Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Lettera di Giovan Battista Adriani

Da Wikisource.
Lettera di Giovan Battista Adriani

../Tavola dei luoghi ../Proemio di tutta l'opera IncludiIntestazione 15 ottobre 2023 25% Da definire

Tavola dei luoghi Proemio di tutta l'opera
[p. lvii modifica]

Lettera

DI MESSER GIOVAMBATISTA

DI MESSER MARCELLO ADRIANI

a Messer Giorgio Vasari;


Nella quale brevemente si racconta i nomi, e l’opere de’ piu eccellenti Artefici antichi in Pittura, in Bronzo e in Marmo, qui aggiunta, acciò non ci si desideri cosa alcuna di quelle che appartenghino alla intera notitia e gloria di queste nobilissime Arti.


O sono stato in dubbio Messer Giorgio carissimo, se quello di che voi e il molto Reverendo Don Vincenzo Borghini mi avete più volte ricerco si devea metter in opera, o no; cioè il raccorre e brevemente raccontare coloro che nella Pittura e nella Scultura e in arti simiglianti ne gli antichi tempi furono celebrati, de’ quali il numero è grandissimo, e a che tempo essi fecero fiorire l’arti loro, e delle opere di quelli le piu onorate e le più famose; cosa che, s’io non m’inganno, ha in se del piacevole assai, ma che più si converrebbe a coloro, i quali in cotali arti fussero esercitati, o come pratichi ne potessero più propriamente ragionare. Imperoche egli è forza, che nel dettare una cosi fatta cosa, occorra bene spesso parlare di cosa che altri non sa cosi a pieno, avendo massimamente ciascuna arte cose e vocaboli speziali i quali non si sanno e non s’intendano cosi apunto, se non da coloro i quali sono in esse ammaestrati. Ne solo questa dubitanza, ma molte delle altre mi si facevano incontro, le quali tutte si sforzavano di levarmi da cotale impresa; alle quali ho messo incontro primieramente l’amore che io meritamente vi porto, il quale mi costringe a far questo e ogni altra cosa che vi sia in piacere; e di poi quello di voi stesso inverso di me, il quale basterebbe solo a vincere questa e ogn’altra difficultà, avisando che amandomi voi, come voi fate, non mi areste ricerco di cosa, che mi fosse disdicevole; tale, che confidato nella affezione e giudizio vostro mi sono miso a questa opera, la quale non sarà però ne molto lunga ne molto faticosa, dovendosi per lo più raccontare e brevemente, cose dette da altri, che altramente non si poteva fare trattandosi di quello che in tutto è fuori della memoria de’ vivi e che gia tanti secoli sono è trappassato. Duolmi bene, che dovendosi ciò, come io mi aviso<,> aggiugnere al vostro cosi bello, cosi vario, cosi copioso e d’ogni parte [p. lviii modifica]compiuto libro<,> non sia tale che egli possa arrecare alcuna orrevolezza, ma mi gioverà pure che postogli a lato mostrerà meglio la bellezza di lui, percioche il vostro è tale che, e per le cose che entro vi si trattono e per la leggiadria con la quale voi l’avete scritto e per le virtù dell’animo vostro, le quali chiare vi si scorgono, è forza che egli sia sempre pregiato e vi mostri a tutto il mondo intendente, gentile e cortese, virtù molto rade e che poche volte in un medesimo animo si accolgono e massimamente d’artefice, dove l’invidia piu che altrove suole mettere a fondo le sue radici; della quale infermità il vostro libro vi mostra interamente sano. Nel quale voi, non so se intendentemente piu, o vero piu cortesemente<,> avete onorate queste arti, infra le manuali nobilissime e piacevolissime, e insieme li maestri di quelle, tornando alla memoria de gli uomini con molta fatica e lungo studio e spesa di tempo<,> da quanto tempo in qua dopo il disfacimento di Europa e delle nobili arti e scienze<,> elle cominciassero a rinascere, a crescere, a fiorire e finalmente siano venute al colmo della loro perfettione, dove veracemente io credo che le siano arrivate; tale che (come delle altre eccellenze suole avvenire, e come altra fiata di queste medesime avvenne) è piu da temerne la scesa che da sperarne piu alta la salita. Ne vi è bastato questa rada cortesia di mantenere in vita coloro i quali gia molti anni erano morti e di cui l’opere erano gia piu che smarrite, e in brieve per non si ritrovare ne riconoscersi per li maestri che le aveano fatte, e con quelle cerco di procacciarsi nome; ma con nuova e non usata cortesia diligentemente avete ricerco de’ ritratti delle loro imagini, e quelle con la bella arte vostra in fronte alle vite e alle opere loro avete aggiunte, acciò che coloro che dopo noi verranno sappino non solo i costumi, le patrie, l’opere, le maniere e l’ingegno de’ nobili artefici, ma quasi se li veggino innanzi a gli occhi, cosa la quale avanza di gran lunga ogni cortesia la quale si sia usata inverso de i morti, cioè di coloro da cui non si può piu sperare cosa alcuna; il che è tanto degno di maggior lode che non è quella che al presente vi posso dare io quanto ella è piu rada, e usata solamente<,> quanto io posso ritrarre dalle antiche memorie<,> da duoi nobilissimi e dottissimi cittadini Romani, Marco Varrone e Pomponio Attico; de’ quali Varrone, in un libro che egli scrisse de gli uomini chiari, oltre a i fatti loro pregiati e costumi laudevoli, aggiunse ancora le imagini di forse 700 di loro, e Pomponio Attico similmente, come si trova scritto<,> di cotali ritratti di persone onorate ne messe insieme un volume, cotanto quelli animi gentili ebbero in pregio la memoria de gli uomini grandi e illustri, e tanto s’ingegnarono con ogni lor potere e con ogni maniera<,> di onore far pregiati, chiari e eterni i nomi e le imagini di coloro i quali per loro virtù avevano meritato di viver sempre. Voi adunque spinto da un generoso e bello animo, oltre al consueto degli artefici<,> avete fatto il simigliante inverso i vostri chiari artefici, illustri maestri, e nel vostro onorato mestiero pregiati compagni<,> ponendoci innanzi a gli occhi quasi vivi i volti loro nel vostro cosi piacevole e ben disposto libro<,> insieme con le virtù e con l’opere piu pregiate di quegli; che pure non vi doveva parer poco se dell’ingegno vostro si vivo e della mano si [p. lix modifica]nobile e si pronta era ripiena della vostra arte onorata in pochi anni una gran parte d’Italia, e la nostra città in piu luoghi adorna, e il palazzo de’ nostri illustrissimi Prencipi e Signori fattone si a tutto il mondo raguardevole, che egli non piu della virtù e della gloria e della ricchezza de’ suoi Signori, che dell’arte vostra medesima ne sarà<,> sempre che le pitture saranno in pregio, tenuto maraviglioso; mostrando in quelle, oltre a mille altri leggiadri e gravi ornamenti, i quali in quello per tutto si veggono, le giuste imprese, le perigliose guerre, le fiere battaglie e l’onorate vittorie avute gia dal popolo Fiorentino e novellamente da i nostri illustrissimi Prencipi, con le imagini istesse di quegli onorati Capitani, e franchi guerrieri, e prudenti Cittadini, i quali in quelle valorosamente e saviamente adoperarono; cosa, che non solo diletta gli occhi de’ riguardanti, ma molto piu alletta l’animo vago d’onore e di gloria ad opere somiglianti; ma non è luogo al presente ragionar di voi, il quale da voi istesso con l’opere in vita vi lodate a bastanza, e vie piu ne’ secoli avenire ne sarete lodato e ammirato, i quali senza alcuna animosità, che bene spesso s’oppone al vero, sinceramente ne giudicheranno. Ma per venire a quello che voi mi domandate, dico che impossibil cosa sarebbe volere veracemente raccontare chi fussero coloro i quali primieramente dettero principio a queste arti, non essendo la memoria loro per la lunghezza del tempo e per la varietà delle lingue e per molti altri casi che seco porta il girar del cielo<,> alla notitia nostra trappassata, e medesimamente quale di loro fosse prima o piu pregiata; pure all’una cosa e a l’altra si può agevolmente sodisfare, parte con la memoria de gli antichi Scrittori, e parte con le congetture che seco reca la ragione e l’essempio delle cose; percioche <e’> si conosce chiaramente<,> per quanto ne scrive Erodoto antichissimo historico, il quale cercò molto paese e molte cose vide e molte ne udì e molte ne lesse<,> gli Egittij essere stati antichissimi di chi si abbi memoria, e della religione<,> qualunche fosse la loro<,> solenni osservatori; i quali li loro Iddij sotto varie figure di nuovi e diversi animali adoravano; e quelle in oro, in argento e in altro metallo e in pietre pretiose e quasi in ogni materia che forma ricever potesse rassembravano; delle quali imagini alcune insino alli nostri giorni si sono conservate, massimamente essendo stati, come anchora se ne vede segnali manifesti<,> quei popoli potentissimi e copiosi di uomini, e i loro Re ricchissimi e oltre a modo desiderosi di prolungare la memoria loro per secoli infiniti, e oltre a questo di maraviglioso ingegno e d’industria singolare e scienza profonda cosi nelle divine cose, come nelle umane. Il che si conosce da questo chiaramente, impero che quelli che fra li Greci furono dipoi tenuti savij e scientiati oltre a gli altri uomini<,> andarono in Egitto, e da’ savij e da<’> sacerdoti di quella natione molte cose appararono e le loro scienze aggrandirono, come si dice aver fatto Pithagora, Democrito, Platone e molti altri, che non pareva in quel tempo che potesse essere alcuno interamente scienziato se al sapere di casa non si aggiungeva della scienza forestiera, che allora si teneva che regnasse in Egitto. Appresso costoro mi adviso io che fosse in gran pregio l’arte del ben disegnare, e del colorire, e dello scolpire e del [p. lx modifica]ritrarre in qualunche materia e ogni maniera di forme; percioche della Architettura non si debbe dubitare che essi non fussero gran maestri, vedendosi di loro arte ancora le piramidi e altri edificij stupendi che durano e che dureranno, come io mi penso, secoli infiniti. Senza che e’ pare, che dietro a gli Imperij grandi e alle ricchezze e alla tranquillità de gli stati sempre seguitino le lettere e le scienze e arte cotali appresso<,> cosi nel comune come nel privato; e questo non si debbe stimare che sia senza alcuna ragione, impero che essendo l’animo dello uomo, per mio avviso, per sua natura desideroso sempre d’alcuna cosa ne mai sazio, aviene che conseguito stato, ricchezze, diletto, virtù e ogni altra cosa, che fra noi molto s’apprezza, via piu desidera vita come piu di tutte cara, e quanto far piu si puote lunghissima, e non solo nel corpo suo proprio, ma molto piu nella memoria; il che fanno i fatti eccellenti primieramente e poi coloro i quali con la penna gli raccontano e gli celebrano. Di che non piccola parte si debbe attribuire a’ Pittori, a gli Scultori, a gli Architettori e altri maestri, i quali hanno virtù con le arti loro di prolungare la figura, i fatti e i nomi de gli uomini ritrahendoli e scolpendoli. E perciò si vede chiaramente che quasi tutte quelle nationi che hanno avuto imperio e sono state mansuete e<,> per consequente<,> facoltà di poter ciò fare, si sono ingegnate di fare la memoria delle cose loro con tali argomenti lunga quanto loro è stato possibile. A questa cagione ancora, e forse la primiera, si vuole aggiugnere la religione e il culto de gli Dei qualunque esso stato si sia, intorno al quale in buona parte coloro che di ritrarre in qualunque modo hanno saputo l’arte, si sono esercitati. Questo, come poco innanzi dicemo, veggiamo noi aver fatto gli Egittij, questo i Greci, questo i Latini e li antichi Toscani e li moderni, e quasi ogni altra natione, la quale per la religione e per la umanità sia stata celebrata; i quali<,> le imagini di quelli che essi sotto diversi colori adoravano, hanno prima semplicemente o nel legno intagliato o con rozza pittura adombrato o in qualunche altro modo ritratto; e, come nelle altre cose de gli uomini suole avvenire<,> a poco a poco andandosi innalzando, queste ancora non solamente a devotione e santità, ma a pompa e a magnificenza hanno recato; come anco si conosce aver fatto l’Architettura, la quale dalle umili e private case semplicemente e senza arte murate, a far templi e palazzi altissimi e theatri e logge con gran maestria e spesa si diede. Questi adunche pare che fussero i principij di cotali arti, le quali in tanta nobiltà e maraviglia de gli uomini per ingegno de i loro maestri egregij <salirono>, che e’ pare che non contenti dello imitar la natura con quella alcuna volta abbino voluto gareggiare; ma di tutte queste, che molte sono e che tutte pare che venghino da un medesimo fonte, qual sia piu nobile non è nostro intendimento di voler cercare al presente, ma si bene quali fussero quelli di chi sia rimasa memoria e che in esse ebbero alcuno nome e che primieramente le esercitarono. E però che ci pare che l’origine di tutte cotali arti sia il disegno semplice, il quale è parte di pittura o che da quella ha principio, facendosi ciò nel piano, parleremo primieramente de’ Pittori e poi di coloro che di terra hanno formato e di quegli che in bronzo o in altra materia [p. lxi modifica]nobile fondendola hanno ritratto, e ultimamente di coloro i quali nel marmo o in altra sorte di pietra con lo scarpello levandone hanno scolpito, fra i quali verranno ancora coloro i quali del rilevo piu alto o piu basso hanno alcuno nome avuto. Dicesi adunche, lasciando stare gli Egittij de i quali non è certezza alcuna<,> in Grecia la Pittura avere avuto suo principio, alcuni dicono in Sicione e alcuni in Coranto, ma tutti in questo convengono ciò essersi fatto prima semplicemente con una sola linea circondando l’ombra d’alcuno, e di poi con alcuno colore con alquanto piu di fatica; la qual maniera di dipignere sempre è stata<,> come semplicissima<,> in uso, e anchora è; e questa dicono aver insegnato la prima volta altri Filocle di Egitto e altri Cleante da Coranto. I primi che in questa si esercitarono si truova essere stato Ardice da Coranto e Telefane Sicionio, li quali non adoperando altro che un color solo ombravano le lor figure dentro con alcune linee. E percioche<,> essendo l’arte loro ancor rozza e le figure d’un color solo, non bene si conosceva di cui elle fussero imagini, ebbero per costume di scrivervi a piè chi essi avevano voluto rassembrare. Il primo che trovasse i colori nel dipignere, come dicono aver fatto fede Arato, fu Cleofanto da Coranto; e questi non si sa cosi bene se ei fu quello stesso il quale disse Cornelio Nepote esser venuto con Demarato<,> padre di Tarquino Prisco che fu re delli Romani, quando da Coranto sua patria partendosi venne in Italia per paura di Cipselo Prencipe di quella città, o pure un altro; come che a questo tempo in Italia fusse l’arte del dipignere in buona riputazione, come si può congetturare agevolmente, percioche in Ardea antichissima città, ne molto lontana da Roma, oltre al tempo di Vespasiano Imperadore si vedevano ancora in alcuno tempio nel muro coperto alcune pitture, le quali erano molto innanzi che Roma fusse state dipinte, si bene mantenute che elle parevano di poco innanzi colorite. In Lanuvio parimente ne’ medesimi tempi, cioè innanzi a Roma e forse del medesimo maestro<,> una Atalanta e una Elena ignude<,> di bellissima forma ciascuna, le quali lunghissimo tempo furono conservate intere dalla qualità del muro dove erano state dipinte, avenga che un Pontio uficiale di Gaio Imperadore struggendosi di voglia d’averle si fosse sforzato di torle quindi e a casa sua portarnele, e lo arebbe fatto se la forma del muro l’avesse sofferto. Donde si può manifestamente conoscere in quei tempi, e forse molto piu che in Grecia e molto prima<,> la pittura essere stata in pregio in Italia. Ma poi che le cose nostre sono in tutto perdute e ci bisogna andare mendicando le forestieri, seguiremo la incominciata historia di raccontare gli altri di cotale arte maestri, quali da prima si dichino essere stati; benche ne i Greci ancora non hanno cosi bene distinto i tempi loro in questa parte; percioche e’ si dice essere stata molto in pregio una tavola, dove era dipinta una battaglia de’ Magneti con si bella arte, che Candaule Re di Lidia la aveva comperata altro e tanto peso d’oro, il che venne a essere intorno alla età di Romolo primo fondatore di Roma e primo Re de’ Romani, che gia era cotale arte in tanta stima. Onde siamo forzati confessare l’origine di lei essere molto piu [p. lxii modifica]antica; e parimente coloro i quali un solo colore adoperarono, l’età de’ quali non cosi bene si ritrova; e parimente Igione che per sopranome fu chiamato Monocromada da questo, percioche con un solo colore dipinse, il quale affermano essere stato il primo nelle cui figure si conoscesse il mastio dalla femmina; e similmente Eumaro d’Athene, il quale s’ingegnò di ritrarre ogni figura, e quello che dopo lui venendo le cose da lui trovate molto meglio trattò<,> Cimone Cleoneo, il quale