Antico sempre nuovo/La poesia lirica in Roma

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La poesia lirica in Roma

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Pensieri scolastici La poesia epica in Roma
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LA POESIA LIRICA IN ROMA1

I.

«All’aurora nato, a mezzo il giorno bene citareggiava» Hermeia2. Presto l’uomo trovò gli strumenti che imitassero le voci della natura; coi quali egli potesse da sè e a sua posta creare il meraviglioso mormorio che lo circondava. E presto vi associò piuttosto grida, sul principio, che parole, quasi a vincere il frastuono incessante del mondo esterno e ad affermare la vita e forza della sua anima avanti il Tutto. Nella Grecia, da cui, come da maestra di Roma e di tutti, è bene cominciare, risonavano nei [p. 62 modifica]tempi lontani grida come: ie Paieon, io Bacche, Hymen ai o, ai Line: gioia, delirio, amore, morte. Di tali canti primitivi è questo che par fatto apposta per l’eco nelle valli, al tempo della mietitura3:

Πλεῖστον οὖλον ἵει ἴουλον ἵει

nel quale appello melodioso si può vedere come il grido si trasformi in parola; il suono in idea. A queste parole e grida l’uomo univa i movimenti cadenzati dei piedi, delle braccia e della testa. Ecco la poesia lirica o, a dir meglio, melica.

Essi arrivati là dove era parso di porre l’agguato,
lungo un ruscello, a cui tutte venivano a bere le mandre,
quivi posarono avvolti nel bronzo d’un rosso di fuoco.
Due, in disparte dal grosso, si stavano in tanto in vedetta
per avvistare da lungi le pecore e i lucidi bovi.
Ecco che furono in vista: venian due pastori con quelli,
lieti sonando la piva....

Ecco la poesia pastorale e uno strumento a fiato, de’ primi tempi4.

Vergini in tanto e garzoni, dall’anima molle d’amore,
dentro corbelli di vinchi portavano il frutto di miele.
Ed un fanciullo nel mezzo di loro con l’arpa sonora
citareggiava soave ed ai lino cantava a quel suono,
con una gracile voce; e quelli altri battendo in misura
lui con movenze e gorgheggi seguivano e sbalzi di piedi.

Ed ecco la poesia campestre e uno strumento primitivo a corde, la phormigx5. [p. 63 modifica]

Quivi garzoni e donzelle dotate con mandre di bovi,
l’uno le mani nel carpo dell’altro danzavano in volta:
l’une vestivano drappi sottili, di lino; ma gli altri
vesti dal morbido ordito, ancor lustre dell’olio del filo.
L’une le belle ghirlande sul capo; ma gli altri le spade
d’oro, portavano al fianco, sospese a pendagli d’argento.
Ora correvano via con lor maestrevoli piedi
agevolmente così, come quando adattata la ruota
tra le sue palme, seduto, il vasaio la tenta, se corra:
or ricorrevano gli uni, alla fila, all’incontro degli altri.
Ed assisteva gran gente all’amabile coro, godendo,
mentre nel mezzo battea la cadenza il divino cantore,
sopra la cetra, cantando, e così due giullari tra loro
gesticolavano in mezzo secondo la mossa del canto6.

Così la poesia epica parlava della lirica, che viveva accanto ad essa ora dilettando il pastore solitario, ora secondando i vendemmiatori, presente a nozze e funerali, accompagnando la spola della tessitrice, consolando il bambino dell’esser nato. Solo però quando l’epos cessò di fiorire, quando fu mietuta quella messe e portato via quel raccolto, la lirica germinò, per così dire, nella maggese di quello, profittando della sua lingua, dei suoi modi e motivi.

L’epos, anzi, aveva intelaiato nella sua cornice qualche canto lirico, come preghiere e giuramenti, come threnoi, come descrizioni ed osservazioni naturali. Una preghiera7:

«Odimi, o Arco-d’argento, che intorno sei visto di Chryse,
come di Cilla la sacra; che Tenedo regni e proteggi;
ch’hai le saette che liberano! se ti feci un bel tempio

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mai, se mai arsi per te, non lasciandone parte, gli spicchi
grassi di tori e di capre, adempiscimi un voto che faccio:
Paghino i Danai queste mie lagrime con le tue freccie».

Con questa Chryse domanda la vendetta; con altrettanti versi e con la medesima invocazione, chiede il perdono8:

«Odimi, o Arco-d’argento, che intorno sei visto di Chryse,
come di Cilla la sacra; che Tenedo regni e governi;
bene una volta in passato l’udisti quel voto che feci:
molto onorasti tu me, percotendolo, il popolo Acheo:
anche una volta al presente adempiscimi un voto che faccio:
Ora allontana dai Danai, ch’è tempo, lo strazio ed il danno».

Un giuramento9:

«Giove che regni dall’Ida, che sei il più forte, il più grande!
Sole che andando a tua via, di lassù tutto vedi e tutto odi!
Fiumi, voi! Terra, tu! quanti nel mondo sotterra punite
gli uomini stanchi dal vivere, che qui giurarono in vano!
siatemi voi testimoni! guardate la fede ch’io giuro».

Un’esecrazione10:

«Giove che sei il più forte, il più grande, con gli altri immortali,
quali di noi per i primi misfacciano al patto giurato,
versino a terra così le cervella, com’io questo vino
verso: le loro e dei figli; e soggiacciano ad altri le mogli!»

Un goos; quello della moglie11:

«Uomo, di vita partisti ben giovane, e vedova in casa
lasci qui me; e c’è un figlio che ancora è così piccolino,
cui, sventurati! facemmo io e tu; nè mi penso che giunga

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a giovinezza, chè prima la nostra città dalla vetta
minerà: tu sei morto che n’eri alla guardia, che salva
quella facevi, e le mogli assennate ed i piccoli figli;
che d’or in poi se n’andranno, per forza, su rapide navi,
e ben con esse ancor io, e pur tu, creatura, o verrai
meco, ove ad opere indegne di te sarai forse allogato,
per un padrone, non tenero no, faticando, od alcuno
te degli Achei prenderà, scaglierà d’una torre — qual morte! —
pieno di rabbia, perchè gli abbia ucciso il fratello od il padre
Ettore, od anche il figliuolo: chè molti, ben molti, gli Achei
furono che per sua mano si presero a morsi la terra:
ch’egli non èra di miele, tuo padre, neH’orrida mischia!
sì che per questa città di lui fanno lamento le genti;
ed indicibile ai tuoi genitori corrotto e dolore,
Ettore, hai dato; ed a me più di tutti rimane l’affanno.
Poi che morendo, dal letto tu non mi porgesti le mani,
nè mi dicesti una savia parola, la quale per sempre
ricorderei nelle notti e nei giorni, versando il mio pianto!»
     Questo piangendo dicea: rispondevano al pianto le donne.

Quello della madre12:

«Ettore, d’ogni mio figlio, a quest’anima il molto più caro...»

Quello della cognata, di Helena13:

o Ettore, d’ogni cognato a quest’anima il molto più caro...»

Udiamo ancora14:

Bada allorchè della gru tu ascolti la voce nell’alto;

chè di lassù, dalle nuvole, ogni anno ella manda lo squillo. Dell’aratura ti porta il segnale, ed il tempo ti mostra già delle pioggie, ed il cuore suol mordere a chi non ha bovi. </poem> [p. 66 modifica]

Anche15:

Quando sì il cardo è fiorito e sì già l’echeggiante cicala
posta sull’albero versa l’acuta canzone minuta
di sotto l’ala, nel tempo dell’afa che prende le forze,
ecco che sono le capre più grasse, ed il vino più buono.

Anche16:

E se pur tardi arerai, medicina può esserci: questa:
quando tu senti il cucù del cuculo tra i rami del leccio,
la prima volta che gli uomini via per la terra rallegra,
prega che venga di lì a due giorni una pioggia, nè spiova
prima ch’empisca nè meno nè più d’un’unghiata di bove:
quello è un arare sul tardi che agguaglia l’arare per tempo.

Non sono questi canti di popolo rilavorati da un buon aoidos? Non sono del popolo le osservazioni sulla rondine ὀρθρογόη (che geme la mattina), avanti il cui ritorno bisogna potar le viti; sulla chiocciola φερέοικος (che porta la sua casa), la quale quando da terra sale alle piante, non si deve più scalzar la vigna? del popolo che trovò la storiella del «senza ossa» (ἀνόστεος), il polipo che nell’inverno, per campare, si succhia i suoi molti piedi; che vide la «savia» (ἴδρις), la nera e piccola massaia, fare il suo raccolto al tempo che il ragno fila la tela, nei giorni lunghi; che chiamò il ladro «l’uomo che dorme il giorno» (ἡμερόκοιτος), che chiamò «soavità» (εὐφρόνη) la notte, in cui il lavoratore riposa dalle fatiche, e che definì in questo [p. 67 modifica]modo ingegnoso una cosa brutta a farsi, anche in cene d’uomini, e nemmeno bella a dirsi17:

Tu nelle cene di dei non il ciocco de’ cinque rampolli
pota col lucido ferro, tagliandone il secco dal verde.

Ma l’epos sfiorì: il mondo eroico degli uomini più grandi, più forti, più belli, meraviglia di quelli οἷοι νῦν βροτοί εἰσι, non attrae più i Greci, che sono più affaccendati, appassionati, travagliati dalla vita reale. La poesia, più necessaria che mai, perchè ella è conforto, risuona più specialmente nei convivii, dove l’uomo o dimentica i suoi mali o si fa più forte contro essi o si lascia da essi commuovere sino alle lagrime e al canto. Da tre specie di convivii si possono supporre derivate, o meglio fissate, tre specie di poesia. E parola in Omero del banchetto funebre, detto τάφος, come la sepoltura, tanto era la stessa cosa18. A tali banchetti in tempi assai remoti si usava, pare, un cantico lamentevole, ἔλεγος, parola e cosa derivata da Cari e da Lydi, da popoli, insomma, dell’Asia minore. Il lamento era accompagnato dal flauto, αὐλός. È ricordato poi in Hesiodo, il banchetto allegro e sfrenato, o l’ultima parte di esso, il χῶμος: «da altra parte giovani facevano un comos, al suono dell’aulos, gli uni scherzando con danza e canto, gli altri motteggiando»19. Nell’inno a Hermeia sono «i giovi[p. 68 modifica]notanetti nel fior dell’età» che nelle thaliai gareggiano con motti cantati all’improvviso20. Si tratta di banchetti, in origine, di soli uomini, di soli giovani; e il convito che facevano lo sposo e i suoi compagni di gioventù nella casa maritale, prima che fosse addotta la sposa21, doveva rassomigliarsi ad essi, come quello che chiudeva l’età spensierata della vita. Ma in altri convivii sedevano uomini e donne; e quando ne uscivano per la città, grida di gioia sonavano per tutto, danzatori turbinavano, splendevano fiaccole; oltre lo squillo dei flauti, s’udiva il tintinno della lira: le donne, sulla porta di casa, guardavano ammirando il corteo nuziale passare22. Ora pensiamo: nel banchetto funebre nacque l’elegia, nel convivio nuziale in casa dello sposo si svolse la poesia iambica, nel convivio nuziale in casa della sposa sbocciò la poesia melica. Il pensiero della morte dominava sul primo; e lo scherno gioviale e spesso amaro, e sempre libero, informava il secondo; l’amore ardeva nel terzo. Ciò, forse, in origine; ma col tempo l’elegia non si associò solo al taphos, sì a ogni convivio; nè comoi furono più solo la conclusione rumorosa di cene in occasione di nozze, ma ogni festino di giovani, rallegrato anche da auletridi e altre donne; e non più solo nelle nozze i giovani si trovarono nel simposio vicino alle giovani. Nei paesi aeolici la donna ebbe [p. 69 modifica]una libertà ignota nel resto dell’Hellade; e quindi in essi fiorì la poesia erotica e simpotica, che sono spesso la stessa cosa, poichè il convivio è sovente la scena dove si svolge il piccolo dramma d’amore. Tutto col tempo si mescolò e confuse; ma la nota primitiva persiste sempre: le anfore, benchè infuse d’altro liquore, conservano il sottile e vago aroma del primo che vi fu versato; e questo aroma sembra mutare la natura e l’essenza del secondo. Come è sospiroso l’amore nell’elegia! come è amaro o scurrile nell’iambo! E se il pensiero della morte entra nella dolce melodia del simposio amoroso, come ne viene cacciato dalla gioia del vivere! «I Soli possono tramontare e ritornare: noi, appena tramontato questo breve dì, una notte dobbiamo dormire, infinita, senz’alba.... Dammi mille baci, poi cento, poi altri mille, poi altri cento....»23. Così nell’anima del poeta, come il cupo ronzio del mare nelle volute della conchiglia, è l’eco dei convivii antichissimi dopo i quali ardeva la pira, dopo i quali dalla casa, in cui la gente udiva da ore un giocondo strepito24, uscivano o l’allegra compagnia dei giovani che cantavano canzoni cui le donne chiudevano le orecchie, o i gentili cori di vergini e di fanciulli, che le donne, fattesi sugli usci, ammiravano. Così sembra a noi e il cantore iambico cantare sempre nell’assenza della donna, e il cantore melico modulare i suoi inni tra persone che parlino d’amore, e il cantore elegiaco aver veduto prima del canto, o essere per vedere dopo, le fiamme d’un rogo. [p. 70 modifica]

È naturale che l’elegia s’ispirasse da prima più per la morte incontrata nei campi di battaglia e nella fortunosa navigazione: naturale che il poeta prendesse motivo di incoraggiare i presenti ad amare la morte bella, nelle prime file d’un esercito, a non spaventarsi della morte oscura, nei gorghi del mare. Callino25:

Chè non è nostro destino che possa sfuggire alla morte
     l’uomo, non se d’immortali egli nepote sarà.
Fuggi la mischia selvaggia bensì, e la romba dei dardi:
     vai ti nascondi; ed in casa ecco la morte con te!
Oh! nè davvero tu hai dal tuo popolo amore e rimpianto;
     piccoli e grandi, in un reo, l’altro rammaricano.
Tutti nel popolo l’uomo magnanimo, il giorno che muore,
     piangono; ed un semidio, mentre viveva, egli fu:
esso davanti i lor occhi sta come una torre di guerra:
     molte sarebbero a più l’opere ch’unico fa.

Archilocho26:

Pericle, pianti piangendo e sospiri, non un cittadino
     può di banchetti aver gioia più, nè l’intera città:
tali ingoiò la tempesta del mare dal molto sussurro,
     onde le viscere a noi tanto dolore gonfiò.
Sì, ma, o caro, gli dei per i guai che rimedio non hanno
     d’uomini, diedero un’erba essi: la virilità.
Va la sventura or a questi or a quelli: ora venne tra noi,
     e la ferita dà sangue e noi gemiamo così;
ma poi da altri n’andrà. Siate dunque virili, o compagni:
     vada quel rammarichio lungo, di femmine, via!

E nascondiamo sotterra i regali del dio Posidone,
     tristi.

Nè guarirò la sventura, se piango e sospiro; e se vado
     anche a festini e convivi, io non la peggiorerò.

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Tyrtaeo27:

Essere morto! è pur bello, se il prode tra i primi campioni
     cadde così, per la sua patria pugnando da eroe.

Odio alla vita, o guerrieri! ed il nero destino di morte
     prediligetevelo come la luce del dì.

Di morte in questa prima forma d’elegia è il ricordo in tutti a ogni tratto; del banchetto, dove ella era nata, è traccia più in Archilocho, in quello che era nel tempo stesso scudiero del dio della guerra e maestro nell’arte delle dee del canto, di quello per cui la lancia era pane e vino. I frammenti elegiaci di questo poeta conservano più il tipo originario, sebbene quasi in parodia. La confessione stessa d’aver lasciato «non volendo» il suo scudo presso un cespuglio, sembra essere fatta in un convivio, tra amici, ed è in stridente contrasto con le lodi che in simili convivii si dicevano, nello stesso metro, di quelli che sullo scudo erano riportati morti dalle battaglie. Egli invece sfuggì la morte; quanto allo scudo, ne acquisterà un altro non peggiore. In metro elegiaco egli domanda il vino per passare bene la notte lunga della crociera:

Spilla il vin rosso per fino alla feccia; chè stare di guardia
     senza vin rosso per noi non è possibile qui.

