’adempimento della promessa. La donna confessa tutto al marito, che, non volendo perderla né che spergiurasse, le propone di avvelenarsi con lui. Si avvelenano, e nondimeno, non volendo che morisse con la taccia di spergiura, il marito esorta la donna a recarsi da quello che la pretendeva, e che [p. 73 modifica]non volendo mostrarsi d’interior generosità, la rimanda illibata. Sopravviene lo speziale, che dichiara di aver dato un preparato innocuo ad Iroldo. Il marito, dopo alcun tempo, si allontana e si finge morto acciocché sua moglie possa maritarsi con Prasildo.

Vi è qualcosa di ridicolo, ma è pure il primo episodio italiano in cui apparisce quell’amor violento che ha poi ispirati tanti romanzi. Vi è verità e sentimento; si sente sorgere la poesia drammatica.

Ma gli episodi si accavalciano troppo: è cosa da non finirla. Un cavaliere non può muovere un passo senza incontrare dragoni, leoni, demoni, giardini incantati, fate, ecc. Non hanno punto che fare col principale e straccano.

Ma questo poema, non merita d’esser dimenticato: il concetto di fusione dei due cicli mostra fantasia e vastità di ingegno. Questi episodi sono germi che fruttificheranno in più nobile terreno.

Il Boiardo è poeta che non crea senza dar contegno e fisonomia distinta e inconfondibile alle sue creature. I suoi personaggi cristiani sono Orlando, Ranaldo, Bradamante, Astolfo; gli altri sono comparse. Bradamante è appena abbozzata, non comparendo che in fin del poema. Orlando ha elementi nobili: è casto, serio, non esprime passioni ignobili. Una fata gli dice: — Vien meco e ti darò tutto l’oro del mondo — ; ed egli risponde nobili parole ed altere. Ranaldo è quasi il suo contrapposto; essendo povero, ladroneggia spesso; è brutale, feroce, plebeo, avido dell’oro. Il buffone del poema è Astolfo: galante, gentile, lindo, millantatore, che né le bastonate né la prigionia può correggere.

E anche più notabile ne’ guerrieri pagani, che tutti sono rimasti: li sa preparare, impiega molta arte per metterli in iscena; sicché, vistili una volta, non potete dimenticarli. Ricordatevi come è’introdotta Marfisa.

Per primo guerriero pagano apparisce Gradasso, che occupa sette canti; dopo Gradasso, vengono Sacripante ed Agricane; esauriti questi, Marfisa attira l’interesse. Quando siamo stanchi di Marfisa, succedono Agramante e Rodomonte; e poi apparisce [p. 74 modifica]Ruggiero e poi Mandricardo. Vengono l’uno dopo l’altro; sicché l’interesse riman sempre vivo; e sono tutti, tranne Gradasso e Ruggiero, gagliardi, feroci e millantatori. Questi personaggi non si dimenticano più, e finché la posterità ricorderà Rodomonte e Ruggiero, ricorderá Boiardo. Ma fu un poeta incompiuto: aveva molta fantasia per concepire e creare ma che non giungeya sino all’immaginazione. I suoi personaggi hanno contorni e disegni, non carnagione, né vita: non hanno carne: sono idee platoniche, e la poesia ha bisogno di realtá. È un difetto di forma. Concepisce e disegna i personaggi, ma non sa farli camminare con tutta la pienezza della vita.

Il mezzo più utile e più piacevole per istudiar la forma del Boiardo consiste nel paragonarla a quella del Berni, rintracciando i difetti del Boiardo ed esaminando fino a che punto e come il Berni sia pervenuto a correggerli.

★ ★ ★

Ricapitolandoci sul Boiardo diremo che i suoi difetti consistono in un fondo ridicolo trattato con l’apparenza della serietà; in due azioni staccate, corrispondenti a due elementi distinti e non fusi: in un disegno illimitato che sfugge alla memoria, stanca l’attenzione, attutisce l’interesse, aggravato com’è dal cumulo degli episodi.