prima dipinse le figure in iscorcio, e i volti altri in giu, altri in su e altri altrove guardanti, e le membra partitamente con i suoi nodi distinse, che primo mostrò le vene ne’ corpi e ne’ vestimenti le crespe. Paneo ancora fratello di quel Fidia nobile statuario fece di assai bella arte la battaglia degli Atheniesi con i Persi a Marathona, che gia era a tale venuta l’arte che nell’opera di costui si viddero primieramente ritratti i capitani nelle loro figure stesse<,> Milciade Atheniese, Callimaco e Cinegiro; e de’ Barbari Dario e Tissaferne. Drieto al quale alquanti vennero i quali questa arte fecero migliore, de i quali non si ha certa notitia; intra i quali fu Polignoto da Taso il primo che dipinse le donne con <vesti> lucenti e di begli colori, e i capi di quelle con ornamenti varij e di nuove maniere adornò; e ciò fu intorno a gli anni 330 dopo Roma edificata; per costui fu la pittura molto inalzata. Egli primo nelle figure umane mostrò aprir la bocca, scoprire i denti, e i volti da quella antica rozzezza fece parere piu arrendevoli e piu vivi. Rimase di lui fra le altre una tavola che si vide in Roma assai tempo nella loggia di Pompeo, nella quale era una bella figura armata con lo scudo, la quale non bene si conosceva se scendeva o saliva. Egli medesimo a Delpho dipinse quel Tempio nobilissimo, egli in Athene la loggia che dalla varietà delle dipinture che drento vi erano fu chiamata la Varia, e l’uno e l’altro di questi lavori fece in dono, la qual liberalità molto gli accrebbe la riputazione e la grazia appresso a tutti i popoli della Grecia; talmente che li Anfittioni, che era un consiglio comune di gran parte della Grecia che a certi tempi, per trattare delle bisogne publiche a Delfo si ragunava<,> gli stanziarono che dovunche egli andasse per la Grecia fosse graziosamente ricevuto e fattoli publicamente le spese. A questo tempo medesimo furono due altri pittori d’un medesimo nome, de’ quali Micone il minore si dice essere stato padre di Timarete, la quale esercitò la medesima arte della pittura. A questo tempo stesso o poco piu oltre furono Aglaofone, Cefisodoro, Frilo et Evenore padre di Parrasio di cui si parlerà a suo luogo, e furono costoro assai chiari, ma non tanto però, che essi meritino, che per loro virtù, o per loro opere si metta molto tempo, studiandoci massimamente d’andare alla eccellenza dell’arte; alla quale arrecò poi gran chiarezza Apollodoro Atheniese intorno a l’anno 345 da Roma edificata, il quale primo cominciò a dar fuori figure bellissime e arrecò a quest’arte gloria grandissima; di cui molti secoli poi si vedeva in Asia a Pergamo una tavola entrovi un sacerdote adorante, e in un’altra uno Aiace percosso dalla saetta di Giove<,> di tanto eccessiva bellezza, che si dice inanzi a questa non si esser veduta opera di questa arte la quale allettasse gli occhi de’ riguardanti. Per la porta da costui primieramente aperta entrò [p. lxiii modifica]Zeusi di Eraclea dodici o tredici anni poscia, il quale condusse il pennello ad altissima gloria e di cui Apollodoro<,> quello stesso poco innanzi da noi raccontato<,> scrisse in versi l’arte sua toltagli<,> portarne seco Zeusi. Fece costui con questa arte ricchezza infinita, tale che venendo egli alcuna volta ad Olimpia, là dove ogni cinque anni concorreva quasi tutta la Grecia a vedere i giuochi e gli spettacoli publici<,> per pompa a lettere d’oro nel mantello portava scritto il nome suo, acciò da ciascuno potesse essere conosciuto. Stimò egli cotanto l’opere sue che giudicando non si dover trovare pregio pari a quelle si mise nell’animo non di venderle, ma di donarle; e cosi donò una Atalanta al Comune di Gergento, Pane Dio de’ pastori ad Archelao Re. Dipinse una Penelope nella quale, oltre alla forma bellissima<,> si conoscevano ancora la pudicizia, la patienza e altri bei costumi che in onesta donna si ricercano. Dipinse un Campione, di quelli che i Greci chiamano Athleti, e di questa sua figura cotanto si satisfece che egli stesso vi scrisse sotto quel celebrato motto: Troverassi chi lo invidi sì, ma chi il rassembri, no. Videsi di lui un Giove nel suo trono sedente con grandissima maestà, con tutti li dei intorno. Uno Ercole nella zana che con ciascuna delle mani strangolava un serpente<,> presente Amphitrione e Almena madre, nella quale si scorgeva la paura stessa. Parve nondimeno, che questo artefice facesse i capi delle sue figure un poco grandetti. Fu con tutto ciò accurato molto, tanto che dovendo fare a nome de’ Crotoniati una bella figura di femmina, dove pareva che egli molto valesse, la quale si deveva consacrare al Tempio di Giunone che egli aveva adornato di molte altre nobili dipinture, chiese di avere commodità di vedere alcune delle loro piu belle e meglio formate donzelle; che in quel tempo si teneva che Crotone terra di Calavria avesse la piu bella gioventù dell’uno e dell’altro sesso che al mondo si trovasse; di che egli fu tantosto compiaciuto; delle quali egli elesse cinque le piu belle, i nomi delle quali non furono poi taciuti da’ Poeti come di tutte le altre bellissime, essendo state giudicate cotali da chi ne poteva e sapeva meglio di tutti gli altri uomini giudicare; e delle piu belle membra di ciascuna ne formò una figura bellissima, la quale Elena volle che fosse, togliendo da ciascuna quello che in lei giudicò perfettissimo. Dipinse inoltre di bianco solamente alcune altre figure molto celebrate. Alla medesima età e a lui nell’arte concorrenti furono Timante, Androcide, Eupompo e Parrasio, con cui (Parrasio dico) si dice Zeusi avere combattuto nell’arte in questo modo; che mettendo fuori Zeusi uve dipinte con si bell’arte che gli uccegli a quelle volavano, Parrasio messe innanzi un velo si sottilmente in una tavola dipinto come se egli ne coprisse una dipintura, che credendolo Zeusi vero, non senza qualche tema d’esser vinto, chiese che levato quel velo una volta si scoprisse la figura, e accorgendosi dello inganno, non senza riso dello avversario si rese per vinto confessando di buona conscienza la perdita sua, conciosia che egli avesse ingannato gli uccegli e Parrasio se<,> cosi buon Maestro. Dicesi il medesimo Zeusi aver dipinto un fanciullo il quale portava uve, alle quali volando gli augelli seco stesso s’adirava, parendogli non aver dato a cotale figura intera [p. lxiv modifica]perfettione, dicendo<:> se il fanciullo cosi bene fusse ritratto, come l’uve sono<,> gli augelli dovrebbono pur temerne. Mantennesi in Roma lungo tempo nella loggia di Filippo una Elena, e nel Tempio della Concordia un Marsia legato<,> di mano del medesimo Zeusi. Parrasio, come noi abbiamo detto<,> fiorì in questa medesima età e fu di Epheso città di Asia, il quale in molte cose accrebbe e nobilitò la pittura. Egli primo diede intera proporzione alle figure, egli primo con nuova sottigliezza e vivacità ritrasse i volti e dette una certa leggiadria a i capegli e grazia infinita e mai non piu vista alle facce, e a giudizio d’ogni uomo allui si concesse la gloria del bene e interamente finire, e nelli ultimi termini far perfette le sue figure; percioche in cotale arte questo si tiene che sia la eccellenza. Dipignere bene i corpi e il mezzo delle cose è bene assai, ma dove molti sono stati lodati, terminare e finir bene e con certa maestria rinchiudere drento a se stessa una figura<,> questo <è> rado e pochi si sono trovati li quali in ciò sieno stati da commendare; percioche l’ultimo d’una figura debbe chiudere se stesso talmente che ella spicchi dal luogo dove ella è dipinta, e prometta molto piu di quello che nel vero ella ha e che si vede. E cotale onore li diedero Antigono e Senocrate, i quali di cotale arte e delle opere della pittura ampiamente trattarono, non pure lodando ciò in lui e molte altre cose, ma ancora celebrandonelo oltre a modo. Rimasero di lui e di suo stile in carte e in tavole alcune adombrate figure con le quali non poco si avanzarono poscia molti di cotale arte. Egli, come poco fa dicemo, fu tale nel bene e interamente finire l’opere sue che paragonato a se stesso nel mezzo di loro apparisce molto minore. Dipinse con bellissima invenzione il Genio e<,> come sarebbe a dire sotto una figura stessa<,> la natura del popolo Atheniese quale ella era, dove in un subietto medesimo volle che apparisse il vario, l’iracondo, il placabile, il clemente, il misericordioso, il superbo, il pomposo, l’umile, il feroce, il timido, e’l fugace, che tale era la condizione e natura di quel popolo. Fu molto lodato di lui un capitano di nave armato di corazza, e in una tavola che era a Rodi<,> Meleagro, Ercole e Perseo, la quale<,> abronzata tre volte dalla saetta e non iscolorita accresceva la maraviglia. Dipinse ancora uno Archigallo, della quale figura fu tanto vago Tiberio Imperadore, che per poterla vagheggiare a suo diletto se la fece appiccare in camera. Videsi di lui ancora una balia di Creti col bambino in braccio, figura molto celebrata, e Flisco e Bacco con la Virtù appresso e due vezzosissimi fanciullini<,> ne’ quali si scorgeva chiara la semplicità della età e quella vita senza pensiero alcuno. Dipinse inoltre un sacerdote sacrificante con un fanciullo appresso ministro del sacrificio<,> con la grillanda e con l’incenso. Ebbero gran fama due figure di lui armate, l’una che in battaglia correndo pareva che sudasse, e l’altra che per stanchezza ponendo giu l’arme pareva che ansasse. Fu lodata ancho di questo artefice medesimo una tavola dove era Enea, Castore e Polluce, e simigliantemente un’altra dove era Telefo, Achille, Agamennone e Ulisse. Valse ancora molto nel ben parlare, ma fu superbo oltre a misura, lodando se stesso arrogantemente e l’arte sua, chiamandosi per sopranome or Grazioso e ora con cotali altri nomi [p. lxv modifica]dichiaranti lui essere il primo, e convenirsegli il pregio di quell’arte, e d’averla condotta a somma perfettione, e sopra tutto d’essere disceso da Apollo, e che l’Ercole, il quale egli aveva dipinto a Lindo città di Rodi era tale quale egli diceva piu volte esserli apparito in visione. Fu con tutto ciò vinto a Samo la seconda volta da Timante, il che male agevolmente sopportò. Dipinse ancora per suo diporto in alcune picciole tavolette congiungimenti amorosi <molto> lascivi. In Timante, il quale fu al medesimo tempo<,> si conobbe una molto benigna natura; di cui intra le altre ebbe gran nome, e che è posta da quegli che insegnono l’arte del ben dire per essempio di convenevolezza, una tavola dove è dipinto il sacrificio che si fece di Iphigenia figliuola di Agamennone, la quale stava dinanzi allo altare per dover essere uccisa dal sacerdote, d’intorno a cui erano dipinti molti che a tal sacrificio intervenieno e tutti assai nel sembiante mesti e<,> fra gli altri<,> Menelao zio della fanciulla alquanto piu de gli altri; ne trovando nuovo modo di dolore che si convenisse a padre in cosi fiero spettacolo, avendo ne gli altri consumato tutta l’arte, con un lembo del mantello gli coperse il viso, quasi che esso non potesse patire di vedere si orribile crudeltà nella persona della figliuola, che cosi pareva che a padre si convenisse. Molte altre cose ancora rimasero di sua arte, le quali lungo tempo fecero fede della eccellentia dello ingegno e della mano di lui, come fu un Polifemo in una picciola tavoletta<,> che dorme, del quale volendo che si conoscesse la lunghezza, dipinse appresso alcuni satiri, che con la verga loro gli misuravano il dito grosso della mano. E in somma in tutte l’opere di questo artefice sempre s’intendeva molto piu di quello che nella pittura appariva, e come che l’arte vi fusse grande, l’ingegno sempre vi si conosceva maggiore. Bellissima figura fu tenuta di questo medesimo, e nella quale pareva che apparisse tutto quello che puo far l’arte, uno di quei Semidei che gli antichi chiamarono Eroi, la quale poi a Roma lungo tempo fu ornamento grande del tempio della Pace. Questa medesima età produsse Euxenida, che fu discepolo d’Aristide pittore chiaro, et Eupompo, il quale fu maestro di Panfilo, da cui dipoi imparò Apelle. Durò assai di questo Eupompo una figura di gran nome, rassembrante uno di quei campioni vincitori de’ giuochi Olimpici con la palma in mano. Fu egli di tanta autorità appresso i Greci, che dividendosi prima la pittura in due maniere l’una chiamata Asiatica e l’altra Greca, egli partendo la Greca in due di tutte ne fece tre<:> Asiatica, Sicionia e Attica. Da Panfilo fu la battaglia e la vittoria degli Atheniesi a Phliunte dipinta, e dal medesimo<,> Ulisse, come è descritto da Omero, in mare sopra una nave rozza a guisa di fodero. Fu di natione Macedonico e il primo di cotale arte che fosse nelle lettere scienziato e principalmente nella Arimetica e nella Geometria, senza le quali scienze egli soleva dire non si potere nella pittura fare molto profitto. Insegnò apprezzo, ne volle meno<,> da ciascuno discepolo in dieci anni<,> di uno talento, il qual salario gli pagarono Melanthio e Apelle; e potè tanto l’esempio di questo artefice che prima in Sicione e poi in tutta la Grecia fu stabilito, che fra le prime cose che s’insegnavano nelle scuole a’ fanciulli nobili fusse il disegnare, che va inanzi al [p. lxvi modifica]colorire, e che l’arte della pittura si accettasse nel primo grado delle arti liberali, e nel vero appresso i Greci sempre fu tenuta questa arte di molto onore e fu esercitata non solo da’ nobili, ma da persone onorate ancora<,> con espressa prohibitione che i servi non si ammettessero per discepoli di cotale arte; laonde non si trova che ne in pittura ne in alcuno altro lavoro che dal disegno proceda sia stato alcuno nominato che fusse stato servo. Ma innanzi a questi ultimi de’ quali noi abbiamo parlato, forse xx anni<,> si trova essere stati di qualche nome Echione e Terimanto. Di Echione furono in pregio queste figure<:> Bacco, la Tragedia e la Comedia in forma di donne, Semiramis, la quale di serva diveniva Regina di Babilonia, una suocera che portava la faccellina innanzi a una nuora che ne andava a marito, nel volto della quale si scorgeva quella vergogna che a pulzella in cotale atto e tempo si richiede. Ma a tutti i di sopra detti e coloro che di sotto si diranno trappassò di gran lunga Apelle, che visse intorno alla xii e centesima Olimpiade, che dalla fondazione di Roma batte intorno a ccccxxi anno, ne solamente nella perfettione dell’arte, ma ancora nel numero delle figure; percioche egli solo molto meglio di ciascuno e molto piu ne dipinse, e piu arrecò a tale arte d’aiuto scrivendone ancora volumi i quali di quella insegnarono la perfettione. Fu costui maraviglioso nel fare le sue opere graziose; e avenga che al suo tempo fussero maestri molto eccellenti, l’opere de i quali egli soleva molto commendare e ammirare, nondimeno a tutti diceva mancare quella leggiadria la quale da’ Greci e da noi è chiamata grazia: nell’altre cose<,> molti essere da quanto lui, ma in questo<,> non aver pare. Di questo altro si dava egli anche vanto, che riguardando i lavori di Protogene con maraviglia di fatica grande e di pensiero infinito e commendandoli oltre a modo in tutti diceva averlo pareggiato, e forse in alcuna parte essere da lui vinto, ma in questo senza dubbio essere da piu, percioche Protogene non sapeva levar mai la mano d’in sul lavoro. Il che detto da cotale artefice si vuole avere per ammaestramento che spesse fiate nuoce la soverchia diligenza. Fu costui non solamente nell’arte sua eccellentissimo maestro, ma d’animo ancora semplicissimo e molto sincero, come ne fa fede quello che di lui e di Protogene dicono essere avvenuto. Dimorava Protogene nell’Isola di Rodi sua patria, dove alcuna volta venendo Apelle con desiderio grande di vedere l’opere di lui, che le udiva molto lodare et egli solamente per fama lo conosceva, dirittamente si fece menare alla bottega dove ei lavorava e giunsevi apunto in tempo che egli era ito altrove; dove entrando Apelle, vidde che egli aveva messo su una gran tavola per dipignerla e insieme una vecchia sola a guardia della bottega, la quale, domandandola Apelle del maestro, rispose lui essere ito fuore. Domandò ella lui chi fusse quegli che ne domandava: questi<,> rispose tostamente Apelle, e preso un pennello tirò una linea di colore sopra quella tavola<,> di maravigliosa sottigliezza, e andò via. Torna Protogene, la vecchia gli conta il fatto, guarda egli, e considerata la sottigliezza di quella linea s’avisò troppo bene ciò non essere opera d’altri che di Apelle, che in altri non caderebbe opera tanto perfetta; e preso il pennello sopra quella istessa d’Apelle d’altro [p. lxvii modifica]colore ne tirò un’altra piu sottile e disse alla vecchia: dirai a quel buono uomo<,> se ci torna<,> mostrandoli questa, che questi è quegli che