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Orlando furioso (1928)/Canto 17

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Canto decimosettimo

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Canto 16 Canto 18

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CANTO DECIMOSETTIMO

1
     Il giusto Dio, quando i peccati nostri
hanno di remission passato il segno,
acciò che la giustizia sua dimostri
uguale alla pietá, spesso dá regno
a tiranni atrocissimi et a mostri,
e dá lor forza e di mal fare ingegno.
Per questo Mario e Silla pose al mondo,
e duo Neroni e Caio furibondo,

2
     Domizïano e l’ultimo Antonino;
e tolse da la immonda e bassa plebe,
et esaltò all’imperio Massimino;
e nascer prima fe’ Creonte a Tebe;
e diè Mezenzio al populo Agilino,
che fe’ di sangue uman grasse le glebe;
e diede Italia a tempi men remoti
in preda agli Unni, ai Longobardi, ai Goti.

3
     Che d’Atila dirò? che de l’iniquo
Ezzellin da Roman? che d’altri cento?
che dopo un lungo andar sempre in obliquo,
ne manda Dio per pena e per tormento.
Di questo abbián non pur al tempo antiquo,
ma ancora al nostro, chiaro esperimento,
quando a noi, greggi inutili e malnati,
ha dato per guardian lupi arrabbiati:

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4
     a cui non par ch’abbi a bastar lor fame,
ch’abbi il lor ventre a capir tanta carne;
e chiaman lupi di piú ingorde brame
da boschi oltramontani a divorarne.
Di Trasimeno l’insepulto ossame
e di Canne e di Trebia poco parne
verso quel che le ripe e i campi ingrassa,
dov’Ada e Mella e Ronco e Tarro passa.

5
     Or Dio consente che noi sián puniti
da populi di noi forse peggiori,
per li multiplicati et infiniti
nostri nefandi, obbrobriosi errori.
Tempo verrá ch’a depredar lor liti
andremo noi, se mai saren migliori,
e che i peccati lor giungano al segno,
che l’eterna Bontá muovano a sdegno.

6
     Doveano allora aver gli eccessi loro
di Dio turbata la serena fronte,
che scórse ogni lor luogo il Turco e ’l Moro
con stupri, uccisïon, rapine et onte:
ma piú di tutti gli altri danni, fôro
gravati dal furor di Rodomonte.
Dissi ch’ebbe di lui la nuova Carlo,
e che ’n piazza venía per ritrovarlo.

7
     Vede tra via la gente sua troncata,
arsi i palazzi, e ruinati i templi,
gran parte de la terra desolata:
mai non si vider sí crudeli esempli.
— Dove fuggite, turba spaventata?
Non è tra voi chi ’l danno suo contempli?
Che cittá, che refugio piú vi resta,
quando si perda sí vilmente questa?

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8
     Dunque un uom solo in vostra terra preso,
cinto di mura onde non può fuggire,
si partirá che non l’avrete offeso,
quando tutti v’avrá fatto morire? —
Cosí Carlo dicea, che d’ira acceso
tanta vergogna non potea patire.
E giunse dove inanti alla gran corte
vide il pagan por la sua gente a morte.

9
     Quivi gran parte era del populazzo,
sperandovi trovare aiuto, ascesa;
perché forte di mura era il palazzo,
con munizion da far lunga difesa.
Rodomonte, d’orgoglio e d'ira pazzo,
solo s’avea tutta la piazza presa:
e l’una man, che prezza il mondo poco,
ruota la spada, e l’altra getta il fuoco.

10
     E de la regal casa, alta e sublime,
percuote e risuonar fa le gran porte.
Gettan le turbe da le eccelse cime
e merli e torri, e si metton per morte.
Guastare i tetti non è alcun che stime;
e legne e pietre vanno ad una sorte,
lastre e colonne, e le dorate travi
che furo in prezzo agli lor padri e agli avi.

11
     Sta su la porta il re d’Algier, lucente
di chiaro acciar che ’l capo gli arma e ’l busto,
come uscito di tenebre serpente,
poi c’ha lasciato ogni squalor vetusto,
del nuovo scoglio altiero, e che si sente
ringiovenito e piú che mai robusto:
tre lingue vibra, et ha negli occhi foco;
dovunque passa, ogn’animal dá loco.

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12
     Non sasso, merlo, trave, arco o balestra,
né ciò che sopra il Saracin percuote,
ponno allentar la sanguinosa destra
che la gran porta taglia, spezza e scuote:
e dentro fatto v’ha tanta finestra,
che ben vedere e veduto esser puote
dai visi impressi di color di morte,
che tutta piena quivi hanno la corte.

13
     Suonar per gli alti e spazïosi tetti
s’odono gridi e feminil lamenti:
l’afflitte donne, percotendo i petti,
corron per casa pallide e dolenti;
e abbracciati gli usci e i genïali letti
che tosto hanno a lasciare a strane genti.
Tratta la cosa era in periglio tanto,
quando ’l re giunse, e suoi baroni accanto.

14
     Carlo si volse a quelle man robuste
ch’ebbe altre volte a gran bisogni pronte.
— Non sète quelli voi, che meco fuste
contra Agolante (disse) in Aspramonte?
Sono le forze vostre ora sí fruste,
che, s’uccideste lui, Troiano e Almonte
con centomila, or ne temete un solo
pur di quel sangue e pur di quello stuolo?

15
     Perché debbo vedere in voi fortezza
ora minor ch’io la vedessi allora?
Mostrate a questo can vostra prodezza,
a questo can che gli uomini devora.
Un magnanimo cor morte non prezza,
presta o tarda che sia, pur che ben muora.
Ma dubitar non posso ove voi sète,
che fatto sempre vincitor m’avete. —

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16
     Al fin de le parole urta il destriero,
con l’asta bassa, al Saracino adosso.
Mossesi a un tratto il paladino Ugiero,
a un tempo Namo et Ulivier si è mosso,
Avino, Avolio, Otone e Berlingiero,
ch’un senza l’altro mai veder non posso:
e ferir tutti sopra a Rodomonte
e nel petto e nei fianchi e ne la fronte.

17
     Ma lasciamo, per Dio, Signore, ormai
di parlar d’ira e di cantar di morte;
e sia per questa volta detto assai
del Saracin non men crudel che forte:
che tempo è ritornar dov’io lasciai
Grifon, giunto a Damasco in su le porte
con Orrigille perfida, e con quello
ch’adulter era, e non di lei fratello.

