Sciotel/Parte Terza/Capitolo Terzo

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Parte Terza - Capitolo Terzo

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Capitolo Terzo


Sommario: — 1. Ostacoli che si potrebbero incontrare nell’attuazione del progetto. — 2. Gli indigeni sono benevoli con noi; odiano gli Abissini. — 3. Filantropia e cristianesimo del Negus Neghest. — 4. Come i Mensa, i Bogos e gli Habab accolsero il Sapeto e lo Stella. — 5. Facilità di incivilire, e far nostre, quelle genti. — 6. Feracità di quelle regioni, e prezzi medii approssimativi dei viveri e dei principali prodotti commerciali. — 7. Flora, fauna, ed animali domestici. — 8. Miniere, pietre preziose, carbon fossile. — 9. Vie e mezzi di trasporto. — 10. Conclusione.

Con la massima scrupolosità, con la massima attenzione, mi son dato ad indagare quali difficoltà si sarebbero potute incontrare nell’attuazione del mio progetto, e da dove potessero avere origine. E, studiando accuratamente il soggetto, mi dovetti convincere che, fonte di esse difficoltà, avrebbero soltanto potuto essere gli indigeni, la terra, la situazione dei luoghi. [p. 197 modifica]

Ed invero, se si tolgono la malvagità e l’inospitalità degli indigeni, la sterilità della terra, e la impraticabilità dei luoghi, quali altri ostacoli si potrebbero mai opporre all’opera nostra?

A me pare nessuno; ed ho fatto di tutto perciò per chiarire queste tre incognite, dico meglio queste tre probabili fonti dei nostri ostacoli, perchè incognite non sono, essendo che furono abbastanza e gran tempo studiate, e da uomini valentissimi.

Tra costoro cito il chiarissimo professore Giuseppe Sapeto, nel cui libro intitolato Missione cattolica tra i Mensa, i Bogos e gli Habab, ed in altri libri e relazioni anche di pregevoli autori, ho trovato intorno agli indigeni, alla terra, ed alle vie notizie importantissime; e, mi affretto a dirlo per confortare i deboli, gli irresoluti, e per convincere gli avversari, ho trovato notizie importantissime non solo ma anche favorevolissime.

Non sono stato mai sugli altipiani dei Mensa, dei Bogos, degli Habab; non posso perciò asserire di aver veduto, di aver osservato, ciò che non ho nè veduto nè osservato; e tanto più non posso ciò fare, in quanto che la mia professione di architetto, non mi ha usato a voli pindarici, a lavori di fantasia.

Dichiaro perciò francamente che, tutto ciò che si leggerà nel presente capitolo, non è [p. 198 modifica]cosa mia; avendolo io tratto da varii autori, e principalmente dal Sapeto.

Io non ho altro merito, se pure mi si vorrà concederlo, che quello di avere studiato bene e pazientemente, per quanto ho saputo ed ho potuto, la quistione; e di avere riunite insieme ed ordinate cose che, negli autori, si trovano sparse in varii capitoli, ed in quello artistico disordine richiesto dal diario, e che è sua dote peculiare. Io insomma non ho fatto altro che un lavoro di musaico, non mettendo di mio altro che il cemento; e se, nel riunire e connettere insieme i varî pezzetti, non ho citato sempre la fonte donde mi son pervenuti, l’ho fatto a bella posta, perchè altrimenti avrei dovuto nominare l’autore ad ogni piè sospinto; certamente con noia e fastidio grandissimo del lettore.

2. Più volte nella prima parte, ed anche nel secondo capitolo di questa terza parte, ho detto che noi saremo accolti dagli indigeni a braccia aperte; poichè eglino, ci hanno in conto di fratelli per la religione, e qualche tribù, vantandosi di origine europea, si reputa a noi congiunta pei vincoli più stretti del sangue. Ed oltre a ciò è da tener presente ancora la buona fama che noi, come italiani, godiamo presso di loro, per opera principalmente dei nostri venerandi missionarii.

Benchè nella prima parte mi sia intrattenuto a lungo intorno alla costituzione poli[p. 199 modifica]tica ed ai costumi dei Bogos, ed abbia detto qualche cosa intorno all’indole loro, dei Mensa, e degli Habab, ed alla loro benevolenza verso di noi, credo ancora utile insistere su questo ultimo fatto.

Se il lettore ha presente la lettera del Franzoi, riportata alla pagina 146, si rammenterà che l’intrepido viaggiatore mi scriveva come laggiù in Africa, anche dopo che il cannone ha parlato vittoriosamente, occorrono anni ed anni per fertilizzare la vittoria. Ciò è verissimo se si parla dell’Africa in generale, ma non già se si vuol riferirlo pure alla regione che noi abbiam di mira, ai Bogos; poichè quivi noi presto ci affratelleremo, ci afflateremo, come si dice in gergo, cogli indigeni, molto più presto di quello che altri possa credere.

E poi è falso il credere che noi faremo parlare il cannone contro i Mensa, contro i Bogos, poichè costoro non sono Abissini, anzi odiano gli abissini. Li odiano prima di tutto perchè i Bogos, i Mensa hanno, in religione, costumanze occidentali, e non ritengono impuri alcuni animali, come, a simiglianza degli Ebrei e dei musulmani, praticano gli Abissini; perciò i Bogos ed i Mensa chiamano gli Abissini Musulmani, e li odiano per quanto odiano i Musulmani medesimi.