Ma non per questo potete dire ch’è un cattivo poeta: bisogna distinguere i difetti accessori da’ sostanziali, e le bellezze accessorie dalle inerenti. Il voler ricavare conclusioni assolute da premesse relative e contingenti, è un sofisma. Se il difetto è accessorio, il poeta rimane grandissimo. Questa è un’osservazione tanto importante che basta a spiegare i difetti della critica passata e di molti critici presenti nel giudicare i poeti. Shakespeare è rozzo; ribocca di antitesi e metafore, ha molte lacune, spesso presenta male i personaggi, fa errori volgarissimi nello sceneggiare. Ergo, è un cattivo poeta. Quest’ergo è stato dedotto: Shakespeare è stato chiamato un barbaro che aveva alcuni lampi d’ingegno; ed il medesimo è stato detto di Dante. [p. 75 modifica]

Quali sono i difetti accessori, quali i principali?

La facoltà poetica per eccellenza è la fantasia; ma il poeta non lavora solo con le facoltà estetiche: tutte le facoltà cooperano; il poeta non è solo poeta: mentre la fantasia forma il fantasma, l’intelletto e i sensi non rimangono inerti. Un poeta può avere potente virtù estetica ed esser povero d’immaginazione, commettere errori nel disegno o spropositi storici e geografici: questi difetti non toccano l’essenza della poesia. Ma se un poeta, che ha in alto grado queste altre facoltà, che ha un bel disegno ed una perfetta esecuzione meccanica, ha debole fantasia, non saprà render vivente quanto vede: la mancanza di fantasia è la morte del poeta.

Ecco la distinzione da farsi. Fin qui non avete diritto di mettere in quistione l’ingegno poetico del Boiardo; questi difetti dipendono da altre facoltà. Per scendere ad esaminarlo come poeta, bisogna vedere fino a qual punto abbia la potenza formativa del fantasma.

Ha una grande inventiva: è stato il poeta italiano che ha raccolto il più vasto e vario materiale di poesia: non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente ha introdotto nuovi elementi. Questa è già una prima condizione del poeta: l’inventiva, e per questo riguardo è superiore al Pulci. Ma, non che basti, è poca cosa: l’invenzione nell’arte è il minimo. Dumas lascia ai suoi secretari l’incarico di raccogliere i materiali, ne’ quali si riserba d’infonder poi la vita. Raccolto questo materiale, il Boiardo lo sa lavorare?

Non lo lascia nudo ed arido come il Pulci; ha la facoltà di concepire: il concepimento dá ad ogni oggetto le determinazioni necessarie perché acquisti una fisiognomia, una personalità. Un fanciullo non è semplice materiale; ha già determinazioni particolari, da’ suoi gesti e moti si scorge se abbia il tale temperamento, questa o quella inclinazione, in lui si trova già un concetto. Il Boiardo ha anche questo, non gli basta d’abbozzare un personaggio; ma lo determina: è uno de’ principali disegnatori della poesia italiana. Pochi sanno dar con più sicurezza i lineamenti ad un carattere. Ecco come descrive Marfisa ed Angelica: [p. 76 modifica]
     Lei è senz’elmo, e il viso non nasconde;
Non fu veduta mai cosa più bella.
Rivolte al capo avea le chiome bionde,
E gli occhi vivi assai più che una stella;
A sua beltade ogni cosa risponde.
Destra negli atti, ed ardita favella,
Brunetta alquanto, e grande di persona;
Turpin la vide, e ciò di lei ragiona.
     Angelica a costei già non simiglia.
Ch’era assai più gentile e delicata:
Candido ha il viso, e la bocca vermiglia,
Soave guardatura ed afiatata,
Tal che ciascun mirando il cor gl’impiglia.
La chioma bionda al capo rivoltata,
Un parlar tanto dolce e mansueto.
Ch’ogni tristo pensier tornava lieto.
Qui i contorni esterni sono ritratti con una gran potenza determinativa. Il Boiardo ha forza d’inventare e di dare determinazione all’inventato.

Che resta? Resta a mostrar vivo il personaggio. Gli avete dato tal forma e tal carattere, fatelo vivere. Bisogna che la concezione diventi situazione. Anche i più appassionati non sono sempre appassionati. Volendo mettere in opera le determinazioni, bisogna scegliere tali circostanze mediante le quali possano manifestarsi le forze interne d’un personaggio. V’è situazione estetica quando il personaggio è posto nelle condizioni più favorevoli, perché possa rivelarsi. Ora il Boiardo quando si tratta di mettere in opera non ha la forza di trovare una situazione.

Prendiamo ad esempio Angelica ed Orlando.