Ma con queste affermazioni audaci di vita siamo, sembra, lontani dal pensiero della morte che dominava nella elegia guerriera dei primi tempi. Eppure, no: anche in quella, dalla morte rampollava la vita. Il valore dà gloria sì al guerriero caduto e sì a [p. 72 modifica]quello che sopravvisse. Infatti se fugge alla morte e vittorioso ha il chiaro vanto della «lancia», tutti l’onorano, giovani e vecchi, e se ne va all’Hade dopo aver goduto molti piaceri. Tyrtaeo descrive l’uomo che per paura della morte preferì abbandonare la patria al difenderla. Egli erra con la triste famiglia odioso a tutti, oppresso dal bisogno: diventa brutto! La viltà è dunque come la vecchiaia, che «fa l’uomo brutto insieme ed infelice»28. La vecchiaia! donde, se non da antiche elegie in morte d’un giovane prode, ha ricavato i suoi motivi Mimnermo? «Due sorti nere ne stanno sopra: l’una con la vecchiaia molesta, l’altra con la morte.... quando la lieta stagione è passata, oh! allora meglio la morte che la vita»29. E la giovinezza, «il fiore della giovinezza, soave e bello, dovrebbe durare più a lungo: e invece è breve come un sogno ». Perciò bisogna goderla, amando. Poichè ta vita che è senza «l’aurea dea dell’Amore»? Oh! morire, quando non siano più per noi i suoi doni30. E così l’amore entra nell’elegia naturalmente, e noi possiamo supporre che sempre ci sia stato; l’amore è fratello della morte; e sempre vi rimase, sebbene irrequieto, insoddisfatto, come quello che vede le due «sorti nere». Le tristi riflessioni del banchetto funebre, le gnomai amare, ricorrono alla mente del poeta innamorato anche se egli non voglia, poichè sono indissolubili dall’esiguo elegos nel quale e per il quale sono nate31. [p. 73 modifica]

Cyrno, parola non dire giammai troppo grande: chè ad uno
     cosa la notte ed il dì porti, nessuno lo sa.
Hanno chi un male, chi un altro; ma proprio felice nessuno
     è di quant’uomini il sole alto contempla quaggiù.

Il sorriso è fuggevole, triste32:

Cuore, gioiscimi: in breve saranno tutt’altri nel mondo;
     vivi saranno, che morto io nera terra sarò.

Niuno degli uomini il quale la Terra potente nasconda,
     che sia disceso nel Buio, presso la dea di laggiù,
più d’ascoltare la lira, ascoltare le tibie non gode;
     non d’accostarsi il divin succo dei grappoli più.
T’ubbidirò, caro cuore, finchè sono snelli i ginocchi
     e senza tremiti il mio capo sugli omeri sta33.

Stolidi gli uomini e piccoli in vero, che piangono i morti,
     che se n’andarono; non la giovinezza che va34.

Così il convivio, pur cessando d’esser e funebre, non sempre è lieto:

Oh! ne’ giocondi conviti poniamo il nostro animo, mentre
     ch’egli così delle gioie l’opere amabili può.

Va giovinezza la bella via subito, come il pensiero:
     non di cavalle veloci émpito è rapido più.

Portano il loro signore alla mischia in cui volano l’aste,
     e per i campi di grano ilari scalpitano35.

L’elegia, fatta politica, in Solone sembra dimenticare la sua origine conviviale e funebre, nonostante qualche accenno fatalistico, come, «La Moira ai mortali porta il male e anche il bene, e i doni [p. 74 modifica]degli immortali vengono inevitabili36; non ostante che nella famosa Salamis (di cui vedi Plut. Sol. c. 8) egli abbia forse scelto il metro elegiaco, perchè intonato alla sua simulata pazzia, come quello che ricordava il vino e il convivio37. Fatta poi filosofica, in Xenophane l’elegia, pur nel convivio, risuona grave e composta, rigetta i discorsi di battaglie, mitiche e civili, alle quali era avvezza, e parla di virtù e di saggezza: «chè di forza d’uomini e cavalli è migliore la nostra sapienza»38. Così ella cambia d’argomento e di tono, ma ricorda sempre le sue origini: «Beviamo, scherziamo, vada per la notte il canto, ognuno danzi!....»39. Il pavimento è pulito: l’acqua è data alle mani, i calici lustrano. Un servo pone al capo dei convitati la ghirlanda di mortella e di rose, un altro porge l’odoroso balsamo nella fiala. Il cratere è in mezzo: il vino sente di fiori. L’olibano brucia facendo sentire il suo odore sacro: l’altare è pieno di fiori e la mensa di pani biondi e miele e latte rappreso40. Fra questi profumi, si leva l’elegia, dolce canto antico, che se non tramanda più all’immortalità un giovane guerriero, morto nelle prime file e bello anche da morto, dà a persona vivente e amata le ali con cui sul mare e sulla terra potrà volare facilmente. E presente essa persona sarà in tal modo ai banchetti e ai festini tutti, e i giovani negli ama[p. 75 modifica]bili comoi la canteranno coi piccoli flauti chiarosonanti41.

Ma nei comoi s’udiva più la seconda specie di poesia lirica, l’iambo, che ha con l’elegia in comune l’aulos, e in qualche modo le assomiglia, se noi vediamo lo stesso poeta, come Archilocho e Solone, trattare i due generi. Pensando ad Archilocho, si direbbe che egli abbia piegato fino a che si potè, la cantica derivata da tui convivio sì, ma funebre, a esprimere il suo sentimento allegro e fresco della vita; dove non si potè, ricorse all’iambo; all’iambo memore d’altri festini. Questa poesia procace era congiunta anche al culto della dea Demeter; poichè Iambe è l’ancella che con le sue facezie muove l’afflitta madre a sorridere e racconsolarsi: onde «anche dopo, ciò le piacque nelle sue feste»42. Aristotele conferma che la legge concedeva per certe divinità il τωθασμόν43, ma i giovanetti non dovevano udirlo. Ed è notevole che Paro, la patria di Archilocho, sia dopo Eleusi, il paese prediletto di Demeter, sì che l’isola si chiamò Demetrias44. Archiloco fece anzi alle due dee un inno45. Per il poeta Pario era dunque questo tothasmos già noto e abituale; e ciò spiega come il genere iambico nascesse con lui perfetto. Ben poco resta a noi di tutta quella grande opera poetica che lo fece chiamare il più grande dopo Omero, il più Omerico. Più che dai frammenti, ne deduciamo la nota generale dal [p. 76 modifica]dramma che gli antichi derivarono dall’opera stessa; l’amore di Neobule. Era la poesia dell’amore respinto, quella d’Archilocho, della fede spergiurata; e ciò con tutte le ondulazioni d’un’anima che passa da.una finta rigidezza a un intenerimento improvviso, dall’ironia amara all’odio aperto e grave. È la poesia della lotta per la vita nel suo momento più commotivo, in quello dell’amore; ed è poesia che parla di donne, ma ad uomini; quindi cruda nella espressione. Una cosa grande io so, egli dice46

render male a cento doppi, s’uno male faccia a me.

Si fa talora coraggio:

Cuore, cuor tumultuante per un turbine di guai,
su! difenditi a piè fermo, petto avanti, o cuore: va.
C’è un agguato di nemici: tu rimani in sicurtà,
fiero; e poi vittorioso non menarne vampo, nè
vinto devi chiuso in casa piangere o buttarti giù,
ma gioisci delle gioie, ma rattristati de’ guai,
pur non troppo: riconosci questa vita quale ell’è47.

Spera negli dei:

Negli dei riponi il tutto: bene spesso di tra’ guai
l’uomo che giaceva per la nera terra alzano su,
bene spesso un altro curvano e rovesciano, che sì
ch’era in gambe e fiero, ed ecco che una gran calamità
viene, ed egli va ramingo, senz’averi e fuor di sè48.

motivi, questi, dell’elegia. Ma l’amore persiste: [p. 77 modifica]

     meschino fisso all’amor mio
senza più anima sto, con quest’ossa passate fuor fuori
     da doglie in causa degli dei49.

E ripensa come e quale la vide:

In mano aveva un ramicel di mortola
e rose del rosaio e si godea, così,
e i suoi capelli spalle e dorso ombravano50.

E rifà la storia del tradimento, raccontando la favola della volpe e dell’aquila. L’aquila dall’alto si ride del povero animale, a cui ha mangiato i figlioli; ma quello si rivolge a Zeus:

O Giove, o Giove padre, sopra il cielo hai tu
     possanza, e vedi ciò ch’uom fa
d’ingiusto e giusto, e il bene e il male sta
     pur delle bestie a cuore a te51.

E Zeus vendica l’impotente. Restano ancora le solenni parole con cui il poeta si rivolge a Lycambe: «Hai violato il giuramento grande: il sale e la mensa». Anche in Simonide (o meglio Semonide) d’Amorgo si trova la nota fondamentale di questa poesia: egli anzi raccoglie e svolge nella sua lunga «Satira», i motteggi sulle donne, paragonate a bestie, motteggi che facevano le spese dei comoi52. Ma in Hipponacte, l’inventore dell’iambo zoppo, la situazione del poeta iambico è più chiara e compita: egli è il brutto, il misero, lo spregiato; ha freddo [p. 78 modifica]e fame, odia gli dei e gli uomini che non lo aiutano o lo deridono. Egli si rivolge bensì alla divinità:

«O Herme, caro Herme, figlio di Maia, Cyllenaeo, ti prego: ho freddo. Da’ un mantello a Hipponacte; ho un freddo, un freddo; e búbbolo»; ma bestemmia, quando non ottiene ciò che ha domandato. Egli dice:

A me non è venuto in casa quel cieco
di Pluto, a dirmi mai: da’ retta, Hipponacte:
io ti regalo trenta mine d’argento,
Ed altre cose ancora molte. È un vigliacco53.

D’un medimno di orzo ha bisogno, per farsi la farinata, d’un paio di pantofole per i suoi piedi rotti dai geloni. E tra queste lugubri voci di miseria volgare e sfacciata, suona un verso dolcissimo, sospirato più che detto:

Se amasse me una vergine bellina e tenerina!54.

Anche le donne dunque entravano in questa poesia di miseria e dispetto; ma le idee e i sentimenti del poeta sono tutti in questi due versi zoppi:

Due giorni d’una donna sono i più dolci:
quel delle nozze e quello dei funerali55.

Così è in questi poeti veramente il dramma della vita, palpitante di realtà; e si comprende come ne prendessero i loro metri e i loro accenti sì la co[p. 79 modifica]media e sì la tragedia. Già alcune loro poesie erano piccole tragedie e comedie, come s’induce, per es., dal fg. 74, di Archilocho, in cui parla Lycambe, e più dalle imitazioni di Orazio56.

Dai paesi ionici passiamo nell’Aeolia, e specialmente nell’isola «più musicale di tutte», Lesbo; dove il poeta uomo, o tra le armi o tornato dalla navigazione, cantava tuttavia l’amore nei lieti conviti; dove il poeta donna esprimeva tutte le cose belle e tutti i gentili affetti con la cetra esperta d’imenei. Alcaeo dice: «o Giglio, nel seno ti accolsero le pure Chariti»57. Sappho: «stammi in faccia, caro, e spandimi la grazia che hai negli occhi»58. Sembrano dolci bisbigli sussurrati nel convito. Ma i conviti di Alcaeo non sono sempre così placidi. «Ora bisogna inebbriarsi e bere di forza; è morto Myrsilo»; così esclama al sentir la morte del tiranno59. In un banchetto, egli al suo fratello, reduce da battaglie in paesi lontani, diresse il saluto: «Venisti dai confini della terra, riportandone un’elsa d’avorio legata d’oro...»60 Questi e altri accenni ricordano l’elegia del primo tipo; e sono conviviali nel tempo stesso che stasiotici, come attesta Aristotele per cui è melos scolion una poesia coriambica contro Pittaco61. E nelle poesie simpotiche entrava spesso l’amore, come nelle [p. 80 modifica]amorose il simposio62. Sono poesie nate tra i calici, dette con sul petto le ghirlande intrecciate di aneto, e il petto stillante di balsamo soave63. E qual incanto a un’occhiata che si getti sui frammenti di Sappho la bella. Essi dànno l’imagine d’una rovina d’un bel tempio antico: due sole statue sono intere o quasi; del resto rimane qualche capitello, qualche pezzo di fregio, qualche scheggia di bassorilievo, una mano, un piccolo piede; tutto a terra. Tra l’edera e i rovi essi biancheggiano, e gli usignoli hanno posto qua e là il loro nido di foglie secche; e la luna piena illumina il luogo misterioso e una fonte gorgoglia e il vento stormisce tra gli alberi. Lunghe file di vergini e fanciulli si vedono passare, se pure non sono nuvole bianche così tenui che ne trasparisce l’azzurro del cielo. Una stella d’oro è nel cielo; e si sente un grido, lontanissimo e quasi vano, ripetuto da gracili voci: Hymenaon, Hymenaon. Ma a volte passa un’ondata di dolore e di passione: «Muore, Cytherea, il molle Adonis: che facciamo? palma a palma, o fanciulle, battete; stracciate le tuniche. O ton Adonin!» Quanto tempo è passato! come esso qui ha mostrata la sua potenza, abbattendo, seppellendo, distruggendo! Eppure: «Intorno il vento fresco sussurra tra i rami del melo, e allo stormir delle foglie fluisce il sonno profondo — donne di Creta così bellamente una volta danzavano coi piedi delicati intorno all’ameno altare, calcando molli il tenero fior dell’erba — piena appariva la luna, ed esse come stettero presso l’altare... — è [p. 81 modifica]tramontata la luna e le Pleiadi, è mezza notte, il tempo passa, e io dormo sola — il nunzio di primavera, l’usignuolo dalla voce d’amore... — che cosa a me, cara rondinella di Pandione?...»64 La fantasia compie il frammento che sorride intero, per un istante, come un’apparizione, e poi vanisce lasciandoci della grazia nel cuore. Ecco la fanciulla innamorata: «Dolce madre, no non posso tessere questa tela, domata dall’amore d’un giovinetto, per la molle Aphrodite».65 Ecco una bambina: «Io ho una bella bimba, che ha la grazia dei fiori d’oro, Cleis l’amata, per la quale io nè la Lydia tutta nè l’amabile...»66 E che cosa di più forte e gentile di questi tocchi? «come una bimba corro alla madre battendo le ali — Amore mi scorre il cuore, vento che nel monte si gettò sulle quercie — come il dolce pomo arrossa in cima al ramo, in cima del ramo più in cima; se ne dimenticarono i coglitori; no, non se ne dimenticarono, ma non poterono arrivarvi — come il giacinto nei monti i pastori pestano coi piedi e a terra rosseggia il fiore... — Esperò, tu porti quanto disperse l’aurora, porti l’agnella, porti la capra, riporti alla madre il suo ragazzo»67. Qual dolcezza ingenua di lode, che sa di convivio nuziale, in queste espressioni, «più bianca dell’ovo, più oro dell’oro»!

Sappho la bella non è morta e non morrà mai; ella non è davvero quella di cui parlò così: «Morta tu giacerai, una volta; e memoria di te non sarà nè [p. 82 modifica]allora nè poi; chè non sei partecipe delle rose della Pieria; e anzi oscura nelle case dell’Invisibile andrai coi ciechi morti svolazzando»68. E rileggiamo le due odi superstiti, alle quali s’è aggiunto ora qualche buon frammento: leggiamole in quella loro molle cadenza trocaica, alla quale la nostra lingua non dovrebbe, per sua natura, essere così nemica:

I.

Afrodite, figlia di Giove, eterna,
trono adorno, piena di vie: ti prego!
non domar con pene e con crucci, o grande
                              nume, il mio cuore.
Anzi vieni qua, s’altra volta ancora,
quella voce mia di lontano udendo,
l’ascoltavi: dalla patema casa
                              subito uscisti;
aggiogasti al carro tuo d’oro i belli
tuoi veloci passeri: sulla nera
terra, tra l’azzurro del cielo, con un
                              battere d’ale
rapido, eccoli! ecco che tu, beata,
con un riso dell’immortai tuo viso
mi chiedevi cosa mai fosse, cosa
                              mai ti chiamassi,
cosa voglio mai per il folle cuore
mio. Chi vuoi che Dolce-parola ancora
tra codeste braccia conduca? chi, o
                              Clara, t’offende?
Chè se fugge, poi ti vorrà seguire,
se ricusa i doni, vorrà donarne,
se non t’ama, poi t’amerà se anche
                              tu non lo voglia.
Vieni anche ora e scioglimi dalle dure
pene e tutto ciò che il mio cuore brama
che s’adempia, adempimi tu: tu vieni
                              meco alla guerra.

[p. 83 modifica]

II.

A me pare simile a Dio quell’uomo,
quale e’ sia, che in faccia ti siede, e fiso
tutto in te, da presso t’ascolta, dolce
                              mente parlare,
e d’amore ridere un riso; e questo
fa tremare a me dentro il petto il cuore;
ch’ai vederti subito a me di voce
                              filo non viene,
e la lingua mi s’è spezzata, un fuoco
per la pelle via che sottile è corso,
già non hanno vista più gli occhi, romba
                              fanno gli orecchi,
e il sudore sgocciola, e tutta sono
da tremore presa, e più verde sono
d’erba, e poco già dal morir lontana,
                              simile a folle.