18
     De le piú ricche terre di Levante,
de le piú populose e meglio ornate
si dice esser Damasco, che distante
siede a Ierusalem sette giornate,
in un piano fruttifero e abondante,
non men giocondo il verno, che l’estate.
A questa terra il primo raggio tolle
de la nascente aurora un vicin colle.

19
     Per la cittá duo fiumi cristallini
vanno inaffiando per diversi rivi
un numero infinito di giardini,
non mai di fior, non mai di fronde privi.
Dicesi ancor, che macinar molini
potrian far l’acque lanfe che son quivi;
e chi va per le vie vi sente, fuore
di tutte quelle case, uscire odore.

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20
     Tutta coperta è la strada maestra
di panni di diversi color lieti;
e d’odorifera erba, e di silvestra
fronda la terra e tutte le pareti.
Adorna era ogni porta, ogni finestra
di finissimi drappi e di tapeti,
ma piú di belle e ben ornate donne
di ricche gemme e di superbe gonne.

21
     Vedeasi celebrar dentr’alle porte,
in molti lochi, solazzevol balli;
il popul, per le vie, di miglior sorte
maneggiar ben guarniti e bei cavalli:
facea piú bel veder la ricca corte
de’ signor, de’ baroni e de’ vasalli,
con ciò che d’India e d’eritree maremme
di perle aver si può, d’oro e di gemme.

22
     Venía Grifone e la sua compagnia
mirando e quinci e quindi il tutto ad agio,
quando fermolli un cavalliero in via,
e gli fece smontare a un suo palagio;
e per l’usanza e per sua cortesia
di nulla lasciò lor patir disagio.
Li fe’ nel bagno entrar, poi con serena
fronte gli accolse a sontuosa cena.

23
     E narrò lor come il re Norandino,
re di Damasco e di tutta Soria,
fatto avea il paesano e ’l peregrino
ch’ordine avesse di cavalleria,
alla giostra invitar, ch’al matutino
del dí sequente in piazza si faria;
e che s’avean valor pari al sembiante,
potrian mostrarlo senza andar piú inante.

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24
     Ancor che quivi non venne Grifone
a questo effetto, pur lo ’nvito tenne;
che qual volta se n’abbia occasione,
mostrar virtude mai non disconvenne.
Interrogollo poi de la cagione
di quella festa, e s’ella era solenne
usata ogn’anno, o pure impresa nuova
del re ch’i suoi veder volesse in pruova.

25
     Rispose il cavallier: — La bella festa
s’ha da far sempre ad ogni quarta luna:
de l’altre che verran, la prima è questa:
ancora non se n’è fatta piú alcuna.
Sará in memoria che salvò la testa
il re in tal giorno da una gran fortuna,
dopo che quattro mesi in doglie e ’n pianti
sempre era stato, e con la morte inanti.

26
     Ma per dirvi la cosa pienamente,
il nostro re, che Norandin s’appella,
molti e molt’anni ha avuto il core ardente
de la leggiadra e sopra ogn’altra bella
figlia del re di Cipro: e finalmente
avutala per moglie, iva con quella,
con cavallieri e donne in compagnia;
e dritto avea il camin verso Soria.

27
     Ma poi che fummo tratti a piene vele
lungi dal porto nel Carpazio iniquo,
la tempesta saltò tanto crudele,
che sbigottí sin al padrone antiquo.
Tre dí e tre notti andammo errando ne le
minacciose onde per camino obliquo.
Uscimo al fin nel lito stanchi e molli,
tra freschi rivi, ombrosi e verdi colli.

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28
     Piantare i padiglioni, e le cortine
fra gli arbori tirar facemo lieti.
S’apparechiano i fuochi e le cucine;
le mense d’altra parte in su tapeti.
Intanto il re cercando alle vicine
valli era andato e a’ boschi piú secreti,
se ritrovasse capre o daini o cervi;
e l’arco gli portâr dietro duo servi.

29
     Mentre aspettamo, in gran piacer sedendo,
che da cacciar ritorni il signor nostro,
vedemo l’Orco a noi venir correndo
lungo il lito del mar, terribil mostro.
Dio vi guardi, signor, che ’l viso orrendo
de l’Orco agli occhi mai vi sia dimostro:
meglio è per fama aver notizia d’esso,
ch’andargli, sí che lo veggiate, appresso.

30
     Non gli può comparir quanto sia lungo,
sí smisuratamente è tutto grosso.
In luogo d’occhi, di color di fungo
sotto la fronte ha duo coccole d’osso.
Verso noi vien (come vi dico) lungo
il lito, e par ch’un monticel sia mosso.
Mostra le zanne fuor, come fa il porco;
ha lungo il naso, il sen bavoso e sporco.

31
     Correndo viene, e ’l muso a guisa porta
che ’l bracco suol, quando entra in su la traccia.
Tutti che lo veggiam, con faccia smorta
in fuga andamo ove il timor ne caccia.
Poco il veder lui cieco ne conforta,
quando, fiutando sol, par che piú faccia,
ch’altri non fa, ch’abbia odorato e lume:
e bisogno al fuggire eran le piume.

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32
     Corron chi qua chi lá; ma poco lece
da lui fuggir, veloce piú che ’l Noto.
Di quaranta persone, a pena diece
sopra il navilio si salvaro a nuoto.
Sotto il braccio un fastel d’alcuni fece,
né il grembio si lasciò né il seno vòto;
un suo capace zaino empissene anco,
che gli pendea, come a pastor, dal fianco.

33
     Portòci alla sua tana il mostro cieco,
cavata in lito al mar dentr’uno scoglio.
Di marmo cosí bianco è quello speco,
come esser soglia ancor non scritto foglio.
Quivi abitava una matrona seco,
di dolor piena in vista e di cordoglio;
et avea in compagnia donne e donzelle
d’ogni etá, d’ogni sorte, e brutte e belle.

34
     Era presso alla grotta in ch’egli stava,
quasi alla cima del giogo superno,
un’altra non minor di quella cava,
dove del gregge suo facea governo.
Tanto n’avea, che non si numerava;
e n’era egli il pastor l’estate e ’l verno.
Ai tempi suoi gli apriva e tenea chiuso,
per spasso che n’avea, piú che per uso.