Angelica è bellissima, ma senza cuore, maga ed incantatrice. Non v’è situazione che faccia risaltare queste qualità interne. L’Ariosto ha inventata la situazione in cui Angelica vive. Questa donna, che ha sprezzati e burlati e s’è servita, tenendoli a bada, di tanti amanti, incontra un pastorello e va ad innamorarsi e perdersi dietro lui. Situazione ironica, che dà vita a quel carattere. [p. 77 modifica]

Orlando ama Angelica. Avrebbe dovuta esserci una situazione per cui l’amore si dimostrasse con qualificazione di passione, gelosia, dubbio, rabbia. Ma in nessuna situazione il poeta esce dalla passione indeterminata. Ariosto, invece, sa trovare tali situazioni che lo commuovono e gli fanno mostrar tutto il di dentro.

Le fate sono meri nomi; Bradamante non viene che in fine del poema ed è appena abbozzata; Origille è pessima; la sola donna del poema è Fiordalisi, ed è concepita magnificamente. L’Ariosto ha saputo metterla in una situazione particolare per cui desta simpatia: quando il suo amante le cade morto innanzi. Nel Boiardo rimane indeterminata per mancanza di situazione. E, data una situazione (nessuna delle sue è rimasta, quantunque spesso basti una situazione per rendere popolare un poema), data una situazione, non ha potenza di sviluppare un carattere, di fargli manifestare le sue forze interne. Non trova situazioni perché la sua mente non è da tanto da svilupparle.

Ha introdotte le fate, ma non ha saputo dar loro contorni, non sono ben concepite. Ha introdotta la descrizione de’ giardini, portata a tanta perfezione da’ poeti successivi. Ecco come descrive il giardino d’Alcina:

Lei fabbricato ha lì con arte vana
Un bel giardin di fiori e di verdi arberi,
E un castelletto nobile e giocondo.
Tutto di marmo da la cima al fondo.
E statevi bene! Questo è il famoso giardino d’Alcina, che nell’Ariosto è un capolavoro; che già era nata in Italia questa poesia obiettiva, questo amore della natura. Ecco come ha voluto descrivere il giardino di Morgana:
     Splendeva quivi il ciel tanto sereno.
Che nul zaffiro a quel termine arriva.
Ed era d’arboscelli il prato pieno,
E ciascun avea frutti e ancor fioriva;
Lungi a la porta un miglio, o poco meno.
Un alto muro il campo dipartiva
Di pietre trasparenti e tanto chiare.
Che oltre di quello il bel giardin appare.
[p. 78 modifica]Qui sono i materiali crudi d’un bel giardino. Non v’è neppure melodia che dimostri commozione; soprattutto i due ultimi versi sono bruttissimi e destano una sensazione disaggradevole in un momento in cui tutto dovrebbe esser grato e piacevole.

In un poema cavalleresco l’arte del poeta deve consistere nel dare varietà e colorito sufficiente alle battaglie e agli scontri. Nell’Orlando innamorato sono tre battaglie e molti duelli; il poeta li avrebbe dovuti talmente rappresentare che ciascuno fosse individuo da sé, inconfondibile. Ha svariatissimi materiali: guerrieri invulnerabili, guerrieri con le armi incantate, guerrieri con alcune armi incantate e con nessuna arma incantata; cavalli fatati, rapidi come il vento, cavalli non fatati, ma forti tanto da spiccar salti lunghi trenta piedi; Durindana, Fusberta, ed altre spade fatate, e Balisarda che distruggeva ogni incanto; avrebbe dovuto ne’ duelli e nelle battaglie trovare situazioni particolari che li differenziassero dagli altri duelli e dalle altre battaglie.

Le tre battaglie hanno tutt’e tre il medesimo cammino. Gli eserciti sono divisi in varie schiere: la prima schiera combatte con la prima schiera, la seconda schiera con la seconda schiera, la terza con la terza e via dicendo; poi un gran guerriero s’azzuffa con un gran guerriero e, mentre duellano, sopraggiunge un altro esercito. Ne’ duelli i guerrieri sono coverti d’armi incantate; si tirano molti colpi triviali, finché uno, sdegnato, non tiri un colpo spaventoso che stordisce l’avversario; il quale rinviene, mentre il cavallo lo porta via, avvampa d’ira e dà un altro colpo spaventoso, grazie al quale la scena si rinnova per l’altro guerriero.

