Morgante maggiore/Canto ventesimottavo

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Canto ventesimottavo

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Canto ventesimosettimo Avvertenza
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CANTO VENTESIMOTTAVO.




ARGOMENTO.

     Or qui finiscon le dolenti note:
Gano sopra d’un carro è attanagliato;
Il popolo lo infama e lo percuote,
E dàgli il viva allor ch’egli è squartato.
Turpin dal sacco suo l’anima scuote.
Di gir pel mondo Rinaldo è incapato,
Scrive in fine il cantor d’opre di Carlo,
Acciò che dell’oblio non v’entri il tarlo.


1 L’ultima grazia, o mio Signor benigno,
     Perchè il fin mostra d’ogni cosa il tutto,
     Non mi negar, chè ancor si mostra arcigno
     Innanzi al tempo non maturo il frutto:
     Fa’ ch’io paia alla morte un bianco cigno
     Che dolce canta in su l’estremo lutto,
     Tanto ch’io ponga in terra il mortal velo
     Di Carlo in pace, e l’anima a te in cielo.

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2 Perchè donna è costì, che forse ascolta,1
     Che mi commise questa istoria prima;
     E se per grazia è or dal mondo sciolta,
     So che tanto nel ciel n’è fatto stima,
     Ch’io me n’andrò con l’una e l’altra volta
     Con la barchetta mia, cantando in rima,
     In porto, come io promissi già a quella
     Che sarà ancor del nostro mare stella.

3 Infino a qui l’aiuto di Parnaso
     Non ho chiesto nè chieggo, Signor mio,
     O le muse o le suore di Pegaso,
     Come alcun dice, o Calliope o Clio:
     Quest’ultimo cantar drieto rimaso
     Tanto mi sprona e la voglia e ’l desio,
     Che, mentre io batto i marinari e sferzo,
     Alla mia vela aggiugnerò alcun ferzo.2

4 Da Siragozza s’è Carlo partito,
     Arso la terra, e vendicato l’onte,
     E il traditor di Marsilio è punito
     Dove e’ fece il peccato, a quella fonte;
     E cavalcando d’uno in altro lito,
     In molti luoghi fe’ rifare il ponte,
     Ch’egli avea prima pel cammin tagliato,
     Acciò che indrieto nessun sia tornato.

5 E ritornossi a San Gianni di Porto,
     E non sofferse a ’gnun modo passare
     Di Roncisvalle, ove il nipote è morto;
     E dicea sempre nel suo sospirare:
     Chi sarà quel che mi dia più conforto?
     Tanto ch’ognun faceva lacrimare:
     Che farà più quest’anima nel petto?
     La vita mia omai fia sol dispetto.

6 Or perchè alcun qui dice, Ganellone
     Sendo con certa astuzia scarcerato,
     Che gli apparì sì gran confusione
     Di nebbia che l’avea tutto obumbrato,
     E ritornossi smarrito in prigione,
     Chè così lo guidava il suo peccato;
     Dico io: non so se confirmar mel debbia,
     Per non parere uno autor da nebbia.

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7 Rinaldo intanto ha confortato Carlo,
     E tutta insieme a un grido la corte,
     Che il traditor si dovessi straziarlo:
     E pensa ognun della più crudel morte:
     A molti par che si debba squartarlo;
     Altri dicea di tormento più forte,
     E ruote, e croce, e con ogni vergogna
     E mitera, e berlina, e scopa, e gogna.

8 E dopo molto disputar fu Gano
     Menato in sala con gran grido e tuono,
     Incatenato come un cane alano;
     E tanti farisei d'intorno sono,
     Che pensan solo ognun d’averne un brano;
     E mentre e’ volea pur chieder perdono,
     E crede ancor forse Carlo gli creda,
     Rinaldo il dette a quella turba in preda.

9 Carlo si stette a veder questa caccia:
     E come in mezzo la volpe è de’ cani,
     Ognun fa la sua presa, ognuno straccia;
     Chi lo mordea, chi gli storce le mani,
     E chi per dilegion gli sputa in faccia;
     Chi gli dà certi sergozzoni strani,
     Chi per la gola alle volte lo ciuffa,
     Tanto che il cacio gli saprà di muffa.

10 Chi con la man, chi col piè lo percuote;
     Chi fruga, e chi sospigne, e chi punzecchia;
     Chi gli ha con l’ungne scarnate le gote,
     Chi gli avea tutte mangiate l’orecchia;
     Chi lo intronava, e grida quanto e’ puote:
     Chi il carro intanto col fuoco apparecchia;
     Chi gli avea tratto con le dita gli occhi,
     Chi il volea scorticar come i ranocchi.

11 E come e’ fu sopra il carro il ribaldo,
     Il popol grida intorno: Muoia, muoia!
     Intanto il ferro apparecchiato è caldo:
     Non domandar come e’ lo concia il boia,
     Chè non resta di carne un dito saldo,
     Che tutte son ricamate le cuoia:
     Sì ch’egli era alle man di buon maestro,
     Perchè e’ facea molto l’uficio destro.

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12 Egli aveva il capresto d’oro al collo
     E la corona de’ ribaldi in testa;
     Rinaldo ancor non si chiama satollo,
     E ’l popol rugghia con molta tempesta:
     E chi gittava la gatta e chi il pollo,
     Ed ogni volta lo imberciava a sesta:
     Non si dipigne Lucifer più brutto
     Dal capo a’ pie’, come e’ pareva tutto.

13 Fece quel carro la cerca maggiore;
     E chi si cava pattini3 e chi pianelle,
     Per vedere straziare il traditore,
     Sì che di can non si straccia più pelle:
     Tanto tumulto, strepito e romore,
     Che rimbombava insin sopra le stelle,
     Crucifigge, gridando, crucifigge;
     E ’l manigoldo tuttavia trafigge.

14 E poi che il carro al palazzo è tornato,
     Carlo ordinato avea quattro cavagli;
     E come a questi il ribaldo è legato,
     Cominciano i fanciulli a scudisciagli,
     Tanto che l’hanno alla fine squartato:
     Poi fe’ Rinaldo que’ quarti gittagli
     Per boschi, e bricche, e per balze, e per macchie
     A’ lupi, a’ cani, a’ corvi, alle cornacchie.

15 Cotal fine ebbe il maladetto Gano,
     Chè lo eterno giudicio è sempre appresso,
     Quando tu credi che sia ben lontano.
     Or forse tu, lettor, dirai adesso
     Come gli abbi creduto Carlo Mano.
     Io ti rispondo: era così permesso;
     Era nato costui per ingannarlo,
     E convenia che gli credessi Carlo.

16 Nota, che Carlo Magno era uom divino,
     E lungo tempo avea tenuto seco
     Un dotto antico chiamato Alcuino,
     Ed apparò da lui latino e greco,
     Ed ordinò lo Studio parigino;
     Or par che sia dello intelletto cieco:
     Onde alcun autor, come prudente,
     Di Ganellon non iscrive niente.

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17 Ed io meco medesimo disputo,
     Quand’io ho ben raccolta la sua vita,
     Come egli abbi un error tanto tenuto:
     Ma la natura divina è tradita,
     E non ha sanza misterio voluto;
     Chè la sua sapienzia è infinita:
     Credo che Iddio a buon fine permette
     L’opere sante, e così maladette.

18 Però che Carlo per esperienzia
     Dovea molto saper, perchè ne’ vecchi
     Accade e non in giovane prudenzia,
     Poi ch’ella è figurata con tre specchi;
     Avea buon natural, buona scienzia;
     E come il traditor gli era agli orecchi,
     E’ gli credeva ogni cosa a sua posta:
     Sì ch’io non fermo ancor la mia risposta.

19 Molte volte, anzi spesso, c’interviene
     Che tu t’arrechi un amico a fratello,
     E ciò che fa, ti par che facci bene,
     Dipinto e colorito col pennello:
     Questo primo legame tanto tiene,
     Che s’altra volta ti dispiace quello
     E qualche cosa ti farà molesta,
     Sempre la prima impression pur resta.

