Una famiglia di topi/Capitolo sesto

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Capitolo sesto

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CAPITOLO SESTO



oschino, lo abbiamo detto, era uno spiritello curioso, sempre in giro, sempre pronto a cambiar di luogo, con la smania dell’ignoto, con un desiderio di veder cose nuove, che avrebbero fatto di lui un cavalier di ventura, s’egli, per sua disgrazia, fosse stato un uomo, e se fosse vissuto ne’ tempi quando girar per il mondo era un’impresa assai meno facile che non al giorno d’oggi.

Ben presto, dopo aver percorso su e giù, per largo e per lungo, i due salotti destinati ai ragazzi Sernici e a’ loro topi; dopo avere [p. 90 modifica]esplorato tutto il resto del vasto appartamento, dove ogni tanto lo ritrovavano rimpiattato in un cantuccio lontano, Moschino fu invasato dall’idea di conoscere il mondo, il mondo immenso che stava di là da que’ confini. Ragù e la Caciotta, credendo di sempre più affezionare i propri figliuoli a quella fortunata pace signorile e casalinga, che ormai avrebbero avuta tutti fino alla morte, raccontavano ai piccini tante cose bizzarre, che avean messo una vera febbre di novità in corpo a Moschino.

Mentre alla descrizione di strade campagnuole, di città non mai viste, sotto gelidi chiarori di luna e solleoni di fuoco, Ninì e Lilia tremavano come le foglie, Dodò si leccava nervosamente una zampa, e Bellino spalancava un momento gli occhietti rossi, Moschino badava a fantasticare: faceva nè più nè meno di Nello, al racconto delle peripezie marittime del vecchio Marjant.... [p. 91 modifica]

Si stava bene, sicuro! in quella casa ospitale, non ostante tutti i guai che v’erano capitati: i bimbi facevano da babbo e da mamma a’ loro sorcetti; avevan carezze, baci, premure per tutti. Ma in fin de’ conti, che male ci sarebbe stato a levarsi per qualche tempo da quella continua sorveglianza, e a imparare a conoscere un tantino il mondo?... se non altro per apprezzar meglio ciò che veniva fatto di godersi in casa?...

Il mondo! Questa parola, che per Moschino non aveva un significato preciso, questa parola che gli rappresentava qualcosa d’immenso, di straordinario e d’oscuro, suscitava nel topo giovine una grande paura, mista ad un gran desiderio. Egli si domandava perplesso: ― O che cosa può mai contenere il mondo, il mondo enorme? È così grande anche il salotto dove stiamo sempre! È così immensa tutta la nostra casa, ch’io non so, proprio non so, come abbia ad essere il [p. 92 modifica]mondo! Di pericoli, dice la mamma mia, ce n’è a bizzeffe; e lei lo sa, povera mamma, che ne ha cansati tanti, quasi per miracolo. Nel mondo, i gatti se la passeggiano da padroni; e i gatti non risparmiano nessun topo, sia uscito di cantina o originario delle Indie.... E gli uomini? Gli uomini, aveva detto la contessa, se ne trovan de’ buoni; ma se ne trovan di quelli!... Non importa! Il mondo va affrontato; lo affrontano tutti coloro che hanno il coraggio di stare fra’ loro simili. — Moschino non capiva, ma indovinava le lotte ch’era obbligato a sostenere il conte Sernici, e quanto avrebbe dovuto soffrire per arrivare al punto d’accomodare tutte le sue faccende, dando alla famiglia il benessere materiale e morale di prima. E la smania di conoscer lui pure qualche lato della vita, per poi, divenuto vecchio, avere, come i suoi genitori, molte avventure da raccontare, lo indusse a spiare il momento, in cui la porta delle scale [p. 93 modifica]fosse rimasta aperta, per isvignarsela di casa, senza dir nulla a nessuno.