35
     L’umana carne meglio gli sapeva:
e prima il fa veder ch’all’antro arrivi;
che tre de’ nostri giovini ch’aveva,
tutti li mangia, anzi trangugia vivi.
Viene alla stalla, e un gran sasso ne leva:
ne caccia il gregge, e noi riserra quivi.
Con quel sen va dove il suol far satollo,
sonando una zampogna ch’avea in collo.

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36
     Il signor nostro intanto ritornato
alla marina, il suo danno comprende;
che truova gran silenzio in ogni lato,
vòti frascati, padiglioni e tende.
Né sa pensar chi sí l’abbia rubato;
e pien di gran timore al lito scende,
onde i nocchieri suoi vede in disparte
sarpar lor ferri e in opra por le sarte.

37
     Tosto ch’essi lui veggiono sul lito,
il palischermo mandano a levarlo:
ma non sí tosto ha Norandino udito
de l’Orco che venuto era a rubarlo,
che, senza piú pensar, piglia partito,
dovunque andato sia, di seguitarlo.
Vedersi tor Lucina sí gli duole,
ch’o racquistarla, o non piú viver vuole.

38
     Dove vede apparir lungo la sabbia
la fresca orma, ne va con quella fretta
con che lo spinge l’amorosa rabbia,
fin che giunge alla tana ch’io v’ho detta:
ove con tema la maggior che s’abbia
a patir mai, l’Orco da noi s’aspetta:
ad ogni suono di sentirlo parci,
ch’affamato ritorni a divorarci.

39
     Quivi Fortuna il re da tempo guida,
che senza l’Orco in casa era la moglie.
Come ella ’l vede: — Fuggine! (gli grida)
misero te, se l’Orco ti ci coglie! —
— Coglia (disse) o non coglia, o salvi o uccida,
che miserrimo i’ sia non mi si toglie.
Disir mi mena, e non error di via,
c’ho di morir presso alla moglie mia.—

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40
     Poi seguí, dimandandole novella
di quei che prese l’Orco in su la riva;
prima degli altri, di Lucina bella,
se l’avea morta, o la tenea captiva.
La donna umanamente gli favella,
e lo conforta, che Lucina è viva,
e che non è alcun dubbio ch’ella muora;
che mai femina l’Orco non divora.

41
     — Esser di ciò argumento ti poss’io,
e tutte queste donne che son meco:
né a me né a lor mai l’Orco è stato rio,
pur che non ci scostian da questo speco.
A chi cerca fuggir, pon grave fio;
né pace mai puon ritrovar piú seco:
o le sotterra vive, o l’incatena,
o fa star nude al sol sopra l’arena.

42
     Quando oggi egli portò qui la tua gente,
le femine dai maschi non divise;
ma, sí come gli avea, confusamente
dentro a quella spelonca tutti mise.
Sentirá a naso il sesso differente.
Le donne non temer che sieno uccise:
gli uomini, siene certo; et empieranne
di quattro, il giorno, o sei, l’avide canne.

43
     Di levar lei di qui non ho consiglio
che dar ti possa; e contentar ti puoi
che ne la vita sua non è periglio:
stará qui al ben e al mal ch’avremo noi.
Ma vattene, per Dio, vattene, figlio,
che l’Orco non ti senta e non t’ingoi.
Tosto che giunge, d’ogn’intorno annasa,
e sente sin a un topo che sia in casa. —

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44
     Rispose il re, non si voler partire,
se non vedea la sua Lucina prima;
e che piú tosto appresso a lei morire,
che viverne lontan, faceva stima.
Quando vede ella non potergli dire
cosa che ’l muova da la voglia prima,
per aiutarlo fa nuovo disegno,
e ponvi ogni sua industria, ogni suo ingegno.

45
     Morte avea in casa, e d’ogni tempo appese,
con lor mariti, assai capre et agnelle,
onde a sé et alle sue facea le spese;
e dal tetto pendea piú d’una pelle.
Le donna fe’ che ’l re del grasso prese,
ch’avea un gran becco intorno alle budelle,
e che se n’unse dal capo alle piante,
fin che l’odor cacciò ch’egli ebbe inante.

46
     E poi che ’l tristo puzzo aver le parve,
di che il fetido becco ognora sape,
piglia l’irsuta pelle, e tutto entrarve
lo fe’; ch’ella è sí grande che lo cape.
Coperto sotto a cosí strane larve,
facendol gir carpon, seco lo rape
lá dove chiuso era d’un sasso grave
de la sua donna il bel viso soave.

47
     Norandino ubidisce; et alla buca
de la spelonca ad aspettar si mette,
acciò col gregge dentro si conduca;
e fin a sera disïando stette.
Ode la sera il suon de la sambuca,
con che ’nvita a lassar l’umide erbette,
e ritornar le pecore all’albergo
il fier pastor che lor venía da tergo.

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48
     Pensate voi se gli tremava il core,
quando l’Orco sentí che ritornava,
e che ’l viso crudel pieno d’orrore
vide appressare all’uscio de la cava;
ma potè la pietá piú che ’l timore:
s’ardea, vedete, o se fingendo amava.
Vien l’Orco inanzi, e leva il sasso, et apre:
Norandino entra fra pecore e capre.

49
     Entrato il gregge, l’Orco a noi descende;
ma prima sopra sé l’uscio si chiude.
Tutti ne va fiutando: al fin duo prende;
che vuol cenar de le lor carni crude.
Al rimembrar di quelle zanne orrende,
non posso far ch’ancor non trieme e sude.
Partito l’Orco, il re getta la gonna
ch’avea di becco, e abbraccia la sua donna.

50
     Dove averne piacer deve e conforto,
vedendol quivi, ella n’ha affanno e noia:
lo vede giunto ov’ha da restar morto;
e non può far però ch’essa non muoia.
— Con tutto’l mal (diceagli) ch’io supporto,
signor, sentia non medïocre gioia,
che ritrovato non t’eri con nui
quando da l’Orco oggi qui tratta fui.