20 Avea già lungo tempo Carlo Magno
     Tenuto in corte sua Gan di Maganza,
     Ed oltre a questo vi vedea guadagno,
     Però che Gano avea molta possanza,
     E qualche volta gli fu buon compagno:
     E perchè molto può l’antica usanza,
     L’abito fatto d’uno in altro errore
     Facea che Carlo gli portava amore.

21 Altri direbbe: dimmi ancora un poco:
     Gan sapea pur ch’egli avea tradito,
     E ch’e’ doveva alfine ardere il foco:
     Come non s’era di corte partito,
     Acciò che riuscissi netto il giuoco,
     Sendo tanto mascagno e scalterito?
     Credo ch’io l’abbi in altro cantar detto,
     Ch’ogni cosa si fa per un dispetto.

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22 Quando Ulivier percosse il viso a Gano,
     Io dissi allor come e’ si pose in core
     Di vendicarsi; chè gli parve strano,
     Sendo pur per natura traditore.
     Ricórdati, lettor, del Lampognano,
     E non cercar d’altro antico autore;
     E sempre tien la paura in corazza,
     Chè il disperato al fin mena la mazza.

23 Forse che Gano ancora avea speranza
     Di ricoprir con Carlo il tradimento;
     Ed avea tanta gente di Maganza,
     Che, come il conte Orlando fussi spento,
     Si confidava nella sua possanza,
     Di poter le bandiere alzare al vento
     Col favor di Marsilio e con la lancia,
     E coronarsi del regno di Francia.

24 Or lasciam questo traditor pe’ boschi,
     Com’io dissi, pe’ balzi e per le fosse,
     Perch’io son pien di molti pensier foschi:
     Non c’è il nocchier che la mia barca mosse,
     E bisogna che terra io ricognoschi
     Come se quella in alto mare or fosse,;
     E rilevare il porto per aguglia,4
     Perchè la sonda alle volte ingarbuglia.

25 Morto è Turpino e seppellito e pianto,
     Tanto ch’io temo, nella prima vista,
     Di non uscir fuor del cammino alquanto,
     Chè mi bisogna scambiar timonista;
     E nuova cetra s’apparecchia e canto;
     Ma perchè volteggiando pur s’acquista,
     Forse che in porto condurrem la nave,
     Di ricche merce ponderosa e grave.

26 Sì ch’io ricorro al mio famoso Arnaldo,
     Che m’accompagni insino al fine e scorga,
     Tanto ch’io ponga in quiete Rinaldo,
     E la sua destra mano al timon porga;
     Che, poi che Gano ha squartato il ribaldo,
     D’un zucchero candito è pieno in gorga,5
     E riforbito s’ha gli artigli e ’l becco,
     E tratto fuor della mente lo stecco.

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27 E perchè egli ama ancor pur Luciana,
     Con molta gente la mandò a Parigi,
     Perch’ella era nipote a Gallerana,
     E battezzossi drento a San Dionigi.
     Ed accordossi alla fede cristiana:
     E tanto piacque al gentile Ansuigi,
     Perchè pur era ancor giovane e bella,
     Che finalmente disposata ha quella.

28 E Ricciardetto con lei fu mandato,
     Per piacere a Rinaldo in compagnia;
     E ’l padiglion, ch’ella aveva donato,
     Rinaldo volle renduto gli sia,
     Per ristorarla del tempo passato;
     E rendè cortesia per cortesia:
     E sempre il tenne poi sopra il suo letto;
     E basti questo a lei e Ricciardetto.

29 Rinaldo a Carlo Magno un giorno disse,
     Come e’ voleva di corte partire,
     E cercar tutto il mondo come Ulisse.
     Carlo di duol si credette morire;
     Ma finalmente poi lo benedisse,
     E non poteron nessun contradire;
     Che, poi che vendicato aveva Orlando,
     Volea pel mondo andar peregrinando.

30 Gran pianto fece la corte di Carlo:
     Carlo gli parve rimaner sì solo,
     Che non potè mai più dimenticarlo:
     Credo che questo fu l’ultimo duolo;
     E non voleva sentir ricordarlo,
     Come fa il padre che perde il figliuolo:
     E tutta Francia ne fe’ gran lamento,
     Poi ch’un tanto campion nel mondo è spento.

31 E credo in verità che così sia,
     Perchè pur molte cose ho di lui scritto;
     E per virtù della sua gagliardia,
     E’ par ch’io sia come costor già afflitto:
     E come peregrin rimaso in via,
     Che va pur sempre al suo cammin diritto
     Col pensier, con la mente e col cervello,
     Così vo io pur seguitando quello.

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32 E s’io credessi di piacere ancora
     Alla patria, a color che leggeranno,
     Come avvien chi per fama s’innamora;
     Io piglierei di questa istoria affanno,
     Però che al tutto chi ne scrive ignora;
     Ma se mie rime facultate aranno,
     Forse che il mondo ancor leggerà questo,
     Fin che l’ultimo dì fia manifesto.

33 Ma l’autor disopra, ov’io mi specchio,
     Parmi che creda, e forse crede il vero,
     Che, benchè fussi Rinaldo già vecchio,
     Avea l’animo ancor robusto e fiero;
     E quel suon d’Astarotte nello orecchio,
     Come disotto in quell’altro emispero,
     Erano e guerre e monarchie e regni;
     E ch’e’ passassi al fin d’Ercule i segni.

34 E perchè ancor di lui quell’Angiol disse:
     Ogni cosa esser può, quando Iddio vuole;
     Acciò che quelle gente convertisse,
     Ch’adoravan pianeti e vane fole:
     E se ancor vivo un giorno e’ riuscisse
     Dall’altra parte ove si lieva il sole,
     Come molti miracoli si vede,
     Qual maraviglia? chi più sa, men crede.

35 Non si dice egli ancor del Vangelista?
     Benchè ciò comparar par forse scelo:
     Ma dove il punto o il misterio consista
     Sallo Colui che fece il mondo e ’l cielo:
     Questa nostra mortal caduca vista
     Fasciata è sempre d’un oscuro velo,
     E spesso il vero scambia alla menzogna,
     Poi si risveglia, come fa chi sogna.

36 E del Danese, che ancor vivo sia,
     Perchè tutto può far chi fe’ natura,
     Dicono alcun, ma non la istoria mia;
     E che si truova in certa grotta oscura,
     E spesso armato a caval par che stia,
     Sì che, chi il vede, gli mette paura:
     Non so s’è vera opinione o vana;
     E così della spada Durlindana.

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37 E come Carlo la gittò nel mare,
     E il dì della battaglia dolorosa,
     Si vede sopra l’acqua galleggiare,
     E mostrasi ancor tutta sanguinosa;
     E s’alcun va per volerla pigliare,
     Subito sotto si torna nascosa.
     Tutto esser può, ma, come caso nuovo,
     Con la mia penna non l’affermo o approvo.

38 Credo che al tempo di que’ paladini,
     Perchè la fede ampliasse di Cristo,
     Sendo molto potenti i Saracini,
     Molte cose a buon fin permesse Cristo;
     Che se non fusse stato a’ lor confini
     Carlo a pugnar per la fede di Cristo,
     Forse saremmo ognun maumettisti:
     Ergo, Carole, in tempore venisti.

39 Parmi Carlo e Domenico e Francesco
     Abbin tanto operato per la fede,
     Con le dottrine e col valor francesco,
     Ch’io dirò forse che per lor si crede;
     Chè il popol de’ Cristiani stava fresco,
     Se non che Iddio a’ buon servi concede,
     Perchè ogni cosa è da lui preveduto,
     Sempre al tempo opportun debito aiuto.

40 Io mi confido ancor molto qui a Dante,
     Che non sanza cagion nel ciel su misse
     Carlo ed Orlando in quelle croce sante,6
     Che come diligente intese e scrisse;
     E così incolpo il secolo ignorante,
     Che mentre il nostro Carlo al mondo visse,
     Non ebbe un Livio, un Crispo, un Justin seco,
     O famoso scrittor latino o greco.