Con la confusione che regnava allora nella famiglia Sernici, l’occasione non poteva mancare. Una volta fuori, Moschino, intelligente com’egli sapeva d’essere, anche perchè glielo dicevano tutti; furbo poi, che non c’era il compagno, avrebbe trovato modo di cavarsela veramente bene. Non intendeva, Dio liberi!, abbandonare per sempre il luogo della sua nascita, nè i suoi cari parenti; ma un po’ di svago voleva pure goderselo.

Con tutti questi progetti d’indipendenza, che gli frullavano per il cervellino, passò parecchie notti riposando meno del solito; e un po’ invidiava, un po’ compativa tutti gli altri della sua famigliola, che se la dormivano in una quiete perfetta. Erano creature con idee ristrette, pensava Moschino; e lui era proprio un topo superiore.

Una bella mattina che la Letizia, rimasta [p. 94 modifica]come unica persona di servizio in casa Sernici, aveva lasciata dischiusa la porta delle scale, perchè era scesa un istante a comprar qualcosa per la colazione dei padroni in una bottega li accosto, Moschino, che, secondo il suo solito, correva qua e là per le stanze, prese la grande determinazione di quel suo viaggio, diremo così, all’estero; e guardato bene che non lo vedesse anima viva, infilò rapidamente l’uscio.

Il contatto del marmo delle scale con le zampine avvezze a passeggiare sempre sui tappeti, gli fece subito una sgradita impressione, e un leggiero brivido gli corse per tutto il corpo.

— Diamine! — pensò — non si cammina sempre su’ tappeti, a quanto pare! —

Ma non per questo tornò indietro; ormai era fuori, e qualcosa dovea pur arrivare a conoscere. Del resto, c’è un vecchio proverbio che dice: «Il peggio passo è quel dell’uscio.» [p. 95 modifica]

Magàri fosse stato fin lì tutto il male per il povero Moschino! Ma non precorriamo gli

avvenimenti, ch’è meglio raccontare per filo e per segno.

L’audace topino scese i gradini con quanta furia gli permise la commozione dell’animo. [p. 96 modifica]

Quell’andare incontro all’ignoto, massime la prima volta, è sempre una cosa che fa battere il cuore più forte del solito.

E il cuore di Moschino batteva forte davvero.

Le scale gli parvero eterne, benchè l’appartamento dei Sernici fosse al primo piano; saltella, saltella, arrivò in fondo; e allora gli si parò innanzi un largo androne, che da un lato menava sulla via, dall’altro in un giardino.

Moschino rimase un po’ come l’asino di Buridano: non sapeva che scegliere, se il giardino o la via. Da che parte era il mondo?

Una carrozza a due cavalli che passava ratta come un baleno, e alcuni carri pesanti, carichi di pietre, che facevan tremare tutto il palazzo, gli suggerirono l’idea di rinunziare al viaggio verso la strada; di modo che voltò risolutamente dalla parte dell’orto.

Il tempo, vero tempo d’autunno, era [p. 97 modifica]piuttosto fresco. A momenti, de’ nuvoloni neri si accavallavano oscurando il cielo; a momenti il sole li traforava, scintillando come una spera tutta d’oro. Moschino entrò in un viale fiancheggiato di crisantemi, che cominciavano a fiorire. Su que’ pètali gialli, bianchi, carnicini, violacei, svolazzavano due farfallette, ma così esili e piccole, da dimostrare ch’erano le ultime della stagione. Su i rami d’un largo albero di magnolia cantavano alcuni passeri.

— Com’è allegra tutta questa gente! — disse tra sè il topino; — vuol dir che nel mondo, anche senza che nessuno ci prepari nè da mangiare, nè da dormire, nè.... — Un fruscio che udì in mezzo alle piante, interruppe il corso de’ suoi pensieri. Si fermò, rizzandosi su le zampine di dietro, per vedere di che si trattava, e allungò il musetto, fiutando. Nulla. Tutto era tornato nel silenzio, quando qualcosa, che si mosse proprio accosto a lui, gli fece dar un balzo a dietro: [p. 98 modifica]era una lucertolina color di smeraldo, che corse via come se avesse visto il diavolo.