Raccoglie immensi materiali, e poi per difetto d’immaginazione rimane come chi, possedendo molte ricchezze, non sappia che farsene.

Oltre ’questo doppio difetto capitale, il non saper trovare situazioni ed il non saperle sviluppare, ne ha un terzo più grave: ignora la parte tecnica, la parte infima della forma, la lingua, il metro, il verso; non ha il senso dell’armonia e della melodia; non capisce l’ottava. Noi comprendiamo l’ottava del [p. 79 modifica]Pulci, la quale è fatta a singhiozzi, e si presta a quelle sue buffonerie; comprendiamo l’ottava del Poliziano ma non quella del Boiardo, il quale ora passa dall’una ottava all’altra col periodo, ora si ferma sul settimo verso, ora sul quinto, ora sul terzo. Non ha ragion d’essere; l’ha accettata, non l’ha presa, tratto dal bisogno di quel metro. Fra tanti e tanti versi non ve ne sarà un centinaio di perfetti per grammatica, sintassi e armonia. In quei due versi che ho citati v’è una certa melodia, ma i simili a questi sono rari.

Inoltre, disprezza la grammatica; non conosce bene l’italiano, ondeggia fra il dialetto e la lingua; il suo poema è pieno di modi del dialetto che cozzano col rimanente, di parole latine e provenzali che ritengono ancora la forma delle lingue da cui son prese. Non do una grande importanza a questi difetti; se ci fossero i pregi che non vi sono, l’imperfezione tecnica della forma non sarebbe mortale al poema. Ma questo l’ha reso impopolare: che le masse giudicano da’ pregi estrinseci. Per le masse, un giovane che si presenti bene e sia bene adorno, là per là, in pari condizione acquista più popolarità, è più bene accetto d’un giovane di maggior valore e più negletto. Queste imperfezioni hanno costretto poeti di gran valore ad aspettar lungo tempo prima d’essere accettati, come per Dante, e per la presenza di queste qualità tecniche molti usurpano una gran riputazione, come Frugoni e Monti, e Prati oggidì. Per questo il Boiardo è stato tenuto in poco conto.

Berni, che ha vissuto dopo l’Ariosto, credendo che la sostanza della poesia stesse nella forma esterna e superficiale, pensò che l’Ariosto fosse superiore perché senza difetti di chiarezza di grammatica di lingua; e pensò che toltagli la sua apparenza di rozzezza, le sue sgrammaticature, la sua mancanza di chiarezza e di disinvoltura, questo poema acquisterebbe l’importanza dell’Orlando furioso. Egli ha corretta perfettamente la parte tecnica, e pure non ha potuto alzar d’un dito il pregio del lavoro; perché a questo non sarebbe bastato il correggere stanze e versi, ma avrebbe dovuto creare una seconda volta. La rifazione ha reso leggibile e piacevole il poema; ma non ha aggiunto nulla al suo valore intrinseco. [p. 80 modifica]

Ecco l’introduzione del poema nel Boiardo:

     Signori e Cavalier che v’adunati
Per odir cose dilettose e nuove.
State attenti, quieti, et ascoltati
La bella istoria che ’l mio canto muove.
Et oderete i gesti smisurati.
L’alta fatica, e le mirabil pruove
Che fece il franco Orlando per amore,
A’ tempi di re Carlo imperadore.

Quest’ottava forma un sol periodo, è ben condotta ma vuota: l’autore volea solamente dire: — Voglio cantare ciò che Orlando fece per amore — . Non vi è ricchezza né di pensiero né d’immagini che si uniscano al pensiero principale. Nell’ottava d’introduzione del Tasso v’è invece il difetto opposto: è sovraccarica di determinazioni, anche incidentali.

Il Berni non ha cercato di determinar meglio, ha corretti solo i difetti tecnici. «State attenti, quieti...», pare un maestro che s’indirizzi agli scolari: c’è troppa morgue: e poi «ascoltati» per «ascoltate», «odire» per «udire». Ecco questi quattro versi nel Berni:

     Leggiadri amanti e donne innamorate.
Vaghi di udir piacevol cose e nuove.
Benignamente, vi prego, ascoltate
La bella istoria che il mio canto muove.