41 Ma perch’io dissi altra volta di questo,
     Quando al principio cominciai la storia,
     Forse tacere, uditor, fia onesto,
     Poi ch’io ho collocato in tanta gloria
     Carlo ed Orlando: or basti, sia per resto,
     Perchè e’ non paia vanitate o boria,
     A giudicar de’ segreti di sopra,
     Quel che meriti ognun secondo l’opra.

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42 Sempre i giusti son primi i lacerati:
     Io non vo’ ragionar più della fede;
     Ch’io me ne vo poi in bocca a questi frati,
     Dove vanno anche spesso le lamprede;
     E certi scioperon pinzocorati
     Rapportano: il tal disse, il tal non crede;
     Donde tanto romor par che ci sia:
     Se in principio era buio, e buio fia.

43 In principio creò la terra e il cielo
     Colui che tutto fe’ qual sapiente,
     E le tenebre al Sol facevon velo;
     Non so quel che si fia poi finalmente
     Nella revoluzion del grande stelo;
     Basta che tutto giudica la mente:
     E se pur vane cose un tempo scrissi,
     Contra hypocritas tantum, pater, dissi.

44 Non in pergamo adunque, non in panca
     Reprendi il peccator; ma quando siedi
     Nella tua cameretta, se e’ pur manca.
     Salite colassù col piombo a’ piedi:
     La fede mia come la tua è bianca,
     E farotti vantaggio anche due Credi;
     Predicate e spianate lo Evangelio
     Con la dottrina del vostro Aurelio.

45 E sde alcun susurrone è che v’imbocchi,
     Palpate come Tomma, vi ricordo,
     E giudicate alle man, non agli occhi,
     Come dice la favola del tordo:
     E non sia ignun più ardito che mi tocchi,
     Ch’io toccherò poi forse un monacordo,
     Ch’io troverrò la solfa e’ suoi vestigi;
     Io dico tanto a’ neri, quanto a’ bigi.

46 Vostri argumenti e vostri sillogismi,
     Tanti maestri, tanti bacalari,
     Non faranno con loica o sofismi,
     Ch’alfin sien dolci i miei lupini amari;
     E non si cercherà de’ barbarismi,
     Ch’io troverrò ben testi che fien chiari:
     Per carità per sempre vi sia detto,
     E non si dirà poi più del sonetto.

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47 Io mi parti’ da San Gianni di Porto
     Dov’io lasciai il mio Carlo malcontento:
     Or, perchè il fine è di venire a porto
     Sempre d’ognun che si commette al vento,
     Noi penserem qualche tragetto corto,
     Però ch’un’ora omai parrebbe cento:
     Tanto la voglia è in sè più desiosa,
     Quanto più presso al fine è ogni cosa.

48 Carlo, poi ch’ebbe Ganellon punito
     E rimesso un diavolo in Inferno,
     Che l’ha più tempo tentato e tradito,
     Fe’ come sempre i sapienti ferno,
     Che d’ogni cosa pigliar san partito:
     E redusse la corte e ’l suo governo
     In Aquisgrana, ove alcun tempo visse,
     E molte guerre fe’ pria che morisse.

49 Ma perchè morte a nessun mai perdona,
     Non riguardando a tanto imperatore,
     Poi ch’egli ebbe tenuta la corona
     Quaranzette anni con supremo onore,
     L’anima sua il secolo abbandona,
     E ritornossi a quel lieto Fattore,
     Che si ricorda ristorare in cielo
     I giusti e’ buon, come dice il Vangelo.

50 E benchè tante cose ha fatte prima
     Che non iscrisse Ormanno nè Turpino,
     Riserberem con altra cetra e rima
     A cantar le sue laude ad Alcuino,
     Che canterà le cose di più stima,
     Dell’infanzia tacendo e di Pipino:
     Come solevan ne’ tempi discreti
     Cantar le laude de’ morti i poeti.

51 Furon molto le esequie celebrate,
     E tutto il mondo quasi in veste negra,
     Massime tutta la Cristianitate,
     E Francia poi non si vide più allegra.
     Or, perchè molte cose ho pur lasciate,
     Acciò che io dica la sua istoria integra,
     Tanto ch’e’ sia anche il dotto satollo,
     Convien ch’i’ invochi a questa volta Apollo.

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52 E per Delo, e per Delfo, e pel tuo Cinto
     Ti priego che tu temperi la lira,
     Per la tua bella Danne e per Jacinto,
     E quel furor, che sentì già, respira,
     Ismaro, e Cirra, Pindo ed Aracinto;
     Tanto che quel temerario Tamira
     E Marsia invidia abbia alla cetra nostra,
     Mentre che Carlo ancor vivo si mostra.

53 In Aquisgrana un certo citarista
     Era in quel tempo, Lattanzio7 appellato,
     Molto gentil, molto famoso artista:
     Per la qual cosa in alto fu montato,
     Raccolto molte cose in una lista,
     Della vita di Carlo ammaestrato;
     E innanzi ad Alcuin cantando disse
     Ciò che Turpino ed Ormanno già scrisse.

54 E cominciossi a Carlo giovinetto,
     Come già sendo del regno cacciato,
     Morto Pipino il padre, poveretto,
     Con un pastore ha l’abito scambiato;
     E come e’ fu chiamato il Mainetto
     In corte, ove Galafro l’ha accettato:
     E come e’ fussi a lui menato, e quando
     Da un suo balio chiamato Morando.

55 E come Gallerana innamorata,
     Dopo alcun tempo a lui si fece sposa,
     E come in Francia l’aveva menata;
     Poi dimostrò la sua virtù nascosa
     Quando egli ebbe la patria racquistata,
     E la corona in testa gloriosa:
     Perchè Pipino il suo padre fu morto
     Da Oldorigi a tradimento a torto.

56 E come, essendo in Italia venuto,
     Con molta gente il mar passò Agolante,
     Per un buffone al quale ebbe creduto;
     E disse le battaglie tutte quante:
     E come Carlo da Almonte abbattuto,
     Orlando, che anco era un piccol fante,
     Uccise finalmente questo Almonte
     Con un troncon di lancia a una fonte.

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57 E di Gerardo, e Dombuoso, e Donchiaro,
     Di Risa e di Riccier tutto cantossi;
     E come poi che in Francia ritornaro,
     Perchè più volte Spagna ribellossi,
     L’ultima volta gli costò amaro;
     E come quella guerra cominciossi,
     E Ferraù come morì in sul ponte,
     E Lazzera fu presa sopra il monte.

58 E come poi alla Stella Serpentino
     Venne fuori a combatter con Orlando,
     E come morto rimase meschino;
     Sì che Carlo, la impresa seguitando,
     Riprese verso Navarra il cammino,
     A Pampalona alla fine arrivando;
     E della lunga e dispietata guerra,
     Mentre che tenne assediata la terra.

59 E come Orlando sdegnato è partito,
     E capitò nella Mecche al Soldano,
     E come Macchidante è al fin fuggito,
     E Sansonetto si fe’ poi cristiano;
     E inverso Gerosolima fu ito,
     E racquistò il Sepulcro con sua mano:
     E ricognobbe Ugon german fratello,
     E Sansonetto ne menò e quello.

60 E ritornato a Carlo a Pampalona,
     Dove a campo era stato già molti anni,
     Intese che Maccario la corona
     E la sua sposa togliea con inganni,
     E bisognava Carlo ire in persona
     A racquistare i suo’ reali scanni:
     E Malachel lo portò finalmente,
     Dove Maccario poi restò dolente.

61 Così, ripresa la sua signoria,
     A Pampalona tornò come un vento;
     E come Desiderio di Pavia
     Prese la terra con iscaltrimento,
     E poi mandò a Marsilio imbasceria,
     Ove Chiron fu morto a tradimento:
     E come Carlo con tutta sua setta
     Contra Marsilio giurò far vendetta.