— Chi sa che signore sarà, così ben vestito! — disse Moschino: — del resto, se fugge, vuol dir che non ha intenzione di farmi del male; e poi è tanto più piccolo di me.... —

Così tirò innanzi a passeggiare, finchè stanco, non avvezzo com’era a far lunghi [p. 99 modifica]percorsi, si sdraiò su l’erba, sotto un cespuglio, e s’addormentò.

Dirvi il sogno che fece il sorcetto errante, sarebbe troppo lungo. Vi basti sapere, che, fosse effetto del sonno o d’un certo rimorso della coscienza, Moschino credè vedere la Caciotta andar attorno per i salotti in cerca di lui, inquieta; credè udire la voce di Rita e di Nello chiamarlo per tutte le stanze, e la contessa sgridar forte la Letizia, perchè aveva preso il viziaccio di lasciar ogni tanto la porta delle scale mezzo aperta, e il conte esclamare, più accigliato e accasciato de’ giorni innanzi:

— S’è perduto anche Moschino, dunque? Qui non c’è più cura a nulla, più testa a nulla! Se si va avanti di questo passo, tornerò a casa una volta la settimana! —

La signora contessa aveva risposto da prima un po’ seccamente; poi, pensando a quanta pena avesse in cuore il marito, s’era [p. 100 modifica]commossa fino alle lacrime; e allora Rita e Nello, vedendo la mamma così angustiata, avevan pianto tutti e due come due piccoli disperati.

Moschino, turbato dal brutto sogno, che doveva sicuramente essere una visione, si svegliò sobbalzando. Appena desto, si guardò intorno smarrito; non si ricordava più come si trovasse in quel luogo, nè quando ci fosse potuto venire. Si passò ripetutamente i pugnini rosei su gli occhi, per riordinare le idee confuse, e riprese cognizione dei fatti.

Si trovava in quel giardino (Dio sa quanto lontano da casa!) perchè aveva voluto venirci lui; e aveva fatto quel sogno, forse per sua mortificazione....

Intanto cominciavano a farglisi sentire degli stiramenti nello stomaco: i sintomi della fame, ch’egli, fortunatamente, non avea fin allora provati mai.

Sbadigliò più volte; e, non volendo [p. 101 modifica]svenirsi, addentò qualche filo d’erba che cresceva lì vicino.

Oibò! com’era scipita! Non somigliava davvero a quella bella cicorietta aromatica, che la Letizia aveva ordine dai padroni di comprar tutte le mattine ai topini, perchè si rinfrescassero. Nè c’eran le solite bistecche di carne cruda, nè le patate cotte nel burro, nè il pane inzuppato nell’olio, nè il torlo d’uovo sodo, nè la frutta: tutte le ghiottonerie, di cui era uso a veder pieni due o tre piattini dinanzi a sè e a’ suoi di famiglia. Pazienza! Aveva voluto far di sua testa; ei capricci costano cari.

Ma quello che più gli rincrebbe fu il patire la sete. Oh il buon latte sempre pronto in casa sua dentro la tazzetta di cristallo! E, pazienza il latte! Ma quel non aver una goccia d’acqua era una privazione che stava lì lì per diventare una sofferenza insopportabile.

Mangiò qualche altro filo d’erba, sperando [p. 102 modifica]di calmare anche la sete. Ma nulla. Le fauci gli ardevano ogni momento di più; lo stomaco gli si gonfiava, senza che la fame cessasse.

In questo mentre il cielo si fece nero come il carbone, e in lontananza s’udì il brontolìo del tuono, foriero d’un temporale.

