Storia della rivoluzione di Roma (vol. III)/Capitolo VI - parte I
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[Anno 1849].
La Italia, quella regione prediletta dalla natura, quella terra che per isquisito sentire primeggiò sempre nelle arti sorelle, e che, dotata della più armoniosa favella, mentre ci dette i migliori poeti, fondò non pure ma coltivò e produsse le più insigni bellezze musicali, fu ricca di capitani e di ammiragli illustri, primeggiò doviziosamente per uno stuolo di oratori, di storici, di giurisperiti famosi, perfezionò l’astronomia, rinvenne la bussola, inventò il commercio di banca o le banche commerciali, scoperse un nuovo mondo, rifulse maestra in tutte le scientifiche discipline, in guisa da potersi vantare essa sola di essere stata civile quando gli altri eran barbari, è tale paese che per le sue condizioni speciali (fra cui è da porre in primissimo luogo la irregolare ed eccentrica sua configurazione geografica) non ebbe mai o quasi mai, non ha e, secondo la opinione di molti pensatori politici, difficilmente potrà avere in seguito una unità assoluta, una autonomia sua propria, uniforme, distinta e indipendente.
Non l’ebbe sotto l’impero romano, il quale quantunque si estendesse su tutto il mondo allor conosciuto, fu alla Italia ciò che è la Francia ai suoi compartimenti.
L’Italia n’era una provincia, primaria se vuolsi e la più bella, la più fiorente, ma provincia come la Spagna, le Gallie, la Pannonia, la Dacia, l’Asia minore. Conati molti vi furono in seguito, aspirazioni infinite, guerre, leghe, repubbliche, regni, ducati, ma la realtà dell’unione non potè mai o quasi mai conseguire. Così ci racconta la storia.
La sua forma allungata e stretta la sottopone ad una disuguaglianza di clima notabilissima, e mentre la sua parte nordica è colpita da freddi algenti, sono allietate le sicule sponde da un’eterna primavera. Il robusto alpigiano diversifica essenzialmente dal molle abitatore di Brindisi, di Sorrento e di Palermo. L’indole seria, riconcentrata, iraconda e manesca dell’intelligente Romagnolo contrasta troppo colla dolcezza veneziana, e sopratutto coll’indole stazionaria, pacifica, rassegnata della plebe napolitana. E non forman elleno, la proverbiale parsimonia e l’industre solerzia de’ Toscani, un contrapposto notabile colla generosità ed ospitalità de’ Romani, sebbene questi vengano accagionati in molti casi di spingerle tropp’oltre, al punto di assumere le apparenze di scialacquatrice imprevidenza?
La generosità troppo spinta del Romano par che ti riveli ch’esso sente scorrere tuttavia nelle sue vene il sangue degli antichi dominatori del mondo, e che il detto panem et circences, com’era applicabile ai Romani antichi, sia applicabile egualmente ai Romani de’ giorni nostri.
La storia degl’Italiani poi ci sembra somministrare questa contradizione, di essere cioè presso che tutti desiderosi di unità in teoria, ma divisi in pratica. La compressione tiene uniti Piemontesi e Liguri, ma fra loro non vi è simpatia. Vero affratellamento non crediam che sussista fra Firenze, Siena, Pisa, Livorno. Vi ha egli affezione veramente cordiale fra le popolazioni romane e le napolitane, fra queste e le siciliane, le cui rivolture del 1820 e del 1848 ci han rivelata in vece l’antipatia profonda fra loro esistente?
Che se il regno d’Italia fondato da Napoleone abbracciò una parte composta di provincie e di stati diversi d’Italia per un tempo, e la tenne unita e forte, ciò fu dovuto al braccio fermo e potente dell’imperatore, sparito il quale dalla scena del mondo, le secolari antipatie rivissero quali eran prima. E poi qual regno d’Italia era codesto, se non abbracciavano che una parte soltanto? Non esistevan separati un Piemonte, una Etruria, uno stato romano, un regno partenopeo? In fine e come vi poteva essere nazionalità se Napoleone, come osserva egregiamente Balbo, non badava a libertà negli ordinamenti interni, a nazionalità negli esterni?2
Ad onta però di tutte queste considerazioni, le idee dell’unità e della nazionalità italiana entrarono nelle teste de’suoi abitanti, non già delle masse, ma degli uomini specialmente dediti alle lettere ed agli studi, e molti uomini d’ingegno fervido e di spirito coltivato vi dieder dentro meglio che gli altri.
Questi desideri confusi, e in modo indigesto sviluppati, crearono le repubbliche cisalpina, cispadana, romana e partenopea, nello scorcio del secolo passato.
Se ne arrestò lo sviluppo pei fatti gloriosi e per le memorabili gesta di Napoleone. Lo strepito delle armi, lo spirito di gloria e di conquista arrestarono per qualche anno le idee di unità e di nazionalità.
Al tramonto però della sua stella rivissero più gagliarde, e i nemici di Napoleone profittandone, preser nel debole gl’italiani, e astutamente gl’invitarono a combatterlo, con promesse di libere istituzioni e della sospirata nazionalità. Anzi l’arciduca don Giovanni d’Austria, anche prima della caduta del suo implacabil nemico, Napoleone, e precisamente fin dall’anno 1809, incitava gl’italiani a scuoterne il giogo, con un bando in cui ritroviamo le parole seguenti:
«Invito
» dell’arciduca Giovanni d’Austria a’ popoli d’Italia.
» Italiani, ascoltate la voce della verità, e della saviezza. La prima vi dice che voi siete schiavi della Francia. Soltanto per lei voi consumate sostanze, e vita. È cosa di fatto che il presente regno d’Italia, niun’altra cosa è, se non un sogno vano, un nome senza titolo; ma le leve d’uomini, le imposte, le angherie d’ogni maniera, l’annichilamento del vostro stato politico sono cose vere, e certe. L’altra anche vi dice che in questo stato di svilimento voi non potete essere stimati, nè rimanere in pace, nè essere Italiani. Or volete voi di nuovo divenire Italiani? Aggiugnete con pronto animo le forze vostre al possente esercito che l’imperador d’Austria generosamente invia alla volta d’Italia. E sappiate ch’e’ non è già per ispirito di conquisti che egli il fa proceder oltre; ma per difender se stesso, e render sicura l’indipendenza di tutte le nazioni d’Europa, le quali, siccome dimostran più fatti irrepugnabili, eran minacciate di una inevitabile servitù. Se Iddio sostiene le virtuose imprese dell’imperador Francesco, e quelle de’ suoi possenti collegati, l’Italia sarà di nuovo felice, e rispettata in Europa. Il capo della Chiesa avrà nuovamente la sua libertà, e gli stati suoi; ed una costituzione fondata sopra la natura delle cose, ed una vera politica prospererà il suolo italico, e renderà inaccessibili le sue frontiere ad ogni straniera signoria.
» Egli è l’imperador Francesco il quale vi fa certi di uno stato sì felice, e sì onorevole. Ben sa l’Europa che la parola di questo principe è sacra, e che è così immutabile, come ella è pura: egli è il cielo che parla per bocca di lui. Destatevi dunque, Italiani, levatevi a romore. Quale che sia la parte di cui voi siate stati, o siate ora, non temete nulla, solamente che voi siate Italiani. Noi non venghiam miga per investigare, nè per punirvi: noi venghiam per aiutarvi, per rendervi liberi.» E più sotto:
«Italiani, una condizione per voi più avventurosa or dimora nelle vostre stesse mani; in quelle mani, che per tutte le parti del mondo colsero le palme della vittoria, e per la cui opera rifulse primieramente nell’Europa, ancor selvaggia e barbara, la luce della civiltà, e delle scienze, e della moralità.
» Voi, popoli di Milano, di Toscana, di Venezia, e del Piemonte; voi tutti, popoli d’Italia, riducete alla memoria vostra i tempi andati, ch’eran pur sì belli! Or quei tempi di pace, e di felicità potrebbon tornare ancora, e forse più belli che altra volta non furono. Ma conviensi che voi cooperiate a rimenarli; conviensi che voi ne siate degni.
» Italiani, d’altro non è bisogno che di volere, e voi sarete novellamente Italiani, così gloriosi, come i vostri avoli; così felici e contenti, come voi foste ne’ begli andati tempi.
» Giovanni, arciduca d' Austria.
- » Pietro, conte di Goes,
- » Soprantendente generale.»3
Questo fu il bando o invito dell’arciduca Giovanni d’Austria, nel quale però è da avvertire, che il giogo che consigliavasi di scuotere era quello del Bonaparte, e non già degli altri sovrani d’Italia contro i quali non si fa parola. Al rovescio però delle armi napoleoniche, e precisamente il 10 dicembre del 1813, l’austro-britanno generale Nugent emetteva in Ravenna altro bando del tenore seguente:
» Il conte Nugent, general comandante delle forze
» austro-britanne a' popoli.
» Assai già voi foste oppressi, e gemer doveste sotto un ferreo giogo: or per liberarvi son venuti in Italia gli eserciti nostri. Nasce qui dunque un novello ordine di cose, volto a rimenar tra voi, e a solidare la felicità pubblica. Incominciate intanto a gustare il frutto della vostra liberazione, per via d’alcuni benefici ordinamenti che per al presente bene a vostro uopo si fanno asseguire, e ch’ebber già intero effetto dovunque pervennero le milizie nostre liberatrici. Ma dove queste ancor non sono, appartiensi a voi, coraggiosi e bravi Italiani, il farvi via con le armi alla restaurazione della prosperità, e della patria vostra; e maggiormente che sarete voi difesi, ed aiutati per ributtare indietro chi ostinatamente a ciò si oppone. Avrete tutti a divenire una nazione indipendente. Mostratevi zelanti pel pubblico bene; e, se serberete fede a chi v’ama e favvi schermo, voi sarete felici. In brieve sarà la vostra sorte invidiata, ed ammirato lo stato vostro. Nello stesso dì che si darà fuori questo bando, si manderanno ad effetto i seguenti ordinamenti.» (Questi consistevano nell’abolizione dell’annual leva d’uomini, e nel diminuimento di alcune imposte.)
- » In Ravenna, a’ 10 di dicembre 1813.
» Gavenda, tenente colonnello, cavaliere della Croce di Maria Teresa, e comandante dell’avanguardia.
» Per ordine del general comandante, Nugent, comandante delle forze austro-britanne.4» |
Più tardi il generale Guglielmo Bentinck comandante l’esercito britanno, pubblicava in Livorno il bando seguente:
del generale Bentinck.
«Italiani, le milizie della Gran Brettagna sono sbarcate ne’ vostri liti. Ella vi dà la mano per trarvi dal ferreo giogo del Bonaparte. Il Portogallo, la Spagna, la Sicilia, e l’Olanda posson testificare come quella sia mossa da sentimenti liberi, e disinteressati. La Spagna per la sua ferma deliberazione, pel suo valore, e per gli sforzi de’ suoi collegati, mandò ad effetto una delle più belle imprese. I Francesi furon cacciati dal suo seno: la sua indipendenza è fermata, la sua libertà è statuita. La Sicilia, sostenuta dall’Inghilterra stessa, fuggì l’universale sciagura, e non ebbe danno. E, per opera benefica del suo principe trapassata poi da servitù a libertà, ella or procaccia di tornare a far fiorire la sua pristina gloria fra le nazioni non suggette. A conseguir lo stesso intento tende ancor l’Olanda. Or sola l’Italia rimarrassi sotto i ceppi, soli gl’Italiani pugneran contro gl’Italiani, in pro d’un tiranno, e per far serva la patria? Italiani, non istate più in forse; siate Italiani. E voi spezialmente, guerrieri dell’esercito italico, pensate che in poter vostro è il compimento di questa grand’opera. Non vi si dimanda già che a noi venghiate, ma che valer voi facciate i diritti vostri, e che siate liberi. Chiamateci anzi, e noi accorreremo. Congiunte allor le forze nostre, faran si che l’Italia ciò divenga che ella già fu ne’ suoi migliori tempi, e ciò che al presente è ancor la Spagna.