ei va cercando; e cosi non molto poi avvenne, che tornato Apelle e udito dalla vecchia il fatto, vergognando d’esser vinto con un terzo colore partì quelle linee stesse per lungo il mezzo, non lasciando piu luogo veruno ad alcuna sottigliezza. Onde tornando Protogene e considerato la cosa e confessando d’esser vinto, corse al porto cercando d’Apelle e seco nel menò a casa. Questa tavola<,> senza altra dipintura vedervisi entro, fu tenuta degna per questo fatto solo d’esser lungo tempo mantenuta viva e fu poi come cosa nobile portata a Roma e nel palazzo de gli Imperadori veduta volentieri da ciascuno e sommamente ammirata, e piu da coloro che ne potevano giudicare, tutto che non vi si vedesse altro che queste linee<,> tanto sottili che poi a pena si potevano scorgere e fra le altre opere nobilissime fu tenuta cara, e per quello istesso che entro altro non vi si vedeva allettava gli occhi de’ riguardanti. Ebbe questo artefice in costume di non lasciar mai passare un giorno solo che almeno non tirasse una linea e in qualche parte esercitasse l’arte sua; il che poi venne in proverbio. Usava egli similmente mettere l’opere sue finite in publico, e appresso star nascoso ascoltando quello che altri ne dicesse, estimando il vulgo d’alcune cose essere buon conoscitore, e poterne ben giudicare. Avvenne (come si dice) che un calzolaio accusò in una pianella d’una figura non so che difetto, e conoscendo il maestro che e’ diceva il vero la racconciò; tornando poi l’altro giorno il medesimo calzolaio e vedendo il maestro averli creduto nella pianella cominciò a voler dire non so che di una delle gambe, di che sdegnato Apelle e uscendo fuori disse proverbiandolo che a calzolaio non conveniva giudicar piu su che la pianella, il qual detto fu anco accettato per proverbio. Fu inoltre molto piacevole e alla mano, e per questo oltre a modo caro ad Alessandro Magno, talmente che quel Re lo andava spesso a visitare a bottega prendendo diletto di vederlo lavorare e insieme d’udirlo ragionare. Et ebbe tanto di grazia e di autorità appresso a questo Re, benche stizzoso e bizzarro, che ragionando esso alcune volte della arte di lui meno che saviamente, con bel modo gli imponeva silentio, mostrandoli i fattorini che macinavano i colori ridersene. Ma quale Alessandro lo stimasse nell’arte si conobbe per questo, che egli prohibì a ciascuno dipintore il ritrarlo fuori che ad Apelle. E quanto egli lo amasse e avesse caro si vide per questo altro, percioche avendoli imposto Alessandro che gli ritraesse nuda Cansace<,> una <e> la piu bella delle sue concubine, la quale esso amava molto, e accorgendosi per segni manifesti che nel mirarla fiso Apelle s’era acceso della bellezza di lei, concedendoli Alessandro tutto il suo affetto gne ne fece dono, senza aver riguardo ancho a lei che essendo amica di Re, e di Alessandro Re, li convenne divenire amica d’un pittore. Furono alcuni che stimarono che quella Venere Dionea tanto celebrata fusse il ritratto di questa bella femmina. Fu questo Apelle molto umano inverso li artefici de’ suoi tempi e il primo che dette riputazione alle opere di Protogene in Rodi, percioche egli, come il piu delle volte suole avvenire, tra i suoi cittadini non [p. lxviii modifica]era stimato molto, e domandandogli Apelle alcuna volta quanto egli stimasse alcune sue figure, rispose non so che piccola cosa, onde egli dette nome di voler per se comperar quelle ch’egli avea lavorato, e lavorerebbe<,> per rivenderle per sue prezzo molto maggiore, il che fece aprire gli occhi a’ Rodiani, ne volle cederle loro se non arrogevano al prezzo con non poco utile di quel pittore. <È> cosa incredibile quello che è scritto di lui, cioè che egli ritraeva si bene e si apunto le imagini altrui dal naturale, che uno di questi che nel guardare in viso altrui fiso sogliono indovinare quello che ad alcuno sij avvenuto nel passato tempo o debba avvenire nel futuro, i quali si chiamano fisiomanti, guardando alcun ritratto fatto da Apelle conobbe per quello quanto quegli di cui era il ritratto dovesse vivere o fusse vivuto. Dipinse con un nuovo modo Antigono Re, che l’uno de gl’occhi aveva meno, in maniera che il difetto della faccia non apparisse, percioche egli lo dipinse col viso tanto volto quanto bastò a celare in lui quel mancamento, non parendo però difetto alcuno nella figura. Ebbero gran nome alcune imagini da lui fatte di persone che morivano, ma fra le molte sue e molto lodate opere qual fosse la piu perfetta non si sa cosi bene. Agusto Cesare consagrò al tempio di Giulio suo padre quella Venere nobilissima che per uscir del mare e da quell’atto stesso fu chiamata Anadiomene, la quale da’ poeti Greci fu mirabilmente celebrata e illustrata, alla parte di cui che s’era corrotta non si trovò chi ardisse por mano, il che fu grandissima gloria di cotal’artefice. Egli medesimo cominciò a quelli di Coo un’altra Venere e ne fece il volto e la parte sovrana del petto, e si pensò da quel che se ne vedeva che egli arebbe e quella prima Dionea e se stesso in questa avanzato. Morte cosi bella opera interroppe, ne si trovò poi chi alla parte disegnata presumesse aggiugner colore. Dipinse ancora a quelli di Epheso, nel tempio della lor Diana<,> un Alessandro Magno con la saetta di Giove in mano, le dita della quale pareva che fussero di rilievo e la saetta che uscisse fuor della tavola, e ne fu pagato di moneta d’oro, non a novero, ma a misura. Dipinse molte altre figure di gran nome, e Clito familiar di Alessandro in atto di apprestarsi a battaglia, con il paggio suo che gli porgeva la celata. Non bisogna domandare quante volte ne in quante maniere, e’ ritraesse Alessandro o Filippo suo padre, che furono infinite, e quanti altri Re e personaggi grandi ei dipignesse. In Roma si vide di lui Castore e Polluce con la Vittoria, e Alessandro trionfante con l’imagine della guerra con le mani legate drieto al carro, le quali due tavole Agusto consacrò al suo foro nelle parti piu onorate di quello, e Claudio poi cancellandone il volto di Alessandro vi fece riporre quello di Agusto. Dipinse uno Eroe ignudo, quasi in quest’opera volesse gareggiare con la natura. Dipinse ancora a pruova con certi altri pittori un cavallo, dove temendo del giudizio degli uomini e insospettito del favore de’ giudici inverso i suoi avversarij<,> chiese che se ne stesse al giudizio de’ cavagli stessi, et essendo menati i cavalli d’attorno a’ ritratti di ciascuno<,> ringhiarono a quel d’Apelle solamente, il qual giudizio fu stimato verissimo. Ritrasse Antigono in corazza con il cavallo drieto, e in altre maniere molte, e di tutte le sue opere quelli che di cosi fatte opere s’intesero, giudicarono l’ottima essere uno Antigono a cavallo. Fu bella anco di lui una Diana, secondo che la dipinse in versi Omero, e [p. lxix modifica]pare che il dipintore in questo vincesse il poeta. Dipinse inoltre con nuovo modo e bella invenzione la Calunnia prendendone questa occasione. Era egli in Alessandria in corte di Tolomeo Re, e per la virtù sua in molto favore. Ebbevi dell’arte stessa chi l’invidiava e cercando di farlo mal capitare l’accusò di congiura contro a Tolommeo di cosa nella quale non solo non aveva colpa veruna Apelle, ma ne anco era da credere che un tal pensiero gli fusse mai caduto nell’animo; fu nondimeno vicino al perderne la persona, credendo cio il Re scioccamente; e percio, ripensando egli seco stesso il pericolo il quale aveva corso, volle mostrare con l’arte sua che e come pericolosa cosa fosse la calunnia. E cosi dipinse un Re a sedere con orecchie lunghissime e che porgeva innanzi la mano, da ciascuno de’ lati del quale era una figura, il Sospetto e l’Ignoranza; dalla parte dinanzi veniva una femmina molto bella e bene adobbata, con sembiante fiero e adirato, e con essa la sinistra teneva una facellina accesa, e con la destra strascinava per i capegli un doloroso giovane, il quale pareva che con gli occhi e con le mani levate al cielo gridasse misericordia e chiamasse li dei per testimonio della vita sua di niuna colpa macchiata. Guidava costei una figura pallida nel volto e molto sozza, la quale pareva che pure allora da lunga infermità si sollevasse; questa si giudicò che fusse l’Invidia. Drieto alla Calunnia, come sue serventi e di sua compagnia seguivano due altre figure, secondo che si crede, che rassembravano l’Inganno e l’Insidia. Dopo a queste era la Penitenza atteggiata di dolore e involta in panni bruni, la quale si batteva a palme e pareva che dietro guardandosi mostrasse la Verità, in forma di donna modestissima e molto contegnosa. Questa tavola fu molto lodata, e per la virtù del maestro, e per la leggiadria dell’arte, e per la invenzione della cosa, la quale può molto giovare a coloro li quali sono proposti ad udire le accuse de gli uomini. Furono del medesimo artefice molte altre opere celebrate da gli scrittori, le quali si lasciano andare per brevità, essendosene raccontate forse piu che non bisognava. Trovò nell’arte molte cose e molto utili, le quali giovarono molto a quegli che di poi le appararono. Questo non si trovò giamai dopo lui chi lo sapesse adoperare, e questo fu un color bruno, o vernice che si debba chiamare, il quale egli sottilmente distendeva sopra l’opre gia finite, il quale con la sua riverberazione destava la chiarezza in alcuni de’ colori e gli difendeva dalla polvere, e non appariva se non da chi ben presso il mirava; e cio faceva con isquisita ragione, accioche la chiarezza d’alcuni accesi colori meno offendessero la vista di chi da lontano come per vetro le riguardasse, temperando cio col piu e col meno secondo giudicava convenirsi. Al medesimo tempo fu Aristide Tebano il quale, come si dice, fu il primo che dipignesse l’animo e le passioni di quello. Fu alquanto piu rozzo nel colorire. Ebbe gran nome una tavola di costui dove era ritratto<,> fra la strage d’una terra presa per forza<,> una madre la quale moriva di ferite e appresso aveva il figliuolo che carpone si traheva alla poppa, e nella madre pareva temenza che’l figliuolo non bevesse con il latte il sangue di lei gia morto. Questa tavola estimandola bellissima fece portare in Macedonia a Pella sua patria Alessandro Magno. Dipinse ancora la battaglia d’Alessandro con i Persi, mettendo in una stessa tavola cento figure, [p. lxx modifica]avendo prima pattuito con Mnasone<,> Prencipe de gli Elatresi<,> cento mine per ciascuna. Di questo medesimo si potrebbono raccontare altre figure molto chiare le quali e a Roma e altrove furono molto in pregio assai tempo, e fra l’altre uno infermo lodato infinitamente, percioche ei valse tanto in questa arte, che si dice il Re Attalo aver comperato una delle sue tavole cento talenti. Visse al medesimo tempo e fiorì Protogene, suddito de’ Rodiani, di cui alquanto di sopra si disse, povero molto nel principio del suo mestiere, e di cui si dice che egli aveva da prima esercitato la pittura in cose basse e quasi aveva lavorato a opera dipignendo le navi; ma fu diligente molto e nel dipignere tardo e fastidioso, ne cosi bene in esso si sodisfaceva. Il vanto delle sue opere porta lo Ialiso, il quale insino al tempo di Vespasiano Imperadore si guardava ancora a Roma nel Tempio della Pace. Dicono, che nel tempo che egli faceva cotale opera non mangiò altro che lupini dolci, sodisfacendo a un tempo medesimo con essi alla fame e alla sete per mantenere l’animo e i sensi piu saldi e non vinti da alcuno diletto. Quattro volte mise colore sopra colore a questa opera<,> riparo contro alla vecchiezza e schermo contro al tempo, acciò consumandosi l’uno succedesse l’altro di mano in mano. Vedevasi in questa tavola stessa un cane di maravigliosa bellezza fatto da l’arte e insieme dal caso in cotal modo. Voleva egli ritrarre intorno alla bocca del cane quella schiuma la quale fanno i cani faticati e ansanti, ne poteva in alcun modo entro sodisfarvisi; ora scambiava pennello, ora con la spugna scancellava i colori, ora insieme li mescolava, che arebbe pur voluto che ella uscisse della bocca dell’animale e non che la paresse di fuora appiccata, ne si contentava in modo veruno tanto che<,> avendovi faticato intorno molto ne riuscendogli meglio l’ultima volta che la prima, con istizza trasse la spugna che egli aveva in mano piena di quei colori nel luogo stesso dove egli dipigneva. Maravigliosa cosa fu a vedere, quello che non aveva potuto fare con tanto studio e fatica l’arte, lo fece il caso in un tratto solo, percioche quelli colori vennero appiccati intorno alla bocca del cane di maniera che ella parve proprio schiuma che di bocca gli uscisse. Questo stesso dicono essere avvenuto a Nealce pittore, nel fare medesimamente la schiuma alla bocca d’un cavallo ansante, o avendolo apparato da Protogene o essendoli avvenuto il caso medesimo. Questa figura di Protogene fu quella che difese Rodi da Demetrio Re, il quale fieramente con grande esercito la combatteva, percioche potendo agevolmente prendere la terra dalla parte dove si guardava questa tavola, che era luogo men forte, dubitando il Re che la non venisse arsa nella furia de’ soldati, volse l’impeto dell’oste altrove, e intanto gli trappassò l’occasione di vincere la terra. Stavasi in questo tempo Protogene in una sua villetta, quasi sotto le mura della città, cioè dentro alle forze di Demetrio e nel suo campo; ne per combattere che si facesse ne per pericolo che e’ portasse lasciò mai di lavorare, e chiamato una fiata dal Re e domandato in su che egli si fidasse che cosi gli pareva star sicuro fuor delle mura, rispose percioche egli sapeva molto bene, che Demetrio aveva guerra con i Rodiani e non con le arti. Fece Demetrio, piacendogli la risposta di questo [p. lxxi modifica]artefice<,> guardare <ch’e’> non fusse da alcuno noiato o offeso, e perche egli non si avesse a scioperare spesso andava a visitarlo e tralasciata la cura delle armi e dell’oste molte volte stava a vederlo dipignere fra i romori del campo e il percuotere delle mura, e quinci si disse poi che quella dipintura, che egli allora aveva fra mano, fu lavorata sotto il coltello, e questo fu quel Satiro di maravigliosa bellezza, il quale, percioche egli appoggiandosi a una colonna si riposava, ebbe nome il Satiro riposantesi, il quale, quasi nullo altro pensiero lo toccasse, mirava fiso una sampogna, che egli teneva in mano. Sopra a quella colonna aveva anco quel maestro dipinta una quaglia tanto pronta e tanto bella, che non era alcuno che senza maraviglia la riguardasse, alla quale le dimestiche tutte cantavano, invitandola a combattere. Molte altre opere di questo artefice si lasciono indrieto per andare a gli altri che ebbero pregio di cotale arte. Fra i quali fu al medesimo tempo Asclepiodoro, il quale nella proportione valse un mondo, e però da Apelle era in questo maravigliosamente lodato. Ebbe da Mnasone Prencipe de gli Elatensi, per dodici dei dipintili, trecento mine per ciascuno. Fra questi, merita d’esser raccontato Nicomaco, figliuolo o discepolo di Aristodemo, il quale dipinse Proserpina rapita da Plutone, la qual tavola era in Roma nel Campidoglio sopra la cappella della Gioventù, e nel medesimo luogo un’altra pur di sua mano dove si vedeva una Vittoria, la quale in alto ne portava un carro insieme con i cavagli. Dipinse anco Apollo e Diana, e Rhea madre de gli Dei sedente sopra un leone, medesimamente alcune giovenche con alquanti satiri appresso in atto di volere involandole trafugar via, e una Scilla, che era a Roma nel tempio della Pace. Niuno di lui in questa arte fu piu presto di mano e si dice, che avendo tolto a dipignere un sepolcro che faceva fare a Teleste poeta Aristrato Prencipe de’ Sicionij in termine di non molto tempo, et essendo venuto tardi a l’opera e crucciandosene e minacciandolo Aristrato, egli in pochissimi giorni lo dette compito con prestezza e destrezza maravigliosa. Discepoli suoi furono Aristide fratello suo e Aristocle figliuolo, e Philoxeno d’Eretria, di cui si dice essere stata una tavola fatta per Cassandro Re, entrovi ritratta la battaglia d’Alessandro con i Persi, la qual fu tale che non merita d’essere lasciata indietro per alcun’altra. Fece molte altre cose ancora, imitando la prestezza del maestro e trovando nuove vie e piu brevi di dipignere. A questi si aggiunghino Nicofane<,> gentile e pulito artefice, e Perseo discepolo d’Apelle, il quale molto fu da meno del maestro. Furono al medesimo tempo alcuni altri che partendosi da quella maniera grande di questi detti di sopra esercitarono l’ingegno e l’arte in cose molto piu basse, ma che furono tenute in pregio assai ne meno stimate delle altre. Tra i quali fu Pireo, che dipigneva e ritraeva botteghe di barbieri, di calzolai, taverne, asini, lavoratori e cosi fatte cose, onde egli trasse