Moschino guardò in alto. Non aveva mai visto il cielo aperto, nè così paurosamente buio. Quando il tempo era bello, azzurro, tiepido, i bimbi Sernici spalancavano il balcone, e sul balcone, tra’ vasi favoriti della contessa, i topini avevano il permesso di pigliar aria. Era un luogo chiuso, sicuro, quieto, dal quale, dopo due passi, uno poteva rientrare in casa.

Ma lì, in quel luogo sconosciuto, così grande, dalla vegetazione che lo intricava come un labirinto, dove sarebbe andato Moschino per ripararsi dalla burrasca?

Ormai cominciavano a cadere i primi [p. 103 modifica]goccioloni, sempre più fitti e insistenti: il vento, a sbuffi, d’una violenza insolita, soffiava tra le piante rovesciandone le foglie con sibili acuti, che parevano uscir dalle bocche di mille serpenti; il tuono cupo, profondo, seguiva a mano a mano più da vicino i lampi che illuminavano di fuoco ogni cosa. Eran passati pochi minuti, quando le scariche dell’elettricità si succedettero quasi senza interruzione, seguite da un frastuono formidabile, e l’acqua cadde giù a torrenti.

Moschino, fradicio mézzo, grondante da capo a’ piedi, impaurito di trovarsi esposto a tutta quell’ira di Dio, si mise a correre verso una direzione ch’egli stesso ignorava, poichè tra il sonno, la fame e la paura, non capiva più nulla.

Corri, corri, vide aperta davanti a sè la porta assai larga d’uno stanzone enorme, e vi entrò affannato. Era la scuderia di casa Sernici, dalla quale, ne’ brutti frangenti in cui [p. 104 modifica]si trovava adesso la famiglia, i cavalli erano stati tolti, e venduti.

Restava, in un angolo, della paglia, del fieno e due cassoni di biada. Sotto uno di quei cassoni Moschino si diresse subito, rimpiattandosi alla svelta.

Di fuori, l’uragano continuava a imperversare; la forza del vento schiantava i rami degli alberi; contro le vetrate della scuderia l’acqua batteva come una grandinata. [p. 105 modifica]

A un tratto, Moschino sentì accanto a sè qualcosa che lo solleticava leggermente. Si volse. Era un topo comune, d’un bigio cupo, secco allampanato e col muso aguzzo, che annusandolo l’aveva toccato co’ baffi ispidi.

Si guardarono tutti e due, egualmente meravigliati di trovarsi insieme. Il topo comune attaccò, primo, il discorso.

— Chi sei? come ti chiami? — disse — come hai potuto capitar qua dentro? Di topi come te non ne ho visti mai. Che fai qui? Chi ti ci ha portato? —

Moschino, che vide l’altro così brutto e in così cattivo arnese in paragone di sè stesso, [p. 106 modifica]non lo avrebbe nè anche degnato d’una risposta, se le circostanze fossero state diverse. Ma lì, in quel tristo luogo dov’era capitato per caso, gettatovi dal temporale, stimò una fortuna di poter barattare due parole con qualcuno della sua razza, e s’affrettò a rispondere:

— Io sono Moschino dei conti Sernici, originario delle Indie. Mi trovo qui, a dirti la pura verità, perchè son fuggito di casa mia, volendo conoscere il mondo. Ma.... ho veduto che fa cattivo tempo nel mondo, e.... —

Non finì la frase per superbia, non volendo confessare che già s’era pentito della sua scappata.

L’altro, però, gli lesse nel pensiero e dichiarò:

— Nel mondo, noi poveri topi si sta male assai. Si va errando per tutti i luoghi più brutti, più sudici, più pericolosi. Gli uomini, se c’incontrano, ci schiacciano con un piede, peggio che se fossimo vipere; si soffre la [p. 107 modifica]fame, o per desinare si rosicchia un pezzo di legno tarlato; ci addormentiamo vivi, ma senza sapere se ci sveglieremo più.....

— Perchè? — fece Moschino con la pelle accapponata.

Il topo comune si guardò attorno sospettosamente; poi disse piano, col terrore negli occhi, queste due parole:

— I gatti!