- » In Livorno, a’14 di marzo 1814.
» G. Bentinck, comandante principale » dell’esercito britanno .» 5 |
Le idee intanto di nazionalità, di unione e d’indipendenza, incominciate a germogliare nel secolo passato in seguito sopratutto della francese rivoluzione, avevan sempre guadagnato terreno, e contavano molti seguaci fra gli officiali dell’armata italiana. Oltre a ciò molti dei professanti tali opinioni eransi stretti pur anco in fratellanze segrete; e per segni convenzionali, e per indizi di setta, fra loro intendevansi e riconoscevansi.
La esistenza di così fatti elementi suggerì nel 1815 a Gioachino Murat la idea di farai re d’Italia. Esso appoggiossi precipuamente sulla setta dei carbonari ch’erasi formata nelle Calabrie durante la dominazione francese, e che mirando al discacciamento degli esteri dal suolo italico, professava il principio, in un colla indipendenza, della unità e nazionalità italiana. Contò esso nella sua intrapresa di essere secondato da tutti i partigiani di queste idee sparsi in Italia. Abbiamo un documento di questa intrapresa nel manifesto di Pellegrino Rossi dell’anno 1815 ai popoli delle Romagne, di cui abbiamo parlato nel capitolo XVII del secondo volume e che può leggersi riportato nell’opera di monsignor Gazola.6
Le sue armi però vennero rovesciate dagli Austriaci. Così la intrapresa murattiana svanì come un sogno, ed il congresso di Vienna compiè, nello stesso anno 1815, l’assestamento delle cose italiane, redintegrando nei loro stati i principi decaduti, altri aggiungendone, e stabilendo in somma quella circoscrizione territoriale che fino all’epoca di cui tessiamo la storia, è stata mantenuta e rispettata.
A giustificazione poi degli Italiani direni pure che se la idea allettatrice e sotto molti rispetti nobile ed onorevole di nazionalità era entrata nelle loro teste (perchè alla fin fine era lecito agl’Italiani di desiderare ciò che a tanti altri popoli era riuscito di conseguire, ed essi sentivansene più degni e meritevoli degli altri); se è incontestabile che chi la vagheggiava, sforzavasi con gli scritti, con la voce e con gli artifici di setta di propagarla, mantenendo così e alimentando un fuoco che acceso una volta, difficilmente colle armi e colle persecuzioni si spegne; è vero ancora che furonvi in certo modo spinti ed incoraggiati dalla Inghilterra, e dall’Austria stessa, con que’ bandi o manifesti che di sopra abbiam riportato.
Se non che a noi sembra che gl’italiani abbiano sbagliato in genere, numero e caso, prendendo di mira e scalzando per rovesciarlo, quell’unico fondamento su cui dovevano anzi appoggiarsi, il papato. Egli è questo un vecchio e fatale errore, che ove non riesca agl’italiani di sbarbicare incisamente dalle lor teste, produrrà convulsioni infinite, rovesci molti, stabile riedificazione non mai. Così, mentre noi ci professiamo apologisti e sostenitori in genere del principio della nazionalità italiana, ci permettiamo di censurare i mezzi adottati per la sua attuazione, le cui difficoltà non lasciano di’essere sempre imponentissime.
Sappiamo esservi molti fra gli amatori più sviscerati d’Italia, che vagheggiandone la unificazione, vorrebbero che essa tutta, dalle Alpi al mare siculo, stesse sotto un medesimo regime sia pure monarchico assoluto, sia monarchico costituzionale, sia anche repubblicano, e cercan diffondere le loro idee sostenendole con ispeciali ragionamenti, e insinuandole nelle menti de’ cittadini pacifici, temperati ed onesti, presso i quali trovano favore.
Eglino van predicando e sostenendo, essere di facile riuscita la fratellevole unione di tanti popoli d’indole e di costumi diversi, ed essere per rampollare da questa vagheggiata unione tutti i beni possibili, la maggior forza d’Italia, la sua maggiore prosperità.
Noi associandoci di buon grado al desiderio di costoro e vagheggiando la cosa in astratto, lasceremo che alla facilità del conseguirla rispondano tanti uomini insigni, che di questo argomento occuparonsi ed alla unificazione d’Italia portarono la loro attenzione, trascrivendo i testi dei loro scritti. Avvene tra questi taluni che han dato e van dando tuttora prove non dubbie del loro fervente zelo pel bene d’Italia. Così potrà ognuno formarsi un giusto criterio della questione che si agita, e riconoscere se meglio si appongano coloro che la vedon facile, ovvero quelli che ad ogni piè sospinto vi rinvengono difficoltà insormontabili.
Primo di tutti nell’anno 1833, il conte Ferdinando Dal Pozzo, giurisperito valentissimo ed uno dei capi della rivoluzione piemontese del 1821, mentr’era esule dalla patria, pubblicava in Parigi un’opera su questo argomento ove rinveniamo le parole seguenti: .
Conte Ferdinando Dal Pozzo . — «Dopo la dissoluzione dell’impero romano l’Italia non fu mai una. Se nol fu, la ragione in gran parte si è che nol potè convenientemente essere, attesa la sua configurazione, la quale presenta una grande lunghezza con poca larghezza relativa.» In una nota poi soggiunge: «Ciò fu lungamente discorso da Napoleone a sant’Elena col conte de Las Casas, siccome dalle Memorie da questo pubblicate apparisce.» 7
Ed il conte Cesare Balbo, uno dei campioni della rigenerazione italiana, scriveva così nelle sue Speranze d’Italia:
Conte Cesare Balbo. — «Io crederei che il primo e più frequente sogno fatto intorno a quell’epoca sia stato quello d’una monarchia comprendente tutta la penisola, d’un Regno d’Italia. Nome e idea erano conseguenti a tutto ciò in mezzo a cui eravamo stati allevati. Il più potente uomo di nostra età (e di molte altre) aveva anch’egli fatto un gran sogno della monarchia universale, un sogno minore del Regno d’Italia. Che anzi questo esisteva già di nome, in cominciamento: eravi un Regno d’Italia, corrente dall’Alpi agli Abruzzi, e comprendente così quasi tutta la penisola orientale. — A che tal forma, informe, longitudinale, lunga e stretta? Io non credo che il possa dire nessuno, nemmeno dopo aver letto ciò che ne dice Napoleone ne’ suoi dettati di sant’Elena. Tutto ciò è una solenne impostura. Che l’Italia s’avesse a tagliare in lungo e non in largo, e dividerla per educarla ad unità od a non so che, sono sofismi tali, che non potevano venire in capo se non a chi, avvezzo a tiranneggiare coll’opera, sperava tiranneggiare collo scritto; non pensando che, se là giova la forza, qua non serve se non la ragione. Io crederei che se Napoleone sognava una riunione d’Italia, ei sognasse quella all’imperio francese.» E più sotto: «Ma ad ogni modo n’eran rimasti il bel nome, la bella idea di un Regno d’Italia. Il napoleonico era stato parziale; e, manco male, il nuovo sognossi intiero: il napoleonico era stato dipendente; e, manco male, il nuovo sognossi indipendente: il napoleonico era stato sotto un principe straniero, e il nuovo sognossi sotto uno nazionale, o che diventasse nazionale, qualunque fosse, o, per servirci della frase allor volgare, «fosse il diavolo,» purché fosse re d’Italia. E fu sognato di siffatto Regno da non pochi. Prima da Gioachino Murat e suoi partigiani nel 1814 e 1815; e quasi nel medesimo tempo da’ Milanesi sollevati il dì della morte di Prina, e dai deputati che furono mandati a Parigi; poi, da altri congiurati del 1815; poi, da tutti quelli del 1820 e 1821. E ne fu sognato allora e poi, non solo da’ congiurati e società segrete, ma da uomini di governo e di Stato; e non solamente da quelli che ebber nome di amici, ma da quelli che l’ebbero di nemici a siffatte novità. Nè di tutto ciò mancheranno agli storici futuri citazioni e documenti. Ma io scrivo a’ contemporanei; i quali sanno quanto o meglio di me, che il sogno del Regno d’Italia fu se non universale, molto frequente a quell’epoca.
» E che fosse sogno, basterebbe forse a dimostrarlo, il fatto che non s’effettuò. Accenniamone tuttavia le ragioni, chiare ora. Principi, uomini di governo, popolani, congiurati, e sudditi vari, volevano il Regno, ognuno a modo suo: i congiurati, i popolani, non tanto il Regno quanto gli ordini sognati liberi-nel Regno sognato, un sogno allora aggiunto all’altro, la libertà all’indipendenza. I principi avrebbon voluto indipendenza, ma non guari libertà. I grandi, nobili, ricchi, notabili d’ogni maniera, volevano aristocrazie; i non distinti per nulla, democrazie, secondo il solito. E secondo il solito, Napoli s’avventava; e contro al solito, Milano aspettava, Torino si muoveva; con una differenza, un disaccordo di mosse, da far presagire un disaccordo anche maggiore di scopo quando fosse venuto a palesarlo ciascuno. Ed Austria era lì a valersi del disaccordo; Francia non v’era ad opporsi; Inghilterra ed altri non se ne curavano. Gli assennati l’avevan preveduto; alcuni generosi s’eran sacrificati; molti ambiziosi s’eran perduti. E n’erano usciti grandi insegnamenti, non nuovi per vero dire, ma sempre utili a ritrovare: che non si debbono frammischiar le imprese di libertà e d’indipendenza; che questa deve passare prima di quella, e sopratutto che il Regno d’Italia è cosa impossibile in tanta varietà di opinioni, di disegni, di provincie.
» Del resto, fatti antichi e ragioni perpetue concordano a ciò provare. Niuna nazione fu riunita in un corpo men sovente che l’italiana. L’Italia anteriore a’ Romani fu divisa tra Tirreni, Liguri, Ombroni, Fenici, Pelasgi, Greci, Galli e forse altre genti, concorse nella nostra penisola, occidentale rispetto al mondo d’allora, a quel modo che si concorse poi nell’America moderna, o si concorre ora nell’Oceania. — I Romani riunirono sì la penisola a poco a poco, ma posero a ciò non meno tempo che a conquistare l’intiero mondo lor noto; la conquista de’ Salassi fu l’ultima fatta da Augusto prima di chiudere il tempio di Giano, prima di fermare i limiti, e lasciar come arcano d’imperio il non oltrapassarli. Ei non fu, dunque, se non insieme con tutto un mondo, che l’Italia rimase riunita sotto l’imperio. E così poi di nuovo, insieme con molte altre provincie, sotto Teodorico, per una trentina d’anni. E quindi, se si voglia parlare d’un Regno d’Italia propriamente detto, dell’Italia riunita in sè senz’altre appendici, non se ne troverà in tutta la storia se non un esempio, intermediario tra la distruzione dell’imperio e Teodorico, un periodo di tredici o quattordici anni sotto Odoacre.»