51
     Che se ben il trovarmi ora in procinto
d’uscir di vita m’era acerbo e forte;
pur mi sarei, come è commune instinto,
dogliuta sol de la mia trista sorte:
ma ora, o prima o poi che tu sia estinto,
piú mi dorrá la tua che la mia morte. —
E seguitò, mostrando assai piú affanno
di quel di Norandin, che del suo danno.

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52
     — La speme (disse il re) mi fa venire,
c’ho di salvarti, e tutti questi teco:
e s’io nol posso far, meglio è morire,
che senza te, mio sol, viver poi cieco.
Come io ci venni, mi potrò partire;
e voi tutt’altri ne verrete meco,
se non avrete, come io non ho avuto,
schivo a pigliare odor d’animal bruto. —

53
     La fraude insegnò a noi, che contra il naso
de l’Orco insegnò a-llui la moglie d’esso;
di vestirci le pelli, in ogni caso
ch’egli ne palpi ne l’uscir del fesso.
Poi che di questo ognun fu persuaso;
quanti de l’un, quanti de l’altro sesso
ci ritroviamo, uccidian tanti becchi,
quelli che piú fetean, ch’eran piú vecchi.

54
     Ci ungemo i corpi di quel grasso opimo
che ritroviamo all’intestina intorno,
e de l’orride pelli ci vestimo.
Intanto uscí da l’aureo albergo il giorno.
Alla spelonca, come apparve il primo
raggio del sol, fece il pastor ritorno;
e dando spirto alle sonore canne,
chiamò il suo gregge fuor de le capanne.

55
     Tenea la mano al buco de la tana,
acciò col gregge non uscissin noi:
ci prendea al varco; e quando pelo o lana
sentia sul dosso, ne lasciava poi.
Uomini e donne uscimmo per sí strana
strada, coperti dagl’irsuti cuoi:
e l’Orco alcun di noi mai non ritenne,
fin che con gran timor Lucina venne.

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56
     Lucina, o fosse perch’ella non volle
ungersi come noi, che schivo n’ebbe;
o ch’avesse l’andar piú lento e molle,
che l’imitata bestia non avrebbe;
o quando l’Orco la groppa toccolle,
gridasse per la tema che le accrebbe;
o che se le sciogliessero le chiome;
sentita fu, né ben so dirvi come.

57
     Tutti eravam sí intenti al caso nostro,
che non avemmo gli occhi agli altrui fatti.
Io mi rivolsi al grido; e vidi il mostro
che giá gl’irsuti spogli le avea tratti,
e fattola tornar nel cavo chiostro.
Noi altri dentro a nostre gonne piatti
col gregge andamo ove ’l pastor ci mena,
tra verdi colli in una piaggia amena.

58
     Quivi attendiamo infin che steso all’ombra
d’un bosco opaco il nasuto Orco dorma.
Chi lungo il mar, chi verso ’l monte sgombra:
sol Norandin non vuol seguir nostr’orma.
L’amor de la sua donna sí lo ’ngombra,
ch’alla grotta tornar vuol fra la torma,
né partirsene mai sin alla morte,
se non racquista la fedel consorte:

59
     che quando dianzi avea all’uscir del chiuso
vedutala restar captiva sola,
fu per gittarsi, dal dolor confuso,
spontaneamente al vorace Orco in gola;
e si mosse, e gli corse infino al muso,
né fu lontano a gir sotto la mola:
ma pur lo tenne in mandra la speranza
ch’avea di trarla ancor di quella stanza.

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60
     La sera, quando alla spelonca mena
il gregge l’Orco, e noi fuggiti sente,
e c’ha da rimaner privo di cena,
chiama Lucina d’ogni mal nocente,
e la condanna a star sempre in catena
allo scoperto in sul sasso eminente.
Vedela il re per sua cagion patire,
e si distrugge, e sol non può morire.

61
     Matina e sera l’infelice amante
la può veder come s’affliga e piagna;
che le va misto fra le capre avante,
torni alla stalla o torni alla campagna.
Ella con viso mesto e supplicante
gli accenna che per Dio non vi rimagna,
perché vi sta a gran rischio de la vita,
né però a-llei può dare alcuna aita.

62
     Così la moglie ancor de l’Orco priega
il re che se ne vada, ma non giova;
che d’andar mai senza Lucina niega,
e sempre piú constante si ritruova.
In questa servitude, in che lo lega
Pietate e Amor, stette con lunga pruova
tanto, ch’a capitar venne a quel sasso
il figlio d’Agricane e ’l re Gradasso.

63
     Dove con loro audacia tanto fenno,
che liberaron la bella Lucina;
ben che vi fu aventura piú che senno:
e la portar correndo alla marina;
e al padre suo, che quivi era, la denno:
e questo fu ne l’ora matutina,
che Norandin con l’altro gregge stava
a ruminar ne la montana cava.

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64
     Ma poi che ’l giorno aperta fu la sbarra,
e seppe il re la donna esser partita
(che la moglie de l’Orco gli lo narra),
e come a punto era la cosa gita;
grazie a Dio rende, e con voto n’inarra,
ch’essendo fuor di tal miseria uscita,
faccia che giunga onde per arme possa,
per prieghi o per tesoro, esser riscossa.

65
     Pien di letizia va con l’altra schiera
del simo gregge, e viene ai verdi paschi;
e quivi aspetta fin ch’all’ombra nera
il mostro per dormir ne l’erba caschi.
Poi ne vien tutto il giorno e tutta sera;
e al fin sicur che l’Orco non lo ’ntaschi,
sopra un navilio monta in Satalia;
e son tre mesi ch’arrivò in Soria.

66
     In Rodi, in Cipro, e per cittá e castella
e d’Africa e d’Egitto e di Turchia,
il re cercar fe’ di Lucina bella;
né fin l’altr’ieri aver ne poté spia.
L’altr’ier n’ebbe dal suocero novella,
che seco l’avea salva in Nicosia,
dopo che molti dí vento crudele
era stato contrario alle sue vele.

67
     Per allegrezza de la buona nuova
prepara il nostro re la ricca festa;
e vuol ch’ad ogni quarta luna nuova,
una se n’abbia a far simile a questa:
che la memoria rifrescar gli giova
dei quattro mesi che ’n irsuta vesta
fu tra il gregge de l’Orco; e un giorno, quale
sará dimane, uscí di tanto male.