Di più, i Bogos principalmente, ritengono gli abissini per tiranni per usurpatori, non solo per le continuate scorrerie, o razzie che [p. 200 modifica]da loro soffrono, ma anche perchè eglino, sino al 1870 erano indipendenti 1, non riconosceano autorità alcuna, ma ciascun villaggio si reggea da sè. Al 1870 poi furono conquistati dagli Egiziani, e governati con quella gentilezza e con quello amore, di cui son capaci quei semibarbari e di cui han dato splendida pruova nel Sudan (dove, tra le altre cose, insegnarono quelle disgraziate popolazioni come si confezionano gli eunuchi); e poscia al 1884, per il trattato di Hewet, vennero ceduti all’Abissinia.

I Bogos perciò, essendo gli Abissini successori degli Egiziani, li hanno, e meritamente, in quella venerazione in cui aveano i Turchi prina, gli Egiziani dopo.

Nè il Negus si comporta in maniera da smentire la fama di musulmano, che gode presso quelle popolazioni; anzi al contrario, perchè, a cagione delle sue opere nefande, in quella regione il vero maomettano è preferito al falso cristiano abissino.

Chi ha desiderio di formarsi un concetto giusto intorno ai sentimenti umanitarii, ed alle virtù cristiane di Don Giovanni Kassa, legga la seguente narrazione dell’egregio viaggiatore Cicognani, il quale ha visto il Negus all’opera.

3. «Le province del Wollo, che, sotto il governo di Re Menilek, erano sempre state pa[p. 201 modifica]cifiche e tranquille, passando sotto quello di Ras Area, divennero tosto turbolenti ed irrequiete. Or questa or quella provincia si rifiutava di pagare il tributo, e re Giovanni direttamente o per mezzo dei suoi generali, era obbligato ogni tanto a prestar mano al figlio, per tenere a freno la popolazione del Wollo, che pure oggigiorno aspetterebbe ansiosa di essere liberata, per opera di Menilek, dalle vessazioni del Negus e suoi generali.

Sul mal governo fatto da Ras Area in queste province, e sullo stato miserando in cui si trovano, scrisse l’Ing. Capucci dallo Scioa 2. L’uccisione di Ammedì Saddik, governatore dell’Ucciale, che si risentiva col figlio di re Giovanni del modo con cui taglieggiava i suoi sudditi, uccisione avvenuta per mano dello stesso Ras Area nel Luglio 1885, mise al colmo il malcontento generale.

Ras Area, secondo il solito, abbandonato il paese, ricorse al padre, il quale questa volta venne in persona a reprimere la rivolta; sulla fine del Dicembre girava sull’altipiano del Wollo, rubando gli armenti e le granaglie che trovava, uccidendo i prigionieri e bruciando i villaggi: si fermò nella pianura di Ciafa, e fu qui che Menilek lo [p. 202 modifica]raggiunse per pagargli il tributo, e si calcola che gli abbia portato per 2 milioni di lire. Dopo di che il Negus e Menilek riuniti continuarono le razzie nel resto del paese, verso il basso, che era rimasto immune.

Fu sul finire di gennaio che incominciarono le razzie, prendendo di mira specialmente il Danè, il cui governatore Mohamed Hanki è sempre quello, che si mostra più tenace nelle rivolte, come già fu accennato. Gli atti di crudeltà compiuti da re Giovanni in queste scorrerie, sono letteralmente inauditi: in un giorno solo fece uccidere oltre a 600 prigionieri fatti nel Danè, mentre pochi giorni prima, instigato dai preti, aveva fatto uccidere 200 dei suoi soldati stessi perchè avevano mangiato carne in un giorno di venerdì, giorno di digiuno; ed egli stesso, il Negus, diede l’esempio uccidendone 6 col suo revolver.

Sino a quest’epoca il Danè è stato uno dei paesi più belli, più industriosi e più commerciali dell’Abissinia: è al Danè che andavano più volentieri i Danakil col sale, perchè le strade sono buone, perchè vi erano protetti, perchè trovavano in abbondanza tessuti con cui barattare il loro sale, tessuti lavorati come non si lavorano in nessun altro paese è al Danè che andavano di preferenza tutti i piccoli negozianti musulmani che facevano il traffico colla costa, perchè Mohamed Hanki, per quanto l’avessero bat[p. 203 modifica]tezzato col nome di Ailè Mariam (forza di Maria), era sempre buon mussulmano, trattava bene i suoi correligionari, ed ai principali negozianti dava anche il possesso di terreni, per obbligarli a fare il commercio col suo paese anzichè colle altre province. In tutti i villagi del Danè si lavorava con accanimento; vi erano intere famiglie di fabbri che facevano lance, sciabole e coltelli; è solo al Danè, dove si conciano in modo speciale le pelli, che in Abissinia vengono usate quali tappeti per non sedere sulla nuda terra. Ora tutto quel magnifico paese è rovinato e distrutto; ridotto alla miseria c quasi spopolato, gli occorreranno almeno 20 anni, prima che possa rimettersi delle perdite subite; Mohamed Hanki come al solito non fu preso, ed oggi è ritornato alla sua residenza, ma i pochi superstiti, in mancanza di ogni sussistenza, dovranno darsi al brigantaggio ed alla rapina per vivere.