Ci ha dato un’aria di galanteria e piacevolezza, ha tolti i difetti grammaticali, e data più armonia al verso:

Et oderete i gesti smisurati,
L’alte fatiche e le mirabil prove.

Lasciando da parte l’«oderete», c’è la pretensione di dire tre cose, non dicendone che una; vi sono tre espressioni per dir lo stesso:

Et udirete l’opere alte e lodate
Le gloriose egregie inclite prove...
[p. 81 modifica]Il Berni ha tolta questa pretensione; ma, non avendo immaginazione, ha supplito accumulando aggettivi, sinonimi e simili; non ha corretto il mancamento interno, ma il verso, ch’è ormai sonoro e riempie l’orecchio.
A’ tempi di re Carlo imperadore.

Sembra che abbia vissuto a que’ tempi senza esser francese. Il Berni ha corretto così:

Regnando in Francia Carlo imperadore.
Non corregge che la superficie.

Non voglio che lasciate il Boiardo scontenti; e, come transizione all’Ariosto, vi leggerò il suo capolavoro: la morte di Agricane, indicandovi le correzioni del Berni.

★ ★ ★

Voglio compire questo giudizio sul Boiardo fermandomi sopra un episodio riputato il suo capolavoro, che molti critici stimano non indegno dell’Ariosto: e che non lo è, se, messo da parte la forma, riguardiamo le qualità interne e costitutive del lavoro.

Il soggetto annunzia battaglie e colpi di spada e tutti i soliti ingredienti dei romanzi cavallereschi; ma l’interesse della battaglia rimane qui soverchiato. Le tre quarte parti di ogni romanzo cavalleresco anteriore al Boiardo si aggirano intorno alle battaglie, trastullo delle società nascenti e delle immaginazioni fanciulle, che sono dilettate da tutto ciò ch’è fragore e spettacolo. La storia ha progredito, quando, lasciando le perpetue descrizioni di battaglie, ha impreso a rappresentare la vita interna d’un popolo in corrispondenza con le leggi, le istituzioni, la superficie; ed il romanzo cavalleresco quando non si appaga più del meraviglioso della forza materiale, ma rappresenta le forze e le passioni dell’animo. Dopo le battaglie, il Boiardo introduce [p. 82 modifica] episodi di avventure domestiche, espressioni di tutti gli affetti privati. Il Boiardo è sobrio di battaglie, abbondante di fatti privati. Il più alto punto del poeta romanzesco è quando riunisce e fonde i due elementi, sicché l’interesse esterno e superficiale sia d’accordo con l’interesse interno che nasce dalle passioni umane.

Questo episodio è in apparenza una battaglia. Ma l’autore ha saputo gettarvi in mezzo una piena d’affetti che ne costituiscono il vero interesse. Non gli è stato necessario che d’immaginare egual cortesia e pari valore ne’ due cavalieri, di farli generosi, senza invidia. Prima d’appartarsi nella foresta, si sono già conosciuti nella battaglia e si stimano e pregiano a vicenda. Agricane testimonia la sua stima ad Orlando ignorando ch’e’ sia Orlando, esortandolo ad allontanarsi perché non l’uccida. Orlando lo scongiura di lasciarsi battezzare; Agricane gli risponde con indegnazione come ignorante d’ogni religione, e vengono all’armi.

Questa è una gentile introduzione; vi pare di essere in un luogo ameno dove si scambiano sentimenti gentili. Il duello dura cinque ore e vien descritto in quattro versi. Si vede che l’autore disprezza questo tema ordinario de’ poemi romanzeschi e s’interessa ad altro. Annotta. Agricane dice ad Orlando che chiedeva cosa dovesse farsi: — Rimaniamo qui sull’erba l’uno accanto all’altro e domani ricominceremo all’alba — . Quella gentilezza, che prima era una introduzione oziosa, divien qui cosa seria. Si sdraiano sull’erba per riposarsi e riappiccano il discorso che diviene un oggetto serio. Orlando esalta la bellezza della natura e cerca di chiamare Agricane alla conoscenza di Dio. La prima volta gli aveva detto: — O battezzato o dannato — ; ora incomincia indirettamente. Agricane comprende questa delicatezza; entra con lui ne’ particolari della sua vita; gli racconta che, essendo fanciullo, ruppe la testa al maestro di lettura, e che nessuno osò quindi più avvicinarglisi per paura; che, quindi, dorma, oppure parli d’armi o d’amore: poi, fatto più ardito, gli domanda: — Chi sei? sei tu Orlando? ove il sii, sei innamorato? — . Orlando gli risponde; e quando Agricane ha raccolto [p. 83 modifica]ch’è innamorato di Angelica, ecco nuovi sentimenti. Prima si rammarica, piange, freme; poi, avendolo invano pregato di desistere da questo amore, s’ingelosisce, s’infuria e lo riassalta, benché non sia che la mezzanotte. Sviluppo drammatico di sentimenti diversi. Questo duello, che dura tutta la notte e parte del giorno seguente, è descritto con sobrietà. Agricane combatte con furore. Orlando con sangue freddo; finché, arrossendo d’esser stato messo in «istordigione» dal nemico, non gli tiri un colpo che va dalla spalla sino all’anguinaia.