— Ce n’è di molti? — chiese, piano egli pure, Moschino.

L’altro fece un segno alzando il muso, che voleva significare: — Senza fine.

— E.... anche qui?

— Tre. Uno soriano, poi, un vero demonio incarnato, è il terrore di tutti.... S’è divorata quasi intera la mia povera famiglia, mio padre, mia madre, la mia topa, i miei bambini; mi rimangono un fratello e un cugino soltanto. —

Mentre i due nuovi amici stavano così [p. 108 modifica]discorrendo, qualcosa accennò tra la paglia; quattro elastiche zampe di raso spiccarono un salto agile in giù, senza rumore, e due occhi scintillarono nella mezza oscurità mandando fiamme gialle....

— Il gatto si salvi chi può! — susurrò con voce soffocata il sorcio comune, correndo via in una direzione qualunque. Moschino, alla sua volta, corse come le gambe lo reggevano, ma in direzione opposta.

Non era passato un minuto, che delle grida strazianti gli feriron l’orecchio. Era il povero [p. 109 modifica]topino bigio, che caduto fra gli artigli del gatto, si dibatteva disperatamente.

— Pietà! pietà! — singhiozzava nel suo linguaggio. — Mi straziano, mi divorano! Ah, orribile! orribile!... —

Moschino tremava come una foglia al vento; non aveva più sangue nelle vene. E correva, correva come un pazzo, verso il portone che dava nel giardino. Ma gli pareva, per quanto il suo passo fosse rapido, che non avrebbe avuto la forza d’arrivarci....

Gli stridi di quel topino bigio assassinato gli arrivavano all’orecchio, penetranti come tante punte di ferro... Avrebbe voluto cedere alla compassione, e fermarsi; ma a che pro? Che avrebbe potuto far lui, contro quel mostro? Gli sarebbe toccata la stessa sorte, e allora, addio Moschino! E l’idea del pericolo corso gli faceva quasi venire le lagrime agli occhi.

Finalmente, Dio solo sa come, egli si trovò [p. 110 modifica]di nuovo in giardino, sotto le piante, per quei lunghi viali che ora gli parevano eterni.

Ogni cosa era bagnata dalla pioggia torrenziale; l’erbe erano abbattute, i fiori laceri e pésti.

Atterrito, ansimante, Moschino girò attorno gli occhietti neri; la notte era ormai scesa: una notte oscura, umida, piena di paure.

Quanto tempo poteva egli essere stato lontano da casa? Non abituato a que’ calcoli, lo ignorava affatto.

Ormai aveva corso tanto, che non udiva più que’ gridi disperati; ma li aveva sempre nel cuore, nel cuore che gli tremava.

Stremato di forze, s’abbandonò ancora sotto una pianta, i cui rami penzolavano mezzo tronchi, con le foglie arse, quasi che quella pioggia fosse stata di fuoco.

Dove andare, Dio mio, a quell’ora? Che fare, lì, solo? A chi chiedere misericordia? Gli era penetrato nelle ossa un gran freddo; [p. 111 modifica]e dovunque si voltasse, trovava erbe e zolle fradice. Per un momento pensò alla morte. Forse era sonata l’ora estrema per lui; e sarebbe finito, sotto quell’arboscello frantumato, senza il soccorso pietoso d’alcuno, finito con la paura, il freddo, la fame, la solitudine!... Oh, dolce e fida quella casa ospitale dov’era nato e cresciuto, dove aveva avuto tante cure, tante carezze!

Così pensando, rivedeva la sua paniera imbottita, i suoi piattini colmi di ghiottonerie sane, e soprattutto gli pareva d’esser cullato fra le manine della Rita, baciato tanto da Nello, leccato da’ suoi genitori e da’ suoi fratelli!... Maledetto l’istante che gli era venuto in testa di conoscere il mondo, l’immenso mondo nel quale càpitano tante avventure, l’una più orrenda dell’altra! Maledetto il primo passo, che aveva fatto fuori di casa sua! E d’improvviso si ricordò con acuto rimorso degli insegnamenti di suo fratello Dodò, della [p. 112 modifica]storia del topo, e gli tornò alla memoria quel verso:

Un topolino di testa leggiera....