Questo avveniva, come ho detto, sul finir di gennaio: io mi trovavo in quell’epoca sul teatro stesso di queste rovine; ero a Gherfa, l’unico paese del Woro-Kallo che non avesse preso parte alla rivolta, e che perciò si sperava sarebbe immune da scorrerie. Era il 1.º febbraio dell’anno testè finito, quando si videro da Gherfa spire di fumo, che tutto all’intorno si alzavano vorticose al cielo: il paese era tutto circondato dalle truppe riunite dell’Imperatore e del suo generale Ras [p. 204 modifica]Micael, le quali distruggevano abbruciando tutti i villaggi per cui passavano; massacravano tutti gli abitanti che non arrivavano a fuggire, oppure li abbandonavano al suolo dopo averli sconciamenti mutilati: i negozianti, che si erano rifugiati alla pianura, nel paese dei Danakil verso l’Awasc, furono raggiunti e spogliati, e si racconta che un soldato solo abbia in quel giorno fatto bottino di 40 muli carichi di ottone e rame. Il grido delle vedette si faceva sentire ad ogni ora più vicino, avvisando gli abitanti di Gherfa di mettere in sicuro le robe loro e prepararsi alla fuga: tutto il giorno si stette in una ansiosa aspettativa, e verso sera gli abitanti di Malè, il villaggio dove io mi trovavo, partivano a frotte riparandosi verso le alture: io dovetti seguirne l’esempio, e mi mossi alla volta di Medina, la residenza del Governatore, abbandonando tutte le mie merci ed il mio bagaglio, che già da vari giorni avevo nascosti in una grotta ove pure il capo del paese aveva le robe sue. La notte dormii a metà strada, in casa di un negoziante di cui avevo fatta relazione, ma fu un continuo andare e venire di sentinelle, che portavano notizie sempre più allarmanti: all’alba il grido delle sentinelle annuncia che le truppe del Negus invadono la provincia, ed a questo grido tutti si danno alla fuga verso le cime più alte. Io arrivai sulle 10 a Medina, quasi spopolata, [p. 205 modifica]giacchè il Governatore si era recato al campo di re Giovanni a fare atto di sottomissione, portando regalo di buoi, miele e denaro, e ricevendone in ricambio la promessa che il suo paese sarebbe stato rispettato: qui dunque si viveva relativamente tranquilli ed alquanto fiduciosi, ma non ostante era per tutto un assembramento di donne, i pochi uomini stavano armati alla vedetta sulle cime più alte, oppure affannati correvano qua e là a portare ordini, a raccogliere notizie.

Avevo appena finito di rifocillarmi alquanto e stavo discorrendo con alcune donne sulle loro speranze e sui loro timori, quando l’allarme delle vedette mise sossopra tutta la popolazione: allora e poi, ripensando all’impressione di quel momento, mi corse sempre alla mente la descrizione, che Dante ne fa dell’inferno — urla, strida, pianti ed alti guai risuonaron per l’aer — fu una scena straziante da sgomentare i più indifferenti: in un attimo tutti avevano caricate le loro robe e masserizie già pronte, chi sugli asini, chi sui muli, e più generalmente erano le donne, che portavano ogni cosa sul groppone, come è costume del paese, curve sotto all’insolito peso: per tutto un chiamarsi reciproco delle madri e dei figli, un affaccendarsi degli uomini in cerca delle mogli; altri a cavallo che fuggivano a precipizio, altri a sollecitare e stimolare alla cor[p. 206 modifica]sa mandre di buoi, di capre o di montoni, e tutti ad una fuga disordinata, mentre all’intorno alla distanza di due o tre chilometri appena divampavano le fiamme dell’ incendio.

Si camminò o piuttosto si corse precipitosamente fra valli e dirupi dal mezzogiorno sino alle 4 del mattino appresso; e sempre la strada ingombra di animali, di femmine che si siedevano stanche e sfinite sotto i loro carichi, fanciulli lagrimosi, coi piedi sanguinolenti e gonfi, i quali si rifiutavano di procedere più oltre, inconsci del pericolo che li sovrastava: ma in questi casi i più non si preoccupano di chi resta, giacchè ciascuno ha troppo da pensare per sè; solo a quando a quando qualche pietoso si prende in collo un fanciullo per sollevarne la madre estenuata e affranta, che pur non ha la forza di balbettare un ringraziamento.

Ci fermammo nella provincia dell’Ucciale a Cattatae dove regna una squallida miseria, giacchè l’anno scorso toccò a questa provincia la sorte, che ultimamente è toccata alle province del Wollo e del Danè: non v’erano montoni, non granaglie da comprare, e quel pò di provvista, che ciascuno si aveva portato, spariva a vista d’occhio, cosicchè la maggior parte dovette pensare a contar le razioni per non rimanere poi a dente asciutto: rimanemmo fermi sino al giorno 7, ed il successivo eravamo di nuo[p. 207 modifica]vo a Gherfa, dove tutto era squallore e strida di donne, che piangevano quale il marito, quale il fratello od il figlio, di cui non avevano notizia o che sapevano morto.

La provincia di Gherfa, come dissi, doveva essere rispettata; ma è tale l’indisciplinatezza delle truppe Abissine, che nessun ordine, per quanto severo, e nessuna forza umana sono capaci di frenare la loro smania di rapina e distruzione una volta che sono ordinate le razzie; e per tutto ove passano è furto e rovina, non rispettando neanche i paesi stessi del loro sovrano.