Questa poesia, passando il mare, incantava e beava gl’Ioni: Solone vecchio voleva imparare una delle odi di Sappho e morire69. I quali Ioni presto s’impadronirono come già dell’epos, così del melos eolico. Anacreonte70 è un imitatore dei Lesbii, sebbene molto derivi anche dall’elegia ionica. Per esempio, il fg. elegiaco 94, nel quale biasima chi presso il cratere pieno parla di risse e della guerra lagrimosa, ricorda il suo contemporaneo Xenophane. È vero che egli non vuole nemmeno i discorsi di virtù e di sapienza, sì di poesia e d’amore. E certo derivò in qualche modo da Mimnermo quello che era il motivo dominante delle sue poesie autentiche, se dominò in quelle de’ suoi imitatori e contraffat[p. 84 modifica]tori: il dissidio tra l’età canuta e il cuore giovane. Come Solone già volle correggere il Ligyastade «cancella quel sessanta; solo a ottantanni mi colga la morte»; così Anacreonte diede conclusione diversa alle meste premesse di Mimnermo. Egli dice che Eros lo tempra nell’acqua, come un fabbro il ferro; e vuole intendere che lo rafforza, lo ringiovanisce. Delle due Κῆρες nere, egli teme più la morte:

Sono già brinati questi miei cernecchi: il capo è bianco:
la gentile giovinezza non c’è più: scrollano i denti:
della dolce vita molto tempo più non mi rimane.
E però sovente gemo, ch’ho del Tartaro paura:
oh! la stanza dell’Oscuro, come orrenda! grave andare
colaggiù, poi ch’e destino: chi giù venne, su non vada.

Così fiorì nell’Hellade la poesia del sentimento, la poesia soggettiva, in due secoli, dal settimo al quinto71. Dopo la morte di Alessandro, quando per i meravigliosi avvenimenti della epopea del Macedone, per la conquista al genio greco dell’Asia e del[p. 85 modifica]l’Egitto, questo tempo dei piccoli tiranni parve antico, si tornò a questi poeti, mezzo dimenticati, con l’interesse con cui si guardano le reliquie e le rovine. I dotti grammatici si provarono a studiarne la vita, a raccoglierne e dividerne le opere. Poi li imitarono; e così rifiorì l’elegia. Allora s’intuì che il tipo d’elegia che avesse più l’impronta della sua origine ed essenza, era quello di Mimnermo; e così Mimnermo fu il più imitato. E il piccolo epigramma, che in origine era un’iscrizione funebre e votiva, divenne la forma più amata di poesia e servì all’amore e all’odio, alla satira scherzosa e alla riflessione severa. Si ripetè in certo modo la storia dell’elegia sua madre: dalla morte all’amore, a tutto. Esso accolse anche metri melici e iambici. Ma l’iambo dopo la consacrazione fattane dal dramma, difficilmente si adattò a vivere fuor del dialogo e dell’azione, a cui, del resto, era nato. E così nacquero i mimiambi, scenette meravigliose della vita cittadinesca e popolare. E vicina ad essi fiorì la poesia bucolica coi suoi quadretti (εἰδύλλια) della vita rustica, pastorale, marina; la qual poesia s’ispirò al melos e accolse in sè molti motivi e lesbiaci e più antichi; non ricusando qualche volta di gareggiare col mimiambo e dialogare anch’essa qualche scena di città. Sì il mimiambos e sì l’eidyllion sono, o vogliono essere, in lingua popolare, l’uno in ionico, l’altro in dorico: e per il metro e il tono diversi, l’uno ha dall’iambo zoppo di Hipponacte come maggiore vita, così maggiore volgarità e licenza, l’altro dall’esametro d’Omero un’idealità semplice e antica, che è incanto dell’anima. [p. 86 modifica]

II.


E tu popolo italico, tu nostra italica Roma, non avevi nell’anima questa poesia, e non la estrinsecasti col canto? Sono due questioni che vanno trattate a parte, e richiederebbero maggiore studio e più parole di quelle che posso spendere io qui ora. Avevano i Romani la facoltà intima di animare nel loro pensiero l’inanimato e idealizzare il reale? Sì, e in una certa misura nessuno lo nega. Bastino alcune imagini della loro mitologia particolare. Ianus è il dio dalla cui mano tutto è chiuso e aperto, è il ianitor del cielo: quando egli apre, la terra s’illumina; quando egli chiude, tutto si oscura. Così il mondo è un grande tempio; di cui era imagine quello che egli aveva in terra presso il Tarpeio. Il sole indora il tutto nel giorno, come la fiamma del sacrifizio fa lustrare l’oro del tempio aperto; e nella notte, tutto riposa e dorme nel tempio serrato. È pace. Così la guerra è giorno e vita, la pace, così rara nell’istoria del popolo dei Quiriti, è notte e sonno72. Carmentis è la dea che predice l’avvenire e presiede ai parti: essa è la levatrice avanti l’oscuro grembo delle cose; per essa una nuova vita è una nuova parola d’un libro misterioso che ella sa. Anna Perenna è la luna piena di primavera, la prima luna dell’anno antico, come Ianus, è il primo sole dell’anno rinnovato, il primo Ianus. Liberando il mito dalle frasche, Anna Perenna è una vecchierella errante, dai capelli bianchi, che dà i liba alla povera [p. 87 modifica]gente. È condotta al talamo col volto velato; quando lo scopre, è già invecchiata, e rapidamente volge, non alla morte, ma all’oscuramento da cui perennemente esce nell’anno73. Così il sole è aliusque et idem. Noi non abbiamo alcuna traccia d’inno rustico e popolare cantato alla luna fecondatrice, a quella che «compiendo a parte a parte colle sue fasi mensili l’annuo giro empie all’agricoltore la rustica capanna di buono e grande raccolto»74. Ma noi possiamo indurre qual canto adombrato nelPanima, se non espresso con la voce, fosse dei buoni popolani che alle idi di Marzo si sdraiavano sull’erba, nel bosco della dea lungo il Tevere, bevendo e augurando: «O vecchierella bianca, sempre in volta, che passi i mari e ti nascondi nei fiumi, che entri ed esci per le finestre, che quando ti levi il velo nuziale, mostri una faccia rugosa e ridente; o vecchierella buona che distribuisci le focacce alla gente, dànne anche a noi, sempre, per tutto l’anno, Anna Perenna». Faunus è il dio dei boschi e canta con la voce bene augurante del vento tra le fronde. Egli dice ciò che avverrà: poterlo sapere! ma chi intende quel canto di foglie? Il vates e la casmena. Ma non voglio moltiplicare gli esempi a dimostrare che il Romano, o, più generalmente, l’Italico aveva e il desiderio e la facoltà d’idealizzare, di animare, di poetare75. Però non sapeva troppo esprimere con parole i fantasmi del suo pensiero, intendere e significare «quel canto di foglie»; o non voleva. [p. 88 modifica]A ogni modo, rispetto ai Greci, che tutto atteggiando e sceneggiando umanamente, perdevano e facevano perdere la primitiva emozione dello spettacolo naturale, gl’italici erano più intimamente poeti, avevano più quel sentimento religioso o poetico, che è tutt’uno, il quale comanda il silenzio più che non muova la parola. Ma quando la parola è mossa, ella è più grave se non più colorita; e se non disegna più precisamente il fantasma che ha il poeta nella mente, esprime però con più profondità il commovimento dell’anima avanti ad esso. «O Sole, sorgi e invadi il tutto! Al vestibolo del cielo, tu sei, o Iane, gentile ianitor. Un buon Cerus tu sei, un buon Ianus. O benefattore de’ viventi, porta il giorno e nascondilo!»76 Così presso a poco, cantavano i Salii, sin dai primi tempi, movendo gli ancilia, in uno dei loro molti axamenta. Questo era in onore di Ianus. Eccone un altro in onore di Iuppiter tonante: «Quando tuoni, o Leucesio, tremano già di te quanti uomini ti udirono tonare»77. Il quale axamentum è interpretato da altri con più genialità, sebbene con maggior licenza: «quando tuoni, Leucesie, tremano già di te quanti in ogni luogo sono uomini, dei, tutto il mare, monti e piani»78. Antichissimo e di lezione più certa, come quello che giunse inciso su pietra, è il canto dei fratelli Arvali o Aratori. Lo cantavano danzando, un poco per uno: [p. 89 modifica]carmen descindentes tripodiaverunt, come è nella lapide stessa. Dubbia assai è l’interpretazione; certo piace l’imagine che, secondo il Preller, è nel terzo verso: «Sazio d’infuriare, passa la soglia, ferma la sferza!» Il che alluderebbe alle tempeste, dopo le quali il seme si svolge e mostra, facendo verdi le porche. Marmar o Mavors o Mars è il dio degli agricoltori che a lui chiedono d’essere salvi dalla lue e dalla rue essi e le loro famiglie e i loro animali; e con quegli agricoltori, fattisi un pilumnus poplus, diventò guerriero79. I quali agricoltori nella guerra si ricordavano poi di quella religione loro, così campestre e così alta. Le cerimonie e le formule dei Fetiales ne sono la testimonianza più chiara. Quando si faceva o feriva un foedus, domandava il Fetialis al re i sagmina, le sacre verbene. La dichiarazione solenne di guerra del popolo Romano era in origine una domanda di rifacimento di danni fatta da una tribù agreste alla sua vicina. Ma quanto grave e maestosa! «Odi, Iuppiter, udite confini, mi oda la giustizia divina. Io sono il pubblico nunzio del popolo Romano e vengo legato secondo la legge umana e divina: sia fede alle mie parole». E dopo avere fatto la sua domanda chiamava in testimonio Iuppiter e diceva: «Se io contro la legge umana e divina domando che mi siano consegnati quegli uomini e quelle cose, non mi fare tornar più nella patria mia». E dopo trenta tre giorni indiceva la guerra, invocando tutti gli dei del cielo e di sopra e di sotto la terra80. [p. 90 modifica]

Nella campagna è la prima vita dei Romani e la prima loro poesia. La Grecia, quando vinse il suo vincitore, trovò ancora agreste il Lazio81. Il faunus che cantava agli uomini, era il dio dei boschi; e i vates che accoglievano e ridicevano le sue parole, dovevano più aggirarsi per i boschi che per la Via Sacra. La lustrazione del campo si faceva con una cantilena religiosa conservataci da Catone82. Mars pater era invocato non perchè desse la vittoria in guerra, ma perchè facesse crescere e riuscire a bene frutti frumenti, vigneti virgulti, e conservasse sani i pastori e il loro gregge. Ma il contadino cantava certo anche in altre occasioni: nelle campagne è tutto un cantare. Canta Simylus macinando il grano per il suo moretum; canta la fida moglie vergiliana tessendo nella veglia invernale. Tali canti non erano sempre gentili nè innocenti: vi erano canzoni d’improperi, canzoni d’infamia e anche formule misteriose capaci di attrarre nel proprio le messi del campo vicino83. In bocca di agricoltori certo, e forse nelle nozze sin dal principio più che in altra occasione, risonarono i Fescennini che erano pure convicia, come li chiama Lucano, tali quali chiama Orazio quelli del vendemmiatore e del passeggiero84. Nelle feste campestri si udì tra quelle ridde il Triumpe triumpe dei sacerdoti di Mars, dio degli agricoltori, prima che accom[p. 91 modifica]pagnasse il carro del capitano vittorioso; e della rozzezza e licenza dei canti trionfali è causa, più che altro, questa origine. Quanti cognomi di illustri genti e famiglie Romane, cognomi villeschi, che ricordano legumi e bestie, saranno stati uditi la prima volta nei tripudi della villa, come quello di Torquato in un tripudio militare!85 Il verso stesso o numerus in cui erano almeno da principio queste canzoni, si chiamava Saturnius, quanto a dire, nato nelle seminagioni. Ma gran parte della poesia contadina era seria e grave: osservazioni agricole o morali o l’uno e l’altro insieme. Delle prime è, per esempio «Quando inverno è polveroso, primavera limacciosa, molto farro e molto bello, o figliuolo, mieterai». Un’altra: «(La sementa) per tempo spesso falla, tardi falla sempre». Delle seconde è questa: «Gli dei aiutano chi fa», o questa: «Presto assai se assai bene». Delle terze: «L’uva invaia in veder l’uva», o «Tu non sai che cosa porta la stella della sera», o «La scabbia d’una bestia infetta tutto il branco»86. Vi era tutta una precettistica agreste in cui il vecchio insegnava al camillo; mancò solo forse un Hesiodo a raccogliere questa sapienza sparsa, sebbene Appio Cieco e Catone, a quanto sembra, vi si provassero; aggiungendo naturalmente del loro. Ma chi sembra essere stato più veramente una specie di Hesiodo romano è Marcius Vates, il cui nome è [p. 92 modifica]da Mars, il cui aggiunto fu interpretato col tempo come profeta, mentre non valeva che poeta; poeta, s’intende, primitivo. Nel fatto, secondo Isidoro, praecepta composuit, e hanno l’aria di precetti i suoi piccoli e difficili frammenti autentici87. Tornando ai proverbi, abbondano quelli suggeriti da una tanto fine quanto scettica considerazione della vita: finezza e scetticismo proprii di buoni contadini. Per esempio: «La pentola degli amici bolle male, Hai un asse, un asse vali» e simili. Altri si riferiscono a favolette e storielle come: «Chi non può all*asino dà al basto, Ti prenda su chi non ti conosce». Abbiamo un canto che si diceva nelle feste Meditrinalia assaggiando il vin nuovo col vin vecchio; si diceva ominis gratia: a Vecchio nuovo il vino io bevo, curo un vecchio nuovo male». E pei mali si avevano molte formule, tra il misterioso e il villanesco, a cui Catone, Varrone, Plinio credevano. E il bambino era addormentato con la dolce nenia «Lalla lalla lalla, aut dormi aut lacte»88. Dalle culle alle tombe. Nei sepolcri si incidevano sin da tempo antico iscrizioni che senza dubbio sono in versi. E questo può far sospettare che fossero tutt’uno con la nenia che si cantava nel funerale in lode del morto, al suono delle tibie89. Questa nenia era dunque una specie di elegia romana: e così l’elogium, come si chiamò l’iscrizione dei monumenti, viene ravvicinato alla cosa significata dalle [p. 93 modifica]parole greche elegos, elegeion, elegeia, dalle quali è pur lontano, secondo il Mommsen, per l’etimologia. Elogium verrebbe da eligere e significherebbe primamente le note che si «trasceglievano» per ricordare negli stemmata uno della famiglia che avesse occupato offici curuli90, O indica forse la scelta fatta nella lunga nenia funebre? Checchè sia di ciò, la poesia di questi elogia è ora severa e quasi ufficiale, ma sempre piena di sentimento e di solennità, ora affettuosa e dolce quanto più si possa. Il poeta consola il figlio del primo Africano,, che portò l’apex di flamine diale, di aver avuto troppo breve il campo alla gloria e alla virtù; consola un altro Scipione morto giovinetto, di non avere avuto onori: idee romane. E romanamente è figurata la donna perfetta, sul sepolcro di una Claudia: Domum servavit, lanam fecit. L’uomo era per la patria, la donna per la famiglia91.