anco il sopranome, che si chiamava il Dipintore delle cose basse, le quali nondimeno<,> per essere lavorate con bella arte<,> non erano stimate meno che le magnifiche e le onorate. Altri fu che dipinse molto bene le scene delle comedie e da questo ebbe nome, e altri altre diverse cose, variando assai dalli gravi e celebrati pittori, non senza [p. lxxii modifica]grande utile loro e diletto altrui. Fu anco poi all’età d’Augusto un Ludio, il primo che cominciasse a dipignere per le mura<,> con piacevolissimo aspetto<,> ville, logge, giardini, spalliere fronzute, selve, boschetti, vivai, laghi, riviere, liti e piacevoli imagini di viandanti, di naviganti, di vetturali e d’altre simili cose in bella prospettiva, altri che pescavano, cacciavano, vendemmiavano, femmine che correvano, e fra queste molte piacevolezze e cose da ridere mescolate. Ma e’ pare, che non sieno stati celebrati di questi cotali alcuni<,> tanto quanto quelli antichi i quali in tavole solamente dipinsero, e percio è in grandissima riverenzia l’antichità, percioche quei primi artefici non adoperavano l’arte loro se non in cose che si potessero tramutare, e fuggire le guerre e gl’incendij e l’altre rovine, e agli antichi tempi in Grecia ne in publico ne in privato non si truova mura dipinte da nobili artefici. Protogene visse in una sua casetta con poco d’orto senza ornamento alcuno di sua arte. Apelle niuno muro dipinse giamai. Tutta l’arte di questi solenni maestri si dava alli communi e il pittor buono era cosa publica riputato. Ebbe alcuno nome poco inanzi alla età d’Augusto uno Arellio, il quale fu tanto dissoluto nello amore delle femmine che mai non fu senza, e perciò dipignendo dee sempre vi si riconosceva drento alcuna delle da lui amate e le meretrici stesse. Tra questi detti di sopra non si vuol lasciar indietro Pausia Sicionio, discepolo di quel Panfilo che fu anco maestro d’Apelle, il quale pare che fusse il primo che cominciò a dipignere per le case i palchi e le volte, il che innanti non s’era usato. Dipigneva costui per lo piu tavolette picciole, e massimamente fanciulli, il che i suoi avversarij dicevano farsi da lui, percioche quel modo di lavorare era molto lungo, onde egli per acquistare nome di sollecito e presto dipintore<,> quando voglia o bisogno glie ne venisse<,> fece in un giorno solo una tavola, la quale da questo fu chiamata il Lavoro d’un solo giorno, entrovi un fanciul dipinto molto bello. Fu innamorato costui in sua giovanezza d’una fanciulletta di sua terra che faceva grillande di fiori, e recò nell’arte una infinità di fiori di mille maniere quasi facendo con lei, cui egli amava, a gara; e in ultimo dipinse lei con una grillanda di fiori in mano, la quale ella tesseva, e questa tavola fu stimata di grandissimo prezzo, e da colei che v’era entro dipinta ebbe nome la Grillanda tessente, il ritratto della quale di mano d’un altro buon maestro comperò Lucullo in Athene duoi talenti. Fece questo artefice medesimo alcune altre opere molto magnifiche, come fu un sacrificio di buoi, del quale se ne adornò in Roma la loggia di Pompeo Magno, all’eccellenza della quale opera e all’inventione si sono provati d’arrivare molti, ma niuno vi aggiunse giamai. Egli primieramente, volendo mostrare con bella arte la grandezza d’un bue lo dipinse non per lo lungo, ma in iscorcio, e in tal maniera che la lunghezza vi appariva giustissima, e poi conciosia che tutti coloro che vogliono far parere in piano alcuna cosa di rilievo adoperino color chiaro e bruno, mescolandoli insieme con certa ragione e proporzione, egli lo dipinse tutto di color bruno e del medesimo fece apparir l’ombre del corpo; grande arte certamente nel piano far parere le cose di rilievo e nel rotto intere. Visse costui in Sicione, che lungo tempo fu [p. lxxiii modifica]questa terra quasi la casa della pittura, e onde tutte le nobili tavole, che molte ve ne ebbe per debito del Comune pegnorate, furono poi portate a Roma da Scauro Edile, per adornare nella sua magnifica festa il foro Romano. Dopo questo Pausia Eufranore da Ismo avanzò tutti gli altri di sua età, e visse intorno a gli anni della Olimpiade 124 che batte intorno a l’anno di Roma 430<,> avenga che egli lavorasse anco in marmo, in metallo e in argento colossi e altre figure, che fu molto agevole ad imprendere qualunche si fusse di queste arti, ma bene le esercitava con molta fatica e in tutte fu ugualmente lodato. Ebbe vanto d’essere il primo che alle imagini de gli Eroi desse tale maestà quale a quegli si conviene, e che nelle sue figure usasse ottimamente le proporzioni, come che nel fare i corpi alle sue figure paresse un poco sottile, e ne<’> capi e nelle mani maggior del dovere. L’opere di lui piu lodate sono una battaglia di cavalieri, Dodici dei, un Theseo, sopra il quale soleva dire il suo essere pasciuto di carne e quel di Parrasio di rose. Vedevasi del medesimo a Epheso una tavola molto nobile dove era Ulisse, il quale fingendosi stolto metteva a giogo un bue e un cavallo, e Palamede che nascondeva la spada in un fascio di legne. Al medesimo tempo fu Ciclia, una tavola di cui contenente gli Argonauti comperò Ortensio Oratore, credo quarantaquattro talenti, e a questa sola a Tuscolo sua villa fabricò una cappelletta. Di Eufranore fu discepolo Antidoto, di cui si diceva essere in Athene uno con lo scudo in atto di combattere, uno che giocava alla lotta, uno che sonava il flauto<,> lodati eccessivamente. Fu costui per se chiaro assai, ma molto piu per essere stato suo discepolo Nicia Atheniese, quegli che cosi bene dipinse le femmine e il chiaro e l’oscuro nelle sue opere cosi bene rassembrò, di maniera che le opere di lui tutte parevano nel piano rilevate, nel che egli si sforzò e valse molto. L’opere di costui molto chiare furono una Nemea, la quale a Roma da Sillano fu portata d’Asia, medesimamente un Bacco, il quale era nel tempio della Concordia, uno Iacintho, il quale Cesare Agusto piacendogli oltre modo portò seco a Roma d’Alessandria poi che esso l’ebbe presa, e perciò Tiberio Cesare nel tempio di lui lo consacrò a Diana. A Epheso dipinse il sepolcro molto celebrato di Megalisia sacerdotessa di Diana. In Athene, l’inferno d’Omero, che nella greca lingua si chiama Necia, il quale egli dipinse con tanta attenzione d’animo e con tanto affetto che bene spesso domandava i suoi famigliari se egli quella mattina aveva desinato o no; la qual pittura, potendola vendere alcuni dicono a Attalo Re e altri a Tolommeo sessanta talenti, volle piu tosto farne dono alla patria sua. Dipinse inoltre figure molto maggiori del naturale, ciò furono Calipso, Io, Andromeda, Alessandro che a Roma si vedeva nella loggia di Pompeo, e un’altra Calipso a sedere. Fu nel ritrarre le bestie maraviglioso e i cani principalmente. Questi è quel Nicia, di cui soleva dire Prassitele, domandato qual delle sue figure di marmo egli avesse per migliore, quelle a cui Nicia aveva posto l’ultima mano, tanto dava egli a quella ultima politura con la quale si finiscono le statue. Fu giudicato pare a questo Nicia, e forse maggiore<,> uno Athenione Maronite discepolo di Glaucone da Coranto, tutto che nel colorire fusse [p. lxxiv modifica]alquanto piu austero, ma tale nondimeno che quella severità dilettava e che nell’arte di lui si mostrava molto sapere. Dipinse nel tempio di Cerere Eleusina<,> nella Attica<,> Filarco, e in Athene quel gran numero di femmine che in certi sacrifizij andavano a processione con canestri in capo. Diedegli gran nome un cavallo dipinto, con uno che lo menava, e medesimamente Achille, il quale sotto abito feminile nascoso era trovato da Ulisse; e se egli non fusse morto molto giovane non aveva pare alcuno. Fu anco quasi a questa età medesima in Athene Metrodoro filosofo insiememente e pittore, e grande nell’una e nell’altra professione, di maniera, che poi che Paolo Emilio ebbe vinto e preso Perse re di Macedonia<,> chiedendo agli Atheniesi che gli procacciassero un filosofo che insegnasse a’ figliuoli e uno pittore che gli adornasse il trionfo, gli Atheniesi di comun parere li mandarono Metrodoro solo, giudicandolo sufficiente a l’una cosa e a l’altra, il che approvò Paolo medesimo. Fu anco poi al tempo di Giulio Cesare dittatore uno Timomaco di Bisanzio, il quale dipinse uno Aiace e una Medea, le quali tavole furono vendute ottanta talenti. Di questo medesimo fu molto lodato uno Oreste e una Efigenia, e Lecito maestro di esercitare i giovani nelle palestre, e ancora alcuni Atheniesi in mantello, altri in atto di aringare e altri a sedere, e come che in tutte queste opere sij lodato molto, pare nondimeno che l’arte lo favorisse molto piu nel Gorgone. Di quel Pausia detto di sopra fu figliuolo e discepolo Aristolao pittore molto severo, del quale furono opere Epaminonda, Pericle, Medea, la Virtù, Teseo e il ritratto della plebe di Athene e un sacrificio di buoi. Ebbe anchora a chi piacque Menochare discepolo di quello stesso Pausia, la virtù e diligenza del quale intendevano solamente coloro che erano dell’arte. Fu rozzo nel colorire, ma abondante molto. Tra le opere di cui sono celebrate queste: Esculapio con le figliuole Igia, Egle e Pane, e quella figura neghittosa che chiamarono Ocno, che è un povero uomo che tesse una fune di stramba e uno asino drieto che la si mangia, non accorgendosene egli. E questi che noi insino a qui abbiamo raccontati furono di cotale arte tenuti i principali. Aggiugnerannosi alcuni altri che li secondarono appresso, non gia per ordine di tempo non si potendo rinvenire l’età loro cosi apunto; come Aristoclide, il quale ornò il tempio del Delfico Apollo, e Antifilo di cui è molto lodato un fanciullo che soffia nel fuoco, tale che tutta una stanza se ne alluma. Medesimamente una bottega di lana, dove si veggono molte femmine in diverse maniere sollecitar ciascuna il suo lavoro. Uno Tolommeo in caccia, e un Satiro bellissimo con pelle di Pantera indosso. Aristofane ancora è in buon nome per uno <Anceo> ferito dal Cignale con Astipale dolente oltra modo. E inoltre per una tavola entrovi Priamo, la Semplice credenza, l’Inganno, Ulisse e Deifebo. Androbio ancora dipinse una Scilla, mostro marino, che tagliava l’ancore del navilio de’ Persi. Artemone una Danae in mare portata da’ venti e alcuni corsali i quali con istupore la rimiravano, la regina Stratonica, uno Ercole, e una Deianira. Ma oltre a modo furono di lui chiare quelle che erano in Roma nelle logge di Ottavia; ciò furono uno Ercole [p. lxxv modifica]nel monte Eta, che nella pira ardendo e lasciando in terra l’umano era ricevuto in cielo nel divino di comun parere de gli dei, e la storia di Nettuno e d’Ercole intorno a Laomedonte. Alcidamo anco dipinse Diosippo, che ne’ giuochi Olimpici alla lotta insieme e alle pugna aveva vinto, come era il proverbio, senza polvere. Uno Chresiloco, il quale fu discepolo d’Apelle<,> ritrasse Giove, e nel vero con poca reverenzia in atto di voler partorire Bacco, lagnantesi a guisa di femmina fra le mani delle levatrici, con molte delle dee intorno, le quali dolenti e lagrimanti ministravano al parto. Uno Cleside, parendogli aver ricevuto ingiuria da Stratonica Regina, non essendo stato da lei accettato come pareva se li convenisse<,> dipinse il Diletto in forma di femmina insieme con un pescatore, che si diceva essere amato dalla Regina, e lasciò questa tavola in Epheso in publico e noleggiata una nave con gran prestezza favorito da’ venti fuggì via; la Regina non volle che ella fosse quindi levata, come che questo artefice l’avesse molto bene rassembrata in quella figura e il pescatore altresì ritratto al naturale. Nicearco dipinse Venere e Cupido fra le Grazie, e uno Ercole mesto in atto di pentirsi della pazzia. Nealce dipinse una battaglia navale nel Nilo, fra i Persi e gli Egittij, e per ciò che le acque del Nilo per la grandezza di quel fiume rassembrano il mare, accioche la cosa fusse riconosciuta<,> con bel trovato e grazia maravigliosa, dipinse alla riva uno asinello che beeva e poco piu oltre un gran cocodrillo in aguato per prenderlo. Filisco dipinse una bottega d’un dipintore con tutti i suoi ordigni e un fanciullo, che soffiava nel fuoco. Theodoro un che si soffiava il naso; il medesimo dipinse Oreste che uccideva la madre et Egisto adultero, e in piu tavole la guerra Troiana, la quale era in Roma nella loggia di Filippo, e una Cassandra nel tempio della Concordia. Leontio dipinse Epicuro filosofo pensoso e Demetrio Re. Taurisco uno di coloro che scagliavano in aria il disco, una Clitennestra, uno Polinice, il quale si apprestava per tornare nello stato, e un Capaneo. Non si deve lasciare indietro uno Erigono macinatore di colori nella bottega di Nealce, il quale salse in tanta eccellenza di quest’arte che non solo egli fu di gran pregio, ma di lui ancora rimase discepolo quel Pausia, di cui di sopra abbiamo detto che fu molto chiaro nel dipignere. Bella cosa è anchora, e degna d’essere raccontata, che molte opere ultime e non finite di cotali maestri furono piu stimate e piu tenute care e con maggior piacere e maraviglia riguardate, che le perfettissime e l’intere, quale fu l’Iride di Aristide, i Gemelli di Nicomaco, la Medea di Timomaco, e la Venere di Apelle di cui di sopra dicemo. Queste tavole furono in grandissimo pregio, e sommamente dilettarono vedendosi in loro, per i disegni rimasi, i pensieri dello artefice, e quello che di loro mancava<,> con un certo piacevol dispiacere<,> piu si aveva caro che il perfetto di molte belle e da buon maestri opere compiutamente fornite. E questi voglio che insino a qui, fra li quasi infiniti che in cotale arte fiorirono<,> mi basti avere raccontati, li quali per lo piu o furono Greci o delle parti alla Grecia vicine. Ebbero ancora di cotale arte pregio alcune donne, le quali di loro ingegno e maestria abbellirono l’arte del ben [p. lxxvi modifica]dipignere. Infra le quali Timarete<,> figliuola di Micone pittore<,> dipinse una Diana, la quale in Epheso fu fra le molte e molto nobili e antiche tavole celebrata. Irena figliuola e discepola di Cratino dipinse una fanciulla nel tempio di Cerere in Attica. Alcistene uno Saltatore. Aristarte figliuola e discepola di Nearco<,> uno Esculapio. Martia di Marco Varrone nella sua giovanezza adoperò il pennello e ritrasse figure, massimamente di femmine, e la sua istessa dallo specchio e<,> secondo si dice<,> niuna mano menò mai piu veloce pennello e trapassò di gran lunga Sopilo e Dionisio pittori della sua età, i quali di loro arte molti luoghi empierono e adornarono. Dipinse anco una Olimpiade, della quale non rimase altra memoria se non ch’ella fu maestra di Antobulo. Fu in qualche pregio anco appresso i Romani cotale arte, poscia che i Fabij onorati cittadini non sdegnarono aver sopra nome il Dipintore. Tra i quali il primo che cosi fu per sopra nome chiamato, dipinse il tempio della Salute l’anno dl dalla fondazione di Roma, la quale dipintura durò oltre all’età di molti Imperadori e insino che quel tempio fu abbrusciato. Fu ancora in qualche nome Pacuvio poeta, dalla cui mano fu adorno il tempio di Ercole nella piazza del mercato de’ buoi. Costui, come si diceva, fu figliuolo d’una sorella di Ennio poeta e fu chiara in lui cotale arte molto piu per essere stata accompagnata dalla Poesia. Dopo costoro non trovo io in Roma da persone nobili cotale arte essere stata esercitata, se gia non ci piacesse mettere in questo numero Turpilio cavalier Romano, il quale a Verona dipinse molte cose, le quali molto tempo durarono; lavorava costui con la sinistra mano, il che di niuno altro si sa essere avvenuto, di cui opera furono molto lodate alcune picciole tavolette. Aterio Labeone ancora, il quale era stato pretore e aveva tenuto il governo della provincia di Nerbona<,> dipinse. Ma questo studio negli ultimi tempi appresso i Romani era venuto in dispregio e riputato vile. Non voglio però lasciar di dire quello che di cotale arte giudicassero i primi maggior cittadini di Roma. Percioche a Q. Pedio, nipote di quel Pedio che era stato consolo e aveva trionfato e che da Giulio Cesare nel testamento era stato lasciato in parte erede con Agusto, essendo nato mutolo fu giudicato da Messala<,> quel grande oratore della cui famiglia era l’avola di quel fanciullo mutolo, che si dovesse insegnare a dipignere, il che fu confermato da Agusto; il quale saliva di cotale arte in gran nome se in breve non avesse finito i giorni suoi. Pare che l’opere di pittura cominciassero in Roma ad essere in pregio al tempo di Valerio Massimo; quando Messala il primo pose nella curia di Ostilio, dove si strigneva il Senato, una battaglia dipinta nella quale egli aveva in Cicilia vinto i Cartaginesi e Ierone Re l’anno dalla fondazione di Roma 490. Fece questo medesimo poi