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68
     Questo ch’io v’ho narrato, in parte vidi,
in parte udi’ da chi trovossi al tutto;
dal re, vi dico, che calende et idi
vi stette, fin che volse in riso il lutto:
e se n’udite mai far altri gridi,
direte a chi gli fa, che mal n’è instrutto. —
Il gentiluomo in tal modo a Grifone
de la festa narrò l’alta cagione.

69
     Un gran pezzo di notte si dispensa
dai cavallieri in tal ragionamento;
e conchiudon ch’amore e pietá immensa
mostrò quel re con grande esperimento.
Andaron, poi che si levâr da mensa,
ove ebbon grato e buono alloggiamento.
Nel seguente matin sereno e chiaro,
al suon de l’allegrezze si destaro.

70
     Vanno scorrendo timpani e trombette,
e ragunando in piazza la cittade.
Or, poi che de cavalli e de carrette
e ribombar de gridi odon le strade,
Grifon le lucide arme si rimette,
che son di quelle che si trovan rade;
che l’avea impenetrabili e incantate
la Fata bianca di sua man temprate.

71
     Quel d’Antïochia, piú d’ogn’altro vile,
armossi seco, e compagnia gli tenne.
Preparate avea lor l’oste gentile
nerbose lance, e salde e grosse antenne,
e del suo parentado non umíle
compagnia tolta; e seco in piazza venne;
e scudieri a cavallo, e alcuni a piede,
a tal servigi attissimi, lor diede.

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72
     Giunsero in piazza, e trassonsi in disparte,
né pel campo curar far di sé mostra,
per veder meglio il bel popul di Marte,
ch’ad uno, o a dua, o a tre, veniano in giostra.
Chi con colori accompagnati ad arte
letizia o doglia alla sua donna mostra;
chi nel cimier, chi nel dipinto scudo
disegna Amor, se l’ha benigno o crudo.

73
     Sorïani in quel tempo aveano usanza
d’armarsi a questa guisa di Ponente.
Forse ve gli inducea la vicinanza
che de’ Franceschi avean continuamente,
che quivi allor reggean la sacra stanza
dove in carne abitò Dio onnipotente;
ch’ora i superbi e miseri cristiani,
con biasmi lor, lasciano in man de’ cani.

74
     Dove abbassar dovrebbono la lancia
in augumento de la santa fede,
tra lor si dan nel petto e ne la pancia
a destruzion del poco che si crede.
Voi, gente ispana, e voi, gente di Francia,
volgete altrove, e voi, Svizzeri, il piede,
e voi, Tedeschi, a far piú degno acquisto;
che quanto qui cercate è giá di Cristo.

75
     Se Cristianissimi esser voi volete,
e voi altri Catolici nomati,
perché di Cristo gli uomini uccidete?
perché de’ beni lor son dispogliati?
Perché Ierusalem non rïavete,
che tolto è stato a voi da’ rinegati?
Perché Constantinopoli e del mondo
la miglior parte occupa il Turco immondo?

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76
     Non hai tu, Spagna, l’Africa vicina,
che t’ha via piú di questa Italia offesa?
E pur, per dar travaglio alla meschina,
lasci la prima tua sí bella impresa.
O d’ogni vizio fetida sentina,
dormi, Italia imbrïaca, e non ti pesa
ch’ora di questa gente, ora di quella
che giá serva ti fu, sei fatta ancella?

77
     Se ’l dubbio di morir ne le tue tane,
Svizzer, di fame, in Lombardia ti guida,
e tra noi cerchi o chi ti dia del pane,
o, per uscir d’inopia, chi t’uccida;
le richezze del Turco hai non lontane:
caccial d’Europa, o almen di Grecia snida:
cosí potrai o del digiuno trarti,
o cader con piú merto in quelle parti.

78
     Quel ch’a te dico, io dico al tuo vicino
tedesco ancor: lá le richezze sono,
che vi portò da Roma Constantino:
portonne il meglio, e fe’ del resto dono.
Pattolo et Ermo, onde si tra’ l’or fino,
Migdonia e Lidia, e quel paese buono
per tante laudi in tante istorie noto,
non è, s’andar vi vuoi, troppo remoto.

79
     Tu, gran Leone, a cui premon le terga
de le chiavi del ciel le gravi some,
non lasciar che nel sonno si sommerga
Italia, se la man l’hai ne le chiome.
Tu sei Pastore; e Dio t’ha quella verga
data a portare, e scelto il fiero nome,
perché tu ruggi, e che le braccia stenda,
sí che dai lupi il grege tuo difenda.

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80
     Ma d’un parlar ne l’altro, ove sono ito
sí lungi dal camin ch’io faceva ora?
Non lo credo però sí aver smarrito,
ch’io non lo sappia ritrovare ancora.
Io dicea ch’in Soria si tenea il rito
d’armarsi, che i Franceschi aveano allora:
sí che bella in Damasco era la piazza
di gente armata d’elmo e di corazza.

81
     Le vaghe donne gettano dai palchi
sopra i giostranti fior vermigli e gialli,
mentre essi fanno a suon degli oricalchi
levare a salti et aggirar cavalli.
Ciascuno, o bene o mal ch’egli cavalchi,
vuol far quivi vedersi, e sprona e dálli:
di ch’altri ne riporta pregio e lode;
muove altri a riso, e gridar dietro s’ode.

82
     De la giostra era il prezzo un’armatura
che fu donata al re pochi dí inante,
che su la strada ritrovò a ventura,
ritornando d’Armenia, un mercatante.
Il re di nobilissima testura
le sopraveste all’arme aggiunse, e tante
perle vi pose intorno e gemme et oro,
che la fece valer molto tesoro.

83
     Se conosciute il re quell’arme avesse,
care avute l’avria sopra ogni arnese;
né in premio de la giostra l’avria messe,
come che liberal fosse e cortese.
Lungo saria chi raccontar volesse
chi l’avea sí sprezzate e vilipese,
che ’n mezzo de la strada le lasciasse,
preda a chiunque o inanzi o indietro andasse.

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84
     Di questo ho da contarvi piú di sotto:
or dirò di Grifon, ch’alla sua giunta
un paio e piú di lancie trovò rotto,
menato piú d’un taglio e d’una punta.
Dei piú cari e piú fidi al re fur otto
che quivi insieme avean lega congiunta;
gioveni, in arme pratichi et industri,
tutti o signori o di famiglie illustri.