Gherfa adunque, specialmente in basso, fu anch’essa invasa, e tutte le cose mie erano andate a far parte del bottino di guerra: io mi rimasi coi pochi talleri che avevo in dosso ed alcuni effetti, che formavano il carico di un mulo.

In tale stato raggiunsi l’accampamento del Re dello Scioa a Boru-Mieda il 3 marzo, ma non fui ricevuto se non vari giorni appresso, a causa delle non lievi preoccupazioni del Re pel modo con cui era stato trattato dall’Imperatore.

Ecco quale è lo stato attuale dell’Abissinia: i governanti in guerre continue fra di loro, le quali impoveriscono sempre più il paese; la popolazione, dedita alla vita militare, trascura l’agricoltura e le industrie; i vari generali del Negus sono obbligati alla rapina ed al brigantaggio, per mantenere i [p. 208 modifica]propri soldati: nè sarà mai possibile il menomo avanzamento, sino a che non sia costituito in essa un governo stabile e forte, il quale permetta all’attività ed intelligenza individuale di esplicarsi senza preoccupazioni e senza timore dell’avvenire, allo sviluppo delle industrie e della civiltà. Giacchè, oltre alle guerre intestine, anche il sistema in uso per mantenere l’esercito quando è in marcia, toglie ogni amore a qualsiasi lavoro.

Dove si fermano le truppe tutto si distrugge, ed io ho visto accendere il fuoco con covoni di grano, e mettere in pascolo le cavalcature nei campi dell’orzo. Tutte le provvigioni accumulate nei magazzini vengono consumate, perchè è il paese in cui si mette l’accampamento, che è obbligato a dare le provvigioni per l’esercito che passa: i soldati entrano nelle capanne ove tutto manomettono, e se il proprietario arrischia qualche obbiezione, corre il pericolo di un colpo di lancia o di una sciabolata» 3.

4. Dalla precedente narrazione ognuno può rilevare quanto debbano essere odiati gli Abissini, ed il loro Sovrano, dalle popolazioni che confinano con loro; e quale avversione nutrano, contro di essi, i Mensa, i Bogos, [p. 209 modifica]gli Habab. Però siffatto malanimo non l’hanno per niente contro di noi, e, se finora non tutti hanno fatto sottomissione al nostro Comandante di Massaua, come gli Habab, ciò certamente avvenne perchè, essendo vicini più agli Abissini che a noi, tutta l’ira di costoro contro gl’italiani, si sarebbe riversata sopra di loro: ma si presenti la bandiera tricolore e saranno nostri!

Io sono convintissimo di questo fatto; e, per convincersi non ci vuol molto, basta leggere come i Mensa, i Bogos gli Habab, ricevettero e trattarono il Sapeto e lo Stella, benchè fossero trascorsi ben tre secoli da che non vedevano il viso di un europeo.

I nostri missionari furono i primi ad entrare in quella regione, e, senza alcuna fatica, ottennero subito di potere battezzare, e di fondare una chiesa cattolica; i Mensa anzi, che furono i primi ad essere visitati, temendo che Sapeto non fondasse a Keren la missione e la Chiesa, faceano di tutto per dissuaderlo dall’andare colà.

Ed è piacevole sentire quali puerili ed ingenui mezzi non usarono Hassama e Sciakai, Capi Mensa, prima per non farli andare a Keren, e poi, arrivati colà, per non farli trattare coi Bogos. Come il tenerli quasi nascosti per parecchi giorni in una capanna, il non permettere a Sapeto che parlasse arabo con un fachiro, ma si servisse di un interpetre ecc. ecc. Tanto che in fine, adira[p. 210 modifica]tosi il Sapeto, cominciò a parlare speditamente arabo con quei preti musulmani, confondendoli e riducendoli al silenzio, con piacere e diletto grandissimo di tutti gli indigeni, e quindi, come egli medesimo dice «perlustrai tutto il paese sonando alto la fede di Cristo..... lasciammo cuori raffrancati e fiduciosi nello amor nostro.»

I Mensa poi si mostravano orgogliosi della loro origine europea, dicendosi provenienti di Aduli, ed aventi per padre un Saràki; che il Sapeto suppone possa essere Alessandro, il quale avea fondato una colonia greca al Sud di Aduli.

I Bogos sono pastori ed agricoltori ad un tempo, ricevono i viandanti senza tributo alcuno, sono uomini di maravigliosa dolcezza.

Costumanze affatto simili, a quelli dei Mensa e dei Bogos, hanno pure gli Habab; il cui capo vien chiamato Kantibai, appellazione cristiana di autorità molto in uso in Abissinia.

«Quando io (dice il Sapeto) nel 1838 entrava in Etiopia l’Hathi Kles e gli Habab erano in gran parte cristiani di nome, e solamente da pochi anni addietro per leggerezza, o per commodo dei loro negoziucci con Massaua, accettarono il Corano, onde cessare le angherie e soprusi del Naieb, che ne facea villano strapazzo. Ma su quelle fronti abbronzate non è per anco spenta la scintilla del Crisma battesimale dei loro padri e [p. 211 modifica]l’aspetto loro ha un non so che di cristiano 4

La religione cristiana, è bene tenerlo a mente, suona incivilimento, almeno in quelle contrade e per quei popoli.

Le più festose, sarei per dire, le più entusiastiche accoglienze i nostri Missionarî l’ebbero senza dubio a Keren.