L. Scipione, il quale consacrò nel Campidoglio una tavola dove era dipinta la vittoria che egli aveva avuto in Asia. E si dice che il fratello, Scipione Africano, l’ebbe molto a male, concio fusse cosa che in quella battaglia medesima il figliuol di lui fusse rimaso prigione. Giovò molto a l’essere fatto consolo a Ostilio Mancino il mettere in publico una simil tavola, dove era dipinto il sito e [p. lxxvii modifica]l’assedio di Cartagine, che se lo arrecò a grande ingiuria il secondo Africano, il quale consolo l’aveva soggiogata; percioche Mancino stava presente, mostrando al popolo che desiderava di intenderle cosa per cosa, e questa publica cortesia, come noi dicemo<,> ad ottenere il sommo magistrato li fece gran favore. Fu dipoi molti anni l’ornamento della scena di Appio Pulchro tenuto maraviglioso, il quale si dice, che fu di si bella prospettiva che le cornacchie, credendolo vero<,> al tetto dipinto volavano per sopra posarvisi. Ma le dipinture forestieri, per quanto io ritraggo, allora cominciarono ad essere care e tenute maravigliose quando L. Mummio, il quale per aver vinta l’Achaia<,> parte della Grecia, ebbe sopranome l’Achaico, consagrò al tempio di Cerere una tavola di Aristide; percioche nel vendere la preda, avendo tenuto poco conto di molte cose nobili e udendo dire che Attalo Re l’aveva incantata un gran numero di denari, maravigliandosi del pregio e estimando per cagione d’esso che in quella tavola dovesse essere alcuna virtù forse a lui nascosa<,> volle che la vendita si stornasse, dolendosene e lamentandosene molto quel Re. E questa tavola delle forestieri si crede che fusse la prima che si recasse in publico. Ma Cesare dittatore dipoi diede loro grandissima riputazione, avendo<,> oltre a molte altre<,> consagrato nel tempio di Venere, origine di sua famiglia, uno Aiace e una Medea, figure bellissime. Dopo lui Marco Agrippa piu tosto rozzo di simil leggiadrie che altrimenti<,> comperò da quelli di Cizico di Asia due tavole<,> Aiace e Venere, e le mise in publico, et egli stesso con lungo e bel sermone s’ingegnò di persuadere, acciò che ciascuno ne potesse prendere diletto e che piu se ne adornasse la città, che tutte cotali opere si dovessero recare a comune, il che era molto meglio che quasi in perpetuo esilio per i contadi e nelle ville de’ privati lasciarle invecchiare e perdersi. Oltre a queste poi Cesare Agusto nella piu bella e piu ornata parte del suo foro pose due tavole bellissime, l’imagine della guerra legata al carro del trionfante Alessandro<,> di mano di Apelle, e i Gemelli e la Vittoria. Dopo costoro, recandosi la cosa ad onore e magnificenza<,> furono molti i quali nei loro magnifichi templi e ampie logge e altri superbi edificij publici infinite ne consacrarono. E andò tanto oltre la cosa e a tanto onore se la recarono (potendo ciò che volevano i Prencipi Romani e i possenti Cittadini) che in brieve tutta la Grecia e l’Asia e altre parti del mondo ne furono spogliate, e Roma non solo in publico, ma in privato ancora se ne rivestì e se ne adornò, durando questa sfrenata voglia molto, e molte etadi e molti Imperadori se ne abbellirono. E come questo avvenne nelle cose dipinte cosi e molto piu nelle statue di bronzo e di marmo, delle quali a Roma ne fu portato d’altronde e ne fu fatto si gran numero che si teneva per certo che vi fusse piu statue che uomini; delle arti delle quali e de’ maestri piu nobili di esse è tempo omai che<,> come abbiamo fatto de’ pittori e delle pitture, cosi anco alcune cose ne diciamo, quanto però pare che al nostro proponimento si convenga. E però che egli pare che il ritrarre di terra sia comune a molte arti<,> non si potendo cosi [p. lxxviii modifica]bene divisare nella mente dello artefice ne cosi ben disegnare le figure le quali si deono formare, diremo che questa arte sia madre di tutte quelle che in tutto o in parte in qualunche modo rilevano; massimamente che noi troviamo che queste figure di terra in quei primi secoli furono in molto onore, e a Roma massimamente quando i Cittadini vi erano rozzi e il Comune povero, dove ebbero molte imagini di quelli dei che essi adoravano di terra cotta, e ne<’> sacrificij appresso di loro furono in uso i vasi di terra. E molto piu si crede che piacesse alli dei la semplicità e povertà di quei secoli che l’oro e l’argento e la pompa di coloro li quali poi vennero. Il primo che si dice aver ritratto di terra fu Dibutade Sicionio che faceva le pentole in Coranto, e ciò per opera d’una sua figliuola, la quale essendo innamorata d’un giovane che da lei si deveva partire, si dice che a lume di lucerna con alcune linee aveva dipinta l’ombra della faccia di colui cui ella amava, drento alla quale poi il padre<,> essendoli piaciuto il fatto e il disegno della figliuola, di terra ne ritrasse l’imagine rilevandola alquanto dal muro; e questa figura poi asciutta, con altri suoi lavori mise nella fornace; e dicono, che la fu consecrata al tempio delle Ninfe e che ella durò poi insino al tempo che Mummio consolo Romano disfece Coranto. Altri dicono, che in Samo Isola fu primieramente trovata questa arte da uno Ideoco Rheto e uno Teodoro<,> molto innanzi a questo detto di sopra, e inoltre che Demarato padre di Tarquinio Prisco, fuggendosi da Coranto sua patria, aveva portato seco in Italia arte cotale, conducendo in sua compagnia Eucirapo et Eutigrammo maestri di far di terra, e che da costoro cotale arte si sparse poi per l’Italia, e in Toscana fiorì molto e molto tempo. Il primo poi che ritraesse le imagini de gli uomini col gesso stemperato, e del cavo poi facesse le figure di cera riformandole meglio<,> si dice essere stato Lisistrato Sicionio fratello di Lisippo. E questi fu il primo che ritraesse dal vivo, essendosi sforzati innanzi a lui gli altri maestri di far le statue loro piu belle che essi potessero. E fu questo modo di formare di terra tanto comune che niuno<,> per buon maestro che ei fusse<,> si mise a fare statue di bronzo fondendolo, o di marmo o di altra nobile materia levandone, che prima non ne facesse di terra i modegli, onde si può credere che questa arte, come piu semplice e molto utile<,> fusse molto prima che quella la quale cominciò in bronzo a ritrarre. Furono in questa maniera di figure di terra cotta molto lodati Dimofilo e Gorgaso, i quali parimente furono dipintori, e a Roma dell’una e dell’altra loro arte adornarono il tempio di Cerere, lasciandovi versi scritti significanti che la destra parte del tempio era opera di Dimofilo e la sinistra di Gorgaso. E Marco Varrone scrive, che innanzi a costoro tutte opere cotali, che ne’ templi a Roma si vedevano<,> erano state fatte da’ Toscani. E che quando si rifece il tempio di Cerere molte di quelle imagini Greche erano state del muro da alcuni levate, i quali rinchiudendole drento a tavolette d’asse le portarono via. Calcostene fece anco in Athene molte imagini di terra<,> e da la sua bottega quel luogo, che in Athene fu poi cotanto celebrato e dove furono poste tante statue, e da cotale arte fu chiamato Ceramico. Il medesimo [p. lxxix modifica]Marco Varrone lasciò scritto che a suo tempo in Roma fu un buon maestro di cotale arte, il quale egli molto ben conosceva, et era chiamato Possonio, il quale oltre a molte opere egregie ritrasse di terra alcuni pesci si begli e si somiglianti che non gli aresti saputo discernere da’ veri e dai vivi. Loda il medesimo Varrone molto uno amico di Lucullo, i modegli del quale si solevano vendere piu cari che alcun’altra opera di qualunche artefice, e che di mano di costui fu quella bella Venere che si chiamò genitrice, la quale innanzi che fusse interamente compiuta, avendone fretta Cesare<,> fu dedicata e consacrata nel foro. Di mano di questo medesimo un modello di gesso d’un vaso grande da vino, che voleva far lavorare Ottavio cavalier Romano, si vendè un talento. Loda molto Varrone il detto di Prassitele, il quale disse che questa arte di far di terra era madre di ogni altra che in marmo o in bronzo facci figure di rilievo, o in quale altra si vogli materia, e che quel nobile maestro non si mise mai a fare opera alcuna cotale che prima di terra non ne facesse il modello. Dice il medesimo autore, che questa arte fu molto onorata in Italia, e spezialmente in Toscana. Onde Tarquinio Prisco Re de’ Romani chiamò un Turiano, maestro molto celebrato, a cui egli dette a fare quel Giove di terra cotta che si deveva adorare e consacrare nel Campidoglio, e similmente i quattro cavalli agiogati i quali si vedevano sopra il tempio; e si credeva ancora, che del medesimo maestro fusse opera quello Ercole che lungo tempo si vidde a Roma, e dalla materia di che egli era fu chiamato l’Ercole di terra cotta. Ma percioche questa arte, come che da per se la sia molto nobile, e origine delle piu onorate tuttavia, peroche la materia in che ella lavora è vile e l’opere d’essa possono agevolmente ricever danno e guastarsi, e per lo piu a fine si fa di quelle che si fondano di bronzo e si lavorano di marmo, e però che coloro che in essa si esercitarono, e vi ebber nome, sono anco in queste altre chiari, lasceremo di ragionare piu di lei e verremo a dire di coloro che di bronzo ritrahendo furono in maggior pregio, che volere ragionare di tutti sarebbe cosa senza fine. Furono appresso i Greci, i quali queste arti molto piu che alcun’altra natione e molto piu nobilmente l’esercitarono, in pregio alcune maniere di metallo l’una dall’altra differenti, secondo la lega di quello, e quinci avenne che alcune figure d’esso si chiamarono Corinthie, altre Deliace e altre Eginetiche; non che il metallo di questa o di quella sorte in questo o in quel luogo per natura si facesse, ma per arte<,> mescolando il rame chi con oro, chi con argento e chi con istagno e chi piu e chi meno, le quali misture gli davano poi proprio colore e piu e men pregio e inoltre il proprio nome. Ma fu in maggiore stima il metallo di Coranto, o fusse in vasellamento o fusse in figure, le quali furono di tal pregio e di si rara et eccessiva bellezza che molti grandi uomini quando andavano attorno le portavano per tutto seco, e si trova scritto che Alessandro Magno quando era in campo reggeva il suo padiglione con istatue di metallo di Coranto, le quali poi furono portate a Roma. Il primo che fusse chiaro in questa sorte di lavoro, si dice essere stato quel Fidia Atheniese cotanto celebrato, il quale, oltre a lo aver fatto nel [p. lxxx modifica]tempio Olimpico quel Giove dello avorio si grande e si venerando, fece anco molte statue di bronzo. E avenga che avanti a lui quest’arte fusse stata molto in pregio, e in Grecia e in Toscana e altrove, nondimeno si giudicò che egli di cotanto avanzasse ciascuno che in tale arte avesse lavorato, che tutti gli altri ne divenissero oscuri e ne perdessero il nome. Fiorì questo nobile artefice<,> secondo il conto de’ Greci, nella Olimpiade ottantreesima, che batte al conto de’ Romani intorno a l’anno trecentesimo dopo la fondazione di Roma, e durò l’arte in buona riputazione dopo Fidia forse centocinquanta anni o poco piu, seguendo sempre molti discepoli i primi maestri i quali in questo spazio furono quasi che senza numero. E queste due o tre etadi produssero il fiore di questa arte, benche alcuna volta poi essendo caduta risorgesse, ma non mai con tanta nobiltà, ne con tanto favore; l’eccellenzia della quale mi sforzerò porre in queste carte secondo che io trovo da altri esserne stato scritto. E prima si dice che furono fatte sette Amazone, le quali si consecrarono in quel tanto celebrato tempio di Diana Efesia, a concorrenza da nobilissimi artefici, benche non tutte in un medesimo tempo; la bellezza e la perfettione delle quali non si potendo cosi bene da ciascuno estimare, essendo ciascuna d’esse degna molto di essere commendata, giudicarono quella dover essere la migliore e la piu bella che i piu de gli artefici, che alcuna ne avessero fatta, commendassero piu dopo la sua propria. E cosi toccò il primo vanto a quella di Policleto, il secondo a quella di Fidia, il terzo a quella di Cresila, e cosi di mano in mano secondo questo ordine l’altre ebbero la propria loda. E questo giudizio fu riputato verissimo, e a questo poi stette ciascuno avendole per tali. Fidia, oltre a quel Giove d’avorio che noi dicemo, la quale opera fu di tanta eccessiva bellezza che niuno si trovò che con ella ardisse di gareggiare, e oltre a una Minerva pur d’avorio che si guardava in Athene nel tempio di quella dea, e oltre a quella Amazone, fece anco di bronzo una Minerva di bellissima forma la quale dalla bellezza fu la Bella chiamata, e un’altra ancora, la quale da Paolo Emilio fu al tempio della Fortuna consacrata, e due altre figure Greche con il mantello, le quali Q. Catulo pose nel medesimo tempio. Fece di piu una figura di statura di colosso et egli medesimo cominciò e mostrò come si dice a lavorare con lo scarpello di basso rilevo. Venne dopo Fidia Policleto da Sicione, della cui mano fu quel morbido e delicato giovane di bronzo con la benda intorno al capo, e che da quella ha il nome, il quale fu stimato e comperato cento talenti; e del medesimo anco fu quel giovinetto fiero e di corpo robusto, il quale dalla asta che ei teneva in mano, come suona la greca favella, fu Doriforo nominato. Fece ancor egli quella nobil figura la quale fu chiamata il Regolo della arte, dalla quale gli artefici, come da legge giustissima<,> solevano prendere le misure delle membra e delle fattezze che essi intendevano di fare, estimando quella in tutte le parti sue perfettissima. Fece ancora uno che si stropicciava, e uno ignudo che andava sopra un piè solo, e duoi fanciulletti nudi che giocavano a’ dadi i quali da questo ebbero il nome, i quali poi lungo tempo si viddero a Roma [p. lxxxi modifica]nel palazzo di Tito Imperadore, della quale opera non si vide mai la piu compiuta. Fece medesimamente un Mercurio che si mostrava in Lisimachia, e uno Ercole che era in Roma con Anteo insieme, il quale egli in aria sostenendolo e strignendolo uccideva. E oltre a queste molte altre, le quali come opere di ottimo maestro furono per tutto estimate perfettissime, onde si tiene per fermo che egli desse ultimo compimento a questa arte. Fu proprio di questo nobile artefice temperare e con tale arte sospendere le sue figure che elle sopra un piè solo tutte si reggessero, o almeno che paresse. Quasi alla medesima età fu anco celebrato infinitamente Mirone per quella bella giovenca che egli formò di bronzo, la quale fu in versi lodati molto commendata. Fece anco un cane di maravigliosa bellezza, e uno giovane che scagliava in aria il disco, e un Satiro il quale pareva che stupisse al suono della Sampogna, e una Minerva, e alcuni vincitori de’ giuochi delfici i quali<,> per aver vinto a due o a tutti<,> Pentatli o Pancratisti si solevano chiamare. Fece anco quel bello Ercole che era in Roma dal Circo Massimo in casa Pompeo Magno. Fece i sepolchri del Cicala e del Grillo come ne<’> suoi versi lasciò scritto Erina poetessa. Fece quello Apollo il quale<,> avendolo involato Antonio triunviro a quelli di Efeso<,> fu loro da Agusto renduto essendoli cio in sogno stato ricordato. Fu tenuto che costui<,> per la varietà delle maniere delle figure e per il maggior numero che egli ne fece e per le proporzioni di tutte le sue opere<,> <fusse> piu diligente e piu accorto di quei di prima, ma par bene che nel fare i corpi ponesse maggiore studio che nel ritrarre l’animo e nel dare spirito alle figure, e che ne<’> capegli e nelle barbe non fusse piu lodato che si fusse stata l’antica rozezza degli altri. Fu vinto da Pitagora italiano da Reggio in una figura fatta da lui e posta nel tempio di Apollo a Delfo, la quale rassembrava uno di quei campioni che alla lotta e alle pugna insiememente combattevano e che si chiamavano Panchratisti. Vinselo anche Leontio, il quale a Delfo a concorrenza pose alcune figure di giucatori olimpici. Iolpo similmente il vinse in una bella figura d’un fanciullo che teneva un libro e d’un altro che portava frutte, le quali figure ad Olimpia poi si vedevano dove le piu nobili e le piu raguardevoli di tutta la Grecia si consacravano. Di questo medesimo artefice era a Siracusa un zoppo, il quale dolendosi nello andare pareva che a chi il mirava parimente porgesse dolore. Fece ancora uno Apollo il quale con l’arco uccideva il serpente. Questi il primo<,> molto piu artificiosamente e con maggior sottigliezza<,> ritrasse ne<’> corpi le vene e i nervi e i capegli, e ne fu molto commendato. Fu un altro Pitagora da Samo il quale primieramente si esercitò nella pittura e poi si diede a ritrarre nel bronzo, e di volto e di statura si dice che era molto simigliante a quel detto poco fa, che fu da Reggio, e nipote di sorella e