85
     Quei rispondean ne la sbarrata piazza
per un dí, ad uno ad uno, a tutto ’l mondo,
prima con lancia, e poi con spada o mazza,
fin ch’al re di guardarli era giocondo;
e si foravan spesso la corazza:
per giuoco in somma qui facean, secondo
fan gli nimici capitali, eccetto
che potea il re partirli a suo diletto.

86
     Quel d’Antïochia, un uom senza ragione,
che Martano il codardo nominosse,
come se de la forza di Grifone,
poi ch’era seco, participe fosse,
audace entrò nel marzïale agone;
e poi da canto ad aspettar fermosse,
sin che finisce una battaglia fiera
che tra duo cavallier cominciata era.

78
     Il signor di Seleucia, di quell’uno,
ch’a sostener l’impresa aveano tolto,
combattendo in quel tempo con Ombruno,
lo feri d’una punta in mezzo ’l volto,
sí che l’uccise: e pietá n’ebbe ognuno,
perché buon cavallier lo tenean molto;
et oltra la bontade, il piú cortese
non era stato in tutto quel paese.

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88
     Veduto ciò, Martano ebbe paura
che parimente a sé non avvenisse;
e ritornando ne la sua natura,
a pensar cominciò come fugisse.
Grifon, che gli era appresso e n’avea cura,
lo spinse pur, poi ch’assai fece e disse,
contra un gentil guerrier che s’era mosso,
come si spinge il cane al lupo adosso;

89
     che dieci passi gli va dietro o venti,
e poi si ferma, et abbaiando guarda
come digrigni i minacciosi denti,
come negli occhi orribil fuoco gli arda.
Quivi ov’erano e principi presenti
e tanta gente nobile e gagliarda,
fuggí lo ’ncontro il timido Martano,
e torse ’l freno e ’l capo a destra mano.

90
     Pur la colpa potea dar al cavallo,
chi di scusarlo avesse tolto il peso;
ma con la spada poi fe’ sí gran fallo,
che non l’avria Demostene difeso.
Di carta armato par, non di metallo;
sí teme da ogni colpo essere offeso.
Fuggesi al fine, e gli ordini disturba,
ridendo intorno a-llui tutta la turba.

91
     Il batter de le mani, il grido intorno
se gli levò del populazzo tutto.
Come lupo cacciato, fe’ ritorno
Martano in molta fretta al suo ridutto.
Resta Grifone; e gli par de lo scorno
del suo compagno esser macchiato e brutto:
esser vorrebbe stato in mezzo il foco,
piú tosto che trovarsi in questo loco.

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92
     Arde nel core, e fuor nel viso avampa,
come sia tutta sua quella vergogna;
perché l’opere sue di quella stampa
vedere aspetta il populo et agogna:
sí che rifulga chiara piú che lampa
sua virtú, questa volta gli bisogna;
ch’un’oncia, un dito sol d’error che faccia,
per la mala impression parrá sei braccia.

93
     Giá la lancia avea tolta su la coscia
Grifon, ch’errare in arme era poco uso:
spinse il cavallo a tutta briglia, e poscia
ch’alquanto andato fu, la messe suso,
e portò nel ferire estrema angoscia
al baron di Sidonia, ch’andò giuso.
Ognun maravigliando in piè si leva;
che ’l contrario di ciò tutto attendeva.

94
     Tornò Grifon con la medesma antenna,
che ’ntiera e ferma ricovrata avea,
et in tre pezzi la roppe alla penna
de lo scudo al signor di Lodicea.
Quel per cader tre volte e quattro accenna,
che tutto steso alla groppa giacea:
pur rilevato al fin la spada strinse,
voltò il cavallo, e vêr Grifon si spinse.

95
     Grifon, che ’l vede in sella, e che non basta
sí fiero incontro perché a terra vada,
dice fra sé: — Quel che non poté l’asta,
in cinque colpi o ’n sei fará la spada. —
E su la tempia subito l’attasta
d’un dritto tal, che par che dal ciel cada;
e un altro gli accompagna e un altro appresso,
tanto che l’ha stordito e in terra messo.

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96
     Quivi erano d’Apamia duo germani,
soliti in giostra rimaner di sopra,
Tirse e Corimbo; et ambo per le mani
del figlio d’Uliver cadêr sozzopra.
L’uno gli arcion lascia allo scontro vani;
con l’altro messa fu la spada in opra.
Giá per commun giudicio si tien certo
che di costui fia de la giostra il merto.

97
     Ne la lizza era entrato Salinterno,
gran dïodarro e maliscalco regio,
e che di tutto ’l regno avea il governo,
e di sua mano era guerriero egregio.
Costui, sdegnoso ch’un guerriero esterno
debba portar di quella giostra il pregio,
piglia una lancia, e verso Grifon grida,
e molto minacciandolo lo sfida.

98
     Ma quel con un lancion gli fa risposta,
ch’avea per lo miglior fra dieci eletto,
e per non far error, lo scudo apposta,
e via lo passa e la corazza e ’l petto:
passa il ferro crudel tra costa e costa,
e fuor pel tergo un palmo esce di netto.
Il colpo, eccetto al re, fu a tutti caro;
ch’ognuno odiava Salinterno avaro.

99
     Grifone, appresso a questi, in terra getta
duo di Damasco, Ermofilo e Carmondo.
La milizia del re dal primo è retta;
del mar grande almiraglio è quel secondo.
Lascia allo scontro l’un la sella in fretta:
adosso all’altro si riversa il pondo
del rio destrier, che sostener non puote
l’alto valor con che Grifon percuote.

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100
     Il signor di Seleucia ancor restava,
miglior guerrier di tutti gli altri sette;
e ben la sua possanza accompagnava
con destrier buono e con arme perfette.
Dove de l’elmo la vista si chiava,
l’asta allo scontro l’uno e l’altro mette:
pur Grifon maggior colpo al pagan diede,
che lo fe’ staffeggiar dal manco piede.

101
     Gittaro i tronchi, e si tornaro adosso
pieni di molto ardir coi brandi nudi.
Fu il pagan prima da Grifon percosso
d’un colpo che spezzato avria gl’incudi.
Con quel fender si vide e ferro et osso
d’un ch’eletto s’avea tra mille scudi;
e se non era doppio e fin l’arnese,
fería la coscia ove cadendo scese.