Parla quindi il Balbo delle altre infinite divisioni o suddivisioni e lotte che subì l’Italia, e quindi dice:
- Io non so, per vero dire, qual possa dirsi sogno politico, se non dicasi questo: d’un ordinamento, che non ha nella storia patria se non un esempio di quattordici anni, e che non sarebbe se non restaurazione di un Regno barbaro di millequattrocento anni fa.
» Ma si potrebbe fare ciò che non si fece mai, diranno gl’immaginosi. — E risponderanno coloro che per parlar di cose future vogliono partire al meno da fatti presenti: Torino, Milano, Firenze, Roma, Napoli, Parma e Modena, sono sette città capitali al dì d’oggi (senza contar Lucca, destinata a riunirsi con Toscana); in sei di quelle regnano sei principi; ed uomini, città o Stati non diminuiscono di condizione mai se non per forza, non mai per accordo, di buon volere, nè per uno scopo eventuale. Sogno è sperar da una sola città capitale, che voglia ridursi a provinciale; maggior sogno, che sei si riducano sott’una; sogno massimo, che s’accordin le sei a scegliere quell’una. — E tanto più che ciò non è desiderabile, nè per le sei sceglienti, nè per l’una prescelta, nè per la nazione intiera.»8
Visconte G. de la Tour. — Questi nel suo opuscolo Del potere temporale dei papi,9 tradotto e pubblicato in Roma nel 1859, dopo di aver riportato le seguenti parole di Montalembert: «niuno avrà fronte per negare che la vera unità dell’Italia, la sua unità morale, stabilmente fondata nella sua lingua, nelle avite sue glorie, nella sua religione, non derivi ogni saldezza e tutela dal seggio di Pietro stabilito a Roma,» dice quanto appresso:
«E nel vero, dalla ruina del romano impero a questa parte, gl’italiani mai non formarono un unico stato; anzi neppure sotto il romano impero poteano dirsi un popolo libero, che si reggesse a governo elettivo. Roma e i cittadini romani assorbivano ogni cosa, e regnavano da pertutto colla prepotente lor forza. L’Italia cristiana, popolata di diverse razze, non ebbe periodo più glorioso, che sotto il regime municipale. Ella conta illustri città, i cui cittadini fondarono stati fiorenti, ma vasti regni non mai. È dura impresa voler cambiare l’antico ordine di cose, ereditato dagli avi, e rinnegare le tradizioni paterne. L’Italia del mezzodì, la centrale, quella del settentrione offre paesi divisi da molti secoli di rivalità e di antagonismo, dalla diversità dell’accento, e dalla contrarietà degl’interessi. «Il Papato è la sola viva grandezza dell’Italia,» diceva il Rossi pochi giorni innanzi che cadesse sotto il pugnale dell’assassino. E questa grandezza è poi anche la salute dell’Italia. Fate prova di toglierle il Papa, e voi vedrete la Penisola tutta quanta in preda alle intestine discordie, le quali presto o tardi la trascineranno di nuovo sotto il grave giogo dello straniero.»
Conte Walewsky. — Il conte Walewsky poi, quello stesso che nel 1848 era ministro della repubblica francese in Firenze, e che posteriormente fu primo ministro di Napoleone III, pubblicava uno scritto nel 1848 (inserito nel Journal des Débats del 7 agosto, e riportato dalla Gazzetta di Bologna del 19 n. 160 e dal Pensiero italiano) nel quale fra le altre cose diceva che la centralizzazione in Italia era un ’ opera quasi impossibile.
Ecco le sue precise parole:
«I promotori coscienziosi dei principi repubblicani cominciano a comprendere inoltre la difficoltà, o meglio l’impossibilità, di applicare le loro dottrine in questo momento. Si vorrebbe in fatti una grande repubblica con un governo centrale come la repubblica francese? Ma introdurre la centralizzazione in Italia è un’opera quasi impossibile; gli usi, le tradizioni, i costumi, vi si oppongono; converrebbe, per vincere tutti questi ostacoli, il genio, la volontà e la potenza di Napoleone: una lunga perseveranza ed un’autorità dittatoriale potrebbero sole offrire la speranza di riuscirvi. Volere operare questa grande riforma mediante un governo repubblicano il quale per la sua natura stessa si troverebbe ad ogni istante in opposizione cogli elementi indispensabili della centralizzazione, sarebbe follia.» E più sotto:
«Vi sono in Italia degli utopisti che non sono forse meno pericolosi dei repubblicani; sono coloro che sognano un solo regno compremiente tutta la penisola italiana, la Sicilia, la Sardegna, e forse la Corsica, che si lusingherebbero di ottenere in iscambio della Savoia. Carlo Alberto dovrebbe essere il re di questo vasto impero. Si chiamano unitari i propagatori di questa splendida utopia.»
Abate Rosmini. — Il celebre abate Rosmini credeva possibile l’unità italiana soltanto sotto la forma federativa e conservando i vari stati, ma colla maggior possibile uniformità governativa. Ecco le sue parole: «La questione adunque dell’unità italiana, la questione pratica e del momento si riduce, come dicevamo, a trovare il modo di fabbricare l’edificio dell’unità italiana coi materiali che abbiamo, e sono tutte quelle parti, quegli stati d’Italia che non si possono fare scomparire senza violenza o senza ingiustizia. Questa unità deve risultare di tale indole che non pregiudichi alla vita individuale delle membra, e nello stesso tempo deve esser provveduto, acciocché la Vita individuale delle membra non pregiudichi all’unità vitale del corpo. Salvati i territori, salvata la vita delle membra, e salvata la vita dell’unità, per tutto il resto le parti devono essere disposte a subire qualunque modificazione.
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» Quali adunque possono essere le basi fondamentali di una sì desiderabile, e sì desiderata unità? — Eccole:
» Uniformità governativa la maggiore possibile di tutti gli stati particolari.
» Organizzazione sapiente della Dieta permanente in Roma, ec. ec.»10
Marchese Massimo d’Azeglio. — Udiamo ora un altro campione del risorgimento italiano, il marchese Massimo d’Azeglio il quale, secondo l’Armonia del 6 novembre 1859, n.° 195, pubblicava nel 1849 un suo programma ove erano le parole seguenti:
«Una triste esperienza ha dimostrato in Italia che le antipatie municipali rendono impossibili le fusioni, che ad ogni modo sarebbero vietate dall’Europa. Conviene rassicurare gli stati italiani contro progetti di sleali ingrandimenti, e persuaderli che la vera politica d’Italia è la benevolenza non l’invidia, l’unione non la discordia.» Lo stesso d’Azeglio poi nell’opuscolo Ai suoi elettori dice quanto appresso: «Che l’Italia s’unisca, formi una confederazione, metta insieme uomini, denari, forze d’ogni genere, oh! a questo ci sto, e sono cent’anni che lo predico.»11
Biagio Miraglia, di Strongoli. — Abbiamo una storia della rivoluzione romana di Biagio Miraglia di Strongoli, esule calabrese, il cui amore sviscerato per l’Italia non abbisogna di prove. Egli ivi dice quanto appresso:
«L’amore smodato del municipio, più di quel che si crede, vive ancora nella patria nostra, e sradicarlo in un istante dalle anime non è possibile a forza umana. I fatti che raccontiamo ne sono una prova evidentissima.»12
Angelo Brofferio. — Abbiamo pure l’avvocato Brofferio caldissimo propugnatore della indipendenza e della nazionalità italiana, il quale nella sua storia del Piemonte esce in questa sentenza:
«Non sorgerà mai, persuadiamocene ben bene, la desiderata nazionalità italiana dalla distruzione delle nazionalità venete, piemontesi, liguri, lombarde, romane, sicule e partenopee; nazionalità che hanno sempre esistito, e che esisteranno sempre a meno di spegnerne la memoria col ferro e col fuoco. No, io lo ripeto, non vi sarà mai durevole libertà per gl’Italiani che negli Stati Uniti d’Italia, e non avrà mai saldo fondamento la libertà europea se non cogli Stati Uniti d’Europa.» 13
Vincenzo Gioberti. — Sentiamo pure un altro campione, e forse il più efficace del movimento italiano; vogliam dire il famoso abate Gioberti:
«Ora il supporre che l’Italia, divisa com’è da tanti secoli, possa pacificamente ridursi sotto il potere d’un solo, è demenza; il desiderare che ciò si faccia per vie violente, è delitto, e non può cadere se non nell’animo di coloro che guastano la politica anteponendola alla morale, e disonorano la patria, separandone gl’interessi e i diritti dalla mansuetudine e dalla giustizia. Oltre che l’impresa, come dianzi ho provato, è per poco impossibile ad eseguire, qualunque siano i mezzi a cui si ricorra; ed anco eseguita, è difficile a conservare. Vo più innanzi, e dico che l’unità centrale d’Italia essendo combattuta dal fatto, cioè da tutta la storia, non è conforme alla sua natura; o almeno che non si può affermare il contrario, finchè non se ne abbia esperienza. Imperocchè il solo mezzo ragionevole che si abbia per conoscere e chiarire il vero genio dei popoli consiste nella storia loro. Or l’Italia non ebbe mai l’unione politica, di cui si parla; giacchè la stessa repubblica romana nel suo fiorire abbracciò l’idea etrusca e fu una società di popoli; e quando la società fu mutata in servaggio, e la nazione divenne schiava del municipio, surse la lega italica, eroica, benchè infelice; e poscia colla indipendenza dei collegati perì la libertà stessa del comune, che li tiranneggiava.» 14
Lo stesso Gioberti nelle sue Operette politiche dice quanto appresso:
«La storia in universale c’insegna quei soli intenti e conati riuscire felicemente che hanno del reale e dell’ideale insieme; stante che nel concorso di queste due parti risiede il vital principio e l’intimo magistero di ogni forza creata. L’idea sola non può trionfare, perchè non appaga gli spiriti positivi, e coloro in cui il senno pratico e il discorso prevalgono.» E più sotto: «Eccovi che la dottrina di chi vorrebbe ridurre la nostra Penisola a unità rigorosa di stato, quanto è poetica e garba agli ingegni più fervidi, che esperti, tanto è stimata impraticabile e derisa dagli uomini sperimentati, che non si pascono di utopie e di chimere. Per contro, la politica municipale che accarezza la divisione assoluta, e rifugge per falso amor del comune da ogni vincolo formativo della nazione, può appagare il gretto egoismo di molti, ma ripugna a chi è dotato di alti spiriti e sente vivamente la gloria di essere Italiano. Il concetto della confederazione tramezzando fra tali due estremi, serba il buono e il ragionevole di entrambi, senza il reo e il chimerico che l’accompagna: pigliando dagli unitari la unione, ma accomodandola ai dati effettivi per renderla possibile, e dai municipali la divisione, ma mitigandola cogli ordini federativi, viene ad accordare l’idea colla realtà, la teorica colla pratica, il desiderio di ciò che dovrebbe essere colla necessità di quello che è effettualmente; e con questo dialettico componimento satisfa all’universale degli uomini, e viene accolto propiziamente da quella opinione pubblica che oggi è padrona del mondo, e sovrana moderatrice degli eventi.»15
Luigi-Carlo Farini. — S’oda ora il Farini che nella sua storia dice così: «Eppure ecco il Mazzini a cui non basta l’Unità d’Italia; idea contrastata, fine a parer mio non buono nè bello, certamente impossibile a questi tempi: non gli basta la distruzione della monarchia; idea pessima, io credo, in questa società europea, in ogni caso più contrastata della prima, fine poco più probabile: non gli basta la democrazia pura; termine equivoco di significato, termine senza termine, a prenderlo nel significato di taluni: non gli basta la distruzione del dominio temporale dei papi; impresa, come si vede, molto difficile: non basta: il Mazzini crede facil cosa distruggere in Italia anche il cattolicismo romano. È una stoltezza storica e politica, è un delirio da fanciulli. L’Italia, il ripeto, è cattolica, e non v’è altro cattolicismo che il romano.»16
Generale Giacomo Durando. — Ma riferiamo l’opinione di un altro campione, il generale Giacomo Durando.