parimente discepolo; di mano di cui a Roma si viddero alcune imagini di Fortuna nel tempio della istessa Iddea molto belle, mezze ignude e per cio commendate e molto volentieri vedute. Dopo costoro fiorì Lysippo, il quale lavorò un gran numero di figure e piu molto che alcuno altro; il che si confermò alla morte sua, percioche del pregio di ciascuna soleva serbarsi una moneta d’oro e quella in sicuro luogo tener guardata, e si dice che gli eredi suoi ne trovarono [p. lxxxii modifica]secento dieci e a tal numero si tiene che arrivassero le figure da lui fatte e lavorate, la qual cosa a pena par che si possa credere; ma nel vero che egli in questo ogn’altro artefice vincesse non si può dubitare, e fra le opere lodate di lui sommamente piacque quella figura la quale pose Agrippa allo entrare delle sue stufe, della quale invaghì cotanto Tiberio Imperadore, che benche in molte cose solesse vincere il suo appetito e massimamente nel principio del suo Imperio, in questo nondimeno non si potette tenere che mettendovene un’altra simile non facesse quella quindi levare e in camera sua portarla, la quale fu con tanta instanza da tutto il popolo Romano nel Teatro e con tanti gridi richiesta, e che ella quivi si riponesse donde ella era stata levata, che Tiberio<,> benche molto l’avesse cara<,> ne volle fare il popolo Romano contento ritornandola al suo luogo. Era questa imagine d’uno che si stropicciava, figura che troppo bene conveniva al luogo dove Agrippa l’aveva destinata. Fu molto celebrato questo artefice in una figura d’una femmina cantatrice ebbra, e in alcuni cani e cacciatori maravigliosamente ritratti, ma molto piu per un carro del Sole con quattro cavagli che egli fece a richiesta de<’> Rodiani. Ritrasse questo nobile artefice Alessandro Magno in molte maniere<,> cominciandosi da pueritia e d’età in età seguitando; una delle quali statue piacendo oltre a modo a Nerone la fece tutta coprire d’oro, la quale poi essendone stata spogliata fu tenuta molto piu cara vedendovisi entro le ferite e le fessure dove era stato l’oro commesso. Ritrasse il medesimo anche Efestione<,> molto intrinseco d’Alessandro, la qual figura alcuni crederono che fusse di mano di Policleto, ma s’ingannarono, percioche Policleto fu forse cento anni inanzi ad Alessandro. Il medesimo fece quella caccia di Alessandro la quale poi fu consacrata a Delfo nel tempio di Apollo; fece inoltre in Atene una schiera di Satiri. Ritrasse con arte meravigliosa rassembrandoli vivi Alessandro Magno e tutti li amici suoi, le quali figure Metello<,> poi che ebbe vinta la Macedonia<,> fece traportare a Roma. Fece ancora carri con quattro cavagli in molte maniere e si tiene per certo che egli arrecasse a questa arte molta perfettione, e nei capegli<,> i quali ritrasse molto meglio che non avevano fatto i piu antichi, e nelle teste, le quali egli fece molto minori di loro. Fece anco i corpi piu assettati e piu sottili di maniera che la grandezza nelle statue n’appariva piu lunga, nelle quali egli osservò sempre maravigliosa proportione partendosi dalla grossezza degli antichi, e soleva dire che innanzi a lui i maestri di cotale arte avevano fatto le figure secondo che elle erano, et egli secondo che le parevano. Fu proprio di questo artefice in tutte quante le opere sue osservare ogni sottigliezza con grandissima diligenza e gratia. Rimasero di lui alcuni figliuoli chiari in questa arte medesima, e sopra li altri Euticrate, al quale piu piacque la fermezza del padre che la leggiadria, e s’ingegnò piu di piacere nel grave e nel severo che nel dolce e nel piacevole dilettare, dove il padre massimamente fu celebrato; di costui fu in gran nome l’Ercole che era a Delfo, e Alessandro cacciatore, e la battaglia de<’> Tespiensi, e un ritratto di Trofonio al suo oracolo. Ebbe per discepolo Tisicrate<,> anch’esso da Sicione, e s<’>aprese molto alla maniera di Lysippo, talmente che alcune figure apena si [p. lxxxiii modifica]riconoscevano se le erano dell’uno o dell’altro maestro, come fu un vecchio Tebano, Demetrio Re, Peuceste quello che campò in battaglia e difese Alessandro Magno, e furono questi cotali cotanto stimati e in tanto pregio tenuti che chi ha scritto di cotali cose gli loda eccessivamente; come anco un Telefane Foceo, il quale per altro non fu apena conosciuto, percioche in Tessaglia, là dove egli era quasi sempre vivuto<,> l’opere sue erano state sepolte; nondimeno per giudizio di alcuni scrittori fu posto a paro di Policleto e di Mirone e di Pitagora. È molto lodata di lui una Larissa, uno Apollo e un Campione vincitore a tutti i cinque giuochi; alcuni dissero che egli non è stato in bocca de<’> Greci pero che egli si diede a lavorare in tutto per Dario e per Xerse Re Barbari, e che nei loro regni finì la vita. Prassitele ancora avvenga che nel lavorare in marmo, come poco poi diremo, fusse tenuto maggior maestro e per cio vi abbi avuto drento gran nome, nondimeno lavorò anche in bronzo molto eccessivamente, come ne fece fede la rapina di Proserpina fatta da lui, e l’Ebrietà, e uno Bacco e un Satiro insieme di si maravigliosa bellezza che si chiamò il Celebrato. E alcune altre figure, le quali erano a Roma nel tempio della Felicità, e una bella Venere, la quale al tempo di Claudio Imperadore ardendo il tempio si guastò, la quale era a nulla altra seconda. Fece molte altre figure lodate, e Armodio e Aristogitone che in Atene uccisero il tiranno, le quali figure avendosele Xerse di Grecia portate nel regno suo, Alessandro<,> poi che ebbe vinto la Persia<,> le rimandò graziosamente agli Ateniesi, e inoltre uno Apollo giovinetto che con l’arco teso stava per trarre a una lucertola la quale li veniva incontro, e da quello atto ebbe nome la figura che si chiamò Lucertola uccidente. Vidonsi di lui parimente due bellissime figure l’una rassembrante una onesta mogliera che piangeva, e l’altra una femmina di mondo che rideva, e si crede che questa fusse quella Phrine famosissima meretrice, e nel volto di quella onesta donna pareva l’amore che ella portava al marito e in quello della dishonesta femmina l’ingordo prezzo che ella chiedeva agli amanti. Pare che anco fusse ritratta la cortesia di questo artefice in quel carro de<’> quattro cavagli che fece Calamide cotanto celebrato, percioche questo artefice in formar cavagli non trovò mai pare, ma nel fare le figure umane non fu tanto felice, egli adunque a l’opera di Calamide, la quale era imperfetta<,> diede il compimento aggiugnendovi il guidator de<’> cavagli di arte maravigliosa. Fu anco molto chiaro in questa arte uno Ificle il quale<,> oltre ad altre figure<,> fece a nome degli Ateniesi una bella Liona con questa occasione. Era in Atene una femmina chiamata Liona molto familiare di Aristogitone e di Armodio per conto di amore, i quali in Atene uccidendo il tiranno vollono tornare il popolo nella sua libertà. Costei<,> essendo consapevole della congiura fu presa, e con crudelissimi tormenti insino a morte lacerata non confessò mai cosa alcuna di cotal congiura, laonde volendo poi li Atheniesi pur fare onore a questa femmina, per non far cio a una meretrice<,> imposono a questo artefice che ritraesse una Liona e accioche in questa figura si riconoscesse il fatto e il valor di lei vollono che esso la facesse senza lingua. Briaxi fece uno Apolline, uno Seleuco Re, e un Batto che adorava, e una Iunone, i [p. lxxxiv modifica]quali si videro a Roma nel tempio della Concordia. Cresila ritrasse uno ferito a morte nella qual figura si conosceva quanto ancora restasse di vita, e quel Pericle Atheniese il quale per sopranome fu chiamato il Celeste. Cefisodoro fece nel porto degli Atheniesi una Minerva maravigliosa, e uno altare nel tempio di Giove nel medesimo porto. Canacho fece uno Apollo che si chiamò Filesio, e un Cervio con tanta arte sopra i piedi sospeso che sotto<,> or da una or da un’altra parte, si poteva tirare un sottilissimo filo; fece medesimamente alcuni fanciulli a cavallo come se al palio a tutta briglia corressero. Uno Cherea ritrasse Alessandro Magno e Filippo suo padre, e Cresila uno armato di asta e una amazone ferita. Un Demetrio ritrasse Lisimacha la quale era stata sacerdotessa di Minerva ben 64 anni, e una Minerva che si chiamò Musica però che i Draghi<,> i quali erano ritratti nello scudo di quella Dea<,> erano talmente fatti che quando erano percossi al suono della cetera rispondeano; il medesimo un Sarmone a cavallo, il quale aveva scritto dell’arte del cavalcare. Un Dedalo fra questi fu molto celebrato il quale fece duoi fanciulletti i quali l’un l’altro nel bagno stropicciavano. Di Eufranore fu un Paride, il quale fu molto lodato, che in un subietto medesimo si riconosceva il giudice delle Dee, l’amante di Elena e l’ucciditore d’Achille; del medesimo era a Roma una Minerva<,> di sotto al Campidoglio<,> che si chiamava Catuleiana pero che ve la aveva consagrata Luttatio Catulo, e una figura della Buona ventura, la quale con l’una delle mani teneva una tazza, e con l’altra spighe di grano e di papaveri; il medesimo fece una Latona che di poco pareva che fusse uscita di parto, e si vedeva a Roma nel tempio della Concordia, la quale teneva in braccio i suoi figliolini Apollo e Diana; fece inoltre due figure in forma di colosso<,> l’una era la Virtute e l’altra Clito<,> di maravigliosa bellezza, e inoltre una donna che adorava e al sacrificio ministrava, e Filippo e Alessandro sopra carri di cavagli in guisa di trionfanti. Buthieo discepolo di Mirone fece un fanciullo che soffiava nel fuoco si bello che sarebbe stato degno del maestro, e gli Argonauti, e una Aquila, la quale avendo rapito Ganimede nel portava in aria si destramente che ella con gli artigli non gli noceva in parte alcuna; ritrasse anco Autolico<,> quel bel giovane vincitore alla lotta, a nome di cui Zenofonte scrisse il libro del suo Simposio, e quel Giove tonante che fra le statue di Campidoglio fu tenuto maraviglioso; uno Apollo medesimamente con la diadema. <I’ò> trapassato qui molti de<’> quali<,> essendosi perdute l’opere<,> i nomi apena si ritruovano, pure ne aggiugneremo alcuni degli infiniti, fra i quali fu uno Nicerato di cui mano a Roma nel tempio della Concordia si vedeva Esculapio e Igia sua figliuola, di Phiromaco una quadriga la quale era guidata da Alcibiade ritratto. Policle fece uno Ermafrodito di singolar bellezza e leggiadria. Stipace da Cipri fece un ministro di Pericle il quale sopra lo altare accendeva il fuoco per arrostirne il sagrificio. Sillanione ritrasse uno Apollodoro anch’egli della arte, ma cosi fastidioso e cosi apunto che non si contentando mai di sua arte (e v’era pur drento eccellente) bene spesso rompeva e guastava le figure sue belle e finite, onde trasse il sopranome che si chiamò Apollodoro il bizzarro, e lo ritrasse tanto [p. lxxxv modifica]bene che tu aresti detto che non fusse imagine di uomo, ma la bizzarria ritratta al naturale. Fece anco uno Achille molto celebrato, e un maestro di esercitare i giovani alla lotta e altri giuochi anticamente cotanto celebrati e aggraditi, fece medesimamente una Amazone la quale dalla bellezza delle gambe fu detta la Belle gambe, e per questa sua eccellentia Nerone dovunche egli andava se la faceva portar dietro. Costui medesimo fece di sottil lavoro un fanciulletto molto poi tenuto caro da quel Bruto il quale morì nella battaglia di Tessaglia, e ne acquistò nome che poi sempre si chiamò l’amore di Bruto. Teodoro<,> quegli che a Samo fece un laberinto, ritrasse anco se medesimo di bronzo<,> figura a cui non mancava altro che il somigliare, nel resto per ogni tempo celebratissima e di finissimo lavoro, la quale nella man destra teneva una lima e con tre dita della sinistra reggeva un carro con quattro cavagli<,> di opera si minuta che una mosca sola<,> similmente di bronzo<,> con l’ale sue copriva il carro<,> la guida e i cavagli, e questa statua si vide lungo tempo a Preneste. Fu ancora eccellente in questa arte uno Xenocrate discepolo chi dice di Tisicrate e chi di Eutichrate, il quale vinse l’uno di eccellenza di arte e l’altro di numero di figure, e della arte sua scrisse volumi. Molti furono ancora che in tavole di bronzo di rilevo scolpirono le battaglie di Eumene e di Attalo<,> Re di Pergamo<,> contro a<’> Franciosi, i quali passarono in Asia; tra costoro furono Firomaco, Stratonico e Antigono, il quale scrisse anco della arte sua. Boeto<,> benche fusse maggior maestro nel lavoro di scarpello in argento<,> nondimeno di sua arte si vide di bronzo un fanciullo che strangolava una ocha. E la maggiore e la miglior parte di cotali opere furono a Roma da Vespasiano Imperadore consagrate al tempio della Pace, e molto maggior numero dalla forza di Nerone tolte di molti luoghi, dove elle erano tenute care, e in quel suo gran palazzo che egli si fabricò in Roma portate e in varij luoghi per ornamento di quello disposte. Furono oltre ai molti raccontati di sopra altri infiniti, i quali ebbero qualche nome in questa arte, li quali raccontare al presente credo che sarebbe opera perduta<,> bastando al nostro proponimento aver fatto memoria di coloro che ebbero nell’arte maggior pregio. Furono oltre a questi alcuni altri chiari per ritrarre con iscarpello in rame<,> argento e oro calici e altro vasellamento da sacrificij e da credenze<,> come un Lesbocle, un Prodoro, un Pitodico e Polignoto, che furono anco pittori molto chiari, e Stratonico Scinno, il quale dissono che fu discepolo di Critia. Fu questa arte di far di bronzo anticamente molto in uso in Italia, e lo mostrava quello Ercole il quale dicono essere stato da Evandro consagrato a Roma nella piazza del Mercato de<’> Buoi. Il quale si chiamava l’Er<cole> trionfale pero che quando alcuno Cittadino Romano entrava in Roma trionfando<,> si adornava anco l’Ercole di abito trionfale. Medesimamente lo dimostrava quel IANO che fu consagrato da Numa Pompilio<,> il tempio del quale, o aperto o chiuso<,> dava segno di guerra o di pace. Le dita del quale erano talmente figurate che elle significavano trecento sessanta cinque, [p. lxxxvi modifica]mostrando che era Dio dello anno e della età; mostravalo ancora molte altre statue pur di bronzo di maniera Toscana sparse per tutta quanta l’Italia. E pare che sia cosa degna di maraviglia, che essendo questa arte tanto antica in Italia i Romani di quel tempo amassero piu li Iddei, che essi adoravano<,> ritratti di terra, o di legno intagliati, che di bronzo avendone l’arte; percioche insino al tempo nel quale fu da<’> Romani vinta l’Asia<,> cotali imagini di Dei ancora si adoravano, ma poi quella semplicità e povertà Romana, cosi nelle publiche come nelle private cose<,> divenne ricca e pomposa e si mutò in tutto il costume e fu cosa da non lo creder’agevolmente in quanto poco di tempo ella crebbe, che al tempo che M. Scauro fu Edile e che egli fece per le feste publiche lo apparato della piazza<,> che era ufizio di quel magistrato<,> si videro<,> in uno teatro solo fatto per quella festa e in una scena<,> tremila statue di bronzo provedutevi e accattatevi come allora era usanza di fare di piu luoghi. Mummio<,> quel che vinse la Grecia<,> ne empiè Roma, molte ve ne portò Lucullo e in poco tempo ne fu spogliata l’Asia e la Grecia in gran parte; e con tutto cio fu chi lasciò scritto che a Rodi in questo tempo n’erano ancora tre migliaia, ne minor numero in Atene<,> ne minore ad Olimpia e molto maggiore a Delfo, delle quali le piu nobili e li maestri d’esse noi di sopra abbiamo in qualche parte raccontato. Ne solo le imagini degli Dei e le figure degli uomini rassembrarono, ma ancora d’altri animali, in fra i quali nel Campidoglio<,> nel tempio piu secreto di Giunone<,> si vedeva un cane ferito che si leccava la piaga<,> di si eccessiva simiglianza che apena pare che si possa credere; la bellezza della qual figura quanto i Romani stimassero si può giudicare dal luogo dove essi la guardavano, e molto piu che coloro ai quali si aspettava la guardia del tempio con cio che drento vi era, non si stimando somma alcuna di denari pari alla perdita di quella figura se ella fusse stata involata<,> la devevano guardare a pena della testa. Ne bastò alli nobili artefici imitare e rassembrare le cose secondo che elle sono da natura, ma fecero ancora statue altissime e bellissime molto sopra il naturale, come fu l’Apollo in Campidoglio alto trenta braccia, la qual figura Lucullo fece portare a Roma delle terre d’oltre il Mar Maggiore, e qual fu quella di Giove nel Campo Martio, la quale Claudio Agusto vi consagrò, che dalla vicinanza del teatro di Pompeo fu chiamato il Giove pompeiano, e quale ne fu anco una in Taranto fattavi da Lysippo alta ben trenta braccia, la quale con la grandezza sua da Fabio Massimo si difese allora, quando