102
     Ferí quel di Seleucia alla visera
Grifone a un tempo; e fu quel colpo tanto,
che l’avria aperta e rotta, se non era
fatta, come l’altr’arme, per incanto.
Gli è un perder tempo che ’l pagan piú fera;
cosí son l’arme dure in ogni canto:
e ’n piú parti Grifon giá fessa e rotta
ha l’armatura a lui, né perde botta.

103
     Ognun potea veder quanto di sotto
il signor di Seleucia era a Grifone;
e se partir non li fa il re di botto,
quel che sta peggio, la vita vi pone.
Fe’ Norandino alla sua guardia motto
ch’entrasse a distaccar l’aspra tenzone.
Quindi fu l’uno, e quindi l’altro tratto;
e fu lodato il re di sí buon atto.

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104
     Gli otto che dianzi avean col mondo impresa,
e non potuto durar poi contra uno,
avendo mal la parte lor difesa,
usciti eran del campo ad uno ad uno.
Gli altri ch’eran venuti a-llor contesa,
quivi restâr senza contrasto alcuno,
avendo lor Grifon, solo, interrotto
quel che tutti essi avean da far contra otto.

105
     E durò quella festa cosí poco,
ch’in men d’un’ora il tutto fatto s’era:
ma Norandin, per far piú lungo il giuoco
e per continuarlo infino a sera,
dal palco scese, e fe’ sgombrare il loco;
e poi divise in due la grossa schiera;
indi, secondo il sangue e la lor prova,
gli andò accoppiando, e fe’ una giostra nova.

106
     Grifone intanto avea fatto ritorno
alla sua stanza, pien d’ira e di rabbia:
e piú gli preme di Martan lo scorno,
che non giova l’onor ch’esso vinto abbia.
Quivi, per tor l’obbrobrio ch’avea intorno,
Martano adopra le mendaci labbia:
e l’astuta e bugiarda meretrice,
come meglio sapea, gli era adiutrice.

107
     O sí o no che ’l giovin gli credesse,
pur la scusa accettò, come discreto;
e pel suo meglio allora allora elesse
quindi levarsi tacito e secreto,
per tema che, se ’l populo vedesse
Martano comparir, non stesse cheto.
Cosí per una via nascosa e corta
usciro al camin lor fuor de la porta.

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108
     Grifone, o ch’egli o che ’l cavallo fosse
stanco, o gravasse il sonno pur le ciglia,
al primo albergo che trovâr, fermosse,
che non erano andati oltre a dua miglia.
Si trasse l’elmo, e tutto disarmosse,
e trar fece a’ cavalli e sella e briglia;
e poi serrossi in camera soletto,
e nudo per dormire entrò nel letto.

109
     Non ebbe cosí tosto il capo basso,
che chiuse gli occhi, e fu dal sonno oppresso
cosí profondamente, che mai tasso
né ghiro mai s’addormentò quanto esso.
Martano intanto et Orrigille a spasso
entraro in un giardin ch’era lí appresso;
et un inganno ordîr, che fu il piú strano
che mai cadesse in sentimento umano.

110
     Martano disegnò tôrre il destriero,
i panni e l’arme che Grifon s’ha tratte;
e andare inanzi al re pel cavalliero
che tante pruove avea giostrando fatte.
L’effetto ne seguí, fatto il pensiero:
tolle il destrier piú candido che latte,
scudo e cimiero et arme e sopraveste,
e tutte di Grifon l’insegne veste.

111
     Con gli scudieri e con la donna, dove
era il popolo ancora, in piazza venne;
e giunse a tempo che finian le pruove
di girar spade e d’arrestare antenne.
Commanda il re che ’l cavallier si truove,
che per cimier avea le bianche penne,
bianche le vesti e bianco il corridore;
che ’l nome non sapea del vincitore.

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112
     Colui ch’indosso il non suo cuoio aveva,
come l’asino giá quel del leone,
chiamato, se n’andò, come attendeva,
a Norandino, in loco di Grifone.
Quel re cortese incontro se gli leva,
l’abbraccia e bacia, e allato se lo pone:
né gli basta onorarlo e dargli loda,
che vuol che ’l suo valor per tutto s’oda.

113
     E fa gridarlo al suon degli oricalchi
vincitor de la giostra di quel giorno.
L’alta voce ne va per tutti i palchi,
che ’l nome indegno udir fa d’ogn’intorno.
Seco il re vuol ch’a par a par cavalchi,
quando al palazzo suo poi fa ritorno;
e di sua grazia tanto gli comparte,
che basteria, se fosse Ercole o Marte.

114
     Bello et ornato allogamento dielli
in corte, et onorar fece con lui
Orrigille anco; e nobili donzelli
mandò con essa, e cavallieri sui.
Ma tempo è ch’anco di Grifon favelli,
il qual né dal compagno né d’altrui
temendo inganno, addormentato s’era,
né mai si risvegliò fin alla sera.

115
     Poi che fu desto, e che de l’ora tarda
s’accorse, uscí di camera con fretta,
dove il falso cognato e la bugiarda
Orrigille lasciò con l’altra setta;
e quando non gli truova, e che riguarda
non v’esser l’arme né i panni, sospetta;
ma il veder poi piú sospettoso il fece
l’insegne del compagno in quella vece.

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116
     Sopravien l’oste, e di colui l’informa
che giá gran pezzo, di bianch’arme adorno,
con la donna e col resto de la torma
avea ne la cittá fatto ritorno.
Truova Grifone a poco a poco l’orma
ch’ascosa gli avea Amor fin a quel giorno;
e con suo gran dolor vede esser quello
adulter d’Orrigille, e non fratello.

117
     Di sua sciochezza indarno ora si duole,
ch’avendo il ver dal peregrino udito,
lasciato mutar s’abbia alle parole
di chi l’avea piú volte giá tradito.
Vendicar si potea, né seppe: or vuole
l’inimico punir, che gli è fuggito;
et è constretto con troppo gran fallo
a tor di quel vil uom l’arme e ’l cavallo.