Egli pubblicò nel 1846 in Losanna un’opera sulla Nazionalità Italiana. Noi non ci divagheremo in riportare per disteso i suoi progetti; solo diremo che esso propose la formazione di un’Italia a suo modo, suddividendola in tre frazioni che chiamò
- 1. Italia Eridania
- 2. Italia Appennina
- 3. Italia Insulare,
spodestando questo o quel dei regnanti, e sostituendo a ciò che si toglieva all’uno ciò che dall’altro voleva distaccarsi. Era insomma un rimpasto territoriale a guisa di permuta. Ci dette perfino una carta geografica portante la nuova circoscrizione territoriale d’Italia. Noi ne parliamo semplicemente perchè il Durando, quantunque fosse amantissimo della nazionalità italiana, vedeva le difficoltà del costituire l’Italia in nazione, e se proponeva rimpasti e permute, lasciava salvi o quasi salvi i diritti dei regnanti. Ma un’unione sotto lo scettro di un solo non la vedeva possibile. Egli pertanto accostavasi in certo modo alla idea federativa. Ne parliamo pure perchè il Durando fra le difficoltà enumerava quella che scaturisce dalla difettosa configurazione geografica dell’Italia. Ecco le sue parole relativamente a ciò:
«Non fu dunque un concetto puerile, come taluni avvisarono, quello di Napoleone, quando asseriva, la configurazione longitudinale d’Italia ostare alla di lei nazionalità.
» Per andarne convinti, basta immaginarsi un momento che alla contestura attuale dell’Italia ne sottentri una ideale, la quale, verbigrazia, somigli a quella di Francia o di Spagna, e sia quadrangolare o rotonda. Se tal fosse la nostra penisola, scomparirebbero tutti gl’inconvenienti della figura longitudinale; avremmo il sistema appennino in contatto coll’alpino e coll’eridanio, nodi di valli, di confluenti, centro strategico comune, tutto in fine cambiato radicalmente, risultandone un corpo compatto, e con giuste proporzioni. Quindi comunicazioni agevoli, attrito sociale continuo e inevitabile; sistema di difesa comune, costumi, lingua, interessi e legislazione identica, o almeno più omogenei. La nostra nazionalità si sarebbe costituita e mantenuta, nè mai certamente si sarebbe sminuzzata come il fu durante tredici secoli, talchè ci troviamo ora quasi all’esordire della nostra unificazione.» 17
L’Anonimo lombardo (Luigi Torelli?). — L’Anonimo lombardo, che vuolsi essere Luigi Torelli, dice che si associa alle idee di Balbo e di Gioberti, e si pronunzia pel sistema federativo. 18
Ferdinando Ranalli — Finalmente lo storico Ferdinando Ranalli dice quanto appresso: 19 «Non mi sarebbe dunque difficile provare che il fare dell’Italia uno stato solo, non sarebbe nè molto possibile nè molto desiderabile. Ma io vo’ mettere dall’un dei lati siffatta quistione, e voglio ancor concedere che e possibile e desiderabile dovesse stimarsi. Però, ci è mestieri almanco di ben giudicare a quale e quanta impresa ci mettiamo, per sapere se siamo in condizione di tentarla con un po’ di probabilità di riuscita. Si tratta di questo: disfare i presenti domimi e ridurci sotto una unica dominazione; di forma, per alcuni monarchica, per altri, repubblicana. Il che vuol dire primieramente affrontare la guerra de’ vari principi; i quali non si può supporre che di buona voglia lasciassero il seggio; anzi è da credere che invocherebbero l’aiuto de’ maggiori potentati, che o per parentela o per interesse comune non mancherebbe; senza volerci immaginare che a una nuova commozione (facilmente sufficiente a rendere i nostri principi pieghevoli nell’allargare i loro governi) debba tener dietro una sommersione generale e perpetua di tutti i regni e di tutti gl’imperi; di qualità che ogni popolo potesse trovarsi sciolto da tutti i timori, e sicurato da tutti i pericoli. Pure non basterebbe; perciocchè in Italia alla creazione di uno stato solo si avrebbero non pure i principi contrastanti, ma ancora gli stessi popoli. E la ragione sta in quel che più sopra abbiamo discorso dell’indole nostra sommamente municipale. La quale si potrà modificare, minuire, variare, ma non distruggere per forma, che a’ Napoletani, a’ Romani, a’ Toscani, a’ Lombardi, a’ Piemontesi non importasse il perdere quell’essere loro, che ornai resulta da consuetudini inveterate, da ambizioni di patrie, illustri per immortali glorie, e da un fatto naturalissimo che tutte queste cose rafferma, cioè la ben distinta qualità de’ linguaggi, quasi a indicare la distinzione politica comandata dalla natura. E se assai è costato l’unire la Liguria col Piemonte, la Venezia colla Lombardia, la Sicilia con Napoli, le Romagne con Roma, non ostante che a ciò ragioni o naturali o d’interesse politico per avventura militassero, quanto più non sarebbe scabroso e arduo fare di tutti questi membri un corpo unico, e mantenerlo validamente concorde? Potrebbesi forse ragionevolmente far disparire i due miseri ducati di Modena e di Parma, accrescendone secondo le diverse prossimità il Piemonte, la Toscana e la Lombardia. Nè tuttavia dubito che a far questo la difficoltà non fusse maggiore dalla parte de’ popoli che da quella de’ principi. Abbiamo veduto la piccola Lucca tollerar più di essere dilaniata da quelle arpie ducali, che perdere la misera sovranità, incorporandosi colla Toscana, a cui in fine nessun vantaggio è provenuto. Diranno i così detti Unitari, sieno di genere monarcale o repubblicano: Bisogna domare una volta queste superbie municipali, e costringere a forza le città ad essere quel che richiede la somma felicità dell’intera Italia. — Per altro, ancora ciò riuscendo, non si potrebbe negare che non fusse un po’ strano obbligare, a nome della dea Libertà, non già uomini in particolare, ma intere popolazioni a vivere a modo nostro, e non secondo che elle, a ragione o a torto, vorrebbero; parendo che quando un popolo volesse essere piuttosto così che così, potesse pretendere di non dovere avere altro giudice migliore di sè, che lui stesso.» 20
Esposti dunque da noi per un lato i desideri e gli sforzi a conseguire la nazionalità, che preoccupano gran parte delle menti italiane, ed avendo riportato a rincontro le difficoltà che uomini gravi e celebrati per sapere e per patriottismo riconoscono frapporsi al suo perfetto conseguimento, lasceremo che la Provvidenza risolva le sorti degl’italiani, e noi non ci sentiam da tanto per emettere neppure una predizione. Possiamo ancor noi desiderare ciò che molti altri desiderano, ma coi desideri non si superano le difficoltà. A noi sembra che col tempo (forse con due o tre generazioni) una sola cosa possa farle sparire, dileguando a poco a poco le discrepanze di gusti, di abitudini, di tendenze; e questa cosa sarebbe il vapore applicato alle strade ferrate le quali col moltiplicare le comunicazioni potrebbero fondere in uno tutti i popoli che abitano la penisola, e far loro assumere uno stesso colore.
Oggi l’Italia è una stoffa di vari pezzi, di vari colori, e di tessuti diversi. Chi sa che un giorno questa stoffa non possa essere tutta di un pezzo ed eguale per qualità e colorito? Le nostre disquisizioni peraltro si riferiscono al tempo presente o a noi vicino, gli effetti del quale possono essere intesi da noi o dai nostri figli.
Ciò che toccherà in sorte ai nostri pronipoti o più remoti discendenti interesserà coloro soltanto che precedendoli di poco, potranno meglio prendere consiglio dai tempi che correranno, quando noi non saremo più. Noi tessiamo la storia, e non facciam profezie.
Ci permettiamo bensì di dare non tanto un avvertimento, quanto un consiglio agl’Italiani, emanante dal cuore e dalla convinzione più profonda di chi sente al pari di loro amore ed attaccamento per la patria comune, ed è questo.
Che ove pure ciò che si desidera ardentemente da molti, potesse quando che sia verificarsi, converrebbe ritenere indelebilmente scolpito nella mente e nel cuore, che è da aggiungere alle difficoltà, le quali non son poche, altra e più importante di tutte, cioè che per prima primissima condizione dovrebbe mirarsi alla integrità della religione cattolica in Italia. Sì, lo ripetiamo, senza la conservazione dell’unità religiosa e del rispetto per essa che fu il retaggio de’ nostri padri, nè unità politica, nè indipendenza, nè libertà, nè felicità sarebbero sperabili per nessun modo.
Questo beneficio la Italia lo avrebbe; ma disgraziatamente gli uomini che iniziarono, e che perseverano alla testa del movimento italiano, sembra che abbiano agito sempre a contro senso; e che desiderosi d’innalzare un grandioso edifizio, siansi studiati ed occupati di preferenza nello scalzarne o per lo meno indebolirne le fondamenta.
E per una fatalità inconcepibile purtroppo, gli uomini che figurarono e che soffiarono nel fuoco del movimento italiano sono stati presso che tutti e sono i nemici del papa-re, gli eterni dileggiatori e persecutori del clero, degli ordini religiosi, delle libertà della Chiesa; e forse, se non fosse stato il timore delle popolazioni che li ha trattenuti dal far di più, lungi dal sostenere l’intangibile fulcro della cattolicità, lo avrebbero eliminato del tutto. E ciò quantunque abbian sott’occhio l’esempio delle scissure germaniche e l’antagonismo insuperabile della contrastata egemonia. E perchè insuperabile? Perchè mezza Germania è cattolica e mezza protestante.
Ed il Piemonte pel primo, che sembra voler aspirare alla egemonia d’Italia, incominciò col fare guerra all’episcopato, sbandeggiarne taluni membri, erigere templi al culto protestante, perseguitare gli ordini religiosi, e mettersi in guerra col papato.
Se dunque gl’italiani vogliono porsi in misura di raggiungere, quando che sia, l’intento bramato, dovrebbero per prima cosa fare tutto al rovescio di quello che han fatto finora, e adoperarsi a tutt’uomo in edificare e sostenere quello che han cercato d’indebolire e distruggere. La religione cattolica, di cui Roma privilegiasi di essere il centro, è tale un tesoro, che ella deve gelosamente custodire, ed ha il mandato di conservare incontaminato pel bene del genere umano e della universale civiltà. Roma non abbisogna di consigli anglicani per riformarla, e figli degeneri della classica terra italiana son quelli che vezzeggiano le anglicane riforme quasi che fosser tipo e modello di vivere civile.