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62 E finalmente si trattò la pace;
     E come Ganellon fu poi mandato
     A Siragozza il traditor fallace,
     E come il tradimento ha ordinato;
     E come Iddio mostrò che gli dispiace:
     E intanto Carlo a San Gianni è arrivato;
     E come in Roncisvalle Orlando è giunto,
     E la battaglia, com’io dissi appunto.

63 E ciò che addrieto nel Morgante è scritto,
     Ogni cosa Lattanzio in alto disse;
     E come tutta la Persia e lo Egitto
     Alla fede di Cristo pervenisse:
     E bisognoe qui andar pel segno ritto:
     Non so se troppa mazza8 altrove misse,
     Chè l’autor che Morgante compose
     Non direbbe bugie tra queste cose.

64 E del Danese, e come e’ fu Cristiano,
     E del caval chiamato Duraforte;
     E che in prigione il tenne Carlo Mano,
     Quando quel dette a Carlotto la morte,
     Insin che venne quel Bravieri strano,
     Che abbattè tutti i paladin di corte;
     E come e’ fu della Marca signore:
     Ogni cosa diceva quel cantore.

65 E come poi Rinaldo giovinetto
     Con tre frategli a Carlo fu mandato,
     Che fu Guicciardo, Alardo e Ricciardetto,
     E come Carlo l’aveva accettato;
     E perchè spesso gli facea dispetto,
     Più volte l’ebbe di corte scacciato:
     E come e’ fe’ per arte Malagigi
     Montalban fare a quegli angeli bigi.

66 E disse finalmente tante cose,
     Che fece tutto il popolo stupire;
     In sin che pur la cetera giù pose,
     E non potè di Carlo tanto dire,
     Quanto l’opere sue son più famose.
     Or pur la istoria ci convien finire,
     Chè Alcuin, poi che Lattanzio ha detto,
     La cetra ha in punto, e ’l piè già in sul palchetto.

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67 Era il popol di lacrime confuso,
     Tanto a ciascun del suo signore increbbe:
     E veramente a questa volta io scuso
     Ognun che piange quel che pianger debbe:
     Quando Alcuin, secondo l’antico uso
     Salito in alto, poi che guardato ebbe
     La gente afflitta e lamentabil tanto,
     La cetra accommodò col flebil canto.

68 E molto commendò colui che ha detto
     Lattanzio, e disse nello esordio prima:
     Io son fra molti dicitori eletto,
     E me’ di me ognun sa dire in rima;
     Però s’io commettessi alcun difetto,
     Popolo mio, per discrezion istima,
     Che come Filomena a cantar vegno
     Materia, ove e’ non basta umano ingegno.

69 Io canterò del magno imperatore
     La vita, e piangerò con voi la morte:
     Perchè pur era mio padre e signore,
     E tanto tempo m’ha nutrito in corte,
     Dove il pan de’ sospiri e del dolore
     Convien ch’io mangi tanto duro e forte:
     Ma perch’io sono alla vita obbligato,
     Non voglio anche alla morte esser ingrato.

70 Pipino il padre suo famoso e degno,
     Tenne prima lo scettro e il nome regio,
     E governò per quindici anni il regno,
     Però che al gran Prefetto del collegio
     Dinanzi a lui bastava il nome e ’l segno;
     Ma la corona, e ’l real seggio e ’l fregio
     Tenne Pipin, come disopra è detto,
     Che per successione era Prefetto.

71 Morto Pipin, dopo il quindecimo anno
     Dalla sua promozion, rimase Carlo,
     Carlo Magno appellato, e Carlo Manno
     Un suo fratel; ma del signor mio parlo;
     Chè come il regno insieme partito hanno,
     Opera mia non è di raccontarlo:
     Io dirò tanto della sua eccellenzia,
     Quant’io ebbi oculata esperienzia.

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72 La prima guerra fu con gli Aquitani:
     Nota, lettor, che l’Aquitania è Ghienna,
     Acciò che i versi alcuna volta io spiani
     Dov’io vedrò la discrezione accenna:
     Pipin v’avea prima messo le mani,
     Come scritto fu già con altra penna;
     Carlo v’andò fino a guerra finita,
     E riportonne la palma fiorita.

73 E so che replicar non mi bisogna
     Cose tanto propinque alla memoria,
     E come Unuldo si fuggì in Guascogna,
     E come doppia fu questa vittoria,
     Da poi ch’egli ebbe il suo nimico in gogna:
     Però che Lupo per maggior sua gloria,
     Il duca di Guascogna, fu prudente,
     E dette Unuldo e sè liberamente.

74 E perchè intanto il bel paese esperio9
     Occupava il furor de’ Longobardi
     Sotto le insegne del re Desiderio,
     Uomini inculti, feroci e gagliardi,
     Sì che quel tenne di Italia lo imperio
     Ventiquattro anni sotto i suoi stendardi;
     Non si poteva alla fine cacciarlo,
     Se non giugneva il soccorso di Carlo.

75 Era venuto di verso Oceáno
     Questo popolo indomito, chiamato
     Da Narsete Eunuco capitano:
     Onde il sommo pontefice oppressato,
     Ch’era in quel tempo il famoso Adriano,
     A Carlo imbasciatore ebbe mandato,
     Che dovessi in Italia venir quello,
     Come Pipin già fece e ’l suo Martello.

76 Carlo, mosso da’ prieghi santi e giusti,
     Partì di Francia co’ suoi paladini,
     E bisognoe passar per luoghi angusti,
     Onde Annibal passò co’ suoi Barchini;
     Perchè e’ tenean que’ populi robusti
     I passi e i gioghi degli alti Apennini;
     Ma passi o sbarre non valsono o ponti,
     Chè finalmente e’ trapassò que’ monti.

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77 E mandò prima imbasciadori a quelli,
     Là dove Desiderio era attendato,
     Che dovessin partir co’ lor drappelli,
     E come egli era in Italia chiamato,
     Per discacciar della Chiesa i rebelli;
     Che si ricordin pel tempo passato,
     Come altra volta con ispada e lancia
     Provato avevan le forze di Francia.

78 E finalmente alla battaglia venne,
     Dove il pian vercellese par che sia:
     Il perchè Desiderio non sostenne,
     E fu costretto fuggirsi in Pavia,
     Dove Carlo assediato un tempo il tenne;
     E intanto andò con la sua compagnia,
     Poi ch’egli avea la sua superbia doma,
     A vicitare il Pontefice a Roma.

79 Grande onor fece il sommo padre santo
     A Carlo, lieto del suo avvenimento,
     Restituite le sue terre intanto,
     E aggiunto Spoleti e Benevento;
     E così in Roma dimorato alquanto,
     Perchè molto Adrian ne fu contento,
     E satisfatto alla sua devozione,
     Si dipartì con gran benedizione.

80 E perchè Desiderio avea lasciato,
     Com’io dissi, assediato in la sua terra,
     Come folgore indrieto ritornato,
     Tanto lo strinse finalmente e serra,
     Che bisognò che si fussi accordato;
     E così fu terminata la guerra:
     E riportonne il trionfo e le spoglie,
     E in Francia lui co’ figliuoli e la moglie.

81 Così la bella Italia liberata,
     Che da’ Goti e da’ Vandali prima era,
     E dagli Unni e dagli Eruli, occupata,
     Gente bestial, molto crudele e fera;
     E la Chiesa di Dio restaurata;
     Si ritornò con la santa bandiera,
     E per più gloria de’ famosi gigli
     Seco menò di Carlo Mano i figli.

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82 Io lascio molte cose egregie e degne,
     Ch’io non posso seguir con la memoria,
     E in ogni parte ove fur le sue insegne
     Accompagnar d’una in altra vittoria;
     Ma se morte anzi tempo non ispegne
     Il vero lume a mostrar questa istoria,
     Con altro stil, con altra cetra e verso
     Sarà ancor chiara a tutto l’universo.