Per lo più i cavalieri muoiono come cani; la morte di Agricane è solenne; imbianca, s’abbandona e chiede il battesimo. Succede uno dei luoghi più teneri del poema: Orlando, nel battezzarlo, piange e gli chiede perdono.

Tal’è la tessitura di quest’episodio. Quante corde vi sono toccate! Nulla stagna, ad ogni ottava s’affaccia una nuova passione.

V’ho letto tutto questo brano come ben caratteristico. V’è una concezione che nel dialogo notturno s’eleva a situazione. Non vi sorprenderà quindi l’effetto prodotto da questo episodio in Italia, e sopra tutto sull’immaginazione del Tasso. Il duello solitario fra Tancredi e Argante, il duello notturno fra Clorinda e Tancredi, l’esitazione di Argante, il riposarsi che fanno Clorinda e Tancredi, il mettersi a parlare, il riadirarsi, il battesimo: voi ritrovate tutto ciò in Boiardo.

Che vi manca? L’autore non produce quelle impressioni che sentite ch’egli ha voluto produrre, per colpa della forma: e non solo per la parte bassa della forma, per le sue ottave striscianti, pe’ suoi versi abbandonati, perché non ha senso d’armonia e melodia, ma anche per la parte superiore della forma. Bisogna dare una faccia alle passioni, e queste belle concezioni non sono passate nella immaginazione del Boiardo, non sono passate nell’arte.

Che bella situazione quando i due guerrieri si riposano l’uno accanto all’altro, l’uno sotto un pino, l’altro sull’erba, presso una fontana, sotto un cielo stellato! Se la scena fosse sviluppata, se Orlando avesse schietto entusiasmo per le bellezze di [p. 84 modifica]cui parla! Ma Orlando non dice che volgarità. Agricane gli domanda: — Dimmi se sei Orlando e se sei innamorato — . Orlando amava Angelica e ne aveva rimorso; e si deve sentire nella risposta questo rimorso soverchiato dalla passione:

     Rispose il conte: — Quell’Orlando sono.
Che uccise Almonte e ’l suo fratei Troiano:
Amor m’ha posto tutto in abbandono,
E venir fammi in questo loco strano.
E perché teco piú largo ragiono.
Voglio che sappi che ’l mio cor è in mano
De la figluola del re Galafrone,
Che ad Albracca dimora nel girone... —

C’è il materiale; manca il sentimento, la passione, e lascio stare i difetti tecnici e le frasi non italiane. Risponde con fragore e millanteria, gli manca il sentimento del rimorso. Un fatto materiale viene espresso materialmente, e una massa di parole inutili serve ad allungare il periodo.

Ecco come il Berni ha rifatta questa ottava:

     Rispose il conte: — Io sono Orlando, e sono
Innamorato, cosí non foss’io,
Ché, per questa, la vita in abbandono
E la mia patria ho messa e quasi Iddio:
A quella del mio core ho fatto dono,
Quella è tutto il mio bene e il mio disio.
Che nella rocca d’Albracca è serrata.
Per cui tu hai tanta gente menata... —
Sentite che non è ancora l’Ariosto. Vi sono difetti d’armonia. Pure ché differenza! Il cuore comincia a venir fuori.
Saputo che Orlando ama Angelica, il furore accieca per modo Agricane ch’e’ lo ridisfida. Qual sentimento dovrebbe trasparire in questo fatto? La gelosia. Ecco cosa dice il Boiardo: [p. 85 modifica]
     Il re Agrican, che ardeva oltre misura.
Non puote tal risposta comportare;
Benché sia ’l mezzo de la notte scura,
Prese Baiardo, e su v’ebbe a montare,
Et orgoglioso, con vista sicura
Isgrida al Conte, ed ebbel a sfidare,
Dicendo: — Cavalier, la Dama gaglia
Lasciar convienti, o far meco battaglia — .
Il fatto è detto grossolanamente in linguaggio improprio e versi abbandonati.