Gii anglicani, se conservano i loro archivi, vedranno che da Roma attinser mai sempre il tesoro delle dottrine, ed in Roma impararono perfino le teorie della libertà.
Esaurito così quei poco che sapevamo sulle opinioni emesse da vari scrittori che della unità e nazionalità italiana trattarono, aggiungeremo alcuni cenni sui sistemi venuti di recente in voga per conseguirle.
In tre frazioni dividonsi i vagheggiatori dell’unità e nazionalità:
1. Gli unitari repubblicani di Mazzini.
2. Gli unitari monarchici, sotto lo scettro di casa Savoia.
3. I federali o partigiani di una lega federativa dei vari principi o stati italiani.
Molto dicemmo nelle presenti carte sugli sforzi del Mazzini; abbastanza sui progetti federativi; poco o nulla su quelli del Piemonte o di Carlo Alberto che ne reggeva il freno. Ora però per la intelligenza della storia, e per chiarire alcuni fatti che senza questo rimarrebbero inesplicati, è pur d’uopo che ne diciamo qualche cosa.
Intanto però crediamo dover premettere, che sia gli unitari repubblicani, sia i monarchici, affine di conseguire il loro intento nel senso il più lato, dovendo di necessità formare una Italia nuova sulle ruine dell’Italia antica, dovrebber pure, dopo avere espulso completamente gli esteri dominatori della Italia, passare per la trafila, se fosse d’uopo, degli eccidi e del sangue per discacciarne i regnanti colle armi e colla violenza, ovvero, alienando a poco a poco i popoli dal rispetto e dalla soggezione verso i medesimi, spingerli finalmente ad insorgere contro di loro.
In entrambi i casi poi, siccome fra i vecchi regnanti d’Italia è compreso il pontefice, sarebbe di necessità, per liberarsene come farebbesi di un ingombro molesto, assoggettare ancor lui alla sorte comune.
I federali per converso rispettando i diritti esistenti e le presenti circoscrizioni territoriali, tenderebbero a riunire e stringere in una lega comune i vari stati della penisola con tali vincoli, patti, e ordinamenti, che le varie parti slegate consertandosi insieme, formar dovessero un tutto compatto.
Il solo di questi tre sistemi pertanto, che a nostro avviso riunisca maggiori probabilità di successo, minori inconvenienti da produrre, e più lievi difficoltà da superare, ci sembra il federativo, in quanto che con esso soltanto concilierebbersi gli altrui diritti in un col rispetto necessario inevitabilmente per la unità cattolica, senza della quale sarebbe sogno il parlare dell’unità politica. Con esso in fine verrebbesi a preservare l’Italia da interminabili lotte, da gedosie infinite, da convulsioni sanguinose, a detrimento di quella libertà c di quella prosperità che cercherebbesi di ottenere. E l’attuazione del sistema federativo ha trovato un nuovo campione di gran rinomanza nel celebre padre Ventura, il quale vi consacra un capitolo nell’opera sua recente sul potere pubblico.21
Se dunque il solo federalismo ci sembra riunire gli estremi di una qualche probabilità di attuazione, egli è, come dicemmo, perchè lasciando al lor posto i sovrani che già vi si trovano, e fra questi in primissimo luogo il pontefice, eliminando la probabilità di guerre fratricide, di distruzioni, di defezioni di soldatesche e di cospirazioni sleali, il buon diritto dei governanti e la pace dei governati sarebbero rispettati ed incolumi.
Laddove, volendo ottenere questa unione coi due sistemi o della unità repubblicana o di quella monarchica, la quale, a giudicare dal vento che spira, essere non potrebbe che l’assorbimento piemontese, è chiaro che converrebbe fare man bassa di tutte le legittimità, distruggere tutte le armate, soffocare le simpatie, affogare le predilezioni municipali, violentar le coscienze, c tutto manomettere fino al punto di fare dell’Italia un vasto campo di battaglia. E questo campo di battaglia noi lo intendiamo sia uelPordine materiale, sia nel morale, ravvivando le gelosie e le scissure del medio evo, non che gli orrori tutti de’ tempi barbari.
La sola esautorazione del pontefice sarebbe tal fatto (nello stato presente dell’opinione, e coi progressi che ha fatto e va facendo la cattolicità), da mantenere il mondo in un stato di costante perturbazione. E questa perturbazione non cesserebbe che il giorno in cui il pontefice riassiso sul trono de’ suoi predecessori con tutte le prerogative che gli competono, segnalerebbe il trionfo della forza morale su tutte le forze congiunte per atterrarla.
Queste cose non è possibile che i reggitori dei grandi imperi non le conoscano e non le veggano; non ci sembra quindi presumibile che l’Europa si acconcerebbe a queste perturbazioni.
E quando pure accadesse che dopo dieci, quindici o venti anni di rivolture e di perturbazioni l’uno o l’altro dei sistemi in discorso prevalesse, potremmo noi esser certi della sua durata, o non sarebbe egli possibile per converso, che rinsavite per trista esperienza le menti degl’Italiani, non fermentassero e si rinvigorissero a poco a poco idee tutt’affatto opposte, in guisa da dovere incominciare da capo?
E non sarebbe egli possibile che percorrendo, in senso contrario, il compito di nuove perturbazioni, accadesse die, come si era lavorato per trenta o quaranta anni in osteggiare i governi della penisola italiana, si dovesse lavorare altri trenta o quaranta anni per ricostituirli? E in questo caso, non risulterebbe che la misera Italia dopo aver soggiaciuto per sessanta o per ottant’anni a tutti i lacrimevoli effetti dei politici sconvolgimenti, ritornar dovesse a quel punto d’onde ci eravam dipartiti?
Potrem noi persuaderci sì di leggieri che Roma, destinata ad essere grande, ed alla quale il mondo civile largì l’appellativo di eterna rassegnar si potesse ad essere comandata da un re alla cui famiglia due secoli addietro competeva appena il titolo di ducale?22 E che in luogo di mantenere quel primato universale d’Italia, che già per oltre venti secoli o colle armi, o colle conquiste, o coll’arbitrato supremo della parola, sovranamente esercitato, le apparteneva,degradarsi dovesse da padrona a divenire serva, da dominatrice ad essere dominata? 23
E che Firenze, la quale fu ad un tempo la Sparta e l’Atene d’Italia, rinunziasse a quei posto illustre che le appartiene fra le più belle e le più cospicue città della penisola italiana? È egli possibile che poste in oblivione le glorie di Palazzo vecchio e di santa Croce, le ricchezze inapprezzabili di palazzo Pitti e del suo museo, le storie c le grandezze di tanti secoli, i suoi uomini grandi, il patrocinio per le arti, il lustro e lo splendore della famiglia de’ Medici, veder si potesse assimilata e governata come Casale, Novara, Vigevano e Vercelli, la storia delle quali non ha tanti gloriosi fatti da registrare? Potrebbe Firenze dimenticare che all’ombra sua fiorirono i geni onorevoli di un Dante, di un Petrarca, di un Macchiavelli, di un Galileo, di un Leonardo da Vinci, di un Guicciardini, di un Amerigo Vespucci, di un Leon Battista Alberti, di un Michelangelo Buonarroti, ed altrettali nomi da costituire essi soli una gloria non peritura?
Che se a questo si aggiunga che anche tre papi famosi ci venner da Firenze e furono Leone X il quale diede niente meno che il nome al suo secolo, Clemente VII e Urbano VIII, acquisteranno, non ne dubitiamo, maggior peso le nostre parole. — Se si riflette poi, ch’ebbevi Pisa la quale ora fa parte della Toscana, ma che città antichissima, fu alleata dei Romani, e che nel nono secolo fu centro di una repubblica conquistatrice e opulenta, possedette la Corsica, la Sardegna, e le isole Baleari, rivaleggiò per potenza e per commerci con Genova e con Venezia; e mentre ora non conta che venti o venticinque mila abitanti, ne contava centocinquanta mila nel tredicesimo secolo; e che attestano la sua passata grandezza le chiese, i ponti sull’Arno, il battistero, il celebre pergamo, il campo santo, e tante altre opere d’insigne merito artistico; giammai potremo indurci a credere che i Pisani, i quali due volte possedettero risola di Sardegna, servir volessero di buon grado a quel reame che ora ne porta il nome. E dovrà convenire ognuno che non vi è alcuno stato in Italia, sia sotto il titolo di regno, sia sotto quello di ducato o di gran ducato, il quale meno della Toscana debba desiderare una fusione, e che niuno più di essa debb’andar superbo di conservare la sua individualità, l’autonomia, perchè onusta di tante glorie e di tante grandezze.
E chi potrebbe mai persuadersi che Venezia, la regina dell’Adria, la dominatrice dei mari, e l’arbitra un giorno del commercio del mondo intero; Venezia già donna di Tessalonica, di Creta, di Cipro, dell’Arcipelago e del Peloponneso, ricca ad un tempo, forte e gloriosa per magnifiche gesta, rimpicciolirsi volesse al punto di aggiungere un gradino al trono sabaudo? E che il Leone di Venezia facesse tacere il suo tremendo ruggito?
Noi non possiam presagire che cosa sarà di Milano. Giudicando dalle apparenze, possiam dire che gli Austriaci vi sono mal veduti da taluni e odiati da altri, massimamente nella parte colta e illustre della popolazione, e che propende una parte di essa alla fusione col Piemonte. Questo sappiamo bensì che prima città della Lombardia rivaleggia in grandezza colle più belle ed illustri città d’Italia. Che il suo duomo è un portento, industri i suoi abitanti, chiara la sna aristocrazia. È ricca e fiorente, culta e gentile.
Accostumata fu sempre allo splendore di corte |antiantichissima, fu alleata dei Romani, e che nel nono secolo fu centro di una repubblica conquistatrice e opulenta, possedette la Corsica, la Sardegna, e le isole Baleari, rivaleggiò per potenza e per commerci con Genova e con Venezia; e mentre ora non conta che venti o venticinque mila abitanti, ne contava centocinquanta mila nel tredicesimo secolo; e che attestano la sua passata grandezza le chiese, i ponti sull’Arno, il battistero, il celebre pergamo, il campo santo, e tante altre opere d’insigne merito artistico
- giammai potremo indurci a credere che i Pisani, i quali due volte possedettero risola di Sardegna, servir volessero di buon grado a quel reame che ora ne porta il nome. E dovrà convenire ognuno che non vi è alcuno stato in Italia, sia sotto il titolo di regno, sia sotto quello di ducato o di gran ducato, il quale meno della Toscana debba desiderare una fusione, e che niuno più di essa debb’andar superbo di conservare la sua individualità, l’autonomia, perchè onusta di tante glorie e di tante grandezze.
E chi potrebbe mai persuadersi che Venezia, la regina dell’Adria, la dominatrice dei mari, e l’arbitra un giorno del commercio del mondo intero; Venezia già donna di Tessalonica, di Creta, di Cipro, dell’Arcipelago e del Peloponneso, ricca ad un tempo, forte e gloriosa per magnifiche gesta, rimpicciolirsi volesse al punto di aggiungere un gradino al trono sabaudo? E che il Leone di Venezia facesse tacere il suo tremendo ruggito?
Noi non possiam presagire che cosa sarà di Milano. Giudicando dalle apparenze, possiam dire che gli Austriaci vi sono mal veduti da taluni e odiati da altri, massimamente nella parte colta e illustre della popolazione, e che propende una parte di essa alla fusione col Piemonte. Questo sappiamo bensì che prima città della Lombardia rivaleggia in grandezza colle più belle ed illustri città d’Italia. Che il suo duomo è un portento, industri i suoi abitanti, chiara la sna aristocrazia. È ricca e fiorente, culta e gentile.