83 Or come avvien che il generoso core
     Cose magne ricerca infin se sogna,
     Così intervien che il nostro imperatore,
     Poi ch’egli ebbe Aquitania e la Guascogna,
     E liberata la Chiesa e ’l Pastore,
     Percosse nella eretica Sansogna,
     Ch’era più ch’altra regione allotta
     Dal culto falso de’ demon corrotta.

84 Questa guerra fu più laboriosa
     Che alcun’altra, per gli uomini strani,
     A cui molto la nostra fede esosa
     Era, ingannati dagli idoli vani;
     Gente crudele e molto bellicosa,
     Che dannava ogni legge de’ Cristiani;
     Carlo n’andò coll’esercito a furia,
     Per vendicar del suo Cristo la ingiuria.

85 Sì che, più volte alla fede redutti,
     Si ritornaron nello antico errore,
     Poi che gl’Idoli van furon distrutti
     Per la virtù del nostro imperadore;
     Pure alla fine battezzati tutti,
     Riconobbono il vero Redentore,
     E l’idolatria loro essere inganni:
     E così combattêr trentatrè anni.

86 Carlo poi per istatici domanda
     Diecimila di lor, come prudente,
     Ed ordinò che per tutto si spanda
     Pe’ paesi di Francia quella gente,
     E pe’ liti d’Ilanda e di Silanda:
     Così la lor perfidia finalmente,
     Diradicata come falsa legge,
     Aggiunse nuova torma alla sua gregge.

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87 O protettor del buon Cefas in terra,
     O defensor delle cristiane squadre,
     O santa spada a gastigar chi erra,
     O Moisè del popol di Dio Padre;
     O Papirio Cursor famoso in guerra,
     O Scipio amico all’opere leggiadre;
     O fido specchio ove ogni ben s’è mostro,
     O fama, o pregio, o gloria al secol nostro!

88 Era in quel tempo medesimo Spagna
     D’altra prava eresia più maculata,
     Quando l’alta Corona tanto magna
     Apparecchiò l’esercito e l’armata;
     E passa i fiumi, i colli, e la montagna
     Con la santa bandiera dal Ciel data;
     E fa tremare ogni lito, ogni terra,
     Come in Ispagna è vulgata la guerra.

89 Furono adunque in su’ campi alle mani
     Carlo e sua gente, onde la fama suona;
     Ma non resson le forze degl’Ispani:
     Restava Augusta solo e Pampalona
     A redurre alla fede de’ Cristiani;
     Il perchè il magno re v’andò in persona;
     E finalmente, dopo lungo tedio,
     Le conquistò con forza e con assedio.

90 E poi che Pampalona fu acquistata
     Dopo molte battaglie e molti omei,
     E che tutta la Spagna è battezzata,
     E Macon rinnegato e i falsi Iddei;
     Carlo tornando con la sua brigata,
     Poi che i salti rivide Pirenei,10
     Non sanza danno dell’altrui vergogna,
     Nelle insidie percosse di Guascogna.

91 Quivi fu la battaglia sanguinosa,
     Dove Anselmo morì col suo nipote
     In Runcisvalle ancor tanto famosa;
     Ma tutte queste cose vi son note,
     Che non fu la vittoria gloriosa,
     Però che il tradimento tutto puote:
     E perchè Carlo il tempo e ’l modo aspetta,
     Come sapete, fe’ crudel vendetta.

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92 Così furon l’inganni de’ Guasconi
     Puniti, e prima battezzata Spagna,
     E seguitò la guerra de’ Brettoni:
     E poi che fu ancor doma la Brettagna,
     Rivolse verso Italia i gonfaloni,
     Perchè Roma d’Araiso si lagna,
     Il qual di Benevento era signore,
     E minacciava la Chiesa e ’l Pastore.

93 Carlo giunto in Italia, come io dico,
     Redusse alle sue voglie il folle duce;
     Sì che quel fece al pontefice amico,
     E molti in Francia statici conduce.
     O quante cose magne io non replíco!
     Chè come il sole in ogni parte luce,
     A conseguir famose opere e degne,
     In ogni luogo apparîr le sue insegne.

94 Sì che più volte di Roma lo ’mperio
     Restaurato, come il buon Camillo,
     Tornato in Francia, il gran duca Baverio
     Apparecchiato sua gente, Tassillo,
     Recordato del suocer Desiderio,
     Congiurato cogli Unni a un vessillo,
     Come mal consigliato dalla moglie,
     Cercando andò le sue future doglie.

95 Lo ’mperador, che apparato già era,
     Non aspettò del nimico la ’nsegna:
     Ma fessi incontra a lui con sua bandiera
     Insino al fiume che divide e segna
     La Magna e le provincie di Baviera;
     E bisognò che alfin Tassillo vegna
     A consentir ciò che Carlo gli chiede,
     E giurar servitù, tributo e fede.

96 I Velatabi intanto, gli Abroditi
     Molestavan qual suoi confederati;
     Ma poi che il nostro re gli ebbe puniti,
     In questo tempo gli Ungher congregati,
     Populi detti per l’addrieto Sciti,
     Gente dapprima in Pannonia arrivati
     Dall’estreme provincie della terra,
     Apparecchiavan contra a Carlo guerra.

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97 Questa guerra durò circa otto anni,
     Ma Carlo, al fin superati costoro,
     Non sanza grande occisione e danni,
     Ne riportò le ricchezze e ’l tesoro,
     Ch’egli avevon con forza e con inganni
     In molte parte predato già loro,
     In Francia bella con vittoria e fama;
     Sì che la gloria fiorì in ogni rama.

98 E poi che la gran guerra d’Ungheria
     Sedata fu, ridotta sotto il giglio
     Di Francia e la Boemia e Normandia,
     Abbattuta da Carlo primo figlio;
     Mandò papa Leone imbasceria,
     Perch’egli era constretto, e in gran periglio
     Cacciato di sua sede, in Francia a Carlo,
     Che dovessi tornare a liberarlo.

99 Così la terza volta ritornato
     Carlo in Italia, il pontefice santo
     Restituì dond’egli era cacciato
     Nella sua sede col papale ammanto;
     Perchè il sommo pastor non sendo ingrato,
     Recordato del suo precessor tanto
     Quanto di sè benemerito e giusto,
     Gli aggiunse al titol regio il nome agusto.

100 Dunque Carlo fu magno e imperatore
     Di tutto l’universo, e re di Roma,
     Ed aggiunse al suo segno per più onore
     Il grande uccel che di Giove si noma:
     E licenziato dal santo pastore,
     Poi ch’egli aveva ogni arroganza doma,
     Nel suo tornar, per più magnificenzia,
     Rifece e rinnovò l’alma Fiorenza.11

101 E templi edificò per sua memoria,
     E dètte a quella doni e privilegi;
     E ritornò con gran trionfo e gloria
     In Francia, il nostro re degli altri regi:
     E non è questa l’ultima vittoria,
     Onde più splenda la corona e’ fregi;
     Tante altre cose ha fatto il signor nostro,
     Che manca il suon, la voce, e carta e ’nchiostro.

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102 Io non posso piangendo cantar versi,
     Tanto contrario è l’uno all’altro effetto;
     E pur convien che ’l cor lacrime versi,
     Quando quell’è da giusto duol constretto:
     Per tanti tempi e paesi diversi
     Ha fatto Carlo più ch’io non ho detto,
     Per la fede di Cristo e pel Vangelo;
     Ma tutto è scritto e registrato in cielo.

103 Quivi i meriti suoi saranno tutti,
     Quivi tutto vedrà nel santo volto,
     Quivi corrà del suo ben fare i frutti,
     Quivi sarà dal buon Gesù suo accolto;
     Quivi in canti fia sempre sanza lutti,
     Quivi il seggio regal mai sarà tolto,
     Quivi il pan gusterà che sempre piace,
     Quivi impetri per noi della sua pace.