Il Governatore di Keren li accolse con molta benevolenza, ed assegnò a loro la parte migliore della sua capanna; ritenendo per sè, per la moglie e per i figliuoli la parte peggiore; la qual cosa molti fra noi certo non farebbero.

Tutti, dice il Sapeto, mi mostravano visi lieti e mi consolavano coi loro saluti amichevoli; i Musulmani medesimi ci facean buon viso. La figliuola del Governatore di Keren fu una delle prime a far battezzare il suo bambino, benchè fosse nato da padre non cristiano; i musulmani, e, pare incredibile, anche i fachiri (fanatici preti musulmani) accorrevano giulivi presentando al battesimo i loro bambini.

Un solo, il Governatore di Giofa, si mostrò in sulle prime irresoluto, poi quasi avverso; però, quando i veri apostoli del vero cristianesimo e della vera civiltà, erano per partire alla volta del paese degli Habab, [p. 212 modifica]pentitosi del male fatto si presentò spontaneo chiedendo umilmente perdono.

Ma sentite come narra il Sapeto la scena commovente del commiato.

«Il Governatore di Giofa era rinsavito, e mi fece le più umili preghiere, perchè non gli volessi male di quella sua debolezza dei giorni addietro e, tolto un sasso ben grosso sulla nuca o collottola, Signore, dísse, mi perdoni! Gli levai di collo il sasso e il baciai in fronte bagnandoli di lagrime le gote. Il povero giovane racconsolato mi stringeva e copriva di baci la mano!»

Non è vero che è commovente? Ma sentite ancora:

«Walda Mikael, nobile giovane Hamassen fuoruscito, ci venne incontro nella pianura e con molti bei modi e gentili ci accommiatò! Hassama e parecchi altri governatori Bilen ci vennero accompagnando fino al torrente Dari, che tramezza tutta quella pianura e grandi furono le tenerezze, da tutte e due le parti, quando ci separammo.

Io non gli vidi più; ma il sig. Stella che vi ritornà, e sta di presente, mi disse che sono sempre gli stessi e tutta cosa sua; e anche di me si ricordano sempre, poveretti! io gli amerò finchè avrò vita 5».

5. Una pruova poi dello affetto che nutrono per noi quelle popolazioni, anche quei di [p. 213 modifica]Massaua, e della gran cura che si danno per rendersi simili a noi, per prendere i nostri costumi, si ha senza dubbio nella facilità, direi quasi nell’amore, con cui apprendono la nostra lingua.

«Le scuole elementari italiane che s’istituirono a Massaua, e alle quali si cerca di dare il maggiore incremento, promettono ottimi risultati.

Si comprende quanto sia necessario che la nostra lingua sia prontamente diffusa, e non meno necessario è che molti dei nostri imparino l’arabo.

È sorprendente il profitto che fanno nella nostra lingua i giovani indigeni dei due sessi, molto superiore a quello nella lingua francese che s’impartisce nelle scuole della missione francese tenute dalle suore della carità. In uno esperimento eseguito, nello scorso aprile, in presenza del generale comandante e di numerosi invitati, essi dimostrarono di potere, in meno di quaranta lezioni, rendersi abbastanza padroni della nostra lingua, sì parlata che scritta, e di pronunziarla con giusto accento 6».

E mi piace di rammentare anche un altro fatto, per ribadire sempre più questo concetto. [p. 214 modifica]

Non vi è chi non sappia come sia difficil cosa lo sradicare dai popoli, anche più civili, le cattive ed inveterate usanze, le superstizioni, l’esagerazioni dei diritti di famiglia ed in particolar modo quelli dell’onore oltraggiato: intorno al qual principio, le popolazioni degli altipiani di Massaua, avrebbero potuto dare dei punti al più geloso e furente Spagnolo. Essi di fatto aveano la crudelissima usanza, ed inumana, di uccidere la giovane, la quale (come dice il Sapeto pudicamente) avesse fatto copia di sè a chicchessia. «L’animo mite del P. Stella ha fatto cessare questa usanza della qual cosa gli animi cristianamente umani gli sapranno grazie infinite» 7.

Quegli indigeni adunque sono così dolci, così docili; ed il condurli al bene, sul retto sentiero, è così agevole, che il Sapeto, considerando la facilità somma d’incivilirli, esclamava quasi come profeta:

«Grande missione è questa, stupendissima! con pochi missionari, alcune chiese, alquanto di fatica e di spesa, in men di sei anni il cattolicismo diverrebbe la religione di cinquemila Mensa, venticinquemila Bogos o Bilen, senza timore dell’Abun abissino, o dei Re o capi etiopi, nè incommodo di rito giacchè il rito a esercitarsi colà vuol essere il nostro, a cui sono grandemente inclinati» 8. [p. 215 modifica]

E, giova ripeterlo un’altra volta, il Cristianesimo, il Cattolicismo, in quelle regioni significa civiltà, significa progresso!

Spero che, da quanto innanzi ho detto, son riuscito a convincere i miei lettori come, nella impresa nostra, non dovremo temere ostacolo alcuno da parte degli indigeni. E se pure qualche lieve ostacolo ci sarà da loro opposto esso sarà agevolmente tolto (come saggiamento consiglia la citata Memoria officiale su Massaua) allettando gli indigeni con la prospettiva dell’interesse.