Accostumata fu sempre allo splendore di corte lussureggiante, anticamente sotto i Visconti o gli Sforza, recentemente sotto i Leuchtenberg o gli austriaci arciduchi. L’amore d’Italia può molto, ne conveniamo. Pur tuttavia, siamo ancora in dubbio se alla lunga potrebbe acconciarsi a servire quale città di second’ordine alla signoria piemontese.
Che mai dir non potremo della potente Genova, cui attribuissi perfino l’appellativo di Cartagine dell’Europa? Potente per le armi, potente pel commercio, potente per la marina, soprattutto fino al secolo quattordicesimo. Celebre pel suo porto, per la sua darsena, pe’ suoi magnifici palagi, di cui essa sola tanti ne accoglie, quanto la Francia intera. Celebre per gli uomini grandi che produsse, fra i quali citerem solo un Andrea Doria ed un Cristoforo Colombo, nè men celebre per le famiglie degli Spinola, dei Fieschi, de’ Grimaldi, dei Fregoso, degli Adorno, de’ Carrega, degl’imperiali, dei Guarci, de’ Montaldi, dei Durazzo, dei Brignole. Ma il parlarne convenientemente ci menerebbe tropp’oltre e senza scopo, poiché Genova fu annessa ai Piemonte pei trattati del 1815.
Parma città antichissima della penisola italiana, perchè eretta nel sesto secolo di Roma, a parte lo splendore della sua corte ducale, a parte le gesta e le grandezze della famiglia Farnese, rammenta con gloria fra i suoi concittadini un Pietro Giordani, e lo averci dato un Bodoni che spinse l’arte tipografica ad un punto tale di perfezione, da disgradarne gli Aldi, i Commi, i Didot, i Brindley ed i Baskerville.
La stessa Modena non può non andar gloriosa della sua antichità che rimonta agli ultimi secoli della repubblica romana. Va essa superba del suo museo, della sua galleria e della sua magnifica biblioteca, e rammenta sempre con orgoglio di essere stata la patria del Sigonio, del Sadoleto, del Montecuccoli, del Correggio, dello Spallanzani, del Tassoni, del Falloppio, del Testi, del Castelvetro, e di quel portento di sapere che fu Ludovico Antonio Muratori.
Dacché Modena cadde fin dal 1288 sotto la famiglia D'Este, figurò fra le importanti città d'Italia, e non crediamo quindi che possa essere nel genio de' suoi abitanti di scomparire dalla scena dei vari stati italiani, per servire alle viste di ingrandimento di una dinastia che a rigore neppure può dirsi italiana.
Enumereremo talune città dello stato pontificio le quali avendo figurato nei secoli scorsi e sfolgoreggiato per luce propria, non sappiamo se sentirebbonsi vogliose di vivere all'ombra di un regno di recente erezione, qual è il Piemonte. Scegliamo fra queste Bologna, Ravenna e Ferrara.
Bologna soprannominata la dotta, non dimentica al certo la sua antichissima università, le sue scuole di pittura, specialmente sotto i Caracci, i suoi portici, il suo Istituto, la sua Certosa, ch'è il più magnifico campo santo che sia in Italia: rammentasi che fra le sue mura fu conclusa la pace fra Carlo V e Clemente VII, e che perfin vi si tennero alcune sessioni del concilio di Trento. Celebri sono nella storia bolognese le famiglie dei Lambertazzi e de' Geremei, non che quelle dei Pepoli, de’ Gozzadini, dei Bentivoglio, dei Bevilacqua, de’ Malvezzi, dei Marescotti ed altre molte. Donò alla santa sede moltissimi cardinali e molti papi; fra questi noi non citeremo che Benedetto XIV, fra quelli il prodigioso poliglotto cardinale Mezzofante. Amò sempre la cultura e la libertà; fu celebre pel suo senato: e da tutti questi preliminari non crederemmo possibile di vederla tranquillamente assoggettata ai dettati di un pretore alpigiano che applaudito forse oggi, verrebbe domani schernito.
E Ferrara potrà credersi che fosse immemore della corte degli Estensi, la quale rifulse di tanto splendore di civiltà nel medio evo? E non è ad essa corte la gloria di aver dato all'Italia l’Orlando furioso, poema che può rivaleggiare coll'Iliade di Omero? E non visse all'ombra della corte estense quell' altro miracolo di poeta che fu Torquato Tasso? E Ferrara pure ci dette il dotto scrittore padre Daniele Bartoli, cui il famoso Pietro Giordani adattò per qualificarlo il titolo di tremendo.
E Ravenna, città più antica di Roma, divenuta nel 404 dell’era cristiana capitale dell’impero d’occidente, e quindi sede degli csarchi, conserva nel mausoleo di Teodorico uno degli avanzi della sua passata grandezza, cui vennero ad avvalorare le gesta dei Polentani e di altre famiglie celebri. La sola tomba di Dante è tale una gloria, da doverle essere invidiata dalle altre città italiane.
Che se volgiamo il pensiero a Napoli e Sicilia, trattandosi di un regno di nove milioni di abitanti, con un’armata di 100 mila uomini ed una marina proporzionatamente imponente, è chiaro ch’egli potrà, se vuolsi, rinunziare a viste d’ingrandimento, ma assoggettarsi a perdere la propria autonomia per servire alle viste degli unitari, noi crederemo giammai. È il regno di Napoli un paese ricco, industre, terra feracissima, clima delizioso, governo provvido, codici eccellenti, abitanti d’indole mite e tranquilla. Possiede avanzi di antichità remota, e può vantarsi di aver prodotto un giorno Ovidio e Cicerone, e ne’ tempi moderni un Vico, un Giannone, un Filangieri. Non vi è insomma stato alcuno in Italia che a quello di Napoli possa paragonarsi. Esso porta in sè caratteristiche tali, da imprimergli una fisonomia sua propria e individuale. Però ha un neo che potrebbe divenire fatalmente cancrenoso, ed è la corruttibilità in pressoché tutte le gradazioni sociali. — Quanto alla Sicilia ha uomini di svegliatissimo ingegno e più dei Napolitani vagheggiatori d’indipendenza e progresso; quindi riteniamo che non sarà mai molto proclive a stare sotto il giogo napolitano, e tanto meno sotto il piemontese. Rammentano i Siciliani che nella loro isola nacquero Archimede, Empedocle, Teocrito, fra gli antichi, e l’angelicamente melodioso Bellini, fra’ moderni.
Assai ci resterebbe a dire se tutte non che sviluppare, accennar volessimo le particolarità che a questa o a quell’altra città d’Italia riferisconsi, e i monumenti speciali, e le grandi gesta, e i nomi gloriosi di cui tante e e tante posson vantarsi.
Per questi giusti motivi non noi soltanto (la cui opinione subordiniamo di buon grado a quella di chi più di noi sa di queste materie), ma molti pensatori di polso, quantunque della Italia e delle sue future grandezze amantissimi, opinarono essere cosa d’immensa difficoltà lo sradicare quel culto e quell’attaccamento speciale alla propria terra i quali renderanno se non impossibili, per lo meno difficilissime queste vagheggiate fusioni ad ottenere unità, a prezzo di rinunzia forzata alle proprie affezioni, e gettito a malincuore delle proprie simpatie.
Esposte fin qui le tendenze primitive di molti Italiani per la unità della penisola, esposti i primi tentativi per conseguirla, e gli incitamenti per parte di estere potenze diretti a rinfocolarne i desideri, narrate le opinioni di molti chiarissimi ingegni sulle sue difficoltà, istituito un paragone dei tre sistemi immaginati a tal uopo, ed aggiunta una esposizione delle passate grandezze, a giustificazione dello spirito di municipalismo che riteniamo radicato fermamente in Italia, non restaci che parlare del Piemonte e di Carlo Alberto, ossia delle sue tendenze per usufruttuare le idee di nazionalità e di unione a profitto o ad ingrandimento della sua dinastia.
Carlo Alberto, entrato come principe di Carignano nella cospirazione italiana del 1821, fece le prime prove ponendosi a capo del movimento piemontese di quell’anno. Ecco come racconta il Gallenga questo avvenimento: «Lasciato solo coi sudditi di un sovrano assente (1821), il giovine ed inesperto reggente die’ prova di quella irresolutezza e perplessità che furono in ogni tempo la menda capitale di un’indole altrimenti elevata e generosa. L’abdicazione di re Vittorio aveva già scossa la fermezza dei liberali più leali, e sparsa la diffidenza e il mal volere fra i più arrischiati ed avventati. I Carbonari specialmente, setta segreta, che e in Piemonte e a Napoli e per tutta Italia reclamavano l’onore d’aver data la prima spinta al movimento, e presumevano perciò di dare ad esso norma e scopo, gridavano a tutta gola la Costituzione spagnola. La riottosa guarnigione della cittadella minacciava bombardamento, e Carlo Alberto cedendo o fingendo di cedere alla forza, concedette e promulgò dal balcone del suo palazzo la detta Costituzione la sera del 13 marzo 1821.»24 Ma subito dopo retrocedette; e sia per farsi ribenedire dai sovrani, sia per non perdere il regno, ne fece ammenda incorporandosi nell’armata francese la quale a ristoro dell’ordine e a distruzione del partito repubblicano, che impropriamente chiamavasi costituzionale, recossi in Ispagna nell’anno 1823.25
Lo stesso Cibrario suo amico e confidente che ne scrisse la vita, ci racconta essere stata la lettura degli opuscoli del frusinate Angeloni che sedusse o per lo meno fece impressione sull’animo di Carlo Alberto.
Noi conosciamo di questo caldissimo patriota italiano,dell’Angeloni, l’opera sua famosa stampata a Parigi nell’anno 1818 in 2 volumi in ottavo e che porta per titolo Dell’Italia uscente il settembre 1818, la quale è il riassunto de’ suoi opuscoli o ragionamenti. Quest’opera adunque, scritta con molta diligenza e ricercatezza di stile, ed ove le idee di unità, di nazionalità e d’indipendenza sono largamente sviluppate e fervorosamente patrocinate, produsse le prime impressioni nell’animo giovane di Carlo Alberto, delle quali parla il Cibrario.26
La rivoluzione però guardavalo sempre, dopo la campagna del 1823, con occhio torvo e sospettoso; e Mazzini che voleva sedurlo alla sua volta e impegnarlo nella grande intrapresa nazionale, con una lettera ormai celebre nella storia, gli tracciò nel 1831 la via da doversi tenere, e lo consigliò a farsi re d’Italia.27
Eletto nel 1833 suo segretario di stato e ministro degli affari esteri il conte Solaro della Margherita, questi ebbe agio di chiarirsi ne’ discorsi col medesimo, che era profondamente avverso all’Austria e vagheggiante la possibilità di liberar l’Italia dalla sua dipendenza. Con tutto ciò Carlo Alberto detestava i rivoluzionari, ma temevali e non dissimulava che ne sarebbe stato tosto o tardi la vittima.28
Nel 1848 credette giunto il momento di realizzare i desideri della sua giovinezza, e si gettò apertamente nel movimento. E come del movimento insurrezionale del marzo davasi la iniziativa a Pio IX quasi ch’ei ne fosse l’anima,29 così Carlo Alberto volle esserne il corpo, e quindi s’intitolava da se stesso la spada di Pio IX, e più tardi fu chiamato la spada d’Italia.30
Dipoi i ducati di Modena e Parma davansi & Carlo Alberto; e ci racconta la storia siccome per leggi del 27 maggio Piacenza, del 16 giugno Parma e Guastalla, del 21 giugno Modena e Reggio, ottenessero la loro annessione al Piemonte.31
Più tardi ebbe luogo ancora la fusione del Piemonte colla Lombardia e con la Venezia: e se quest’ultima se ne staccò per ritornare repubblica, fu soltanto dopo l’armistizio Salasco, nell’agosto del 1848.