Appio Cieco scrisse carmina, come è nella orazione a Cesare dell’incerto Sallustio; sententias, secondo Festo. Egli fu censore nell’anno 442, console nel 447 e nel 458. Ebbe grandissimo sapere; fu oratore pieno di forza. Esisteva al tempo di Cicerone l’orazione con la quale egli, vecchio e cieco, dissuase il senato dal far pace con Pyrrho; Restano a noi due versi dell’orazione che fa presso Ennio: Quo vobis mentes rectae quae stare solebant Antehac dementes sese flexere viai? Quanto al suo carmen, come lo chiama Cicerone, pareva a lui Pythagoreum, ispirato dalla filosofia pythagorica, che, se[p. 94 modifica]condo lui, era filtrata in Roma92. Memorabile è la sentenza: «Ognuno è artefice della sua fortuna». Altissima sarebbe, se fosse certa la lezione e l’interpretazione, l’altra: «Tu dimentichi la tua miseria quando vedi un amico. Ora sia tuo nemico quello che vedi: ebbene, pensatamente, e non volentieri come con l’amico, tieni lo stesso contegno tuttavia». Ma queste sentenze che a Cicerone davano sentore di pythagorico, sono però molto rozze di stile e di verso. Il numerus o versus Saturnius persistè per molto tempo ancora, non ostante le filtrazioni greche. Però esso si trovò presto, non cinquanta anni dopo la morte di Appio, accanto e a fronte, il verso ellenico, specialmente l’iambico e trocaico della comedia e tragedia. Donde permanò nel popolo, se si hanno a credere molto antichi e di questi tempi (erano certo antichi al tempo di Orazio) alcuni versi quadrati, in uso nei giochi dei fanciulli: «E la scabbia prenda quello che pervenga ultimo a me; Re sarà chi farà bene non sarà chi non farà». E di gioco fanciullesco è forse l’altro: «Come coglie a spiga a spiga la sua messe il mietitore». Un senario cantavano i monelli romani dopo il castigo degli aruspici etrusci che avevano dato il mal consiglio93. Ora è notevole che il metro nazionale si conserva più a lungo nei monumenti, per esempio, degli Scipioni, nei quali solo dopo il 615 si incide una iscrizione che non sia in saturni. Non mi pare che si possa credere all’antico carmen Priami, come non so che pensare del tetra[p. 95 modifica]metro iambico conservato da Festo alla parola obstinet. Fondandomi sopra basi più sicure, vedo che il saturnio si conserva nella letteratura per così dire nobile e ufficiale. In saturni era probabilmente il carmen che Livio Andronico scrisse per ordine dei pontefici nella seconda guerra punica. Me ne persuadono le parole abhorrens et inconditum che Tito Livio adopera per qualificarlo94. In saturni Naevio assalì i nobili Metelli e in saturni ebbe la minacciosa risposta. E sì che Naevio sapeva fare benissimo i versi iambici e trocaici, e sì che i Metelli che seppero fare o far fare il più perfetto e regolare dei versi saturni, il tipo anzi del genere, avrebbero potuto rispondere a versi grecanici con versi grecanici. Ma il poeta Campano preferì in questo che era come un atto pubblico, il verso del Bellum Poenicum e non quelli delle sue palliate e di altri suoi ludi95. Il suo epitafio come gli altri tre di Plauto, Pacuvio e Pompilio, credo che siano Varroniani96.

III.

Oh il buon tempo di Roma! che cosa è questa nuova ars poetica? Catone non ne era contento, non ostante che avesse egli trovato e posto in luce il grande Ennio, non ostante che anch’egli scrivesse in versi, il Carmen de moribus. In questo anzi egli esclama che «allora» non era in onore l’arte poe[p. 96 modifica]tica e che crassator era chiamato sì il poeta e sì il parassita97. Ma il severo Censore faceva distinzione tra poesia e poesia, tra poeta e poeta o, a dir meglio, tra poeta e vates. Egli rimproverò Marco Fulvio Nobiliore di aver condotto poetas in provincia. La parola poetas è certo del resto di Catone98.

Egli verisimilmente designava con questo nome quelli che abbandonavano la via dei maggiori e nel metro e nel fine dell’arte. Il versus longus Enniano trovò forse grazia presso di lui, poichè cantava la gloria di Roma negli Annales; ma tutta l’altra Grecità drammatica e lirica non gli piaceva. Ho detto lirica; e forse dovevo fermarmi alla prima parola, se con una tragedia praetexta il poeta celebrò l’imprese del suo patrono in Aetolia, se Ambracia è tragedia e non satura99. Ma i conviti che Catone mette così vicini all’arte poetica, danno sospetto che egli abbia disapprovato un cambiamento delle sane usanze romane proprio in essi conviti. Non rimpiangeva egli i carmina de clarorum virorum laudibus che presso i maggiori, molte generazioni avanti la sua età, erano cantati dai singoli banchettanti al suono della tibia? E sappiamo anche, da Cicerone, quanto egli si dilettasse modicis conviviis. E sappiamo che per lui era licentia, sia pure data dalla gloria, quella di Duilio di farsi accompagnare, privato, a casa dai sonatori di tibia100. E che cosa è naturale che non dicesse, se a’ suoi tempi era stato introdotto alle mense romane l’uso di canzoni con[p. 97 modifica]viviali? A me pare veramente probabile che per qualche cosa di simile Catone ricordasse nelle Origini il detto costume, rimproverando i contemporanei di avere presa altronde una cattiva usanza invece della buona e domestica. Ma, si obbietterà, Cicerone l’avrebbe detto nei due o tre passi in cui riferisce la notizia di Catone. Si può rispondere che Cicerone ha riferito del passo catoniano la parte che approvava e taciuta quella che non approvava. Nel fatto, l’Arpinate pensava differentemente dal Tusculano rispetto alla poesia e ai poeti. Come vedremo. Intanto Ennio dopo gli esametri dell’epos, introduceva in Roma anche i distici dell’elegeia, mentre Catone esprimeva il suo malcontento, per questa come per molte altre novità, col buon verso saturnio dei vecchi101.

Catone, che tutto riferiva alla patria e al comune, non aveva torto di temere la nuova poesia, che già con Ennio si mostrava soggettiva, come è naturale che fosse, e lodatrice di viventi e privati. Più avrebbe temuto se avesse potuto vedere quanto sdolcinata e puerile si mostrasse in quelli che scrissero versi elegiaci nella prima metà del secolo settimo. Era il tempo quello del fiorire di Lucilio, di cui restano due distici interi e altri frammenti del suo libro ventesimo secondo102. Dei due distici interi uno è un epigramma epitimbio, l’altro parte di un epigramma amatorio. Nell’uno e nell’altro c’è l’impronta dell’unghia leonina. L’esempio forse del grande Satirico fece pullulare gl’imitatori? Noi [p. 98 modifica]abbiamo tali epigrammi di quattro scrittori, Pompilio, Valerio Aedituo, Porcio Licinio o Licino, Quinto Catulo; e un verso di Tito Quintio Atta. Quest’ultimo, poeta di togate, morto nel 677, è citato in epigrammatibus. Pompilio fu discepolo di Pacuvio come Pacuvio di Ennio ed Ennio delle Muse: egli dice di sè in un distico che probabilmente è di Varrone e fu conservato da Nonio. Fu autore dunque dramatico anch’esso. Catulo fu console nel 652. I loro epigrammi, salvo quello di Pompilio che è del genere degli scoptica, derivano dalla musa paidice degli alessandrini. Di uno di Catulo (il primo) conosciamo sicuramente anche il modello103. Noi non possiamo partecipare nè all’ammirazione di Aulo Gellio, che come i buoni vecchi pedanti amava le chicche, nè alla stima di Cicerone che riporta il secondo di Catulo, porgendo così indizio di ciò che ho affermato più su. In una parete di Pompei fu trovato un aitro saggio di questo genere dove è continuamente discorso di freddo e di caldo, le quali parole ne possono dare la definizione: amore espresso freddamente. Di Porcio Licino restano anche dodici settenari trocaici contro Terenzio per le sue relazioni coi grandi di Roma. Altri due versi pur settenari rimangono, in cui afferma che la poesia entrò in Roma nella seconda guerra punica; il che sotto un certo [p. 99 modifica]aspetto sarebbe stato ammesso anche da Catone104. Un poeta tra didattico e iambico era Volcacio Sedigito che si occupava di storia letteraria mordendo questo e quello. Tra didattico invece e idillico è Sueio che scrisse dell’allevamento e della vita degli uccelli e forse un’altra operetta intitolata Nidus. È citato poi da Macrobio un suo idyllion del titolo Moretum e ne sono riportati otto esametri. Dal 650 al 670, il tempo che corre dalla invasione dei Cimbri e Teutoni sino alla fine della prima guerra Mitridatica, fiorirono Gnaeo Mattio o Matio e Laevio. Il primo tradusse l’Iliade e fu dottissimo, a detta di Gellio; il secondo nascosto nei manoscritti sotto il nome or di Naeuius or di Liuius e Laelius e altri ancora, è poco noto. Mattio scrisse nel metro di Hipponacte mimiambi, imitando Heronda, e, pare, piuttosto pedestremente, poichè del primo frammento, per esempio, è chiara la somiglianza con passi del mimiambo terzo di Heronda e anche col frammento, che di Heronda già si conosceva: «O mi giuoca alla mosca di rame o alla pentola o attaccando agli scarabei uno spago mi dà noia al vecchio». Il secondo fa chiaramente indovinare sotto le parole latine le parole greche; il quinto e il sesto ricordano certo più il mercato greco che il romano. Laevio è particolarmente importante per la varietà dei metri che introduce e per la regolarità e anche snellezza con cui li tratta, sì che il suo posto parrebbe avere [p. 100 modifica]a essere tra i poeti «nuovi». Porphyrione lo ricorda avanti Orazio come il solo che abbia scritto liriche, dimenticandosi, per non dire altri, Catullo. Soggiunge: sed videntur illa non Graecorum lege ad lyricum characterem exacta. In verità egli in versi lirici sembra fosse raccontatore di storielle allegre. Gellio ne ammirava l’arditezza e la novità nelle espressioni, specialmente nei composti. Sappiamo da lui stesso che egli aveva dei censori molto fieri che chiamava vituperones subducti supercili carptores, i quali dovevano inarcare le ciglia tanto per l’audacia della sua elocuzione quanto per la licenza della sua parola. L’opera sua era intitolata Erotopaegnion, in sei libri. Sono ricordate come parti di essa l’Adone, la Io, la Protesilaudamia, la Sirenocirca, i Centauri, l’Alcestis. Prisciano lo cita in polymetris. Un giochetto secondo l’uso degli alessandrini che figuravano coi versi più brevi e più lunghi la cosa di cui verseggiavano, (la Scure, le Ali d’Amore, l’Altare, l’Ovo di rondine, la Zampogna, di Theocrito questa ultima) era il Pterygion Phoenicis105. Quanto alla sua vita, condizione, morte, nulla. Forse secondo il Buecheler, egli è il Laevius Melissus di Suetonio (Gramm. 3); un li[p. 101 modifica]berto grammatico greco, probabilmente; il quale soleva chiamare «amore di Pan» per cavillationem nominis, un altro liberto e grammatico; Lutatius Daphnis.

IV.

Intorno all’anno 690 fioriva in Roma un giocondo crocchio di amici che amavano la poesia; e ciò che era alquanto strano, non erano liberti e non erano grammatici; se non forse uno solo tra loro, Valerio Catone, della Gallia Cisalpina. Di lui in vero si diceva dagli altri che fosse un liberto; esso affermava di essere «ingenuo» ma spogliato ai tempi di Sulla, meno d’un venti anni prima, del suo patrimonio e, in certo modo, del suo stato civile. Egli insegnava, ma a giovani di buona nascita, tra cui viveva alla pari. Era un critico esimio: ricordava Zenodoto per la severità un poco arbitraria del giudizio, Cratete per l’amarezza nella polemica. Sapendo assai bene il greco e ammirando la poesia hellenica, specialmente quella elegante e artificiosa degli Alessandrini, censurava nei poeti Romani la trascuratezza specialmente metrica. Lucilio, per esempio, grande ingegno senza dubbio, non sapeva fare i versi. Catone volgeva la mente de’ suoi amici più che discepoli, ai poemi di Apollonio Rhodio, di Euphorione, di Callimacho. I quali sono dell’albero, se si può dire, non il fiore, ma il frutto: frutto maturo e mézzo che è per cadere e lasciare il seme alla terra106. Sin d’allora, forse, era chiamato la Siren [p. 102 modifica]latina; egli saziava il petto dei giovani col canto e li rimandava più dotti. O forse a qualche vecchio settatore del suo; omonimo, pareva pericolosa e mortale la sua voce lusinghiera? Può essere. Erano di quel croccchio altritranspadani come Valerio Catone: Cornelio Nepote, dotto e grave, che conosceva personaggi importanti, Furio Bibaculo, un buontempone di molto ingegno, Quintilio Varo, Cornificio. Ne faceva parte, di Romani proprio, C. Licinio Macro Calvo, non più che giovinetto (era nato nel 672), natura assai complessa, in cui forse la tragica morte del padre, avvenuta nel 688, poneva un’amarezza che col fondo allegro di essa doveva produrre e l’orazione elegante e violenta, sottile e feroce, e la poesia ora dolce come di Sappho ora velenosa come di Hipponacte. Ne faceva parte L. Manlio Torquato, un po’ orgoglioso della sua nascita, un po’ sdegnoso dei peregrini; ma molto studioso della storia, gran lettore e recitatore di poeti107. Vi si lasciava vedere, non forse proprio in quest’anno 690 ma poco dopo, un giovinetto, savio e arguto nel tempo stesso, Asinio Pollione, che si preparava a essere quello che fu, un grand’uomo. Non mancavano i poetastri, zimbello dei compagni, nè i giovanotti che frequentavano la compagnia per passare un’ora allegra, e amavano quelle persone, sebbene, non perchè dotte. Le quali erano degnate qualche volta della presenza del più famoso oratore di Roma, Hortensio Ortalo, che parlava bene ma troppo, e verseggiava e troppo e male. L’altro grande oratore [p. 103 modifica]e mediocre verseggiatore M. Tullio Cicerone, era a questi tempi troppo immerso nella politica, per esser dei loro; ma da molti di essi era ammirato e amato, sì per la genialità della mente e sì per la bontà de’ suoi principii: perchè, in generale, questi giovani non amavano le novità se non nella poesia, e un poco, forse, nei costumi. Ed esso che era conservatore anche in poesia, trovava audaci questi cantores Euphorionis, e sorrideva, come di puerilità, delle loro eleganze metriche e delle loro diligenze prosodiche, chiamandoli νεωτέρους e poetas novos108.

Tra loro, poco prima o poco dopo il 690, emerse un giovane veronese, C. Valerio Catullo. Egli conosceva probabilmente alcuni di essi, suoi terrazzani o provinciali; era certo conosciuto dal più autorevole e grave, da Cornelio; il quale forse aveva fatto menzione di lui nelle sue Chronica, come nella vita d’Attico ricordò poi L. Iulio Calido, il più elegante de’ poeti della sua età, post Lucreti Catullique mortem. Catullo era nato nel 667109. La sua famiglia, [p. 104 modifica]appartenente alla gente Valeria, di cui un ramo si era trapiantato nella Transpadana, era legata di amicizia e ospitalità con C. Cesare. A Roma venne giovane e vi si stabilì. Mi pare verisimile che quando vi giunse, fosse già molto dotto di greco. Forse egli era già stato in paesi di favella greca, poichè suo padre poteva avere nell’Asia Minore affari di commercio o d’altro. Un fratello di Gaio morì, come vedremo, nella Troade: non pare che fosse della cohors di qualche pretore; che cosa dunque vi stava a fare? Nel fatto, Catullo aveva copia grande di autori greci, specialmente poeti, in particolare Alessandrini, sopra tutto Callimacho110. Conobbe, si può credere, Valerio Catone, la Sirena: a cui è probabilmente diretto un poema di sette versi, che ha movenza Archilochea111; ma non pare verisimile che avesse da imparare qualche cosa da lui. Tutto al più ne fu confermato nel suo indirizzo alessandrino e abbozzò, a dimostrazione di questo, il suo poemetto delle nozze di Peleo e Thetide112. Certo rivolse a sè molta parte dell’ammirazione che si aveva per il grammatico. Egli era così ilare, così fine! E poi [p. 105 modifica]qualche cosa di bello era già uscito dal suo ingegno, se si deve credere che Cornelio lo lodasse nelle Chronica da lui edite dal 687 al 690. Di tutto il crocchio Catullo amò subito Calvo, più giovane di lui di cinque anni. La loro amicizia divampò, per così dire, in un grazioso duello poetico. Si conoscevano certo e si stimavano anche prima; ma Calvo era ancor Licinius per Catullo, che doveva essere per l’altro ancora Valerius. Licinio dunque aveva trovato Catullo che prendeva qualche nota nei suoi pugillares. Dove? forse in una taberna e forse della via tabernae veteres, dove era il tempio dei divini fratelli pileati113. Vennero a gara di versi e di spirito; i pugillares di Catullo servirono a tutti e due. Catullo ne uscì stordito dall’arguzia, prontezza, versatilità di quel cosellino tutto voce e penne114; e rileggendone nelle sue tavolette le tante cose graziose e maliziose, non potè prender sonno. Dal letto passò al lettuccio; voglio dire, si pose nel letticciuolo da studio e scrisse un poema col quale significava la sua ammirazione e il suo affetto. Il poema è in hendecasyllabi phalaecii: il verso che è già in Laevio, se il luogo di Macrobio dove è citato, è sano e integro115; verso però che a ogni modo è probabile che Catullo deducesse da Sappho, anche più che dagli Alessandrini. Il verso diverrà popolare. Da quel giorno Catullo e Calvo furono amici. Da allora prese Calvo (se si può argomentare), in arte, il gusto dell’amico, e scrisse anch’egli epitalamii ed imenei, a modo di Catullo. Perchè questi cantò sin dai primi tempi [p. 106 modifica]l’Epitalamio almeno di Manlio e Aurunculeia. Prima del 695, nel quale anno Manlio era vedovo, fu composto di certo; e tempo prima, anche; poichè se dalla morte fosse stato rotto il vincolo pochissimo tempo dopo che fu stretto, nell’elegia lxviii sarebbe un cenno di particolare così crudele. Nel detto canto nuziale è traccia della poetessa di Lesbo, sebbene il metro sia più di Anacreonte. Il gentile Veronese portava per primo in Roma le rose Pierie di Sappho. Esso studiava gli Alessandrini, ma attingeva anche alla fonte viva e pura. Dalla quale derivò quel soave contrasto nuziale in cui è più Sappho che in tutti i frammenti di lei e in tutti i melydria di Theocrito. Arieggia invece Anacreonte il breve e bello inno a Diana. 116 Così i due amici poetavano di dolci cose. E che buona vita conducevano in quei primi tempi! È il giorno dei Saturnali. Vengono e vanno augurii e regali. A Catullo viene da parte di Calvo un bel volume. Svolge da intorno agli umbilici la carta (era forse carta regia e gli umbilici erano nuovi e il tutto elegante e lustro) e legge: versi e versi; ma brutti, orribili, esecrabili. Bisogna leggere: è rito. Come si vendicherà Catullo? Con una poesia nella quale egli insinua che tale perversa raccolta deve essere il guadagno fatto dall’avvocato Calvo nella causa di un Sulla, maestro di scuola. Poveretto! non avendo altro da dare, il maestro ha fatta un’anthologia e l’ha mandata al suo patrono, chte con questi guadagni si farà d’oro. E non basta: Catullo dice che sceglierà i veleni di tutti i poetastri, [p. 107 modifica]che pullulavano, farà così una specie di toxicologia e la manderà al traditore117. I poetastri! erano la disperazione di Catullo. E come li dipinge, come li ha «fissati» per sempre in «Suffenus»118. È forse questo il suo primo poema in coliambi o iambi zoppi. Sono i versi di Mattio, usati anche da Laevio. Ma qual differenza! Catullo non traduce o riduce; non ci fa assistere a scenette, graziose quanto si vuole, ma di agore greche: egli presenta col barcollante verso d’Hipponacte un bel tipo de’ suoi tempi e della sua città, e così vivamente che ci par di conoscerlo anche noi. È un galatuomo e un gentiluomo perfetto, grazioso spiritoso «mondano». Ma fa versi, e come e quanti! Questo vizio, o vogliamo dire malattia, corrompe e nasconde tutte le sue virtù. E non gli basta di farli; li trascrive e li manda attorno. E vedessi che belle «edizioni»!