118
     Eragli meglio andar senz’arme e nudo,
che porsi indosso la corazza indegna,
o ch’imbracciar l’abominato scudo,
o por su l’elmo la beffata insegna;
ma per seguir la meretrice e ’l drudo,
ragione in lui pari al disio non regna.
A tempo venne alla cittá, ch’ancora
il giorno avea quasi di vivo un’ora.

119
     Presso alla porta ove Grifon venía,
siede a sinistra un splendido castello,
che, piú che forte e ch’a guerre atto sia,
di ricche stanze è accommodato e bello.
I re, i signori, i primi di Soria
con alte donne in un gentil drappello
celebravano quivi in loggia amena
la real sontuosa e lieta cena.

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120
     La bella loggia sopra ’l muro usciva
con l’alta ròcca fuor de la cittade;
e lungo tratto di lontan scopriva
i larghi campi e le diverse strade.
Or che Grifon verso la porta arriva
con quell’arme d’obbrobrio e di viltade,
fu con non troppa aventurosa sorte
dal re veduto e da tutta la corte:

121
     e riputato quel di ch’avea insegna,
mosse le donne e i cavallieri a riso.
Il vil Martano, come quel che regna
in gran favor, dopo ’l re è ’l primo assiso,
e presso a-llui la donna di sé degna;
dai quali Norandin con lieto viso
volse saper chi fosse quel codardo
che cosí avea al suo onor poco riguardo;

122
     che dopo una sí trista e brutta pruova,
con tanta fronte or gli tornava inante.
Dicea: — Questa mi par cosa assai nuova,
ch’essendo voi guerrier degno e prestante,
costui compagno abbiate, che non truova,
di viltá, pari in terra di Levante.
Il fate forse per mostrar maggiore,
per tal contrario, il vostro alto valore.

123
     Ma ben vi giuro per gli eterni dèi,
che se non fosse ch’io riguardo a vui,
la publica ignominia gli farei,
ch’io soglio fare agli altri pari a lui.
Perpetua ricordanza gli darei,
come ognor di viltá nimico fui.
Ma sappia, s’impunito se ne parte,
grado a voi che ’l menaste in questa parte. —

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124
     Colui che fu de tutti i vizii il vaso,
rispose: — Alto signor, dir non sapria
chi sia costui: ch’io l’ho trovato a caso,
venendo d’Antïochia, in su la via.
Il suo sembiante m’avea persuaso
che fosse degno di mia compagnia;
ch’intesa non n’avea pruova né vista,
se non quella che fece oggi assai trista.

125
     La qual mi spiacque sí, che restò poco,
che per punir l’estrema sua viltade,
non gli facessi allora allora un gioco,
che non toccasse piú lance né spade:
ma ebbi, piú ch’a-llui, rispetto al loco,
e riverenzia a vostra maestade.
Né per me voglio che gli sia guadagno
l’essermi stato un giorno o dua compagno:

126
     di che contaminato anco esser parme;
e sopra il cor mi sará eterno peso,
se, con vergogna del mestier de l’arme,
io lo vedrò da noi partire illeso:
e meglio che lasciarlo, satisfarme
potrete, se sará d’un merlo impeso;
e fia lodevol opra e signorile,
perch’el sia esempio e specchio ad ogni vile. —

127
     Al detto suo Martano Orrigille have,
senza accennar, confermatrice presta.
— Non son (rispose il re) l’opre sí prave,
ch’al mio parer v’abbia d’andar la testa.
Voglio per pena del peccato grave,
che sol rinuovi al populo la festa. —
E tosto a un suo baron, che fe’ venire,
impose quanto avesse ad esequire.

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128
     Quel baron molti armati seco tolse,
et alla porta della terra scese;
e quivi con silenzio li raccolse,
e la venuta di Grifone attese:
e ne l’entrar sí d’improviso il colse,
che fra i duo ponti a salvamento il prese;
e lo ritenne con beffe e con scorno
in una oscura stanza insin al giorno.

129
     Il Sole a pena avea il dorato crine
tolto di grembio alla nutrice antica,
e cominciava da le piagge alpine
a cacciar l’ombre e far la cima aprica;
quando temendo il vil Martan ch’al fine
Grifone ardito la sua causa dica,
e ritorni la colpa ond’era uscita,
tolse licenzia, e fece indi partita,

130
     trovando idonia scusa al priego regio,
che non stia allo spettacolo ordinato.
Altri doni gli avea fatto, col pregio
de la non sua vittoria, il signor grato;
e sopra tutto un ampio privilegio,
dov’era d’alti onori al sommo ornato.
Lasciánlo andar; ch’io vi prometto certo,
che la mercede avrá secondo il merto.

131
     Fu Grifon tratto a gran vergogna in piazza,
quando piú si trovò piena di gente.
Gli avean levato l’elmo e la corazza,
e lasciato in farsetto assai vilmente;
e come il conducessero alla mazza,
posto l’avean sopra un carro eminente,
che lento lento tiravan due vacche
da lunga fame attenuate e fiacche.

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132
     Venian d’intorno alla ignobil quadriga
vecchie sfacciate e disoneste putte,
di che n’era una et or un’altra auriga,
e con gran biasmo lo mordeano tutte.
Lo poneano i fanciulli in maggior briga,
che, oltre le parole infami e brutte,
l’avrian coi sassi insino a morte offeso,
se dai piú saggi non era difeso.

133
     L’arme che del suo male erano state
cagion, che di lui fêr non vero indicio,
da la coda del carro strascinate
patian nel fango debito supplicio.
Le ruote inanzi a un tribunal fermate
gli fêro udir de l’altrui maleficio
la sua ignominia, che ’n sugli occhi detta
gli fu, gridando un publico trombetta.

134
     Lo levâr quindi, e lo mostrâr per tutto
dinanzi a templi, ad officine e a case,
dove alcun nome scelerato e brutto,
che non gli fosse detto, non rimase.
Fuor de la terra all’ultimo condutto
fu da la turba, che si persuase
bandirlo e cacciare indi a suon di busse,
non conoscendo ben ch’egli si fusse.

135
     Sí tosto a pena gli sferraro i piedi
e liberârgli l’una e l’altra mano,
che tor lo scudo et impugnar gli vedi
la spada, che rigò gran pezzo il piano.
Non ebbe contra sé lance né spiedi;
che senz’arme venía il populo insano.
Ne l’altro canto diferisco il resto;
che tempo è omai, Signor, di finir questo.