Ci racconta pure il conte Solaro della Margherita di certe visite di alcuni antichi amici o consiglieri che, lui ministro, per certe vie segrete ivano a Carlo Alberto, e con lui mantenevano misteriose relazioni.32
Il Mazzini poi senza reticenza veruna, dice che Carlo Alberto erasi ascritto alla setta dei Carbonari.33
Le son queste se non prove evidenti, presunzioni più che ragionate di decisa tendenza in Carlo Alberto a mettere ad effetto i progetti suoi, e di chi lo consigliava di farsi re o signore d’Italia. Gli scritti del Gioberti, che già eran venuti in luce, tendevano a preparare il terreno per gradi, affine di renderlo un giorno produttivo della grande trasformazione politica. Di più molti opuscoli si pubblicavano, ove parlavasi sempre della necessità di avere un’Italia unita e forte sotto lo scettro di un solo.
Nelle opere del Gioberti si conferiva è vero al papa un primato, ma un primato morale, e s’insinuava che il solo stato che potesse rappresentare in Italia la forza, l’unico che potesse prenderne efficacemente le difese, l’unico che per la sua posizione ne guardasse l’accesso, era il Piemonte. Il Piemonte era in somma designato come il baluardo, il presidio, e il sostegno, non morale e razionale soltanto, ma effettivo, materiale, armato, della italiana penisola.
Che diremo poi della medaglia fatta coniare in Piemonte, ove da un lato vedevasi il busto di Carlo Alberto, un leone dall’altro, colle armi di Savoia, in attitudine di aspettazione, e colla leggenda: Je atans mo anstre (J’attenda mon astre), Attendo la mia stella? E questa medaglia fu perfino prodotta in disegno dal conte Pompeo Litta nella sua grand’opera sulle famiglie celebri italiane. Ce ne parla il conte Solaro della Margherita nel suo Memorandum.34 Ce ne parla pure il Gualterio e ci racconta inoltre che era intendimento delle società segrete, allorquando scoppiò la rivoluzione piemontese, di fare Carlo Alberto re d’Italia.35
Le grida di viva Carlo Alberto re d’Italia le sentimmo ancor noi in Roma, e specialmente quella notte in cui si credette che avesse debellato il nemico a Somma-Campagna, e che verificossi invece di esserne stato battuto a Custoza.36
Le truppe pontificie stesse furon poste sotto gli ordini di Carlo Alberto nelle pianure lombarde; e d’onde se non dal Piemonte ci fu mandato il general Durando per capitanare il nostro esercito, e i due ufficiali, colonnello Rovero di fanteria e colonnello Wagner di cavalleria, per istruire e addestrare alla guerra le soldatesche?
Diremo inoltre che appunto perchè tendevasi sempre in Piemonte (o a questo spingevan le sette) alla unità italiana mediante l’annessione graduale, che altri chiamerebbe usurpazione, dei ducati e di altri stati italiani, non si vide mai di buon occhio da Carlo Alberto la lega federativa iniziata dai papa nell’agosto del 1848, e mai non vi si volle associare.37
Questa renitenza del Piemonte di associarsi ad una federazione italiana, o unione federativa di vari stati italiani, e la sua propensione invece per la unità forte e potente, è tal fatto, da ingerire i più gravi sospetti di cupidigie ambiziose d’ingrandimento.
Questi pochi cenni, che potremmo estendere di molto ove occorresse di meglio chiarire ciò che ci sembra forse già chiarito abbastanza, somministrano un’idea manifesta e lampante delle cupidigie piemontesi. Queste cupidigie, o conati, o sforzi, o macchinazioni, parte aperte, parte velate, son quelle che in linguaggio politico costituiscono il cosi detto piemontismo, per distinguerlo dall'unitarismo repubblicano capitanato dal Mazzini. Gli antesignani di questo sistema furono il Gioberti, il d’Azeglio, e se vuolsi il Balbo, come scrittori. Al medesimo aderivano qui in Roma quelli di così detta parte mezzana o costituenti il partito moderato, e ne furon campioni il Minghetti, il Recchi, il Pasolini, il Mamiani, il Farini, il Pantaleoni. E questi ultimi tre rimasero talmente aderenti ai loro principi, che anche durante la repubblica erano alla testa di un giornale di opposizione intitolato La speranza dell’epoca.
Risulta intanto dalle cose narrate che come nel 1815 il movimento e le cupidigie venner dal mezzogiorno d’Italia, nel 1821 e nel 1848 vennero da quella parte del settentrione d’Italia che è occupata dal Piemonte.
La italianità, la unità, la libertà, la indipendenza e tutti que’ paroloni che piacciano ai popoli, e li rendono pecore cogli uni e leoni cogli altri, furon pronunziate con profusione; ma non potrebbe anche dirsi che in tutto ciò la sete di regno vi avesse una parte essenziale?
Avevamo già scritto questo capitolo quando ci venne fra mano un’opera del padre Ventura intitolata Essai sur le pouvoir public e stampata in-8. a Parigi nel 1859. Non fu senza scandalo e sorpresa che apprendemmo dal racconto che ne fa padre Ventura, che allorquando il Gioberti si recò a Roma come ammiratore di Pio IX e difensore del papato e del potere temporale del pontefice, egli professava dottrine a questo favorevoli in pubblico; ma al Ventura stesso ed ai caporioni del movimento con esso lui congregati, teneva tutt’altro linguaggio e non dissimulava che intendimento del Piemonte era quello d’insignorirsi d’Italia tutta, non esclusi gli stati della Chiesa.
Il Ventura dette la risposta che convenivasi alla esorbitante proposta del Gioberti, e noi credimo prezzo delT opera il riportare entrambe nel nostro Sommario.38
Ritornando ora agli avvenimenti del 1848 diremo, che disfatto Carlo Alberto dalle armi austriache, quelle voci smodate che udivansi prima in lode esagerata di lui, convertironsi a poco a poco in acerba rampogne e in accuse brutali di viltà e di tradimento. Nelle quali non sappiamo se sia più biasimevole la falsità e la ingiustizia, ovvero la slealtà e la ingratitudine. E questa giunse al punto da suggerire per odio di parte il nero tradimento del generale Ramorino, il quale, secondo tutte le apparenze e le risultanze del processo, mancò ai suoi doveri disertando il posto e lasciando in balia del nemico il libero ingresso nel suolo piemontese. Di ciò però, meglio quando parlerassi della seconda campagna.
Noi alludiamo per ora a quelle grida di biasimo che udironsi dopo l’armistizio Salasco, e fino all’epoca di cui parliamo.39 E chi pronunziavale, e da chi partivano? Dai repubblicani i quali credendo venuta la lor volta, alzarono la cresta, e vilipesero e affogaron nel fango delle loro contumelie il campione armato dell’italico risorgimento. Nè contr’esso soltanto limitaronsi, ma ne furon larghi verso le due lancie spezzate del piemontismo, l’abate Gioberti ed il marchese Massimo d’Azeglio, designati entrambi, secondo l’andazzo del giorno, come codini. Ciò valga per rammentare qual sia la unione degl’Italiani, e quali le loro inconseguenze.
Nell’avere noi parlato dell’apparenze ambiziose di Carlo Alberto per farsi re d’Italia, non abbiamo inteso di erigerci in giudici, nè di pronunziare la nostra sentenza definitiva su questo subietto. Sibbene volemmo mettere in sodo una verità storica che incominciava a palesarsi sotto non dissimulate apparenze, e che gli avvenimenti posteriori potranno forse o distruggere o convalidare ancor meglio. Stabiliamo bensì due cose, e queste crediamo di poterle sostenere. La prima, essere stata ingiusta la nota di tradimento lanciata contro Carlo Alberto dai repubblicani: imperocchè se una gli si doveva apporre, era quella piuttosto di ambizioso vagheggiatore della corona d’Italia. La seconda, i fatti occorsi darci la prova delle scissure che esistono nel nostro paese e che sembrano essere il retaggio degl’Italiani.
Ciò per altro che abbiam detto in via di digressione trova la sua applicazione immediata in un fatto importante che nel gennaio del 1849 occorse, e di cui ora diremo. Questo fatto è il seguente.
Allorquando riuscirono infruttuose le pratiche per indurre il pontefice a ritornare in Roma, la nostra città non solo trovavasi senza capo, ma era minacciata dall’intervento straniero.
Il Piemonte allora, sia per contrarietà decisa a questo estero intervento (la quale poteva venir giustificata da un sentimento di orgoglio nazionale), sia che ad estendere sempre più la sua influenza in Italia gli fosse sembrato acconcio un intervento invece delle proprie armi, fece proporre il 28 gennaio al governo romano per mezzo del ministro Gioberti d’inviare un corpo di 20 mila uomini negli stati della Chiesa per facilitare al pontefice il ritorno in Roma, escludendo così ed Austriaci, e Francesi, e Spagnoli. Assestate per tal modo le cose romane dai Piemontesi, è indubitato che veniva loro assicurata la tanto desiderata egemonia sulle cose italiane.
La proposta venne fatta dal Gioberti colla lettera seguente scritta al Muzzarelli:
- «Illustrissimo signor presidente,
» Ricevo da Gaeta la lieta notizia, che il conte Martini fu accolto amichevolmente dal Santo Padre in qualità di nostro ambasciatore. Tra le molte cose che gli disse il Santo Padre sul conto degli affari correnti, questi mostrò di vedere di buon occhio che il governo piemontese s’interponesse amichevolmente presso i rettori ed il popolo di Roma per venire ad una conciliazione. Io mi credo in debito di ragguagliarla di questa entratura, affinchè ella ne faccia queiFuso che le parrà più opportuno.
» Se ella mi permette di aprirle il mio pensiero in questo proposito, crederei che il governo romano dovesse prima di tutto usare influenza, acciocchè la Costituente che sta per aprirsi riconosca per primo suo atto i diritti costituzionali del Santo Padre.
» Fatto questo preambolo, la Costituente dovrebbe dichiarare che per determinare i diritti costituzionali del pontefice uopo è che questi abbia i suoi delegati e rappresentanti nell’assemblea medesima, ovvero in una commissione nominata e autorizzata da essa Costituente. Senza questa condizione il papa non accetterà mai le conclusioni della Costituente, ancorchè fossero moderatissime, non potendo ricevere la legge dai propri sudditi senza lesione manifesta non solo dei diritti antichi, ma della medesima costituzione.
» Se si ottengono questi due punti, l’accordo non sarà impossibile. Il nostro governo farà ogni suo potere presso il pontefice affinchè egli accetti di farsi rappresentare, come principe costituzionale, dinanzi alla commissione o per via diretta, od almeno indirettamente; ed io adoprerò al medesimo effetto eziandio la diplomazia estera, per quanto posso disporre.