     Suffeno, o Varo, codest’uom che sai bene,
è uom di spirito, uom di garbo, uom di mondo:
ma d’altra parte troppi versi fa; troppi!
Io credo n’abbia scritti dieci e più mila;
nè già, com’usa, in una carta qualunque,
buttati là: no: carta nuova fiammante,
e capi nuovi e cuoio rosso; coperta
a fil di piombo; tutto pari, che lustri.
Tu leggi, ed ecco l’uom di garbo e di mondo
del tuo Suffeno, un villanzone, un capraio
ti pare, un tratto, tanto stuona e si muta.
Che abbiamo a dir che sia? Pareva un caro uomo,
un bello spirito, un.... non so che mi dire;
ebbene è più villano, che il villanume,
appena tocca i versi. Eppure mai, guarda,

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non è felice, come quando ne scrive:
tanto egli gode in sè, tanto egli si ammira.
Ma tu, puoi dire: tutti erriamo; nessuno
è, che in qualcosa non riesca un. Suffeno,
a quando a quando. I suoi difetti ha ciascuno;
ma sono dentro la bisaccia di dietro.

E come Suffeno, così vive ancora quello zotico del fratello maggiore di Asinio Pollione, che era faceto «di mano», rubando i sudaria a chi non si badava119 Vive l’oratore, freddo come la tramontana, Sestio, che invita a cena a patto che si legga qualche sua orazione. E si perde la cena e la salute; perchè la lettura dà il raffreddore120. Due graziose figure sono Veranio e Fabullo, gli amici del cuore, che sono sempre per le provincie a cercare lucelli aliquid coi pretori. Qualche volta incontrano di questi egoisti che vogliono tutto per sè; e allora i due poveri amici, ritornati a mani vuote, stanno nei trivii alla posta di qualcuno che dica loro: Oggi a cena con me. Con quale affetto li saluta reduci da una delle loro peregrinazioni, dalle quali sogliono portare un regaluccio per lui, e tanti racconti!121 Catullo aveva una villetta, nella Sabina, diceva chi lo voleva offendere, in quel di Tibure, diceva esso e chi non gli voleva male. Ne parlava, pare, spesso. «Dici che è così bene esposta? affermano invece che v’imperversa ora lo scirocco ora la tramontana, che d’inverno si gela e d’estate si scoppia». Così un Furio, che probabilmente è Bibaculo. E Catullo: «non è opposita nè ai venti che dite voi, nè a quelli che [p. 109 modifica]dico io». «Come mai?» «È opposita a quindicimila e dugento sesterzi. Avete capito, una volta?» Insisto su questo scherzo di una parola, che ha un senso generale per tutti e uno speciale per i legulei, perchè è traccia preziosa della superiorità che gli riconoscevano gli amici. Bibaculo, dopo molti anni, lo imitò122, e come in questo è vero, così nel resto è verisimile, e come di lui così degli altri. Catullo è un caposcuola sì in questi scherzi, nugae e ineptiae, e sì nei poemetti elaborati con l’arte degli Alessandrini e gremiti dei loro spondaici, e sì negli epitalamii, condotti o in gliconei o in esametri. Ma sopra tutto è grande e nuovo nel gettare in forme greche, perfettamente imitate, pensieri e sentimenti suoi, la vita sua con le dolcezze e tristezze, col serio e ridicolo che vi trova. E ciò con una naturalezza e disinvoltura che innamora. Non vi ha poeta che sia meno grammaticus o «professore» di lui; egli ama, beve, ride e piange, senza specchiarsi o ascoltarsi mai. Vive come tutti gli altri: solamente, ogni piccolo avvenimento lo muove; ogni leggiero alito fa vibrare le corde tese della sua lira. Capita, per esempio, al tribunale, dove un alto personaggio, stato console l’anno innanzi in un grande frangente della repubblica, chiarissimo oratore, uomo dotto e geniale, deve parlare in una causa di civitas. L’uomo che è accusato d’aver usurpata la cittadinanza, è greco e poeta. Il praetor giudicante è anch’esso un uomo non alieno dalle lettere. Catullo si trova in una folla hominum litteratissimorum123. M. Tullio [p. 110 modifica]Cicerone parla dimostrando che quel Graeculus, quel Poeta non solo, essendo cittadino, non aveva da essere tolto dal novero, ma se non fosse stato, aveva da essere annoverato tra i cittadini. Alle alte parole dell’oratore che chiamava, con Ennio, sanctum il nome di poeta, si commuove il giovane e manda a Cicerone, che pur amando gli studi poetici, non approvava i poeti nuovi, una «tavoletta» con sette versi, ringraziando e ammirando. Da quel giorno, la vittoria della Grecia era riconosciuta; la poetica cominciava a essere in onore, per sè, per il diletto che dava, ancor che non aiutasse ad percipiendam colendamque virtutem124.

V.

Si strinse amicizia tra il piccolo poeta e il grande oratore? Conobbe il poeta frequentando la compagnia dell’oratore, la moglie di Metello Celere? Questi fu console nel 694: ed essa era sorella di Clodio, figlia di Appio Claudio Pulcro; e aveva, l’anno del consolato di suo marito, un po’ più di trentanni, forse. In quell’anno medesimo P. Claudio Pulcro, suo fratello, per ottenere il tribunato, si fece adottare da un plebeo e si chiamò Clodio: e anche essa ne seguì l’esempio e si faceva chiamare Clodia. Cicerone che le era stato amico ed estimatore e ammiratore, cominciò da allora a odiarla. Era molto bella, molto libera, molto colta: amava le lettere (dice uno scoliasta di Cicerone) e la danza, rassomigliando così [p. 111 modifica]a quella Sempronia in cui Sallustio delinea un tipo di matrona romana di giorno in giorno più comune125. Restò vedova nel 695, l’anno dopo il consolato di Metello, non senza sospetto che in ciò entrasse il suo volere, e si diede allora a una vita di lusso, di vizio, di amori, che ci è, con qualche esagerazione certo, dipinta nella sua Caeliana da Cicerone, fattosi di lei mortale nemico. Ma allora, nell’anno 692 nel quale Metello era propretore nella Gallia, egli era tanto in buone relazioni con relegante Βοῶπις, come la chiamava, che pare si spargessero novelle di un matrimonio e due divorzi: donde grande gelosia di Terentia126. Come Catullo conoscesse Clodia non sappiamo; sappiamo che non ebbe più pace non appena l’ebbe conosciuta. Le sue spese furono subito troppe. La sua villa Tiburtina o Sabina fu opposita a quel vento orribile che vedemmo, e la borsa del poeta si trovò piena di ragnateli. Come l’innamorato che descrive Lucrezio, egli cercò di stordirsi nei convivii, di obliare tra il vino, i balsami, i fiori127. Nei convivii non trovò l’oblio, ma la poesia: quella specie di poesia che dei convivii è così propria luce e fragranza come la luce dei lychni, la fragranza delle rose. Egli tradusse per esprimere il sentimento nuovo, che l’invadeva tutto, un’ode di Sappho, una appunto (ci aveva pensato?) nata in un convivio. La ignota di Sappho siede di contro a un uomo, parla soave e canta amabile: dove, se non nel convito? Catullo tralascia l’ultima strofa della Lesbia e conclude di suo, volgendosi a sè [p. 112 modifica]stesso, chiamandosi a nome con un triste presentimento128. Lesbia egli chiama la donna amata, come a dire Sappho, perchè bella, perchè appassionata, perchè partecipe delle rose Pierie. Descrisse poi lo stato della sua anima in questo tempo: le sue espressioni ricordano un poco i vecchi poeti, di cui sopra; ma quanta vita! qual calore e colore! La sua passione evoca monti che eruttano fiamme, acque che ribollono, pioggie scroscianti e fiumi correnti, la pianura sotto il solleone, il mare sotto il nero temporale. Una buona brezza dissipa le nuvole e tutto è sereno. Il poeta ricorda la soglia consunta d' una casa silenziosa e lo scricchiolìo di un calzaretto elegante129. [p. 113 modifica]

Si amarono: gli occhi di Catullo non videro più che lei. È un grande avvenimento nella sua vita la morte d’un passerino addomesticato. I vecchi bròntolino a loro posta: la vita è breve, la morte è certa; dunque bisogna godere. Soltanto occorre guardarsi dagli invidiosi e dai fascinatori. La felicità sia infinita; così sarà fuori dai calcoli della gente. I baci siano quanti i grani dell’arena del deserto, quante le stelle del cielo: chi li potrà contare? e così gettare la malìa?130. Ma in mezzo a questo delirio, lo sorprende una trista notizia: il suo fratello è morto, lontano lontano, in quel sepolcro dell’Asia e dell’Europa che è la Troade. Con lui si seppelliva tutta la famiglia131. L’espressione non è sola enfasi di dolore, forse. Forse, questo fratello ed era maggiore di Gaio ed era il sostegno della casa o il rappresentante del padre, per i suoi commerci o altro, era la speranza della propagazione del sangue e del nome. Catullo volò a Verona e si abbandonò al suo dolore, tenero e acre, quasi capriccioso, come di fanciullo. Dopo qualche tempo si riscuote dal suo isolamento e se ne lamenta come di un abbandono. «Amico, sto male, male assai. E tu qual conforto mi hai dato? due versi bastavano». «O tu che mi abbandoni, dopo avermi detto tanto d’amarmi! [p. 114 modifica]immemore, infedele, spergiuro, cattivo!»132. Passa ancora un po’ di tempo. Catullo cerca sollievo nello studio: ha con sè una capsa de’ suoi preziosi volumi, il prediletto tra gli Alessandrini Callimacho, e traduce la Chioma di Berenice. Egli la manda a Hortensio Ortalo, con una piccola sua elegia, nella quale si sfoga, rinarrando a sè stesso più che all’amico la sua perdita e il suo dolore133. «Catullo» sembra dire «in tanto affanno, non dimentica come è dimenticato». E conclude con una comparazione gentilissima, che ci pone avanti gli occhi un idillio d’amore. La mente dell’addolorato torna a poco a poco ai pensieri consueti. In tanto riceve una lettera, scritta colle lagrime, di quel L. Manlio Torquato, di cui aveva cantato le nozze. Vinia Aurunculeia era morta, senza, forse, che si fosse avverato il preconio del poeta: «un Torquato piccolino voglio che dal grembo della sua mamma porgendo le manine dolcemente rida al babbo con socchiusa la boccuccia». Era morta giovane la gentile che pareva il fior del giacinto; e Manlio scrive domandando consolazione o una visita o qualche libro di poeti. Non scrive da Roma, pare: aveva domandato la quaestura nell’anno 692 che per me è presso a poco l’anno delle nozze: ora, nel 694 e 695, poteva essere in qualche provincia, o ad Asculum, donde era sua madre. Risponde il poeta, raccontando la disgrazia sua che gli impedisce di consolare l’altrui. Libri, non ne ha seco: sono a Roma. Andrebbe a trovarlo, se avesse modo di consolarlo o con parole sue o con [p. 115 modifica]quelle dei vecchi scrittori, così amati da Manlio; ma non ha modo134. Però il suo cuore già ritorna in grado di sentire altre ferite; e il suo dolore non lo occupa tutto, non rende impossibili altri dolori. Egli ha notizie di Lesbia, non buone: ama un altro. E allora scrive un’elegia135 che è la sua cosa più perfetta per l’arte. Vi è il lutto per il fratello, nel bel mezzo, ma prima e dopo, Lesbia, Lesbia per tutto. Ella è la sua luce e la sua vita. Così il poeta ritorna a Roma136.

Quello che egli provasse nei primi giorni, è consegnato in una poesia, che si può definire veramente «la tempesta di un’anima». Dispera e rimpiange; fa proponimento di dimenticare ed evoca tutto il passato gaudioso. Parla a sè stesso, come veramente si vedesse; sè prima prega, a sè poi comanda. È finita Catullo è sano, è libero, è forte. A questo punto si rivolge a lei, ricordando, con domande affrettate, ansiose, amare, tutto l’amor di lei, tutto l’amor suo. È una poesia sentita quanto ben poche delle antiche, vissuta, pianta. Eppure ne trasparisce [p. 116 modifica]la speranza, anzi l’intenzione, di riavere l’amore, che dice perduto. Già, è in coliambi, nel metro con cui ha deriso il povero Suffeno e il freddo Sestio. Non fa meraviglia a noi che la poesia iambica sappiamo ispirata specialmente dalla repulsa d’amore e dal disprezzo sociale. Pure in tanta passione ci aspetteremmo un altro metro. Ma no: Catullo minaccia; solo mostrando la saetta, egli minaccia, senza aggiungere parola137. Le parole sono tutte per indurre nell’infedele la memoria dell’antico amore; per farlo riavvampare, Catullo afferma di rassegnarsi a riconoscerlo spento138. In verità, è spento così poco che si rivolge al suo rivale, già amico suo, Caelio Rufo, con parole che ancor più che l’odio e l’ira, mostrano un profondo infinito rammarico139. Ma Caelio lascia la pericolosa Medea del Palatino, la Clytaemestra quadrantariam. La quale cercherà poi, in vano mercè la parola di Marco Tullio, di vendicarsi del suo infedele Iasone e Aegistho; per allora, tornò a Catullo. Esso aveva avuto sentore di questo ritorno; sapeva che Clodia parlava şì male di lui, ma non parlava che di lui: ora egli faceva il medesimo e sentiva d’amarla tanto; dunque ne era amato140. Presto fu necessaria una spiegazione. «Perchè dici male di me?» mandò a dire il lupo all’agnello. E [p. 117 modifica]Catullo rispose: «Io? della mia vita? di quella che amo tanto? Non dar retta a quel sussurrone che hai intorno»141. La pace fu fatta. La gioia che ne provò Catullo, palpita ancora negli otto versi che ne scrisse. Come nella prima dichiarazione, vi si sente l’anima della poetessa di Lesbo. Nessuno è più felice di Catullo142. Pure quando «la sua vita» giura che l’amore sarà mutuo e perpetuo, il poeta si rivolge ai dodici iddii maggiori, domandando che facciano che possa avverarsi ciò che ella promette. Dubita? Un poco, quel poco di dubbio che in ogni grande gioia ci fa domandare se non è sogno143. E i due amanti celebrano il sacrifizio della riconciliazione. È un voto di Lesbia. Ella si era votata a sacrificare i versi d’un «pessimo poeta», di lui, Catullo. Catullo porta la vittima da sostituire a quella che troppo gli premeva: fa apparire la cerva al posto di Iphigenia. Questa vittima suffecta è la carta sudicia d’un poeta Enniano. «O Dea dell’amore e dell’eleganza, accetta questo scioglimento del voto. Annali di Volusio, carta imbrattata, al fuoco!»144.