104 Volea più oltre dir, certo, Alcuino;
     E dello acquisto del sepulcro santo,
     E com'egli andò in Grecia a Gostantino;
     Ma non potè, chè le lacrime e ’l pianto
     Del popol, che piangea così meschino,
     Occupavan la cetera col canto:
     E forse il braccio stanco era e l’archetto,
     Per la qual cosa sceso è del palchetto.

105 E come e’ fu quel sapiente sceso,
     Il popol ch’era prima stato attento,
     Un pianto seguitò molto disteso:
     Come fuoco talvolta pare spento,
     E sanza fiamma si conserva acceso,
     Poi si dimostra o per esca o per vento;
     Così intervenne dopo il dolce canto,
     Che tutto il popol rinnovoe il pianto.

106 Quivi eran le pulzelle scapigliate,
     Quivi avean le matrone il peplo in testa,
     Quivi piangeva tutta la cittate,
     Quivi si straccia ognun l’oscura vesta;
     Quivi son l’alte cose replicate,
     Quivi si loda la sua vita onesta;
     Quivi si batte alcun le palme intanto,
     Quivi si grida santo, santo, santo.

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107 Fortunato, o ben vissuto vecchio,
     O felice quel giusto che ognun ama,
     O chiaro esemplo di ben fare e specchio,
     O sanza invidia gloriosa fama;
     O ciel, tu porgi a’ suoi merti l’orecchio:
     O popol, che il signor suo morto chiama,
     O buon pastor, chi ben guarda sua gregge,
     O tanto re, quanto e' ben guida e regge!

108 In Aquisgrana la chiesa maggiore,
     Nella Virgine Santa titolata,
     Dallo eccelso e felice imperatore
     Era suta già prima edificata:
     Quivi meritamente a grande onore
     Fu la sua sepultura collocata,
     E sopra a questa aggiunto un arco d’oro
     Nella santa basilica del coro.

109 E perchè il mondo ancor possi ritrarlo,
     Il popol verso lui fu clementissimo,
     E nel sepulcro suo fece scultarlo,
     E lo epitaffio diceva brevissimo:
     Il corpo jace qui del magno Carlo
     Imperator de’ Roman cristianissimo.
     Ma molto importa in sì breve idioma,
     Cristianissimo, e Carlo, e re di Roma.

110 L’anno ottocento quindici correa
     Dalla salute della Incarnazione,
     Carlo settantadue finiti avea,
     E quaranzette dalla promozione,
     De’ quali ultimi quindici tenea
     Colla corona da papa Leone,
     Nel vigesimo quarto dì spirato
     Del mese il quale a Gian fu consecrato.

111 E innanzi alla sua morte segni apparse:
     Che dove il bel pinaculo si bilica,
     Folgore questo rovinò e sparse:
     Un portico cascò della basilica,
     E ’l ponte ch’era appresso a Magonzia arse:
     Però chi queste cose ben rivilica,12
     Come a Cesare il ciel fece qui segno
     D’altro Cesare in terra assai più degno.

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112 Fe’ come savio prima testamento,
     Divise in molte terre il suo tesoro;
     Lasciò tutti i suoi servi ognun contento,
     Che molte cose partiron fra loro:
     E tre tavole ricche d’ariento
     Tutte intagliate, ed una di puro oro,
     Condotte e fatte con mirabile arte,
     Distribuì com’io truovo in tre parte.

113 La prima, ov’era tutta disegnata
     La gran città che Bisanzio si noma,
     Al santo altar di Pietro ha diputata;
     E l’altra, ov’era sculta l’alma Roma,
     Volle che fussi a Ravenna mandata.
     O gran presente, o ricca, o degna soma!
     O magnanimi don, memoria e segno,
     Che minor non conviensi a tanto uom degno!

114 La terza fatta con maggior lavoro,
     Dove tutto descritto appare il mondo,
     E quell’altra ch’io dissi tutta d’oro,
     A Lodovico suo figliuol giocondo
     Rimase, ultimo erede fra costoro,
     Morti Carlo e Pipin primo e secondo:
     Sì che Luigi era il terzo figliuolo,
     Che succedette alla corona solo.

115 Or poi che Carlo è seppellito e morto,
     E fruisce quel gaudio e quel giubillo
     Che s’aspetta a ognun che giugne al porto
     Di sua salute e suo stato tranquillo,
     A me parrebbe alla istoria far torto
     S’io non aggiungo qualche codicillo,
     Acciò che ognun, che legge, benedica
     L’ultimo effetto della mia fatica.

116 Noi possiam per la istoria intender quasi
     Come all’unico figlio Lodovico
     Molti regni e paesi son rimasi
     Per virtù del suo padre, come io dico,
     Per molti tempi, effetti e varj casi;
     Insino al re di Persia è fatto amico,
     Tanto a sè il trasse come calamita
     L’opere degne del suo padre in vita.

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117 E la Francia, e la Ghienna, e la Borgogna
     E Navarra, Aragona, colla Spagna,
     La Fiandra, e l’Inghilterra, e la Guascogna,
     La Dazia, e la Germania, e la Brettagna
     E Pannonia, e Boemia, e la Sansogna,
     E tante gran provincie della Magna,
     E l’Istria, e la Dalmazia, e Lombardia,
     Rimason sotto la sua monarchia.

118 E veramente dal suo genitore
     Non è questo figliuol degenerato;
     Ma perch’io serbo altrove a fargli onore,
     In altro libro o libel cominciato,
     Ritorno al nostro primo imperatore
     In alcun luogo che indrieto ho lasciato,
     De’ costumi e de’ modi di sua vita,
     Sì che la istoria dir possiam finita.

119 Dicon molti autor, di sua natura,
     Della sua qualità, s’i’ ho ben raccolto,
     Ch’egli aveva formosa la statura,
     Largo nel petto e nelle spalle molto,
     Ne’ passi grave e nella guardatura;
     Nel parlar grazia, e maiestà nel volto;
     La barba lunga, e il naso alquanto giusto,
     L’aspetto degno e tutto in sè venusto.

120 Molto affabil, placabil, tutto magno,
     Molto savio, veril, molto discreto;
     Amico, o servo, o parente, o compagno
     Partia sempre da lui contento e lieto:
     Non si sentia: del mio signor mi lagno;
     Molto giusto in sua legge e suo decreto;
     E perchè gli uomin gli piacean modesti,
     Esemplo dava di costumi onesti.

121 Era al culto divin cirimonioso,
     Edificava per ogni paese
     Qualche magno palazzo glorioso;
     Fece tanti spedal, badie e chiese,
     Ch’io credo il ver di molte sia nascoso;
     Come cor generoso all’alte imprese,
     Restaurava e città e castella,
     Come e’ fece ancor già Fiorenza bella.

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122 Fece in sul Reno il ponte, com’io dissi,
     Di cinquecento passi per lunghezza;
     Che mostrò segno, innanzi che morissi,
     Come e’ cadeva anche ogni gentilezza:
     Mostrava, in ogni caso che avvenissi,
     Prudenzia e temperanza con fortezza:
     Grazie che Iddio rade volte concede
     O per nostra salute o per la fede.

123 Dilettavasi a caccia andare spesso,
     Sempre l’ozio dannando, come i saggi,
     Sanza temer, dagli anni pur defesso,
     Di freddo, o luoghi difficil selvaggi:
     Tanto ch'essendo a quel termine presso,
     Dove più oltre ognun convien che caggi,
     Perchè non è più la natura forte,
     Sollicitò per tal cagion la morte.

124 Pigliava spesso de’ bagni diletto,
     Quivi soleva congregar gli amici,
     Come forse dal luogo era constretto,
     Dove i monti son freddi e le pendici:
     O signor giusto, o signor benedetto,
     O quanto furon que’ tempi felici!
     Non sarà Francia mai sì bella o lieta
     O per corso di stelle o di pianeta.