» Questo spediente sarà ben veduto dalla Francia e dall’Inghilterra, perchè conciliativo, perchè necessario ad evitare il pericolo d’una guerra generale.
» Nello stabilire l’accordo tra il popolo romano ed il pontefice bisognerebbe aver riguardo agli scrupoli religiosi di questo. Pio IX non farà mai alcuna concessione contro ciò che crede debito di coscienza. Sarebbe dunque mestieri procedere con molta delicatezza, non urtare l’animo timorato del pontefice, lasciar da parte certi tasti più delicati, e riservarne la decisione a pratiche posteriori, quando gli animi saranno più tranquilli dalle due parti. Io spererei in tal caso di potere ottenere un modo di composizione che accordasse la pia delicatezza del pontefice coi diritti e coi desideri degli Italiani nell’universale.
» Stabilito così l’accordo del papa e dei sudditi agli ordini costituzionali, sarebbe d’uopo provvedere alla sicurezza personale del Santo Padre, il quale dopo i casi occorsi non potrebbe sicuramente nè dignitosamente rientrare in Roma senza esservi protetto contro i tentativi possibili di pochi faziosi. Per sortire questo intento senza gelosia del popolo e pregiudizio della dignità romana, il nostro governo offrirebbe al Santo Padre un presidio di buoni soldati piemontesi che lo accompagnerebbe in Roma, ed avrebbe per ufficio di tutelare non meno la legittima podestà del pontefice contro pochi tumultuanti, che i diritti costituzionali del popolo e del parlamento contro le trame ed i conati di pochi retrogradi. Sono più settimane che io vo pensando essere questa la via più acconcia e decorosa per terminare le differenze.
» Ho incominciato a questo effetto delle pratiche, verso le quali il pontefice pare ora inclinato. Se non si adopera questo partito, l’intervento straniero è inevitabile; e benchè io metta in opera tutti i mezzi per impedire questo intervento, ella vede che durante l’attuale sospensione delle cose, la voce del Piemonte non può prevalere contro il consenso di Europa. Io la prego, illustrissimo signor presidente, a pigliare in considerazione questi miei cenni che muovono unicamente dall’amore che porto all’Italia, e dal desiderio che tengo di antivenire ai mali imminenti.
- » Torino 28 gennaio 1849
Il pensiero del Gioberti ci sembra che fosse eminentemente
astuto, perchè tendeva in primo luogo a togliere
agli esteri il richiesto intervento, appropriarsene quindi
il merito, e sventare i progetti ornai palesi dei repubblicani.
Si guardò bene il governo in Roma dal pubblicare la lettera del Gioberti. Se ne penetrò però il contenuto. Furono esecrati il suo nome ed il suo progetto, il quale anzi affrettò la proclamazione della repubblica.
Questi sdegni feroci dei repubblicani i quali se eran nemici del papa, non lo erano meno di Carlo Alberto, proruppero apertamente in sui primi di febbraio. Non sembra però che fosser divisi dal governo provvisorio in gennaio, perchè il Farini ci dà tanto il testo di una convenzione che proponevasi il 18 gennaio coll’avvocato Berghini per il Piemonte, quanto una lettera del Muzzarelli del 30 gennaio diretta al Berghini, nella quale dicevasi che Roma comprendeva troppo bene che l’aiuto del Piemonte poteva salvarla da qualunque straniero intervento.41
Noi arrestiamo qui il discorso sulla proposta del Gioberti, già lungo abbastanza, per riprenderlo nei capitolo seguente, e nel mese di marzo, allorquando divulgatasi finalmente dal governo, produsse lo scoppio delle ire repubblicane ancor più pronunziate contro il Gioberti, le quali lo fecero esecrare, maledire, e qualificare come traditore d’Italia. Per ora ci basta di aver provato quanto fossero discrepanti fra loro i guidatori del movimento italiano, poiché agli occhi degli uni era indulgenza plenaria quello che era peccato mortale per gli altri, ed in Roma si venne trattando il Gioberti come sarebbesi fatto ad un Minardi e ad un Nardoni.
Essendosi pertanto detto da noi abbastanza sulla nazionalità e sulla unità della Italia, sulle cupidigie del Piemonte per rivolgere a suo pro le aspirazioni degl’Italiani; dopo di aver detto pure quanto si poteva in merito a Carlo Alberto, al Gioberti e ai loro avversatori, facciam punto, e andiamo nella seconda parte di questo VI capitolo a riassumere le fila delle cose occorse in Roma dal 29 gennaio alla proclamazione dalla repubblica. E con ciò poniam fine alla prima parte del capitolo VI.
Note
- ↑ Crediamo non inutile avvertire i lettori che questo capitolo dettavasi dall’autore l’anno 1858, prima cioè che si costituisse il regno d’Italia.
L’editore.
- ↑ Vedi Balbo, Sommario della storia d’Italia dalle origini fino ai nostri tempi. Firenze, 1856, pag. 400.
- ↑ Vedi Angeloni, Dell’Italia uscente il settembre del 1818, ragionamenti IV dedicati all’italica nazione. Parigi 1818, vol. I, pag. 66.
- ↑ Vedi Angeloni, opera citata, vol. I, png. 37.
- ↑ Vedi Angeloni, opera citata, vol. I, pag. 39. — Vedi Coppi, Annali d’Italia dal 1750, tomo VI, pag. 56. — Vedi Colletta, Storia del reame di Napoli dal 1784 sino al 1825, tomo III, libro VII, pag. 64. — Vedi Botta, Storia d’Italia dal 1739 al 1814, libro XXVII, pagina 549. Italia 1824.
- ↑ Vedi Il prelato italiano monsignor Carlo Gazola ed il vicariato di Roma, ec. edizione di Torino del 1850, pag. 33 — Vedilo in originale nella raccolta dei documenti relativi alla impresa murattiana, sotto il n. 205.
- ↑ Vedi Ferdinando Dal Pozzo, Della felicità che gl’Italiani possono e debbono dal governo austriaco procacciarsi ec., Parigi 1833, pagina 14.
- ↑ Vedi Balbo, Delle speranze d’Italia. Firenze, Le Monnier, 1855, pag. 25.
- ↑ Vedi visconte G. de la Tour, Del potere temporale dei papi. Roma 1859, pag 52.
- ↑ Vedi Rosmini, Appendice sull’unità d’Italia, dopo la sua opera intitolata: La costituzione secondo la giustizia sociale. Milano 1848, in-8. pag. 102, nel vol. XXV, n. 6 Miscellanee della nostra raccolta.
- ↑ Vedi d’Azeglio, Ai suoi elettori. Torino, 1849, seconda edizione pag. 20.
- ↑ Vedi Miraglia di Strongoli, Storia della rivoluzione romana. Genova, 1850, pag. 122.
- ↑ Vedi Brofferio, Storia del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri. Torino 1851, pag. 117.
- ↑ Vedi Gioberti, Del primato morale e civile degli Italiani, edizione di Brusselle, 1844, pag. 55.
- ↑ Vedi Gioberti, Operette politiche. Capolago. Torino, 1851, vol. II, pag. 231, 255 e seg.
- ↑ Vedi Farini, Lo Stato romano dall’anno 1815 al 1850, terza edizione di Firenze, vol. III, pag. 323.
- ↑ Vedi Giacomo Durando, Della nazionalità italiana, saggio politico-militare. Losanna, Bonamici e compagni, 1846, pag. 74.
- ↑ Vedi Pensieri sull’Italia di un Anonimo lombardo. Parigi 1846, vol. I, pag. 278, con carta geografica. Che sia poi Luigi Torelli si dice nell’opera pubblicata in Bastia nel 1856, intitolata: Delle eventualità italiane ec.
- ↑ Questo brano fu aggiunto dall’autore al capitolo che già aveva compiuto.
L’editore.
- ↑ Vedi Ranalli, Del riordinamento d’Italia, considerazioni. Firenze, 1859, pag. 125, 126 e 127.
- ↑ Vedi padre Ventura, Essai sur le pouvoir public ec. cap. 72, pag. 613, opera pubblicata nel 1859 in Parigi.
- ↑ L’annessione dell’isola di Sardegna al regno del Piemonte non data che dal 1720 secondo il Balbo, dal 1718 secondo il Gallenga, poco dopo la pace di Utrecht, ed il primo re di Sardegna fu Vittorio Amedeo II —
- ↑ Quando l’autore scriveva queste parole non era ancora venuto in voga il progetto o motto d’ordine Roma capitale d’Italia, e non prevedevasi la convenzione in seguito della quale Torino perdette la qualifica di capitale.
- ↑ Vedi Gallenga, Storia del Piemonte. Torino, 1856, vol. II, pag. 444.
- ↑ Vedi Gallenga, pag. 446.
- ↑ Vedi Cibrario, Ricordi di mia missione in Portogallo al re Carlo Alberto, pag. 14, 15 e 16, nel volume dalla nostra raccolta intitolato: Vita, morte e onori funebri a Carlo Alberto.
- ↑ Vedi la detta lettera nella Collezione completa degli opuscoli liberali pubblicati nelle legazioni pontificie dall’epoca dell’invasione austriaca accaduta nel marzo 1831. Ginevra, 1831 vol. 2, pag. 102. Detta lettera è così intitolata: A Carlo Alberto di Savoia un Italiano — Se no, no.
- ↑ Vedi conte Solaro della Margherita, Memorandum storico politico, pagina 21.
- ↑ Vedi il proclama di Carlo Alberto nella Gazzetta di Roma del 7 aprile 1848.
- ↑ Vedi l’Epoca del 27 marzo pag. 34. — Vedi Montecchi, Fatti e documenti riguardanti la divisione civica e volontari ec. pag. 79.
- ↑ Cibrario, opera citata pag. 48.
- ↑ Vedi Solaro della Margherita, Memorandum, pag. 413.
- ↑ Vedi Mazzini, Scritti editi e inediti vol. 1, pag. 46, edizione di Milano.
- ↑ Vedi Solaro della Margherita, Memorandum, pag. 339.
- ↑ Vedi Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani ec. Firenze, Le Monnier 1850, vol. I, parte I, pag. 659, ed il vol. VII Documenti, pag. 547. — Vedi Cibrario opera citata, pag. 43.
- ↑ Vedi il cap. XV del nostro 2.° volume.
- ↑ Vedi Farini, vol. II, pag. 341 e 343. — Vedi il progetto del Rossi nel detto Farini, pag. 347, ed il cap. XVII del vol. 2° delle presenti memorie storiche.
- ↑ Vedi Sommario, n. 64. — Vedi padre Ventura opera citata alla pag. 607.
- ↑ Vedi Cibrario opera citata pag. 53 e 55.
- ↑ Vedi Farini, vol. III, pag. 167. — Vedi la Pallade del 5 marzo 1849. — Vedi il Positivo dal 6 detto.
- ↑ Vedi Farini, vol. III, pag. 133-136
vedi Feller, Dictionnaire historique, articolo Victor-Amedée II, — Vedi l’Enciclopedia italiana, articolo Piemonte pag. 374. — Vedi detta, articolo Sardegna, pag. 1177. — Vedi Schoell, Histoire abrégée des traités de paix, Bruxelles 1837, vol. I, pag. 238. — Vedi Gallenga, Storia del Piemonte. Torino 1856, vol. II, pag. 241. — Vedi Balbo, Sommario della storia d’Italia, ec. Firenze, 1856, pag. 363.
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