Lesbia dice cose affettuose e graziose. Certo, certo; ma chi non sa che le donne dicono agl’innamorati ciò che vogliono, non ciò che sentono? E sapienza volgare: in aqua scribere bisogna ciò che dicono. Oltre i proverbi, che sono generali, qualche indizio particolare doveva tenere agitato e sospet[p. 118 modifica]toso il nostro poeta, che un bel giorno rivolge alla sua donna un rimprovero velato, lodando la sincerità del proprio amore, la propria fedeltà, tacendo di lei. Ella non intende. Il poeta si spiega meglio: «Tu hai promesso e giurato, e io ti ho amato con la passione dell’amante e con la tenerezza d’un padre. Ora ti conosco. La passione è più ardente, ma non ti stimo più». Ella non si commuove. «Vedi lo stato della mia anima: non ti posso voler bene più, nemmeno se tu divenga la più pudica delle donne, non posso cessar d’amarti, nemmeno se tu ti riduca delle donne la più trista»145. Amarla, dunque, sempre. E allora si volge contro i rivali, giovani eleganti, vanitosi, nulli, e, come a lui pareva, intinti chi di questa chi di quella pece. Si leva di tra i piedi un Ravido, che, nel corteggiare Lesbia e provocare Catullo, cercava soltanto di far parlare di sè. Assale fieramente coi coliambi hipponactei tutta una compagnia che frequentava la nona taberna della via tabernae veteres. Tra loro si pompeggia Egnatio, un Celtibero barbatulus, che ride sempre per mostrare i denti bianchi. Ride al tribunale, ride ai funerali, nel momento più commovente dell’orazione e della sepoltura. Volete sapere (vuol sapere Lesbia? par che dica) perchè ha i denti così bianchi? I Celtiberi si sciacquano con un’acqua.... Più i denti sono netti, e più Egnatio ne ha bevuto146. Così Catullo si vendica. Archilocho e Hipponacte rivivono in lui, sebbene non sempre egli adoperi i loro metri. Ma la pena non cessa. Prima [p. 119 modifica]non poteva bene velle; ora odia a dirittura; e ama sempre. Il suo cuore si spezza in questi due contrari sentimenti. All’ultimo Catullo è da lei apertamente respinto. Egli prega, implora di poter continuare a soffrire. In vano: ella si fa vedere una belva, un mostro147: non c’è speranza che in Dio. E alla divinità si rivolge il poeta, con accento tale che noi, nell’intimo dell’anima, sentiamo, come di rado ci accade, di rispettare quella religione di dei, che poteva ispirare anch’essa tanta fede e suggerire una preghiera così spirituale e ardente. Non chiede di essere riamato, chiede di guarire dalla malattia di quell’amore orribile148. Guarì in fatti. Tuttavia dopo tre anni, respingendo le profferte che l’ammaliatrice gli faceva per due amici falsi e interessati, e mandandole a dire che non contasse più sul suo amore, parla di questo amore con una pietà così accorata e con espressioni così carezzevoli, che si vede quanto egli dovesse aver sofferto e durato prima di dimenticare149.

VI.

Catullo seguì in Bithynia C. Memmio propretore. Questi era di buone lettere; schifava però le latine, sebbene dovesse avere dal grandissimo Lucrezio la dedicazione del suo Poema. Perchè Catullo andò con lui? ne era stato invitato forse con l’altro poeta de’ nuovi C. Helvio Cinna, in grazia dei comuni studi e amori? Può essere, poichè anche Memmio era poeta erotico. Ma Catullo aveva altre ragioni di [p. 120 modifica]accettare e andare. Giunto nella Troade portò al sepolcro del fratello, sebben tardi, il dono funebre, e parlò alla cenere muta: ave atque vale150. Che facesse poi nell’anno, non si sa: del propretore si sa che non ebbe a lodarsi, chè non badava che a sè e non stimava quanto un capello solo tutta la coorte. Ma venne la primavera deiranno seguente. Oh! i giocondi preparativi della partenza! i chiassosi saluti tra amici, i quali prendono, chi una strada chi un’altra, che li riconduce però tutti in patria! Soffiano i venti tiepidi e senza mutamento; i piedi sentono il formicolìo di andare e correre. Catullo si propone di visitare le splendide, per arte e fama, città dell’Asia minore151; e a ciò prende ad Amastri un buon veliero, capace anche di andare a remi, un phasellus. Il che può confermare la supposizione che il padre di Catullo avesse affari nell’Asia, e possedesse navi. La rotta di Catullo, indicata da lui stesso molto brevemente e generalmente, fu Ponto, Propontide, Thracia, Rhodi, Cycladi, Adriatico; donde per il Po e un canale navigabile che pare fosse tra Verona e Valeggio, giunse a Verona, al Benaco, alla diletta Sirmio, alla sua villa che, già silenziosa, sembra risvegliarsi all’arrivo del padrone e fargli festa col vario tramestìo di persone e cose. Qual dolcezza il riposo dopo tanto aggirarsi, dopo tanta navigazione! Coi fardelli del viaggio gli pare di deporre un carico dell’anima, anche più grave, e finalmente, dopo le dormiveglie, tutte sognacci e incubi, d’un anno e più, gusta il vero sonno in un [p. 121 modifica]vero letto: nel suo152. Questo saluto a Sirmio, che pare un sospiro di sollievo, è in coliambi. Il poeta si dimenticò della mordace natura storica del verso, per considerarne solo la spezzatura e per così dire fiacchezza del ritmo. È il poema, in vero, della stanchezza e del sonno; e le onde del lago cantano all’ultimo la ninna nanna, con una cadenza lenta. Nel lago è ancorato, o tirato in secco sul lido, il phasellus. Egli passerà la sua vecchiaia gloriosa, in riposo, come il cavallo Enniano, spatio qui saepe supremo Vicit Olimpia nunc senio confectus quiescit153. Riposa e, per chi sappia intenderlo, parla Il poeta ne interpreta le parole che sono in agilissimi iambi puri, alate come il suo corso d’un volta. Si ricorda il tarlato phasellus d’essere stato selva viva e parlante, in paesi lontani. Quel legname che imputridisce dice: Io sibilai sulla vetta del Cytoro. Noi vediamo come un’apparizione di verde, udiamo uno stormire improvviso; poi la nave parte, ha portato via in un attimo quel verde e quel fruscio. Il mare succede al mare e la nave fila sempre. Sed haec prius fuere. Ora la vecchiaia, il riposo e la morte154. Catullo si fermò qualche tempo a Sirmio e a Verona, dove forse arricchì di nuovi ornamenti poetici o compose a dirittura il suo carme LXIV, cioè le nozze di Peleo e Thetide, e il LXIII, ossia l’Attis. Da Verona scrisse a un poeta d’amori di Como Nuova un piccolo papiro di endecasillabi, in [p. 122 modifica]vitandolo ad andare da lui: «voglio che apprenda certe fantasie d’un grande amico suo e mio». Pare che si tratti dell’Attis, che Catullo vuol leggergli e forse dedicargli. Ma il papyrus è molto oscuro155. In tanto il poeta era preso di un’Aufilena che presto conobbe valer molto poco, sebbene gli paresse prima più cara degli occhi suoi.

Tornò a Roma poco dopo. Era ancor fresco del ritorno dal viaggio Bithynico, quando Varo, forse il Quintilio Varo che conosciamo, lo condusse a vedere la sua amica, una donnetta assai spiritosa e graziosa. Si chiacchierò del più e del meno; in fine il discorso cadde sulla Bithynia e sui grandi guadagni che Catullo vi doveva aver fatto. «Con quel pretore? nemmeno un po’ di balsamo per i capelli». «Però hai comprato certo dei lecticarii, che là fanno robusti molto». Catullo, per darsi un poco d’aria, «Oh! di codesti, la provincia non era così cattiva che io non potessi provvedermene otto e ben portanti». La donnetta allora: «Di grazia, Catullo mio, prestameli per oggi: voglio andare al tempio di Serapis». E Catullo: «Ecco, di codesto che dicevo d’avere, non ricordavo più come stesse la cosa. Gli otto lecticarii ci sono; ma sono dell’amico Cinna. Ma, miei o suoi, è lo stesso». È un mimo narrato, tutta grazia e naturalezza156. In tanto il suo compagno di viaggio, C. Helvio Cinna, pubblicava la tanto limata e attesa Zmyrna. Catullo annunzia la preziosa operetta lodandola per ciò che si poteva deridere o biasimare in essa, cioè la lunga [p. 123 modifica]elaborazione, l’erudizione oscura, la piccolezza del volume. Egli dice: Il volgo ammira la facilità di Ortensio, la popolarità di Volusio e i volumoni di Antimacho. Io amo ed ammiro Cinna, e appunto perchè è il contrario di tutti e tre157. E, come Cinna, egli ammirava ed amava Calvo, che aveva pubblicato elegie tenerissime in morte di Quintilia, sua moglie158. Può essere di questo anno un’imprecazione, quella contro il vecchio Cominio, e una allegra risata, quella sulla pronuncia di Arrio159. E nel principio del 699 si trovò in tribunale, a sentir tonare l’amico Calvo contro il nemico della loro prima giovinezza, Vatinio. I due poeti erano tenaci nell’odio160. Ma Vatinio fu assolto, fu pretore e si tenne da allora sicuro il consolato. Catullo desiderò morire161. Egli passava il suo tempo tra Verona e Roma. E a Verona e a Roma esercitava l’animo in odii e in amori; amori indegni o infelici. Gli endecasillabi volavano a ferir questo e quello. I più velenosi toccarono a Cesare e a Mamurra, di lui praefectus fabrum. I più pungenti andarono a quei due amici inseparabili e famelici, Furio ed Aurelio. Fa pena vedere questo gentilissimo gettato nell’iambo dalla Musa, perchè non avesse a superare Sappho e Anacreonte; come l’epigramma afferma di Archilocho, perchè non vincesse Omero. Ma prima di morire egli si beò ritraendo un amore felice. È un altro mimo narrato: un mimo amoroso. Il dio, che [p. 124 modifica]egli altrove raffigura candido con la tunica color di croco, gira intorno a due innamorati; e manda loro augurii buoni con piccoli starnuti. I due innamorati sono un Romano e una Greca162. Si direbbe un simbolo. In questa poesia sono nominate insieme la Syria e la Britannia, il che ne dà il tempo: l’anno delle spedizioni di Cesare e di Crasso. Non vi è in altre poesie allusione ad avvenimenti posteriori. Tacque il poeta, o morì? Morì: poichè Hieronymo, pure sbagliando l’anno, afferma che morì giovane: a Roma. E giovanili chiama Ovidio le tempie di lui nell’Elysio.

Catullo fu un giovane (caro agli dei fu, e del dono divino non dobbiamo essere immemori) sincerissimo e pronto perciò sì all’amore e sì all’odio. Come era di natura buona ed elegante, così più sovente era offeso da ciò che vedeva di tristo e di brutto, che consolato dal bene e dal bello. Egli fu quindi più spesso iambico che melico, più spesso amaro nell’elegia che tenero. E i metri melici e iambici confonde alle volte sì che non raramente nei primi saetti l’odio, nei secondi espanda l’amore. Per questa prevalenza iambica Quintiliano, che lo loda con Bibaculo tra gl’iambographi, ne tace tra i lirici: at lycorum idem Horatius fere solus legi dignus163. Così Porphyrione cita solo Laevio, come scrittore lirico avanti Orazio164. In verità, questa misura e confusione di generi è ciò per cui piacque e piace, per cui sembrò e sembra originale il poeta Vero[p. 125 modifica]nese. La sua poesia è «vita» descritta, e la vita ha vicino il sorriso alla lagrima e il sogghigno al dolore. Con gli endecasillabi che da Sappho derivò Catullo, dice Plinio il iuniore, iocamur ludimus, amamus dolemus, querimur irascimur, describimus aliquid modo pressius modo elatius165. A ciò era necessaria una lingua, come quella di Catullo; in cui si trova il provincialismo vivace (a es. basium) vicino all’elegante grecismo (come mnemosynum papyrus zonula); i nessi prosaici (quare, quandoquidem), le parole volgari (salaputium), le espressioni del comune conversare (bellus, tantum basiorum), presso quei cari diminutivi (come erano già in Laevio), ad es. solaciolum, misellus, turgiduli, versiculi molliculi, munuscula e vai dicendo, ora detti per vezzo, ora per pietà, ora per ispregio, ora per amore. L’anafora anima ogni tanto l’ingenua esposizione (Quicum ludere, quem — Quoi); la geminazione la riscalda (Non non hoc tibi, false, sic abibit); l’allitterazione la colorisce (bene ac beate); l’omeoteleuto la isveltisce (Diversae variae viae). Così ella è fresca, come fatta a voce da lui proprio, rinato o non mai morto. Non meraviglia che l’ira e l’amarezza avanzino gli opposti sentimenti: nella vita è così. E il più buono soffre più del men buono; e non è egli così generalmente mite come si vuol credere; poichè il mite comincia col perdonare internamente a sé stesso quello che perdona agli altri. Il che non è poi grande bontà. Catullo fu ammirato, abbiamo veduto e vedremo, dai suoi eguali, lodato già da Cornelio, lodato poi da Velleio Paterculo166. Egli fu [p. 126 modifica]un caposcuola. Anche quelli che si scostarono poi dalle sue orme, cominciarono coll’imparare da lui. Valga per tutti Vergilio. Orazio mostra un certo dispetto della sua popolarità, e deride la scimmia Demetrio che era Nil praeter Calvum et doctus cantare Catullum; eppure anche in lui è traccia d’imitazione e di studio di Catullo. Quanto a ciò che afferma, d’aver mostrato per primo al Lazio gl’iambi Parii e primo aver, derivata in Italia la poesia Aeolica167, ciò si può riconoscere per vero, e si può non vedervi offesa per il predecessore; poichè Orazio allude alla perfetta distinzione dei generi e interpretazione dei metri. Resti a Orazio la gloria d’aver fatta poesia più bella e più regolare, e si conservi a Catullo quella d’aver fatta poesia più viva e sentita. Dopo il secolo d’Augusto la fama di lui crebbe, non che si oscurasse dopo il fulgore del Venosino. Fu anzi tanto imitato e contraffatto, che venne a noia. Così è: un’opera d’arte buona e bella, ha nella sua bontà e bellezza la ragione del suo dissolvimento; poichè quella eccellenza la fa amare, l’amore la fa imitare, l’imitazione la rode, la consuma, l’annulla. Si fa silenzio e buio intorno a essa. Passano secoli e secoli. Finalmente di sotto il moggio è tratto il lume, che si credeva estinto. Il piccolo libro torna a splendere e vivere, e a far rivivere un’anima e un’età.

VII.