la seconda volta prese quella città, non si potendo quindi se non con gran fatica levare, che come ne portò l’Ercole che era in Campidoglio, cosi anco ne arebbe seco quella a Roma portata. Ma tutte l’altre maraviglie di cosi fatte cose avanzò di gran lunga quel colosso che a<’> Rodiani in onor del Sole, <in cui guardia era quella isola>, fece Carete da Lindo discepolo di Lisippo, il quale dicono che era alto 70 braccia, la qual mole dopo 56 anni che ella era stata piantata, fu da un grandissimo tremuoto abattuta e in terra distesa e tutta rotta, la quale si mirava poi con infinito stupore de<’> riguardanti, che il dito maggiore del piede apena che un ben giusto uomo avesse potuto abracciare, e le altre dita a proportione della figura fatte<,> erano maggiori che le statue comunali. [p. lxxxvii modifica]Vedevansi per le membra vote caverne grandissime e sassi entrovi di smisurato peso con li quali quello artefice aveva opera cosi grande contrapesata e ferma; dicesi che ben 12 anni faticò intorno a questa opera e che 300 talenti entro vi si spesero, i quali si trassero dello apparecchio dello oste che vi aveva lasciato Demetrio Re quando lungo tempo vi tenne l’assedio; ne solo questa figura si grande era in Rodi, ma cento ancora<,> maggiori delle comunali<,> di maravigliosa bellezza, di ciascuna delle quali ogni città e luogo si sarebbe potuto onorare e abellire. Ne fu solamente proprio de’ Greci il far colossi, ma se ne vide alcuno anco in Italia, come fu quello che si vedeva nel Monte Palatino alla libreria di Agusto<,> d’opera e di maniera toscana<,> dal capo al piè di cinquanta cubiti, maraviglioso non si sa se piu per l’opere o per la temperatura e lega del metallo, che l’una cosa e l’altra aveva molto rara. Spurio Carvilio fece fare anco anticamente un Giove delle celate e pettorali e stinieri e altre armadure di rame di Sanniti, quando combattendo con essi scongiuratisi a morte li vinse, e lo consagrò al Campidoglio; la qual figura era tanto alta che di molti luoghi di Roma si poteva vedere; e si dice che della limatura di questa statua fece anco ritrarre l’imagine sua la quale era posta a piè di quella grande. Davano anco nel medesimo Campidoglio maraviglia due teste grandissime, l’una fatta da quel Carete medesimo di cui sopra dicemo e l’altra da un Decio a pruova, nella quale Decio rimase tanto da meno<,> che l’opera sua posta al paragone di quell’altra pareva opera di artefice meno che ragionevole. Ma di tutte cotali statue fu molto maggiore una che al tempo di Nerone fece in Francia <Zenodoro>, la quale era alta 400 piedi in forma di Mercurio<,> intorno alla quale egli aveva faticato dieci anni; ma pero che egli era per questo in gran nome mandò a chiamarlo a Roma Nerone e per lui si mise a fare una imagine in forma di colosso 120 piedi alta, la quale morto Nerone fu dedicata al Sole, non consentendo i Romani che di lui per le sue sceleratezze rimanesse memoria tanto onorata; nel qual tempo si conobbe che l’arte del ben legare e ben temperare il metallo era perduta, essendo disposto Nerone a non perdonare a somma alcuna di denari pur che quella statua avesse d’ogni parte la sua perfettione, nella quale quanto fu maggiore il magistero tanto piu<,> a rispetto degli antichi<,> vi parve il difetto nel metallo. Ora lo avere de gli infiniti che ritrassero in bronzo i piu nobili insino a qui raccontato vogliamo che al presente ci baste; passeremo a quelli i quali in marmo scolpirono e di questi anche sceglieremo le cime, secondo che noi abbiamo trovato scritto nelle memorie degli antichi<,> seguendo l’ordine incominciato. Dicesi adunque che i primi maestri di questa arte di cui ci sia memoria furono Dipeno e Scilo, i quali nacquero nella isola di Creti al tempo che i Persi regnarono, che secondo il conto degli anni de<’> Greci viene a essere intorno alla Olimpiade cinquantesima cioè dopo alla fondatione di Roma anni 137. Costoro se ne andarono in Sicione, la quale fu gran tempo madre e nutrice di tutte quante queste arti nobili e dove esse piu che altrove si esercitarono; e percioche essi erano tenuti buon maestri fu dato loro<,> dal Comune di quella città<,> a fare di marmo alcune figure de i loro Dei, ma innanzi che essi le [p. lxxxviii modifica]avessero compiute<,> per ingiurie che loro pareva ricevere da quel Comune quindi si partirono; onde a quella città sopravenne una gran fame e una gran carestia; laonde domandando quel popolo agli Dei misericordia fu loro dallo oracolo d’Apollo risposto che la troverrebbero ogni volta che quegli artefici fussero fatti tornare a finire le incominciate figure, la qual cosa i Sicionij con molto spendio e preghiere finalmente ottennero, e furono queste imagini Apollo, Diana, Ercole, e Minerva. Non molto dopo costoro<,> in Chio Isola dello Arcipelago furono medesimamente altri nobili artefici di ritrarre in marmo, uno chiamato Mala e un suo figliuolo Micciade e un nipote Antermo, i quali <fiorirono> al tempo di Ipponatte Poeta, che si sa chiaro essere stato nella Olimpiade sessantesima, e se si andasse cercando l’avolo e’l bisavolo di costoro si troverrebbe certo questa arte avere avuto origine con le Olimpiade <stesse. Fu> quello Ipponatte poeta<,> molto brutto uomo e molto contrafatto nel viso, onde questi artefici per beffarlo con l’arte loro lo ritrassero, e per far ridere il popolo lo misero in publico, di che egli sdegnandosi<,> che stizzosissimo era<,> con i suoi versi, i quali erano molto velenosi<,> gli trafisse nel vivo e in maniera gli abominò che si disse che alcuni di loro per dolore della ricevuta ingiuria se stessi impiccarono, il che non fu vero percioche poi per l’Isole vicine fecero molte figure e in Delo massimamente, sotto le quali scolpirono versi che dicevano che Delo fra l’Isole della Grecia era in buon nome non solo per la eccellenza del vino, ma ancora per le opere dei figliuoli di Antermo scultori. Mostravano i Lasij una Diana fatta di mano di costoro e in Chio Isola si diceva esserne un’altra posta in luogo molto rilevato di un tempio; la faccia della quale a coloro che entravano nel tempio pareva severa e adirata, e a coloro a che ne uscivano placata e piacevole. A Roma erano di mano di questi artefici nel tempio di Apollo Palatino alcune figure postevi e consagratevi da Agusto in luogo piu alto e piu raguardevole. Vedevonsene ancora in Delo molte altre, e in Lebedo, e delle opere del padre loro Ambracia, Argo e Cleone città nobili furono molto adorne. Lavorarono solamente in marmo bianco che si cavava nelle Isole di Paro, il quale<,> come anco scrisse Varrone<,> pero che delle cave a lume di lucerna si traheva fu chiamato marmo di lucerna, ma furono poi trovati altri marmi molto piu bianchi, ma forse non cosi fini<,> come è anco quel di Carrara. Avenne in quelle cave<,> come si dice<,> cosa che apena par da credere, che fendendosi con essi i conij un masso di questo marmo si scoperse nel mezzo una imagine d’una testa di Sileno; come ella vi fusse entro non si sa cosi bene e si crede che cio a caso avenisse. Dicono che quel Fidia di cui di sopra abbiamo detto<,> che si bene aveva lavorato in metallo e fatto d’avorio alcune nobilissime statue, fu anco buon maestro di ritrarre in marmo e che di sua mano fu quella bella Venere che si vedeva a Roma nella loggia di Ottavia, e che egli fu maestro di <Alcamene> Atheniese in questa arte molto pregiato, delle opere di cui molte gli Atheniesi ne<’> loro tempi consacrarono e fra le altre quella bellissima Venere la quale<,> per essere stata posta fuor delle mura<,> fu chiamata la Fuor di città; alla quale si diceva che Fidia aveva dato la perfettione e come è in proverbio avervi posto l’ultima mano. Fu discepolo del [p. lxxxix modifica]medesimo Fidia anco Agoracrito da Paro<,> a lui per il fiore della età molto caro, onde molti credettero che Fidia a questo giovane donasse molte delle sue opere; lavorarono questi duoi discepoli di Fidia a pruova ciascuno una Venere e fu giudicato vincitore l’Atheniese non gia per la bellezza della opera, ma percioche i Cittadini Atheniesi che ne devevano esser giudici piu favorarono l’artefice lor cittadino che il forestiero; di che sdegnato Agoracrito vendè quella sua figura con patto che mai la non si dovesse portare in Athene, e la chiamò lo Sdegno; la quale fu poi posta pur nella terra Attica in un Borgo che si chiamava Rannunte, la qual figura Marco Varrone usava dire che gli pareva che di bellezza avanzasse ogn’altra. Erano ancora di mano di questo medesimo Agoracrito nel tempio della madre degli Dei pure in Athene alcune altre opere molto eccellenti. Ma che quel Fidia maestro di questi due fusse di tutti gli artefici cotali eccellentissimo niuno fu<,> che io creda<,> che ne dubitasse gia mai, ne solo per quelle nobilissime figure grandi di Giove d’avorio ne per quella Minerva d’Athene pur d’avorio e d’oro di 26 cubiti d’altezza, ma non meno per le picciole e per le minime, delle quali in quella Minerva n’era un numero infinito, le quali non si debbono lasciare che le non si contino. Dicono adunche, che nello scudo della Dea e nella parte che rileva era scolpita la battaglia che gia anticamente fecero gli Atheniesi con le Amazone, e nel cavo di drento i giganti che combattevano con li Dei, e nelle pianelle il conflitto de<’> Centauri, e de<’> Lapithi, e cio con tanta maestria e sottigliezza che non vi rimaneva parte alcuna che non fusse maravigliosamente lavorata. Nella base erano ritratti i xii Dei che pareva che conoscessero la vittoria, di bellezza eccessiva; similmente faceva maraviglia il drago ritratto nello scudo, e sotto l’asta una sfinge di bronzo. Abbiamo voluto agiugnere anco questo di quel nobile artefice non mai a bastanza lodato, accio si sappi l’eccellenza di lui<,> non solo nelle grandi opere, ma nelle minori ancora e nelle minime e in ogni sorta di rilevo essere stata singolare. Fu di poi Prassitele il quale nelle figure di marmo<,> come che egli fusse anco eccellente nel metallo, fu maggiore di se stesso. Molte delle sue opere in Athene si vedevano nel Ceramico, ma fra le molte eccellenti e non solo di Prassitele, ma di qualunche altro maestro singolare in tutto il mondo, <è> piu chiara e piu famosa quella Venere la qual sol per vedere, e non per altra cagione alcuna<,> molti di lontano paese navigavano a Gnido. Fece questo artefice due figure di Venere, l’una ignuda e l’altra vestita, e le vendè un medesimo pregio; la ignuda comperarono quei di Gnido, la quale fu tenuta di gran lunga migliore e la quale Nicomede Re volle da loro comperare offerendo di pagare tutto il debito che aveva il lor Comune, che era grandissimo; i quali elessero innanzi di privarsi d’ogni altra sustanza e rimaner mendichi<,> che di spogliarsi di cosi bello ornamento: e fecero saviamente, percioche quanto aveva di buono quel luogo che per altro non era in pregio lo aveva da questa bella statua. La cappelletta dove ella si teneva chiusa si apriva d’ogn’intorno talmente che la bellezza della Dea, la quale non aveva parte alcuna che non movesse a maraviglia<,> si poteva per tutto vedere. Dicesi che fu chi innamorandosene si nascose nel tempio e che l’abbracciò, e che [p. xc modifica]del fatto ne rimase la macchia, la quale poi lungo spazio si parve. Erano in Gnido parimente alcune altre imagini pur di marmo d’altri nobili artefici come un Bacco di Briaxi, e un altro di Scopa, e una Minerva, le quali agiugnevano infinita lode a quella bella Venere percioche queste altre<,> avvenga che di buoni maestri<,> non erano in quel luogo tenute di pregio alcuno. Fu del medesimo artefice quel bel Cupido il quale Tullio rimproverò a Verre nelle sue accusationi, e quell’altro per il quale era solamente tenuta chiara la città di Tespia in Grecia, il quale fu poi a Roma grande ornamento della scuola di Ottavia; di mano del medesimo si vedeva un altro Cupido in Pario<,> Colonia della Propontide, al quale fu fatto la medesima ingiuria che a quella Venere da Gnido: percioche uno Alchida Rodiano se ne innamorò e dello amore vi lasciò il segnale. A Roma erano molte delle opere di questo Prassitele: una Flora<,> uno Triptolemo e una Cerere nel giardino di Servilio, e nel Campidoglio una figura della Buona ventura e alcune Baccanti, e al sepolcro di Pollione uno Sileno, uno Apollo e Nettunno; rimase di lui un figliuolo chiamato <Cefisodoto> erede del patrimonio e dell’arte insieme, del quale è lodata a maraviglia a Pergamo di Asia una figura le dita della quale parevano piu veracemente a carne che a marmo impresse; di costui mano erano anco in Roma una Latona al tempio d’Apollo Palatino, una Venere al sepolcro di Asinio Pollione e drento alla loggia di Ottavia al tempio di Giunone uno Esculapio e una Diana. Scopa ancora al medesimo tempo fu di chiarissimo nome e con i detti di sopra contese del primo onore; fece egli una Venere e un Cupido e un Phetonte, i quali con gran divozione e cirimonie erano a Samotracia adorati, e lo Apollo detto il Palatino dal luogo dove egli fu consacrato, e una Vesta che sedeva nel giardino di Servilio e due ministre della Dea apressoli, alle quali due altre simiglianti pur del medesimo maestro si vedevano fra le cose di Pollione, di cui ancora erano molto tenute in pregio nel tempio di Gneo Domitio nel Circo Flamminio un Nettunno, una Tetide con Achille e le sue ninfe a sedere sopra i Delfini, e altri mostri marini e Tritoni e Phorco e un coro d’altre Ninfe tutte opere di sua mano, le quali sole quando non avesse mai fatto altro in sua vita sarieno bastate ad onorarlo. Fuor di queste molte altre se ne vedevano in Roma, le quali si sapeva certo che erano opere di questo artefice e cio era un Marte a sedere, un colosso del medesimo al tempio di Bruto Callaico dal circo, che si vedeva da chi andava inverso la porta Labicana, e nel medesimo luogo una Venere tutta ignuda che si tiene che avanzi di bellezza quella famosa da Gnido di Prassitele. Ma in Roma<,> per il numero grande che da ogni parte ve n’era stato portato a pena che le si riconoscessero, che oltre alle narrate ve ne aveva molte altre bellissime, i nomi degli artefici che le avevano fatte s’erano in tutto perduti, si come advenne di quella Venere che Vespasiano Imperadore consagrò al tempio della Pace, la quale per la sua bellezza era degna d’essere di qualunche de<’> piu nominati artefici opera. Il simigliante advenne nel tempio di Apollo di una Niobe con i figliuoli, la quale dallo arco di Apollo era ferita e pareva che ne morisse, la quale non bene si sapeva se l’era opera di Prassitele o pure di Scopa. [p. xci modifica]Similmente mente si dubitava di uno Iano, il quale aveva condotto di Egitto Agusto, e nel suo tempio l’aveva consagrato. La medesima dubitanza rimaneva di quel Cupido che aveva in mano l’arme di Giove che si vedeva nella Curia di Ottavia, il quale si teneva per certo che fusse imagine<,> nella piu fiorita età<,> d’Alcibiade Atheniese, il quale fu di si rara bellezza che tutti gl’altri giovani della sua età trapassò. Parimente non si sa di cui fussero mano i quattro Satiri che erano nella scuola di Ottavia, de<’> quali uno mostrava a Venere Bacco bambino e un altro Libera pure bambina, il terzo voleva racchetarlo che piangeva, il quarto con una tazza gli porgeva da bere<,> le due Ninfe, le quali con un velo pareva che lo volessero coprire. Nel medesimo dubbio si rimasero Olimpo, Pane, Chirone e Achille non se ne sapendo il maestro vero. Ebbe Scopa al suo tempo molti concorrenti<:> Briaxi, Timoteo e Leochare, de<’> quali insieme ci convien ragionare percioche insieme lavorarono di scarpello a quel famoso sepolcro di Mausolo Re di Caria, il quale fu tenuto una delle sette maraviglie del mondo<,> fattoli dopo la morte d’esso da Artemisia sua moglie, il quale si dice essere morto l’anno secondo della centesima Olimpiade cioè l’anno 329 dalla fondatione di Roma. La forma di questo sipolcro si dice essere stata cotale: dalla parte di Tramontana e di mezzogiorno si allargava per ciascuno lato piedi 63<,> da Levante e Ponente fu alquanto piu stretto, l’altezza sua era 25 cubiti e intorno intorno era retto da 16 colonne; la parte da Levante lavorò Scopa, quella da Tramontana Briaxi, a mezzodì Timoteo, da Occidente Leochare; e innanzi che l’opera fusse compiuta morì Artemisia e nondimeno quei maestri condussero il lavoro a fine, il quale da ogni parte fu bellissimo, ne si seppe cosi bene chi di loro fosse piu da essere commendato essendo stata l’opera di ciascuno perfettissima. A questi quattro si aggiunse un quinto maestro, il quale sopra il sepolcro fece una piramide di pari altezza di quello, e sopra vi pose un carro con quattro cavagli d’opera singularissima. Serbavasi in Roma di mano di quel Timoteo una Diana nel tempio di Apollo