125 Reputavano i popoli dal cielo
     Mandato fussi in terra un tal signore
     Per carità, per giustizia, e per zelo;
     E se non fussi spento il vecchio errore,
     Adorato l’arebbon come Belo
     Per reverenzia e per antico amore:
     Tanto che alcun forse autor non falla
     Della croce incarnata in su la spalla.

126 Ammaestrò i figliuoli e le figliuole
     D’ogni arte liberal, d’ogni dottrina;
     Nè bisognava cercare altre scuole,
     Allor che l’Accademia parigina
     Voleva appresso tutta la sua prole;
     Se e’ cavalcava da sera o mattina,
     Talvolta per fuggir le sue donne ozio,
     Ministravan lanifero negozio.

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127 La madre sua, ch’era Berta chiamata,
     Sempre la tenne con debito onore,
     Acciò che fussi la legge osservata
     Di Moisè da quel primo dottore:
     Era di Grecia, di gran sangue nata,
     Figlia di Eraclio degno imperatore:
     Or basti una parola, uditor mio,
     Ch’ogni cosa ben fa chi teme Iddio.

128 Dunque giusta la vita, retta e buona,
     È stata del mio Carlo veramente;
     E tenuto ha lo imperio e la corona,
     Come magno signor felicemente:
     Ma perchè intanto una tuba risuona
     In altra parte, e per tutto si sente;
     Benchè la istoria sia degna e famosa,
     Convien che fine pure abbi ogni cosa.

129 E s’io non ho quanto conviensi a Carlo
     Satisfatto co’ versi e col mio ingegno,
     Io non posso il mio arco più sbarrarlo
     Tanto ch’io passi il consueto segno;
     E dicone mia colpa, e ristorarlo
     Aspetto al tempo del figliuol suo degno,
     Ch’io farò in terra più che Semideo,
     Dove sarà Ciriffo Calvaneo.

130 I’ho condotto in porto la mia barca,
     Non vo’ più tentare ora Abila e Calpe;
     Per che più oltre il mio nocchier non varca,
     Per non trovarsi come spesso talpe,
     O come quel ch’entrò nella santa arca:
     Tanto che i monti si scuoprino o l’alpe
     Pel tempo ancor pur nebuloso e torbo,
     Ed aspettar che ritorni a me il corbo.

131 Non ch’io pensi star surto sempre fermo;
     Chè s’io vorrò passar più là che Ulisse,
     Donna è nel ciel che mi fia sempre schermo;
     Ma non pensai che innanzi al fin morisse.
     Questa fia la mia stella e ’l mio Sant’Ermo:
     E perchè prima in alto mar mi misse,
     Come spirto beato tutto vede,
     Ricorderassi ancor della mia fede.

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132 Sare’ forse materia accomodata
     Con la vita di Carlo tanto eletta
     La vita di tal donna comparata,
     Lucrezia Tornabuona, anzi perfetta,
     Nella sedia sua antica rivocata
     Dalla Vergine eterna benedetta
     Che riveder la sua devota applaude,
     E canta or forse le sue sante laude.

133 Quivi si legge or della sua Maria
     La vita, ove il suo libro è sempre aperto,
     E d’Esdra, di Giuditta e di Tobia;
     Quivi si rende giusto premio e merto,
     Quivi s’intende or l’alta fantasia
     A descriver Giovanni nel deserto;
     Quivi cantano or gli angeli i suoi versi,
     Dove il ver d’ogni cosa può vedersi.

134 Natura intese far quel ch’ella volle,
     Una donna famosa al secol nostro,
     Che per sè stessa sè dall’altre estolle
     Tanto, che manca ogni penna, ogni inchiostro:
     Non la conobbe il mondo cieco e folle,
     Benchè il vero valor chiaro fu mostro,
     Come il Signor che colassù la serra,
     Che adorata l’arebbe in cielo e in terra.

135 Quanti beni ha commessi, a quanti mali
     Ovviato costei, mentre era in vita!
     Però con la sue veste nuziali
     L’anima in cielo a Dio si rimarita,
     Quel dì che il santo messo aperse l’alei
     Per la sua carità tanto infinita:
     Sì che ancor prego che lassù m’accetti
     Tra’ servi suoi nel numer degli eletti.

136 E s’i’ ho satisfatto al suo desio,
     Basta a me tanto, e son di ciò contento:
     Altro premio, altro onor non domando io,
     Altro piacer che di godermi drento;
     E so ch’egli è lassù Morgante mio:
     Però s’alcun malivolo qui sento,
     Adatterà il battaglio ancor dal cielo,
     In qualche modo a scardassargli il pelo.

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137 Portin certi uccellacci un sasso in bocca,
     Come quelle oche al monte Taureo,
     Per non gracchiar, chè poi il falcon le tocca,
     Ch’io gli farò girar come paleo;
     Ed ho sempre la sferza in su la scocca,
     Perch’io fu’ prima che gigante reo:
     Non morda13 ignun chi ha zanne, non che denti,
     Dice il proverbio; io non dico altrimenti.

138 Io non domando grillanda d’alloro
     Di che i Greci e’ Latin chieggon corona;
     Io non chieggo altra penna, altro stil d’oro,
     A cantar d’Aganippe e d’Elicona;
     Io me ne vo pe’ boschi puro e soro
     Con la mia zampognetta che pur suona,
     E basta a me trovar Tirsi e Dameta:
     Ch’io non son buon pastor, non che poeta.

139 Anzi non son prosuntuoso tanto,
     Quanto quel folle antico citarista,
     A cui tolse già Apollo il vivo ammanto;
     Nè tanto satir, quant’io paio in vista:
     Altri verrà con altro stile e canto,
     Con miglior cetra, e più sovrano artista;
     Io mi starò tra faggi e tra bifulci,
     Che non disprezzin le muse del Pulci.

140 Io me n’andrò con la barchetta mia,
     Quanto l’acqua comporta un piccol legno;
     E ciò ch’io penso con la fantasia,
     Di piacere ad ognuno è 'l mio disegno:
     Convien che varie cose al mondo sia,
     Come son varii volti e vario ingegno,
     E piace all’uno il bianco, all’altro il perso,
     O diverse materie in prosa o in verso.

141 Forse coloro ancor che leggeranno,
     Di questa tanto piccola favilla
     La mente con poca esca accenderanno
     De’ monti o di Parnaso o di Sibilla;
     E de’ miei fior come ape piglieranno
     I dotti, s’alcun dolce ne distilla;
     Il resto a molti pur darà diletto,
     E lo autore ancor fia benedetto.

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142 Ben so che spesso, come già Morgante,
     Lasciato ho forse troppo andar la mazza;
     Ma dove sia poi giudice bastante,
     Materia c’è da camera e da piazza:
     Ed avvien, che chi usa con gigante,
     Convien che se n’appicchi qualche sprazza;
     Sì ch’io ho fatto con altro battaglio
     A mosca cieca, o talvolta a sonaglio.

143 Non sien dati miei versi a Varro o Tucca,14
     E’ basta il Bellincion ch’affermi e lodi,
     Che porge come amico, e non pilucca:
     I’ guarderò in sul ghiaccio ir con buon chiodi:
     Io porterò in su gli omeri la zucca,
     Nell’acqua cinto con sicuri nodi;
     E farò tanto quanto i savi fanno,
     Di perdonare a color che non sanno.

144 Ed oltre a questo e’ ne verrà il mio Antonio,
     Per cui la nostra cetra è gloriosa
     Del dolce verso materno ausonio,
     Benchè si stia là in quella valle ombrosa,
     Che fia del vero lume testimonio:
     Ognun so che riprende qualche cosa;
     Ma io non so s’e’ si son corvi o cigni
     I detrattori, o spiriti maligni.

145 Pertanto, io non aspetto il baldacchino,
     Non aspetto co’ pifferi l’ombrello,
     Non traggo fuori i nomi col verzino,
     Com’io veggo talvolta ogni libello;
     Quand’io sarò con quel mio Serafino,
     Io gli trarrò fuor forse col cervello:
     Perchè questo Agnol vi porrà la mano,15
     Nato per gloria di Montepulciano.