Catullo morì dunque giovane; sino all’ultima vecchiaia visse Valerio Catone, il grammatico. Questi vide altri poeti e udì altre canzoni, sentì sfiorire la [p. 127 modifica]sua fama, e la sua Lydia e la sua Diana cedere il posto a poemi degni di Esiodo e di Omero168. Egli restava fedele ai suoi vecchi e opponeva Lucilio ad un nuovo grandissimo poeta di Saturae, sostenendo che la verseggiatura dell’antico si poteva correggere con poca fatica169. Ma non gli badavano più; non si accorgevano di lui. I poeti Augustei avevano ville e poderi e onori e gloria; esso cadeva nell’oscurità e nei debiti. Un bel giorno, nell’anno 730 o giù di lì, un creditore, che aveva ipoteca sulla sua villa di Tusculo, offriva questa in vendita. Fu venduta, e Catone nascose la sua povertà e vecchiaia in una catapecchia, vivucchiando del prodotto d’un poco d’orticello. Dove erano i suoi amici d’un tempo? il lepido e generoso Catullo, che scherzava così volentieri coi loro due nomi: quicquid amas, Cato, Catullum?170 il dotto e servizievole Cinna, che aveva fatto così alto augurio alla sua Dictynna? Morto l’uno, nel fior dell’età, morto l’altro tragicamente, ucciso per errore, nel lugubre giorno dei funerali di Cesare: fatto anche questo già lontano. Memmio? morto esule nella sua Grecia, circa l’anno 706. Cornificio? morto nell’Africa, l’anno 713, abbandonato da’ suoi soldati che soleva chiamare lepri con l’elmo. Poteva Catone passar qualche parola con un grammatico come lui, povero e vecchio quanto e più di lui, Orbilio Pupillo di Benevento, [p. 128 modifica]che abitava in soffitta; ma non avevano, pare, buon sangue tra loro. Il Beneventano era Scontroso estroso rabbioso a dirittura, mentre il Transpadano sapeva mostrare lenius la sua ammirazione per il passato e il suo malcontento per il presente171. Nessuno vi era ad aiutare e consolare il vecchio maestro; nessuno, se non Furio Bibaculo. Questi che Bibaculus erat et vocabatur172, era sopravvissuto; e rimasto fedele agli amici e alla poesia di quel bel tempo, conobbe e fece conoscere la indegna miseria del maestro unico, che sapendo tutto figuratevi se sapeva il nomen, egli che era summus grammaticus; eppure avanti un nomen si trovava imbarazzato: quello che aveva col suo inesorabile creditore. C’è nomen e nomen, chi bene intende, come una villa può essere opposita in un modo e in un altro. Dopo quanti anni dalla morte di Catullo, riappariva il suo sorriso ne’, suoi vispi falecii? Imaginiamo, trent’anni almeno; poichè Catone si può tutto al più e con grande difficoltà supporre nato nel 648; onde nel 730 o 731 avrebbe avuto ottanta e più anni. Ma se Bibaculo era nato nel 651 o 652, come dice Hieronymo, sarebbe stato vecchio aneli’esso e non avrebbe avuto ragione di parlare della vecchiaia dell’altro che era male comune. Tanto più che Bibaculo vide, a quel che pare, Orbilio decrepito, di quasi cent’anni, quando egli stesso ne avrebbe avuti, seguendo [p. 129 modifica]Hieronymo, quasi novanta; poichè Orbilio era cinquantenne nell’anno del consolato di Cicerone. Dunque? Par probabile che Hieronymo abbia errato, e che Bibaculo, come si rivela imitatore di Catullo, così sia stato o suo eguale o anche suo minore173. Imitatore fu di certo, anche nell’assalire Cesare con l’acerbità dell’iambo, sebbene ne facesse poi ammenda con una pragmatia belli Gallici174, di cui un verso è deriso da Orazio. Notevole è che questa Pragmatia (o Annales) belli Gallici mostra come nella metrica e prosodia la diligenza ed eleganza nuova, così nell’argomento e in qualche espressione l’imitazione di Ennio. A Ennio anzi o male inteso o voluto agguagliare con troppo minori spiriti, si deve quel Iuppiter che hibernas cana nive conspuit Alpes. Così è: Bibaculo, «tra lo stil de’ moderni e il sermon prisco», prepara Vergilio. Ma nei carmina segue ancora ed emula i soggetti, i metri, lo stile delle nugae e ineptiae Catulliane, e ciò, dopo che erano stati mostrati al Lazio i veri iambi di Paro e adattate alle corde della lira italica le melodie di Lesbo. Gli altri poetae novi, C. Licinio Calvo, C. Helvio Cinna, Ticida, Q. Cornificio, non arrivarono al tempo in cui avrebbero potuto considerarsi o essere considerati veteres: poco dopo la morte di Cesare, erano tutti o quasi tutti (di Ticida non sappiamo nulla) morti, come abbiamo detto; morti dopo aver composto, epigrammata o poemata, epyllia, epithalamia: brevi poesie ispirate dall’amore o dall’amicizia, da tutto ciò che fa ridere e fremere e [p. 130 modifica] piangere; piccoli laboriosi poemetti epici come Io di Calvo, Zmyrna di Cinna, Glaucus di Cornificio; imenei sapphici, o in gliconei conclusi da ferecratei o in esametri. Di tutta questa poesia restano pochi avanzi175. Restano bensì alcune saette iambiche popolari che si possono credere se non foggiate proprio, almeno acuite, da questi poeti. Per esempio, l’epigramma in coliambi contro quel Rufo, che fu iniziatore, auctor, di cucinare le cicogne, ha un fare tutto catulliano ed è metricamente correttissimo. Per esempio ancora, i versi quadrati che si cantarono, giusta Suetonio, nel trionfo di Cesare e cominciano Gallias Caesar subegit, non sono versi fatti a orecchio come gli altri Gallos Caesar in triumphum; e possono essere nati, come si può indurre anche per le solite iambiche accuse, quali erano in Catullo e Calvo, nelle umbracula di qualche poeta, piuttosto che al sole delle marce e al fuoco dei bivacchi176. Così nell’epigramma contro Ottaviano per il suo empio lectisternium di uomini-dei177, è un indizio sia pur fievolissimo (lo spondaico verso quinto), che la musa dei nuovi, già non più nuovi, continua a perseguitare Cesare nel suo figlio adottivo. Ma qui è importante considerare che i νεώτεροι tutti o almeno tutti i principali, divennero poi, a quel che sembra, Cesariani. Furono, a dir vero, sempre per Cesare Cornificio e Quintilio Varo, transpadani; divennero col tempo, pare, Helvio Cinna e Bibaculo, transpadani anch’essi. Persino Catullo, che aveva assalito così fieramente quello che egli aveva chia[p. 131 modifica]mato magnum, non senza allusione all’altro Magno di cui mostra così di non riconoscere la grandezza «officiale», fece ammenda de’ suoi iambi e fu liberalmente riaccolto. Persino Calvo che del resto aveva vilipeso Magno, quem metuunt omnes, in un epigramma che ci resta178, volle riamicarsi con Cesare e trattò per mezzo di amici comuni; ma Cesare per primo gli scrisse e si riconciliò con lui179. Ciò forse cominciata la guerra civile, nella quale l’eloquente accusatore, se vedeva Vatinio dalla parte di Cesare, sapeva essere dall’altra Cicerone, il quale egli doveva considerare come il principale autore della morte del padre suo, e col quale, a detta di Seneca, diu... iniquissimam litem de principatu eloquentiae habuit180. Ma di questo, non sappiamo gran fatto. Degli altri però tutti, compreso Catullo, possiamo supporre ragionevolmente che fossero attratti, oltre che dal finissimo gusto e dalla graziosa urbanità di Cesare, oltre che dal suo genio, oltre che dalla sua causa, chi prima e chi dopo, dai benefizi che egli fece ai Transpadani, dai diritti di civitas che egli concesse loro, nel suo proconsolato, diritti che il Senato non voleva riconoscere181. Come che sia, furono all’ultima per lui, e nella loro poesia doveva essere l’antidoto alle contumelie velenose, che noi leggiamo o di che sappiamo; contumelie, del resto, [p. 132 modifica]che per la loro uniformità facevano sorridere chi ne era assalito, come le caricature, fatta ragione dei tempi, non turbano i nostri uomini di stato; doveva esservi l’antidoto, o il veleno non doveva esservi troppo nè troppo forte, se essa poesia fu poi la delizia di Maecenate e di Maecenatiani182. Essa resistè al grande fragore delle guerre civili, e tra quelle e dopo quelle spianò le sopracciglia di grandi e di poeti, nei belli orti, pieni di ronzìi, co’ noci Albani e i meli Piceni, e le zucche e i cocomeri sdraiati gravemente a terra e la menta e il basilico odorosi. Una rozza statua lignea di Priapo dominava lì tra le lattughe e i porri. Qualche volta il dio aveva anche un tempietto, un sacellum. Il Priapo, il sacellum, anche gli alberi, sono gremiti di versi; versi che fanno arrossire, ma sentono l’eleganza Catulliana183. Vergilio giovane, pare, se ne dilettò184, e non paia strano: il libellus di Catullo era nelle mani di lui tuttora giovanetto. Rimane la graziosa parodia del Phasellus che egli fece da scolaro, deridendo, probabilmente, il suo maestro di retorica, un tal Sabino che era stato mulattiere prima che retore. E quando può lasciare quella scuola e andare a Roma, ad ascoltare il filosofo che appacia l’anima, egli saluta l’assordante strepito della retorica e il noioso professore (scholasticus), con un poema in coliambi, che ricorda Catullo185. E Ca[p. 133 modifica]tullo; in quest’anno 701, in cui P. Vergilio Marone, giovinetto impacciato e pensieroso veniva a Roma, al porto della felicità; a Roma moriva o da poco era morto; mentre là nell’oriente la sconfitta di Carrhae, preparava, per sua parte e contro quel che avrebbe dovuto essere, il cozzo delle armi civili di Cesare e Pompeo.

VIII.

Di lì a pochi anni tutto fu pieno di guerra; guerra in Italia, in Hispania, in Thessalia, in Africa. Due grandi battaglie, nel 706 a Pharsalo, nel 708 a Thapso prostravano la dominazione oligarchica del senato. La repubblica era spenta, e M. Porcio Catone, che aveva passati gli anni a segnalarne i nemici e i pericoli, come una vedetta, comprendeva che la sua vigilia era finita e si uccideva, lasciando come un raggio d’eroismo alla sua causa, che i posteri dovevano ammirare: Victrix causa Deis placuit sed victa Catoni186. Ma in tanto era perduta, sì che la campagna dei figli di Pompeo e di Labieno in Hispania non parve che una ribellione al diritto già costituito. Il mondo Mediterraneo si raccoglieva sotto Cesare, cominciando già a gustare l’ordine, la pace e la prosperità; quando il vincitore di tante battaglie e il promulgatore di tante leggi, il pacificatore e il riformatore, cadeva sotto il pugnale dei senatori congiurati. Nel tempo stesso, si andavano adunando in Occidente le solda- [p. 134 modifica]tesche che dovevano conquistare la Britannia e in Oriente quelle con le quali Cesare voleva vendicare la rotta di Crasso e assicurare per frontiera la linea dell’Euphrate. La morte del grand’uomo fece risorgere i tempi di Mario e Sulla. La rabbia civile penetrò nelle case distruggendo tutto ciò che v’è di sacro e santo. Gli uomini non fidarono più nei loro familiari, non contarono sulle cose loro, non sperarono nel domani. La disperazione aveva occupati gli animi di tutti. Dopo due anni di questo delirio, si trovarono a fronte a Philippi pili a pili, aquile ad aquile: pili ed aquile, destinate queste al Reno e alla Britannia, quelle all’Euphrate e ai Parthi. D’una schiera era parola d’ordine Libertas, e dell’altra, lo storico non dice. Quale che ella fosse, la vittoria di questa parte non doveva parer fare promesse credibili e palesi. Una tromba squillò da una parte e dall’altra. Le fanfare si levarono, comandando e incorando. Poi un gran silenzio. Di lì a poco, grida di guerra e cozzi d’armi e sibili di freccie e romba di frombole e il galoppo dei cavalli e lo schiacciarsi l’un con l’altro di due muri mobili di bronzo e di ferro. Quella giornata di sangue non bastò: la vittoria fu divisa. Ci volle un’altra battaglia nel medesimo luogo, perchè l’una delle due aquile, la repubblicana, fosse vinta e fuggisse187. Per un poco il mondo romano parve tornato come dopo la battaglia di Thapso o di Munda, sebbene tre fossero i dominatori e nessuno paresse avere l’anima e la mente del divo Iulio, e i mari fossero corsi da Sesto Pompeo, avanzato alla prima guerra. [p. 135 modifica]Ma Cesare Ottaviano, l’erede del grande, tornando dalla vittoria in Italia, la trovava di nuovo in tumulto e guerra per opera del fratello e della moglie di Antonio, che era triumviro con lui e Lepido. Chi poteva imaginare un fine alla guerra civile, preparata nel 694, cominciata nel 705, che nel 708 parve finita e ricominciò, ed estinta al tutto in quell’anno, divampava più violenta che mai dopo l’uccisione di Cesare, e soffocata in Italia turbinava in Thracia, e spenta in Thracia infieriva in Italia? Roma dunque doveva perire, doveva essere spianata e deserta? era condannata per un antico delitto, che pesava sui nepoti? In questo momento d’angoscia suprema, si udì la voce non di un poeta, ma di un vates. Egli aveva bensì imparate tutte le finezze dell’arte greca e conosceva tutti i progressi dell’arte romana; ma aveva studiato, più che ogni altro, i poeti che per primi si erano trovati avanti a un fantasma poetico e lo avevano espresso con sentimento semplice e parola vergine; i poeti, che non avevano altri a cui prendere sia pure per migliorare, ma s’ispiravano alla cosa nuova, non al libro vecchio. Di questi egli voleva essere e sentiva poter essere in Roma; e prendeva perciò il nome, disusato dai Catulliani, sacrò agli antichi, che significava l’interprete delle voci misteriose, cantore e profeta, vates. Il vates fingeva di presentarsi al popolo col suo canto, come già Solone. Come già Archilocho, invitava i cittadini ad abbandonare la patria. Ma si trattava di ben altro che della conquista d’una isoletta e della partenza d’una colonia! Roma, dopo secoli di vittorie, cade per sua mano, dà volontariamente causa vinta ai Parthi. Bisogna fuggire. E il [p. 136 modifica]vates sa un luogo, lontano e remoto, dove è felicità e pace188. Qui il poeta imagina il popolo in un momento di tregua e di resipiscenza. Si domandano, gli infelici, come potranno essere salvi; e quando sanno qual via, unica e triste, di salvezza loro rimanga, gli uni si traggono in disparte non credendo e non ubbidendo, gli altri piangono: piangono quelli che non vogliono seguire il vate nelle isole lontane, piangono quelli che ve lo seguiranno, lasciando la dolce patria condannata. In un’altra poesia, il vate si presenta al popolo nel momento del suo delirio di sangue, e dopo averlo fatto vergognoso della sua bestialità, domanda: è pazzia la vostra, di cui siete inconscienti? o la sentite una forza che vi trascina, una colpa che dovete espiare? A questa domanda, tacciono, impallidiscono, tremano. Sì: è il sangue del fratricidio antico189. Queste due poesie hanno un tono oratorio, quale è naturale di chi fa ᾠδὴν ἀντ᾽ἀγορῆς?190. Sono, per il metro, in quella composizione distica propria di Archilocho, nella quale o un verso più breve è fatto seguire a un più lungo, o versi ed elementi iambici, propri dello scherno e deirira, per così dire, viva, sono variamente accostati a versi ed elementi dattilici, propri di sentimenti e di memorie d’un tempo che fu. La prima ha i distici composti dell’esametro e del trimetro: dopo la grave contemplazione. fatidica, il rapido fulmineo grido d’orrore, di sdegno, d’allarme. La seconda è di trimetri e dimetri iambici, distico che l’autore predilesse: dopo l’espres[p. 137 modifica]sione tragica o comica, il singulto o la risata. L’esametro e il trimetro della prima hanno qualche traccia di Catullo: due degli esametri sono spondaici, però in nome proprio; i trimetri sono di iambi puri, come nel Phasellus che piacque tanto anche a Virgilio. E altro ancora fa vedere che il vates ha letto e studiato il poeta. Ma, profittando di ciò che l’uno ha innovato e corretto, l’altro lascia le orme degli Alessandrini imitatori, e ricorre al modello e alla fonte. È nuovo rispetto ai nuovi.

Il vates novissimo è Q. Orazio Flacco. Al principio forse del 713 egli era tornato in Italia, profittando dell’amnistia concessa ai superstiti di Philippi. Poichè si era trovato, tribuno militare, a quella orribile duplice battaglia, nell’esercito di Bruto: era quindi stato vittorioso nella prima giornata, nella seconda travolto negli amari passi della fuga. Cioè no: nel momento critico della battaglia, in cui la fanteria cedè e quindi piegò anche la cavalleria, tra i nemici e i suoi si trovò il giovane tribuno e si salvò come per miracolo: si sentì, come egli poi disse a foggia di simbolo, sollevato in alto con molto suo spavento, e avvolto da una nuvola. Era il dio dei poeti che lo traeva in salvo191. Nato VI idus [p. 138 modifica]decembris del 689, consoli L. Cotta e L. Torquato, a Venusia, colonia romana, era stato liberalmente educato da suo padre, un liberto riscotitore di gabelle, come dice egli, o, secondo Suetonio, salsamentario. Apprese i primi elementi da un tale Flavio, che insegnava ai figli de’ grandi centurioni di Venusia192. Poi dall’amorevole padre fu condotto a Roma, dove fu alla scuola di Orbilio Pupillo, che dettava, a suon di busse, l’Odissea di Livio Andronico. Dal medesimo però è verisimile che imparasse anche il greco; seppure questa non era sua lingua domestica. Sin dai primi anni in greco lesse il fonte d’ogni poesia, Omero; e si sentì tentato a scrivere in versi in quella lingua. Al che rinunziò vedendo la grande moltitudine di poeti tra cui si sarebbe trovato: segno che già aveva cultura larga e profonda193. Ma se ciò fosse prima della sua andata in Atene o durante la sua dimora colà, è incerto194. Ad Atene si recò verso il 709, a udirvi i [p. 139 modifica]filosofi. Mentre studiava quelle dottrine, cercando la pace dell’anima specialmente presso gli Epicurei, veniva in Atene nel mese sestile dell’anno 710 M. Bruto, cui il sangue di Cesare faceva mirabile a quei giovani adoratori di Catone; di Catone, che era morto leggendo un filosofo greco. Il giovane Orazio seguì Bruto in Macedonia, poi in Asia. Fu tribuno militare, cioè comandante, con altri cinque, d’una legione. In tale grado si trovò alle due giornate di Philippi, donde scampato e ottenuto, con gli altri, il perdono, tornò a Roma. Suo padre era morto; il suo patrimonio era sparito, per confisca.