Già nelle più interne regioni dell’Africa, a quel che dicono i corrispondenti di alcuni giornali, si è sparsa la voce che con gli italiani è entrata in Massaua l’abbondanza. Ed ivi si vedono indigeni che parlano i più strani dialetti, che vengono cioè dalle più remote regioni dell’Africa, attratti dalla fama delle buone accoglienze che fanno i nostri a quella povera gente.

In questi giorni Hamed, Kantibai degli Habab, ricevette sollennemente l’investitura da parte del Generale Saletta, ed a nome del nostro Sovrano.

«Questa investitura (dice il giornale l’Esercito) assicura l’amicizia ed occorrendo anche il concorso armato di una tribù che è tra le più numerose di quelle che si trovano sui confini del possedimento italiano...... Il Capo degli Habab dichiara di riconoscere lo stato di guerra coll’Abissinia e di confor[p. 216 modifica]marvisi considerando come nemico ogni dipendente che parteggiasse per l’Abissinia, e lasciando in ostaggio, per garanzia dell’osservanza degli impegni, lo stesso suo figlio.»

E sembra che Hamed abbia desiderio di darsi subito da fare; poichè telegrafano alla Tribuna che egli pare intenzionato di fare una punta su Keren.

Ed al Popolo Romano telegrafano da Massaua: «Le tribù degli Halhal e degli Astekles, già nostre nemiche, in seguito all’alleanza di Hamed Kantibai si sono ora dichiarato favorevoli, e così ci siamo assicurati degli amici attraverso la strada dei Bogos.»

Mi pare adunque che avea ragione di dire che quelle popolazioni odiano gli Abissini, e che per dichiararlo apertamente non attendono altro che un appoggio fermo e sicuro: avea ragione di dire che noi non faremo parlare il cannone contro i Mensa, i Bogos, ecc. poichè costoro non sono Abissini nè il territorio loro è territorio abissino. Per confermare vieppiù quanto dico, riporto parte di una lettera, che l’illustre capitano Camperio indirizzò al Pungolo di Milano.

«Non mi contradico punto nel continuare a propugnare l’occupazione degli altipiani, che non sono affatto territorio abissino, ma che fanno invece parte integrale del territorio di Massaua: altipiani ubertosi e salubri verso i quali si potrebbe indirizzare proficua[p. 217 modifica]mente una parte della nostra emigrazione, perchè di là — checchè ne dicano — la via principale del commercio fra Massaua e il Sudan.»

6. Se da parte degli indigeni non incontreremo ostacoli di sorte alcuna, molto meno ne incontreremo nella terra che andremo a sfruttare; poichè essa corrisponderà ad usura al nostro lavoro, ai nostri capitali.

Non starò qui a ripetere ciò che ho scritto alla pag. 9, intorno al territorio di Sciotel, ed i pareri del Franzoi, e del Beccari, tutti e due competentissimi; aggiungerò soltanto alcune importante notizie circa la feracità di quelle regioni tratte in massima parte, come ho già detto, dal Sapeto.

Nelle pianure dell’Hamasen e dello Asmara il terreno è nericcio e proprio ad ogni specie di biada; il grano, il mais (Holgus sorgus) i faggiuoli, le favi, i ceci, il thef (Poa abyssinica), vi centuplicano con poca coltura e nessun ingrasso.

Il terreno di Keren mostra anche di essere atto alla coltura, ma vi scarseggia l’acqua, ancorchè sia traversato nella sua lunghezza da un torrente, che nel tempo delle piogge strabocca; alcuni nostri italiani, prima dell’occupazione di Massaua, coltivavano con profitto il tabacco. Magnifico pei bestiami è il paese degli Habab, popolato assai, ricco di cammelli e di ogni maniera di armenti, [p. 218 modifica]gigantesca l’erba, che, stando a cavallo, giunge a metà della persona.

Da per tutto un olezzo balsamico, una freschezza, una vita incantevole di paradiso. La temperatura di giorno (secondo il Sapeto) non supera i 17 gradi e di notte scende da 13 a 12 gradi. Quelle contrade non sono il ludibrio di malattie endemiche; i contagi, le morie non mietono vittime colà, e nè tampoco ci si fanno vedere. Vi sono acque termali ottime che guariscono le erpeti, le prurigini, le malattie cutanee, le scrofole e i dolori reumatici 9.

I generi alimentari si hanno a prezzo vilissimo, cosicchè con pochi soldi si vive lautamente. Il selvaggiume poi, le gazzelle, le lepri, e ogni specie di quadrupedi, buoni a mangiare, formicola da un capo all’altro dell’Abissinia.

Credo utile intanto offrire al lettore un quadro dimostrativo dei principali prodotti di alcune regioni dell’Africa, e il loro prezzo medio, in rapporto di ciascuna regione. I suddetti prezzi li ho ricavati dalle opere dei viaggiatori Cecchi, Sapeto, Matteucci, Bianchi, Franzoi ed altri. [p. 219 modifica]

Quadro dei prezzi medii dei principali generi

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7. La flora, la fauna di quelle regioni sono delle più varie e più ricche.