146 Questo è quel divo e quel famoso Alceo,
     A cui sol si consente il plettro d’oro,
     Che non invidia Anfione o Museo,
     Ma stassi all’ombra d’un famoso alloro;16
     E i monti sforza come il tracio Orfeo,
     E sempre intorno ha di Parnaso il coro,
     E l’acque ferma e i sassi muove e glebe,
     Ed a sua posta può richiuder Tebe.

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147 Io seguirò la sua famosa lira,
     Tanto dolce, soave, armonizzante,
     Che come calamita a sè mi tira,
     Tanto che insieme troverem Pallante;
     Perchè sendo ambo messi in una pira,17
     Segni farà del nostro amor constante,
     D’una morte un sepulcro, un epigramma,
     Per qualche effetto l’una e l’altra fiamma.

148 Noi ce n’andrem per le famose rive
     D’Eurote, e pe’ gioghi là di Cinto,
     Dove le muse ausonie ed argive
     Gli portan chi Narciso e chi Jacinto:
     Io sentirò cose alte e magne e dive,
     Che non sentì mai Pindo o Aracinto:
     Io condurrò Pallante a Delfi e Delo,
     Poi se n’andrà, come Quirino, in cielo.

149 Questo sarà quel Pollione18 in Roma,
     Questo sarà quel magno Mecenate,
     A cui sempre ogni musa è perizoma.19
     Pertanto, spirti degni, or vi svegliate,
     Perchè fiorir farà nostro idioma,
     Tanto fien le sue opre celebrate:
     Materia avete innanzi agli occhi degna,
     Che per se stessa sè laudare insegna.

150 Veggo tutte le grazie a una a una,
     Veggo tutte le ninfe le più belle,
     Veggo che Palla con lor si rauna
     A cantar le sue laude insieme a quelle;
     E non può contra opporsi la Fortuna,
     Chè il sapiente supera le stelle;
     E la grazia del ciel gran segni mostra,
     Che questo è il vero onor della età nostra.

151 Surge d’un fresco e prezioso lauro20
     Certe piante gentil, certi rampolli,
     Che mi par già sentir dall’Indo al Mauro
     Tante cetre, e Mercurj, e tanti Apolli,
     Che certo e’ sarà presto il mondo d’auro,
     Ch’era già presso agli ultimi suoi crolli:
     Tornano i tempi felici che furno
     Quando e’ regnò quel buon signor Saturno.

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152 Benigni secul, che già lieti fêrsi,
     Tornate a modular le nostre lire,
     Chè la mia fantasia non può tenersi,
     Come ruota che mossa ancor vuol ire.
     Chi negherebbe a Gallo giammai versi?
     Pro re, pauca dissi al mio desire.
     Or sia qui fine al nostro ultimo canto,
     Con pace, e gaudio, e col saluto santo.





153 Salve Regina, madre gloriosa,21
     Vita e speranza sì dolce e soave;
     A te per colpa della antica sposa,
     Piangendo e sospirando, gridiamo Ave,
     In questa valle tanto lacrimosa:
     Però tu, che per noi volgi la chiave,
     Deh volgi i pietosi occhi al nostro esiglio,
     Mostrandoci, Maria dolce, il tuo figlio.

154 Degnami, se ’l mio priego è giusto e degno,
     Ch’io possi te laudar, Virgo sacrata;
     Donami grazia, e virtù pronta, e ingegno
     Contra a’ nimici tuoi, nostra avvocata:
     E perchè in porto hai condotto mio legno,
     Io ti ringrazio, Vergine beata:
     Con la tua grazia cominciai la storia;
     Con la tua grazia al fin mi darai gloria.

155 Con la tua grazia, Vergine Maria,
     Conserva la devota alma e verace
     Mona Lucrezia tua, benigna e pia,
     Con carità perfetta e vera pace;
     Anzi essaudir puoi ciò che lei desia,
     Chè sempre chiederà quel che a te piace:
     Sì che lei prego per le sue virtute,
     Che per me impetri grazia di salute.

  1. [p. 438 modifica]Perchè donna ec. Lucrezia Tornabuoni, già morta quando il Pulci dette fine al suo Poema.
  2. [p. 438 modifica]ferzo. Forse invece di ferza, per comodo della rima.
  3. [p. 438 modifica]pattini. Specie di scarpe, e [p. 439 modifica]pianelle, colle quali si cammina sul ghiaccio
  4. [p. 439 modifica]aguglia. Pertica da scandagliare.
  5. [p. 439 modifica]D’un zucchero. È tutto allegro, e s’è tratto fuor della mente ogni pensiero.
  6. [p. 439 modifica]in quelle croce sante. Nel pianeta di Marte, dove Dante collocò coloro che son morti militando per la Fede. Vedi Paradiso, Canto XIV, e seg.
  7. [p. 439 modifica]Lattanzio. Scrisse in versi le prime gesta di Carlo Magno. Le favolose istorie che esso racconta, e che il Poeta accenna nelle seguenti ottave, non meritano trattenervisi.
  8. [p. 439 modifica]Non so se troppa mazza ec. Metter troppa mazza si dice d’uno il quale in favellando entri troppo addentro, e dica cose che non ne vendano gli speziali, e in somma che dispiacciano; onde corra rischio di doverne esser ripreso, o gastigato. Così il Varchi nell’Ercolano.
  9. [p. 439 modifica]E perchè intanto ec. Sono note abbastanza le guerre di Carlo Magno in Italia, da esso liberata del longobardico giogo. Però non mi intrattengo a parlarne distesamente, avendo già nella Prefazione dichiarato come di siffatte cose solamente quel poco toccato avrei che meno alla comun portata esser mi fosse sembrato.
  10. [p. 439 modifica]salti... Pirenei. Le selve dei Pirenei, dal latino saltus.
  11. [p. 439 modifica]Rifece e rinnovò l’alma Fiorenza. Abbellì Carlo Magno Firenze, ma non la rifece, conciossiachè sia oramai dimostrato essere del tutto favoloso, che essa da Totila, o come altri volle da Attila, venisse distrutta.
  12. [p. 249 modifica]
  13. [p. 249 modifica]
  14. [p. 439 modifica]Varro o Tucca. Furono i raccoglitori delle opere di Virgilio.
  15. [p. 439 modifica]vi porrà la mano. Chiaro apparisce anche da questo passo che il Poliziano aiutasse il Pulci nel comporre il suo Poema. Alcuno ha creduto, ma contro il vero, che sotto nome del Pulci il Morgante fosse intieramente opera del Montepulcianese.
  16. [p. 439 modifica]all’ombra d'un famoso alloro. Di Lorenzo il Magnifico.
  17. [p. 439 modifica]Perchè sendo ambi ec. Al contrario di quello che avvenne della pira su cui ardevano Eteoclo e Polinice, la quale per segno dell’odio dei due fratelli, da sè medesima si divise.
  18. [p. 439 modifica]Pollione. Colui del quale tanto altamente parla Virgilio nella Egloga VI.
  19. [p. 439 modifica]è perizoma. Detto metaforicamente a significare come ogni Musa, cioè ogni Poeta, si cuopriva, e per così dire si vestiva del nome e del favore di Mecenate. Perizoma si dice propriamente quel vestimento che cuopre le parti vergognose del corpo.
  20. [p. 439 modifica]Surge d’un fresco ec. Il lauro è al solito Lorenzo dei Medici. Se per i rampolli che sorgono di cotal pianta volle il Poeta significare quei sommi ingegni che sotto il favore di lui crebbero e furon giganti, ben disse il vero; ma se intese accennare a ciò che sarebbe addivenuta la sua discendenza, certo che gli fallì il vaticinio, conciossiachè la prole di Lorenzo mal s’agguagliasse alla eccellenza di tanto padre.
  21. [p. 439 modifica]Salve Regina. Parafrasi della Salve Regina. Il Poeta ha voluto finire com’egli avea cominciato, e fino all'ultimo miscere sacra profanis.