Palatino alla qual figura<,> che venne senza, rifece la testa Evandro Aulanio; fu ancora di gran maraviglia uno Ercole di Menestrato, e una Ecate nel tempio di Diana di Efeso<,> di marmo talmente rilucente, che i sacerdoti del tempio solevano avvertire chi vi entrava che non mirassero troppo fiso quella imagine però che dal troppo splendore la vista resterebbe abbagliata. Furono anco nello antiporto di Atene poste le tre Gratie, le quali non si deveno ad alcuna delle altre figure posporre. Le quali si dice che furono opera di un Socrate non quel pittore, ma un altro, benche alcuno voglia che sia il medesimo che il dipintore. Di quel Mirone ancora, il qual nel far di metallo fu cotanto celebrato<,> si vedeva a Smirna una vecchia ebbra di marmo<,> fra le altre buone figure molto celebrata. Asinio Pollione<,> come nelle altre cose fu molto sollecito e isquisito<,> cosi anco si ingegnò che le cose da lui fatte a lunga memoria fussero singolari e ragguardevoli, e le adornò di molte figure d’ottimi artefici ragunandole da ciascuna parte, le quali chi volesse ad una ad una raccontare arebbe troppo che scrivere, ma infra le molto lodate vi si vedevano alcuni Centauri, i quali via se ne portavano Ninfe, e le Muse, e Bacco, e Giove, e [p. xcii modifica]l’Oceano, e Zete e Amphione, e molte altre opere di eccellentissimi maestri; medesimamente nella loggia di Ottavia<,> sorella di Agusto, era uno Apollo di mano di <Filisco> Rodiano e una Latona e una Diana e le nove Muse e un altro Apollo ignudo, l’uno de<’> quali<,> quello che sonava la lira<,> si credeva essere opera di Timarchide. Dentro alla loggia di Ottavia nel tempio di Iunone era la Iunone stessa di mano di Dionisio e di Policle, un’altra Venere<,> che era nel medesimo luogo<,> di Philisco, l’altre figure che vi si vedevano erano opera di Prassitele, e molte altre nobili statue di ottimi maestri. Fu<,> per il luogo dove ella era posta<,> stimata molto bella opera un carro con quattro cavagli e Apollo e Diana sopravi<,> d’una pietra sola, i quali Augusto<,> in onore di Ottavio padre suo<,> aveva consagrato nel colle Palatino sopra l’arco in un tempio adorno di molte colonne, e questo si diceva essere stato lavoro di Lysia. Nel giardino di Servilio furono molto lodati uno Apollo di quel Calamide chiaro maestro, e un Callisthene, quel che scrisse la storia di Alessandro Magno<,> di mano di Amfistrato. Di molti altri<,> che si conosceva per l’opere che erano stati nobili maestri, è smarrito il nome per il gran numero delle opere e degli artefici<,> che infinite e infiniti furono, come anco mancò poco che non si perderono coloro si buoni maestri li quali formarono quel Laocoonte di marmo il quale fu a Roma nel palazzo di Tito Imperadore<,> opera da aguagliarla a qualsivoglia celebrata di pittura o di scoltura o d’altro, dove d’un medesimo marmo sono ritratti il padre e duoi figliuoli con duoi serpenti, i quali gli legono e in molti modi gli stringono come prima gli aveva dipinti Vergilio Poeta; i quali oggi in Roma si veggono anco saldi in Belvedere e il ritratto d’essi in Firenze nel cortile della casa de Medici, il qual lavoro insieme fecero Agesandro, Polidoro e Atenodoro Rodiani<,> degni per questo lavoro solo d’essere a paro degli altri celebrati lodati. Furono i palazzi degli Imperadori Romani di figure molto buone adornati di Cratero, Pitodoro, Polidette, Ermolao e d’un altro Pitodoro e d’Artemone molto buoni maestri. E il Panteo di Agrippa oggi chiamato la Ritonda, fornirono di molte belle figure Diogene Atheniese e Carsatide; sopra le colonne del qual tempio e in luogo molto alto nel frontespizio<,> fra le molte erano celebrate molte opere di costoro, ma per l’altezza dove elle furono poste la bontà e bellezza d’esse non si poteva cosi bene discernere. In questo tempio era uno Ercole al quale i Carthaginesi anticamente sacrificavano umane vittime; innanzi che si entrasse nel tempio si vedevano da buoni maestri scolpiti tutti quegli che furono della schiatta di Agrippa. Fu grandemente celebrato da Varrone uno Archesilao del quale lasciò scritto che aveva veduta una liona con alcuni Amori intorno i quali con essa scherzavano, de<’> quali alcuni la tenevano legata, altri con un corno li volevano dar bere e altri la calzavano e tutti di un marmo medesimo. Non si vuole lasciare indietro uno Sauro e uno Batraco artefici cosi chiamati, i quali fecero i templi compresi nella loggia di Ottavia, e furono di Grecia e Spartani e come si diceva molto ricchi, e vi spesero assai del loro con intenzione di mettervi il lor nome, il quale aviso venendo lor fallito con nuovo modo lo significarono scolpendo ne<’> capitegli delle colonne ranocchi e [p. xciii modifica]lucertole, che questo viene a dire Batraco e quel Sauro. Oltre a questi nominati di sopra furono alcuni che studiarono in fare nella arte cose piccolissime, infra i quali Mirmecide<,> uno scultore cosi chiamato<,> fece un carro con quattro cavagli e con la guida d’essi si piccioli che una mosca con l’ale gli arebbe potuto coprire; e Callicrate, da cui le gambe delle scolpite formiche, e l’altre membra a pena che si potessero vedere. Potrebbesi<,> oltre a questi detti<,> ancora aggiugnere molti altri i quali ebbero alcuno nome, ma pero che ci pare averne raccolti tanti che bastino<,> finiremo in questi, massimamente essendo stato nostro intendimento raccontare i piu onorati, e famosi e l’opere d’essi piu perfette. E questi, come di sopra de<’> pittori si disse, furono per lo piu Greci<,> che avenga che i Toscani a<’> tempi molto antichi fussero di qualche nome in queste arti e di loro maestria si vedessero molte statue<,> nondimeno a giudizio di ciascuno i Greci ne ebbero il vanto per la bontà e virtù delle loro figure e per il numero grande d’esse e degli artefici, i quali studiosamente si sforzarono non solamente per il premio che essi ne traevano che era grandissimo (contendendo infra di loro i Comuni, e le Città con molta ambizione di avere a presso di loro le piu belle e le migliori opere che tali arti potessero fare) ma molto piu per gloria di tal nome, per cagione della quale essi talmente faticarono che dopo una infinità di secoli e dopo molte rovine della Grecia ancora ne dura il nome, avenga che l’opere d’essi o sieno in tutto perdute o piu non si riconoschino. Percioche le pitture<,> come cosa fatta in materia la quale agevolmente o da se si corrompe o daltronde riceve ogni ingiuria<,> sono in tutto disfatte, e le statue di bronzo o da chi non conosce la bontà d’esse o da chi non le stima hanno mutato forma, e i marmi oltre ad essere per le rovine che avvengano<,> mutandosi per il girar del cielo ogni cosa<,> la maggior parte rotti e sepolti<,> sono anche<,> ad arbitrio di chi piu può<,> stati sovente qua e là traportati e i nomi degli artefici che erano in essi perdutisi e mutatisi, come advenne ad infiniti i quali la potenza Romana daltronde in lungo tempo portò a Roma; onde partendosi poi Gostantino Imperadore e traportando l’imperio in Grecia<,> molte delle piu belle statue seguendo l’imperio e lasciando Italia<,> in Grecia là donde elle erano venute se ne tornarono, e Gostantino stesso e li altri Imperadori poscia<,> delle Isole e delle cittadi della Grecia scelsero le migliori e<,> come si truova scritto<,> il seggio imperiale ne adornarono; dove poi al tempo di Zenone Imperadore per un grandissimo incendio, il quale disfece la piu bella e la miglior parte di Gostantinopoli<,> molte ne furono guaste, infra le quali fu quella bella Venere da Gnido di Prassitele di cui di sopra facemo menzione, e quel maraviglioso Giove olimpico fatto per mano di Fidia, e molte altre nobili di marmo e di bronzo; e fra li altri danni ve ne fu uno grandissimo che vi abruciò una libreria nella quale si dice che eran ragunati 120 migliaia di volumi, e questo fu intorno agli anni della salute 466. E poi un’altra fiata<,> forse 70 anni dopo<,> della medesima città arse un’altra parte piu nobile, dove medesimamente s’era ridotto il fiore di cosi nobili arti. E cosi<,> a Roma da<’> barbari e in Gostantinopoli dal fuoco<,> fu spento il piu bello splendore che avessero cotali arti, laonde in quelle che sono rimase e che si veggiono in Roma e altrove riconoscervi il maestro credo che sia cosa malagevolissima essendo stato in arbitrio di ciascuno porvi il nome di questo o di quello. Avvenga [p. xciv modifica]che<,> per la bellezza d’alcune scampate e per la virtù loro si possa estimare che elle sieno state opere d’alcuni de<’> sopra da noi nominati. L’origine di far le statue si conosce appresso i Greci primieramente esser nata dalla religione, che le prime imagini che di bronzo o di marmo si facessero furono fatte a simiglianza degli Dei, e quali li uomini gli adoravano e secondo che pensavano che essi fossero; dagli Dei si scese agli uomini da li quali i Comuni e le Provincie estimavano aver ricevuto alcuno benifizio straordinario, e si dice che in Athene, la quale fu città civilissima e umanissima<,> il primo onore di questa sorte fu dato ad Armodio e Aristogitone, i quali avevano voluto con l’uccidere il tiranno liberare la patria dalla servitù; ma cio potette esser vero in Athene, percioche molto prima a coloro i quali ne<’> giuochi sacri di Grecia, e massimamente negli Olimpici<,> erano publicamente banditi vincitori<,> in quel luogo si facevano le statue; questa sorte di onore del quale i Greci furono liberalissimi trapassò a Roma, e forse<,> come io mi credo<,> ve la recarono i Toscani lor vicini e parte di loro accettati nel numero de<’> Cittadini, percioche si vedevano a Roma anticamente le statue dei primi Re Romani nel Campidoglio. E a quello Attio Navio, il quale per conservazione degli augurij tagliò col rasoio la pietra<,> vi fu posto anche la statua; ebbevela anco quel Ermodoro savio da Efeso, il quale a quei diece Cittadini Romani che compilavano le leggi, le Greche leggi interpretava, e quello Oratio Coclite, il quale solo sopra il ponte aveva l’impeto de<’> Toscani sostenuto; vedevansene inoltre molte altre antiche poste dal popolo o dal Senato ai lor Cittadini, e massimamente a coloro i quali essendo imbasciadori del lor Comune erano stati da<’> nimici uccisi. Era anco molto antica in Roma la statua di Pitagora e d’Alcibiade, l’uno riputato sapientissimo e l’altro fortissimo. Ne solo fu fatto questo onore di statue agli uomini da<’> Romani, ma ancora ad alcuna donna, pero che a Caia Suffecia vergine vestale fu diliberato che si facesse una statua percioche<,> come in alcuna cronaca de<’> Romani era scritto<,> ella al popolo romano aveva fatto dono del campo vicino al fiume. Questo medesimo onore fu fatto a Coclia, e forse maggiore, percioche costei fu ritratta a cavallo, che s’era fuggita del campo del Re Porsena, il quale era venuto con l’oste contro a<’> Romani. Molti oltre a questi se ne potrebbero contare, i quali per alcuno benefizio raro fatto al Comune loro meritarono la statua; e molto prima a Roma fu questo onore di statue di bronzo o di marmo dato agli uomini<,> che in cotal materia li Dei si ritraessero<,> contentandosi quegli antichi di avere le imagini dei loro Dei rozze<,> di legno intagliato e di terra cotta. E la prima imagine di bronzo che agli Dei in Roma si facesse, si dice essere stata di Cerere, la quale si trasse dello avere di quello Spurio Melio che nella carestia<,> col vendere a minor pregio il suo grano<,> s’ingegnava di allettare il popolo e di procacciarsi la signoria della patria, e che per questo conto fu ucciso. Avevano le Greche statue e le Romane differenza infra di loro assai chiara, che le Greche per lo piu erano<,> secondo l’usanza delle palestre<,> ignude, dove i giovani alla lotta e ad altri giuochi ignudi si esercitavano, che in quelli ponevano il sommo onore; le Romane si facevano vestite o d’armadura o di toga, abito spetialmente Romano; il [p. xcv modifica]quale onore<,> come noi dicemo poco fa<,> dava primieramente il Comune, poi cominciando l’ambizione a crescere fu dato anco da privati e da comuni forestieri a questo e a quel Cittadino, o per benefizio ricevuto o per averlo amico, e massimamente lo facevano gli umili e bassi amici in verso i piu potenti e maggiori. E andò tanto oltre la cosa che in brieve spazio le piazze<,> i templi e le logge ne furono tutte ripiene. E non solo fiorirono queste arti nel tempo che i Greci in mare e in terra molto poterono appresso a quella natione, ma poi<,> molti secoli dopo che ebbero perduto l’Imperio<,> al tempo degli Imperadori Romani alcune volte risorsero, che in Roma si vede ancora l’arco di Settimio ornato di molte belle figure e molte altre opere egregie, delle quali non si sanno i maestri essendosene perduta la memoria; ma non estimo gia che queste cotali sieno da aguagliare a quelle che<,> ne i tempi che i Greci cotanto ci studiarono<,> furono fatte. Apresso i quali furono inoltre alcuni, i quali ebbero gran nome nel lavorare in argento di scarpello, l’opere dei quali, <per la materia> la quale agevolmente muta forma e che l’uso in poco spazio logora<,> non si condussero molto oltre, e nondimeno ne sono chiari alcuni artefici, de<’> nomi de<’> quali brievemente faremo mentione per finire una volta quello che voi avete voluto che io facci. Nella quale arte fra i primi fu molto celebrato Mentore, il quale lavorava di sottilissimo lavoro vasi d’argento e tazze da bere e ogni altra sorte di vasellamento che si adoperava ne<’> sacrificij, et erano tenuti questi lavori e ne<’> templi e nelle case de<’> nobili uomini molto cari; dopo costui nella medesima arte ebbero gran nome uno Acragante, uno Boeto e un altro chiamato Mys, de i quali nella Isola di Rodi si vedevano per i templi in vasi sacri molto belle opere, e di quel Boeto spetialmente Centauri e Bacche fatti con lo scarpello in idrie e in altri vasi molto begli; e di quello ultimo un Cupido e uno Sileno di maravigliosa bellezza. Dopo costoro fu molto chiaro il nome d’uno Antipatro, il quale sopra una tazza fece un Satiro gravato dal sonno<,> tanto proprio<,> che ben si poteva dire che piu presto ve lo avesse su posto che ve lo avesse con lo scarpello scolpito. Furono anco di qualche nome uno Taurisco da Cizico, uno Aristone, uno Onico e uno Ecateo e alcuni altri, e poi a<’> tempi piu oltre di Pompeo il grande un Prassitele e un Ledo da Efeso, il quale ritraeva di minutissimo lavoro uomini armati e battaglie molto bene. Fu anco in gran nome un Zopiro, il quale aveva in due tazze ritratto il giudizio di Oreste nello Ariopago; fu anco chiaro un Pitea, il quale aveva commesso in un vaso due figurette<,> l’una di Ulisse e l’altra di Diomede quando in Troia insieme furarono la statua di Pallade; ma questi lavori erano di tanta sottigliezza, che in breve il bello d’essi se ne consumava, et erano poi in pregio piu per il nome degli artefici che li avevano fatti che per virtù o per eccellenza che si scorgesse nelle figure, delle quali poi apena se ne potesse ritrarre l’esemplo. Ma questa e l’altre arti nobili delle quali noi abbiamo di sopra piu che non pensavamo di dover fare ragionato<,> l’età presente e due o tre altre di sopra hanno talmente tornato in luce che io non credo che ci bisogni desiderare l’antiche per prenderne diletto e admirarle<,> però che sono stati tali i maestri di queste arti, e per lo piu i Toscani e [p. xcvi modifica]spezialmente i nostri Fiorentini<,> che hanno mostro l’ingegno e l’industria loro essere di poco vinta da quegli antichi<,> cotanto celebrati in arti cotali. Li quali da voi, Messer Giorgio<,> sono nelle lor vite in modo, e si sottilmente<,> descritti e lodati che io non trapasserò piu oltre con lo scrivere, godendo infinitamente che oltre agli altri beni di Toscana, che sono infiniti, li quali la virtù e la buona mente del Duca Cosimo de Medici nostro Signore ci fa parere molto migliori, abbiamo anco l’ornamento di cosi nobili arti; delle quali non solo la Toscana, ma tutta l’Europa se ne abbellisce, vedendosi quasi in ogni parte l’opere de<’> Toscani artefici e de<’> loro discepoli risplendere, e cio debbiamo sperare molto piu nel tempo avenire, poi che non solo i nobili maestri per l’opere loro <pregiate>, ma anco per le penne de<’> nobili scrittori si veggiono commendare, e molto piu per il favore e aiuto che continovamente lor danno i nostri Illustrissimi Prencipi e Signori, valendosi<,> con grande utile e onore d’essi artefici<,> dell’opere loro in adornare e abbellire la patria, e in publico ancora la loro Accademia favorendo e sollevando, e cio massimamente per opera vostra. Di che tutti<,> se grati e buoni uomini vogliono essere, ve ne debbono onorare e infinitamente ringratiare. Che Dio vi guardi. Di casa alli VIII. di Settembre 1567.



Vostro Giovambatista Adriani.