Le piante più utili e più importanti sono: lo Scielè, specie di euforbia, di cui, benchè velenosa, sono ghiotti gli struzzi. La Coloquintide, la Sena, il balsamino (Amyris Opobalsamum) da cui si trae il balsamo detto della Mecca, cosa ignorata dagli indigeni al tempo del Sapeto, come ignoravano pure l’utile che vi avrebbero potuto ritrarre dalle moltissime specie di Aloè. Vi ha infine innumerevoli specie di Mimose, che producono la gomma, impropriamente detta arabica; l’Euforbia di Abissinia, che serve per la concia delle pelli; la Wanza, o Cordia Abyssinica, il cui legno è atto a lavori fini ed il frutto si mangia secco; i fichi di Faraone o sicomori, dei cui frutti si cibano gli indigeni in particolar modo i monaci; la Cordia Ghersa, dalla quale i Mensa, i Bogos, e gli Habab traggono sacchi di frutta dolcissime, cibandosene per parecchie settimane nei mesi di agosto e di settembre; ecc. ecc.

Tra gli animali selvatici rammento in prima l’elefante, il quale scende nei Bogos e nei Mensa al tempo delle piogge; ma il suo avorio non è pregiato come quello dei paesi Galla. Si vedono anche il Rinoceronte a due corna; numerosi leoni, la cui pelle si vende da 25 a 30 scudi; sei o sette specie di leopardi, che vengono cacciati col laccio; linci stupende; una specie di gatto selvatico detta [p. 221 modifica]Dener che si addomestica facilmente, nemico acerrimo dei topi; iene, sciacalli ecc. ecc.

Vi sono poi porci selvaggi ed istrici bellissimi; cignali alti come asini; sette specie di antilopi, fra le quali la bellissima Agazen, che si addomestica facilmente.

Fra gli uccelli son da notare lo struzzo, varie specie di utarde che si addomesticano; pernici, francolini, galline di faraone; sette specie di colombi, falchi, aquile e piccoli e belli uccelli. C’è una specie di colombi gialli pregiatissimi; il passero giallo cantatore instancabile; ed alle falde e nei monti dei Mensa, Bogos ed Habab una specie di fringuello dalla coda lunga una spanna, composta di tre penne una bianca, una nera, una rossiccia; ed infine l’uccello Nusqal-of o uccello della croce, il quale dopo la muda cambia di colore, e da nero diventa porporino o screziato di varii colori.

Numerosissime sono le api, ma non curate in modo alcuno dagli indigeni, e tutto il miele che raccolgono è affatto selvatico.

Fra gli animali domestici bisogna mettere in primo luogo il cammello, il quale per quanto è utile, anzi necessario, è altrettanto sobrio: vi abbonda, in particolar modo nel paese degli Habab e nel Samahr.

I buoi sono fortissimi, ed avvezzi a portar pesi, come le bestie da soma; le vacche sono anche buone, ma non danno più [p. 222 modifica]di due litri di latte al giorno, benchè eccellentissimo; buone pure le capre, cattive le pecore.

Le montagne del Lasta e del Temben, le pianure del Begamedr e del Goggiam forniscono al commercio interno ed estero bellissimi muli; quando il Sapeto visitò quelle regioni, nel 1838, vi erano bei muli anche nelle regioni da lui percorse, e di essi si facea gran commercio, acquistandoli sul luogo a cinquanta ed anche a trenta lire piemontesi, e vendendoli poi a Maurizio ed a Borbone ad ottanta sino a centoventi scudi l’uno.

8. Nè anco le miniere e le pietre preziose sono scarse in quelle terre.

«Il paese degli Habab è provveduto di miniere di metallo, fra i quali havvene di preziosi: nell’Hamasen, e nelle province orientali del Tigrè, nel Samien, e in altri luoghi hanno segni di miniere di rame, specialmente nell’Addi-Abun e nello Eghela; polvere di oro contengono le montagne del Temben, dell’Enderta, del Bora Salaoa, di Gondar e degli Agau. I torrenti dei Scianqalla, alle radici nord-ovest del terrazzo etiopico, travolgono alcune volte pallottoline di oro, ed il Samien mostra di essere fornito di turchine, di agate, di diaspri, cornaline, e di altre pietre preziose.

Vi è pure il carbon fossile. Nella parte dell’Abissinia che tocca il Sennar, nel Quara, [p. 223 modifica]nel Tcialga, vicino al fiume Dender, di Angrob ha il lignite, che pare continuarsi fino alla catena orientale vicina al Mar Rosso.

Ben posso aggiungere che la regione più occidentale che è frontiera dell’Abissinia dal Barca al Foqzolo, ha nel letto dei torrenti indizii di lignite, e vicino a Mahtamma si raccoglie in abbondanza. Questa mia nozione non vorrei che fosse lasciata passare inosservata da coloro che hanno ed avranno la navigazione a vapore del Mar Rosso. Sappiano che dal porto Aqiq (da me chiamato Carlo Alberto, perchè la prima bandiera che vi sventolasse fu l’italiana piemontese nel 1850) seguitandosi dentro terra lungo l’Ain-Saba verso l’ovest, nel Barca, nei Scianqalla fino a Mahtamma troveranno il carbon fossile senza fallo» 10.

Mi pare adunque che neppure da questa parte incontreremo ostacoli di sorta alcuna; e che posso ben ripetere col Franzoi che quelle terre sono le più adatte a raccogliere generosamente gli sforzi dei nostri volenterosi.

9. Le uniche, le vere difficoltà che, nello sfruttamento delle terre e del commercio di quelle regioni, noi dovremo superare sono i mezzi di comunicazione sono le vie oltremodo difficili ed in certe stagioni impraticabili.