Ah, era proprio lui quel topolino! O Dodò, Dodò! come avevi ragione!

I dentini gli battevano, non più per la gioia, ma per il freddo e per lo spavento.... Sentiva di non aver più nulla da sperare, e le sue sofferenze, a mano a mano che il tempo passava, diventavano così acute, da fargli quasi invidiare la sorte del povero topino della rimessa.

Doveva esser notte tarda. Gli parve di addormentarsi e di tornar a sognare. Intese distintamente la Rita chiamare con voce di pianto:

— Moschino! Moschino! Dove sei, Moschino mio? —

Ma la suppose una cara, un’ultima illusione della sua fantasia.

Come credere, ormai, alla salvezza? Se [p. 113 modifica] nessun gatto lo divorava, lo avrebbero ucciso le ore notturne co’ loro terrori, e la fame e la sete e il rimorso.... [p. 114 modifica]

A un tratto, nel buio, brillò un lume che errava qua e là per il giardino. Su la ghiaia sonavano i passi di due o tre persone; su le foglie bagnate quel lume gittava a quando a quando de’ riflessi mobili e vivi.

Una voce, la voce cara e dolce che il topino fuggiasco conosceva, gridava davvero sempre più da presso:

— Moschino! Moschino mio!... — Era la Rita.

Un singhiozzo le rispondeva. Era Nello.

La Letizia, anch’essa turbata, consigliava ai ragazzi di non disperarsi.

— Bisogna farsi coraggio, che diamine! — ripeteva la cameriera a’ suoi padroncini, sempre più sconfortati, a mano a mano che le loro ricerche riuscivano senza frutto.

Moschino si scosse dal suo torpore sonnolento, quasi mortale; fece uno sforzo supremo e cominciò a muoversi.

Non c’era dubbio: egli non sognava, no; [p. 115 modifica]erano i bimbi che, vicini a lui, lo chiamavano. Allora si mise a correre verso di loro; le gambe gli si rinvigorirono come per incanto; uno spirito nuovo gli riscaldò le vene; il cuore pareva che gli volesse scoppiare dalla commozione.

E quando su l’oscurità del terreno bagnato il topino bianco correndo apparve dinanzi agli occhi de’ ragazzi, questi mandarono un grido di gioia, che fu udito dalla contessa Sernici, la quale vigilava, da una finestra, quelle ricerche, ch’ella temeva inutili.

— L’avete trovato? — chiese la signora tutt’allegra.

— Sì, mamma, sì! — gridarono i bimbi; e raccogliendo in mano Moschino, se lo passavano l’uno all’altra per baciarlo e ribaciarlo.

Il topolino sembrava impazzito dalla gioia. Con le zampine faceva forza per alzarsi quanto più poteva su le mani de’ suoi padroncini, e stringeva loro il mento con le manucce, [p. 116 modifica]rendendo furiosamente, quasi per supplicare che non l’abbandonassero, tutt’i baci che riceveva.

― Moschino! Moschino mio bello! ― esclamava la Rita.

― Moschino! Moschino d’oro! ― ripeteva Nello.

― Bestia scellerata! ― diceva la Letizia, con ragione ― quanto ci hai fatto penare! Dio ti guardi, se torni a scappar via! ―

Ah, no, mille volte no! Se la Letizia avesse capita la lingua dei topi, Moschino le avrebbe giurato, come giurò poi a Ragù e alla Caciotta, di non far più di simili follie. Si sa quel che si lascia, lasciando la casa propria; ma chi sa poi quel che si trova, nel mondo, nel vasto mondaccio!