Ecco l’ottava del Berni:

     Agrican, che di rabbia si divora
E di martello e di furia e di stizza,
Quantunque mezzanotte fosse ancora.
Senza risponder altro, in piè si rizza;
Salta a cavallo, e trae la spada fuora;
La discordia e il furore il foco attizza;
Adirato, fremendo e bestemmiando,
Superbamente ha disfidato Orlando.
Qui compare subito il colorito e riproduce il sentimento; si trova la pienezza di suono che esprime l’impeto.

Se è così infelice nel serio, è anche più infelice nel ridicolo; non v’era nato, e nulla v’ha di più ridicolo di colui che cerca di far ridere senza potervi riuscire. Agricane ruppe la testa al maestro: movimento comico.

     Disse Agricane; — Io comprendo per certo
Che tu vuoi de la fede ragionare;
Io di nulla scienza sono esperto.
Né mai, sendo fanciul, volsi imparare,
E ruppi il capo al maestro mio per merto;
Poi non si poté un altro ritrovare.
Che mi mostrasse libro, né scrittura,
Tanto ciascun avea di me paura... —
[p. 86 modifica]Il Berni corregge così:
     Disse Agricane: — Io m’accorgo ben io
Che tu vuoi de la fede ragionare;
Io non so che si sia né ciel né Dio,
Né mai, sendo fanciul, volsi imparare;
Ruppi la testa ad un maestro mio.
Che pure intorno mi stava a cianciare;
Né mai più vidi poi libro o scrittura:
Ogni maestro avea di me paura... —
L’ultima idea diventa improvvisa e fa ridere.

Eppure, in questo episodio, che potrebbe essere il résumé del Boiardo, ricco di qualità interne, ma povero d’immaginazione e forma, si sente germogliar l’Ariosto.

Pel Pulci tutto è buffoneria; pel Boiardo tutto è serio. Nell’Ariosto i due elementi sono siffattamente fusi, che tutti i critici hanno esitato trattandosi di giudicarlo; e mentre ai suoi tempi se ne volle fare un poema perfettamente serio per contrapporlo al poema del Tasso, al nostro i critici l’hanno tenuto come un poema perfettamente ironico. Ecco il sostanziale del poema d’Ariosto. Nella Cavalleria vi sono due parti. L’una convenzionale, che appartiene a que’ tempi circoscritti, e comprende gli usi de’ cavalieri erranti: questa è tutta morta e soggiace all’ironia di Ariosto. Ma, accanto a questo meraviglioso sociale e transitorio, ci è un elemento umano immutabile, serio. Quegli individui non sentono e non si esprimono altrimenti che noi. L’Ariosto mette inesorabilmente in caricatura (e in caricatura non grossolana come quella del Pulci) la parte sociale; ma, accanto a questa parte sociale, ha posta tutta una piena di sentimenti, rappresentati con tutta la serietà con cui si rappresenta la società moderna; e tutto questo è compenetrato e fuso, sicché le diverse parti formino una sola personalità organica.

Nel Cervantes abbiamo da un lato Don Chisciotte che rappresenta la parte ridicola e dall’altro delle novelle che rappresentano la parte seria. In Ariosto le due parti sono fuse. Questo poema è l’ironia del maraviglioso sociale cavalleresco (soggetto [p. 87 modifica]de’ poemi eroici), mista ad un elemento affermativo. Il poema epico ha luogo quando tutta la vita d’un popolo è poesia. Cessato questo periodo, la poesia si rifugge nell’individuo, tra le pareti domestiche, e nasce il romanzo.

In quei tempi l’epopea se ne andava, cominciava il romanzo; e la gloria dell’Ariosto è stata d’aver saputo fondere queste due parti.

Non vi parlerò in un modo generale dell’Ariosto come del Pulci e del Boiardo, ma intendo di scendere ne’ particolari.