Però è da osservare che se ostacoli di tal [p. 224 modifica]natura dovessero avere la forza di sconsigliare imprese come la nostra, in nessun punto dell’Africa orientale si potrebbero tentare le spedizioni agricole ed in particolar modo le commerciali, poichè tutte quelle regioni presentano gli stessi ostacoli, tutte quelle regioni sono addirittura impervie.

Ed è da osservare ancora che, non appena il nostro esercito sarà sullo altipiano di Keren, la prima cosa che farà il nostro Governo sarà quella di aprire una via praticabile, una vera via, tra Massaua e Keren. Tutti gli uomini competenti, tutti i viaggiatori che propugnano l’occupazione degli altipiani dei Bogos, consigliano di costruire una via militare, che da Massaua, passando pei Mensa, conduca nel minor tempo possibile a Keren; cito tra gli altri il Pennazzi e il Camperio.

Sarà adunque quistione di tempo, ma anche questo ostacolo dovrà sparire; e forse avremo pure la ferrovia, almeno per un buon tratto.

Per ora dovremmo contentarci di percorrere le usuali vie delle carovane, e servirci degli ordinari mezzi di trasporto, cioè dei cammelli, dei muli, ed anche dei bovi.

Le vie che attualmente conducono a Keren sono due; dico vie per modo di dire, perchè non sono altro che sentieri scavati dalle acque, e letti di torrenti asciutti. Se alcuno volesse formarsi un giusto concetto di siffatte vie, dovrebbe prendersi la pena di per[p. 225 modifica]correre un tantino l’interno dell’estrema Calabria; poichè quella provincia non ha nulla da invidiare all’Abissinia, in fatto di vie, s’intende; e pure ivi si traffica, si cerca vivere alla meglio.

Le due vie che da Massaua conducono a Keren, capoluogo dei Bogos, sono le seguenti:

Una più a nord; praticabile ai cammelli, l’altra più a sud in direzione quasi occidentale praticabile solo ai muli. Per la settentrionale s’impiegano 7 giorni, per l’altra 4 giorni. Ambedue sono state frequentate da innumerevoli viaggiatori, soldati e negozianti.

La prima descritta dal Conte Pennazzi nella pregiata opera Dal Po ai due Nili, con quella eleganza e brio che è speciale dote di questo scrittore, venne da lui percorsa assieme al cap. Bessone. Questa via descrive un ampio circolo il cui terreno leggermente ondulato è sempre frastagliato dai soliti rigagnoli non offrenti traccia di acqua; e le carovane si provvedono ai punti di fermata dove essa abbonda. Gli egiziani si servirono di questa strada per trasportare a Keren cannoni.

La seconda descritta dal prof. Sapeto ha qualche tratto in cui è addiritura impossibile poterlo fare a mulo, però ovunque incontrasi acqua e caccia in abbondanza. L’occhio del viaggiatore è allietato dal pittore[p. 226 modifica]sco panorama di veri boschi di sicomori che rendono la marcia gradevole anche d’estate.

10. Se adunque nè dagli indigeni, nè dalla terra dovremo temere ostacoli, nè quelli che presentano le vie, i mezzi di comunicazione son tali da impensierire alcun uomo serio, mi pare che il mio progetto non può non riuscire; perchè non si può certamente dire che esso, o, per dir meglio, che io abbia il difetto di essere incostante, di essere irrequieto. Credo che dieci e più anni di incessanti pratiche tendenti sempre ad un fine, siano più che sufficienti a dimostrare la costanza, la fermezza dei miei propositi.

Ho studiato con amore la quistione della colonizzazione ed il mio progetto, e da siffatto studio trassi la convinzione che facilissimamente si può restaurare la colonia italiana di Sciotel, e che fra pochi anni domineremo su tutte quelle regioni. Questa profonda convinzione generò in me la fermezza, la costanza con cui da sì gran tempo vo propugnando le medesime idee, e presso chi vuole e presso chi non vuole ascoltarle.

Durante le lunghe pratiche, da me fatte, spesso incontrai uomini che mi accolsero benevolmente, ma forse, in cuor loro, mi credettero esaltato; altri si mostrarono indifferenti, o presero in giuoco la cosa; altri infine, per non confessare che era un problema superiore alla loro intelligenza, si dichiararono contrarî. Oggi invece la scena va man

Note

  1. Vedi pag. 19; e Da Assab a Dogali, del Cap. M. Camperio, pag. 45.
  2. Bollettino della Società Africana d’Italia Settembre-Ottobre 1886.
  3. L. Cicognani. Sulle condizioni odierne dell’Abissinia, conferenza tenuta in Napoli il 16 Gennaio 1887. Pag. 9 e seguenti.
  4. Sapeto. Missione cattolica tra i Mensa, i Bogos, e gli Habab. Roma 1847, pag. 159.
  5. Sapeto. Op. citata, pag. 220.
  6. Memoria sull’ordinamento politico-amministrativo e sulle condizioni economiche di Massaua, presentata alla Camera dei Deputati dal Ministro degli affari Esteri nella tornata del 30 Giugno 1886. Pag. 37.
  7. Sapeto, op. cit. pag. 206.
  8. Sapeto, op. cit. pag. 155.
  9. Sapeto, op. citata pag. 327.
  10. Sapeto, op. citata pag. 153, 33, e 239.