Egli si trovò costretto a domandare un impiego, uno scriptum quaestorium; e così fu scriba. E intanto la paupertas, che sveglia le arti, come dice Theocrito, che è audax, come dice esso Orazio, lo spinse a far versi195. La quale espressione è bene uno scherzo del poeta giunto al fine della sua carriera e che riposa, come il fortis equos di Ennio; uno scherzo col quale egli accomuna la poesia a tutte le arti e mestieri; ma accenna pure anche al fatto che in vero da quella sua arte fu vinta quella povertà. Ora pensava Orazio a questo fine non ideale, sin d’allora, sin dai suoi primi versi? pensava che quei versi gli avrebbero procacciato, non dico danaro da’ librai, il che non pare verisimile potesse sperare, ma il rispetto e la protezione de’ potenti? Chi pensa il pregio in che erano tenute le lettere e in specie i versi dai Romani, chi ricorda che non si conta, si può dire, tra loro uomo di stato e guerriero che non fosse, più o meno, scrittore e poeta; non può dubi[p. 140 modifica]tare che l’eccellenza in un’arte, come questa, non avesse a essere considerata, da chi sperava raggiungerla, come fonte di onori e anche di ricchezza. E ciò senza bisogno d’asservirla al potere e d’avvilirla con l’adulazione e la menzogna. Orazio attese da principio a fare poesie belle e niente altro che belle; rinnovò la satira di Lucilio sperando di far riconoscere la sua superiorità su quel poeta tanto ammirato e lodato; mostrò gl’iambi veri di Archilocho al Lazio che non conosceva se non quelli alessandrini di Catullo. In ciò era tanta gloria che non sarebbe mancato chi fosse per togliere il poeta al suo scriptum quaestorium. Che egli non mirasse a conciliarsi l’affetto e l’ammirazione di questi più che di quelli, e specialmente di coloro, contro i quali aveva combattuto a Philippi, si comprende dal fatto che in una delle satire prime che scrisse, nella prima anzi, gli antichi sospettavano fosse morso Maecenate stesso, nella figura di Malthinus che passeggia mollemente con la tunica lunga e sciolta196, e che i suoi iambi sono diretti non contro una delle due parti contendenti, ma contro tutte e due, e mostrano che egli non augura a questa la vittoria su quella, ma dispera della patria straziata dagli uni e dagli altri. Che poi l’uomo, sorto a togliere dall’oscurità e dal bisogno il buon poeta, contasse sulla riconoscenza [p. 141 modifica]di lui, e il poeta gliela dimostrasse, può sembrare cosa cattiva e turpe solo a chi non fece mai il bene o mai non lo riconobbe fatto. In tanto Orazio, diradatasi ancora quella nuvola minacciosa di guerra civile, continuava nel suo disegno di dare a Roma una satira più perfetta della Luciliana e degl’iambi più regolari dei Catulliani. Egli aveva, in questi come in quella, il modello davanti; ma s’ispirava a sentimenti propri. Cantò, per esempio, il suo amore disprezzato da Neaera con tale accento di verità, che si trova nella poesia persino il suo nome e un cenno alla sua condizione. Eppure si può riconoscervi qualche traccia di Catullo197. Un’altra poesia ci rivela anche meglio la vita e i pensieri di Flacco, a quei tempi. Il cielo è contratto e buio, piove e nevica, il mare mugghia, sibila la selva. Gli amici hanno le rughe nella fronte, come vecchi. Orazio incoraggia loro e sé stesso, esortando ad obliare nel vino e a sperare in un dio198.

Deus haec fortasse... In queste parole è forse espressa una segreta speranza del giovane tornato dall’Oriente con le penne tarpate, che non ha più il suo podere, non ha più la sua casa, e vive tristamente d’un lavoro che non fa per lui. Prima del 715 egli si era stretto in amicizia con Vergilio. Questi conosciuto già per le sue nugae, che egli poi chiamò [p. 142 modifica]κατὰ λεπτόν, e per poemetti d’imitazione, in un triste caso della sua vita potè trovare favore presso Asinio Pollione e Cornelio Gallo, poeti anch’essi nel tempo stesso che uomini di stato e di guerra199; che lo conoscevano e lo fecero conoscere a Maecenate. Di Ottaviano era stato, se è vera notizia, condiscepolo200. A tutti il soave poeta Mantovano mostrò la sua gratitudine, sin da questi tempi, nelle ecloghe; e nella prima di esse sin da questi tempi egli diceva del giovane Cesare: erit ille mihi semper deus201. E Orazio sperò dunque anch’esso, confortato forse dalle parole del verecondo amico. Col quale doveva parlare spesso dell’arte comune, di cui però trattavano generi diversi, come voleva la diversa natura. Avevano del resto gusti uguali: nè all’uno nè all’altro piacevano i poeti che affettavano l’antico; e a questi non piacevano, essi, come è naturale. Vergilio aveva molti detrattori. Mevio, Bavio, Anser e anche un Cornifìcio Gallo. Orazio, molti più: Valerio Catone, Orbilio Pupillo, Bibaculo stesso, tutti i Luciliani e tutti i Catulliani. I poetastri che pungevano Vergilio erano di questi tali, che anche noi conosciamo di vista e di persona, che per una parola la quale non sembri loro coniata o usata bene, buttano il libro e dicono dello scrittore, che non sa «nemmeno» la lingua. Cornificio Gallo, per esempio e Bavio e Mevio con lui, davano per spacciato Vergilio perchè aveva detto ordea al plurale: Ordea qui dixit superest ut tritica dicat202. Di tali [p. 143 modifica]pedanteschi detrattori di Vergilio si sa che Mevio era sectator vocum antiquarum, che Anser era poeta d’Antonio e scriveva le sue lodi203. Che anche Mevio fosse poeta d’Antonio, che anche Anser andasse a caccia di parole antiquate, si fa verisimile quando si ricorda che Antonio nello scrivere appunto scavizzolava arcaismi nelle Origini di Catone, come Sallustio. Che Bavio avesse gli stessi gusti linguistici di Mevio è chiaro dal verso Vergiliano: Qui Bavium non odit, amet tua carmina, Mevi; che seguisse la stessa clientela politica, si fa probabile dal fatto che Bavio come Mevio non rimasero a lungo in Roma e si recarono in Oriente: come non ad Antonio?204 Or dunque contro Mevio e forse contro Bavio si esercitò l’arco di Orazio che minaccia questo, perchè molestava co’ suoi latrati di lontano gli ospiti innocui, e maledice quello, mentre s’imbarca per l’Oriente205. Così le freccie iambiche sono dirette a vere persone, con odio vero. Orazio si sente ispirato dal suo affetto per Vergilio e dal culto del medesimo ideale. Io gioisco di cogliere, sebbene da un’infinita distanza, una qualche parola tra i conversari dei due massimi poeti Romani. Non parlavano essi de’ loro disegni? non leggevano a vicenda i loro tentativi? non s’ispiravano l’uno dall’altro? Vergilio imitava da Theocrito la pharmaceutria: Orazio pensava anch’esso una scena di sortilegi, ma cittadinesca, tragica. Vergilio abbozzava parlando, o leggeva abbozzato l’idillio campestre del secondo [p. 144 modifica]libro delle Georgiche, e Orazio faceva anch’esso quasi in parodia, il suo bozzetto campagnolo, ma in persona di uno strozzino: un idillio comico.206 Con Vergilio il giocondo e fine Venosino conobbe gli altri poeti, Vario nato per l’epos, Fundanio, scrittore d’argute comedie, Pollione, autore di forti tragedie. Non andò molto, e Vergilio prima e poi Vario presentavano a Maecenate quello che compieva il numero: il Lucilio nuovo, il Catullo migliore. Orazio avanti il potente amico di Cesare, arrossì e balbettò, e dopo poche parole fu accommiatato. Dopo nove mesi, fu richiamato e ammesso tra gli amici. Poco prima o poco dopo, il poeta aveva dato prova della sua virtù Archilochea contro un villano rifatto, uno schiavo liberato, che la faceva da eques, un eques come nè più nè meno Maecenate il discendente di re Etruschi. «Quando un uomo simile è tribuno militare, a che armare navi contro i masnadieri e gli schiavi liberati di Sesto Pompeo?»207 Così egli dice; e noi possiamo notare che alla vigilia d’una nuova guerra civile non condanna più tutte e due le parti, poichè vede già la salute di Roma nella causa di Cesare. E in ciò mostra tanto poco di servilità, che per l’appunto egli inveisce, con quel carme, a quel che pare, contro un amico, o vecchio o nuovo, di Ottaviano. Orazio narrò poi, quasi otto anni dopo, i primi tempi della sua familiarità con Maecenate. «Per questo solo (cominciò a annoverarmi tra’ suoi) per aver chi prender su in raeda, viaggiando, e a cui confidare bagattelle di [p. 145 modifica]questa specie: Che ore sono? Gallina il Thrace può stare a fronte di Syro? Comincia a far freddo la mattina: bisogna riguardarsi»208. S’intende che ciò è detto con un sorriso; ma in fondo è vero, ed è ragionevole che così fosse, sul bel principio. Di queste giterelle in raeda pare essere un ricordo anche negli iambi. Videro essi in qualche aia, imaginiamo, dei contadini mangiare un moretum: il moretum che Vergilio giovanetto aveva cantato. Maecenate se ne invogliò e ne mangiarono anch’essi. L’aglio che vi entrava in gran copia, fece male a Orazio e lasciò un non grato odore in bocca a tutti e due. Donde uno scherzo iambico209, che dovè ricordare a Maecenate col suo finto pathos, la maniera dell’amato Catullo, quando egli ebbe letto, per esempio, l’anthologia di Sulla il litterator. Ma Orazio si occupava più delle Sature o Sermones, dei quali offriva al protettore il primo libro nel 719, due anni dopo il dilettoso viaggio a Brindisi con lui e Vergilio e Vario. Maecenate, che preferiva forse gl’iambi, gli domandava spesso notizie del libretto, cominciato tanto tempo prima, ancora prima che lo conoscesse. E Orazio rispondeva: Non me la sento più; sono innamorato e più che i versi d’Archilocho mi si convengono quelli di Anacreonte210. Tuttavia in iambi cantò il presagio della vittoria di Cesare su Antonio, nei primi mesi del 723; quando tutti i Romani erano in grandi ansie, sapendo le minaccie di Cleopatra e ricordando la [p. 146 modifica]virtù guerriera di Antonio211. In tanto Cesare che si era imbarcato per sorprendere Antonio, respinto da una burrasca, era tornato a Brindisi, e ivi aveva convocati tutti i senatori e cavalieri che potevano. Tra questi era Maecenate, che peraltro fu rimandato a governare la repubblica. Orazio, nel pensiero che il protettore e amico sarebbe forse andato alla guerra, gli diresse una poesia, così piena di tenerezza e di gratitudine, che sebbene, forse, l'ultima composta in iambi, pose prima nel libro come dedica212.

IX.

Era innamorato, e il poeta voleva i metri leggieri di Anacreonte; si aveva speranza di vittorie e banchetti trionfali, e il poeta preparava la lira e le tibie. Aveva nel campo della vera iambica Archilochea posto il piede in terreno non segnato da orme; voleva far lo stesso nel campo della melica Lesbia. Peraltro è da notarsi che prima che ai melici Lesbiaci, egli pensò ad Anacreonte. Ciò è forse per gli hemiambi Anacreontei, per i quali dalla poesia l’aria è facile il passaggio alla poesia Teia? Non vorrei affermarlo213. Ma, a ogni modo, in Anacreonte non si fermò. E certo delle sue prime odi quella a Chloe214, come si vede da negligenze me[p. 147 modifica]triche. Ora essa è per il soggetto, certa imitazione di Anacreonte; per il metro, non forse215, sebbene abbia un ferecrateo e un gliconeo per terzo e quarto verso d’ogni strofa. Presto egli dunque lasciò le lievi melodie del poeta, che era ionico come Archilocho, per ricorrere alla fonte donde erano anch’esse sgorgate. Ma prima nei metri stessi, usati già epodicamente, si provò di gettare pensieri e sentimenti più propri della poesia melica, facendo soltanto quaternarie le strofe. Una di esse poesie216 svolge questo pensiero: Come non sempre si vede nuvolo nel cielo, così non sempre si deve avere la tristezza nell’anima: il vino fa obliare ogni dolore. Così il [XIII] epodon, presso a poco. E questo epodo e quell’ode concludono con un esempio eroico, l’uno del Centauro che ammonisce Achille, l’altra di Teucro che incuora i compagni. La differenza è nel principio; poichè l’ode esordisce con uno di quei proemi pindarici, che a bella prima non si comprende dove abbiano a parare. Poi, è tetrastica. Un’altra ode, dello stesso metro, ha analogia coi [V] e [II] Epodon, perchè contiene un dramma e perchè si apre col discorso di persona che non è il poeta. Ma mentre dei due carmi epodici, il primo ha il grottesco vicino al tragico, il secondo il burlesco presso l’idillico; l’ode ha, con un’ombra d’ironia, una serietà e severità solenne e pietosa217. Alla prima di queste odi, e perciò al [XIII] EEpodon, rassomiglia l’ode quarta del primo libro, da me omessa218. Ora questa è ad[p. 148 modifica]dirittura Archilochea per il metro, sebbene tetrastico. I versi impari sono composti d’un tetrametro dattilico seguito da una tripodia trochaica; i versi pari d’un trimetro iambico catalettico; il quale ha sempre la cesura dopo la terza arsi, onde ciò che resta, forma una tripodia trochaica. Con una tripodia trochaica si conclude dunque e il verso pari e Pimpari; e la prima parte in questo è dattilica, in quello iambica, con ritmo lì discendente, qui ascendente. Grande analogia con questo metro ha quello d’un’altra ode219, che ha pur somiglianza d’argomento, contenendo tutte e due il pensiero della morte. I versi pari ha questa uguali a quella e tagliati dalla medesima cesura. I versi impari sono in questa un semplice dimetro trochaico catalettico, di ritmo quindi discendente, ma terminante in arsi: di che forse la prevalenza dello spondeo nella prima sede dei versi pari dell’una, e dell’iambo nella medesima di quelli della seconda220. Il modello di quest’ultima era però in Alcaeo, come afferma Caesio e come conferma il frammento 95 Bergk che è appunto un dimetro trocaico catalettico. Altra ode, quella di Lydia e Sybari, è condotta con artifizio simile: ed è curioso osservare che è unica nel suo * metro, come le precedenti, aggiungendovi degli epodi oltre il [XIII], anche l’[XI]. L’ode accennata221 ha la seconda metà d’ogni verso pari costituita da un emistichio in tutto simile e uguale al [p. 149 modifica]verso impari. Erano insomma studi metrici questi, ed è molto simile al vero che fossero fatti già prima di rinunziare alla poesia iambica: tanto più che hanno, per la contenenza, un carattere così generico e sbiadito che sembrano esercitazioni con appena appena un’ombra di realtà. Il poeta provava il nuovo strumento. E a me sorride il pensare che il primo suo canto veramente e francamente melico sia il propemptico a Vergilio, al dolce amico, suggerito forse più che dal disegno non colorito d’un viaggio di Vergilio, dal fatto avvenuto del viaggio di Mevio222. Di ciò potrebbe persuadere la sproporzione delle parti, il tumore dello stile, l’oscurità del tutto, difetti che vi si trovano al certo, se indussero il Peerlkamp a considerare l’ode per gran parte fattura d’altri che Orazio223. Ma sia d’Orazio, tutta; è delle prime però. Come è delle prime, quando la via non era ancora piana e il passo sicuro, la profezia di Nereo a Paride, che sarebbe al tutto un’esercitazione più retorica che poetica, se non avesse, qua e là, cenni allegorici aA’Antonio e Cleopatra224. Così è allegoria, e non ben condotta, l’apostrofe [p. 150 modifica]alla nave225, e di allegoria è sentore nell’appello, tutto interrogazioni, a Lydia, che con l’amor suo corrompe un uomo che era famoso per la sua fortezza226. Il poeta studia ancora, nell’anno che Antonio (il Paris, il Sybaris) e Cleopatra (la Helene, la Lydia) minacciano il Capitolium. Egli sfoglia il grande poeta stasiotico, Alcaeo, il cantore delle battaglie e delle fughe di tiranni; e si fa la mano su metri di lui meno caratteristici, come quello dell’ode [II-XVIII] già ricordata, e un altro, adoperato anch’esso una volta sola, a esprimere il lamento d’una fanciulla innamorata a cui è conteso e l’amore e l’oblio227. La fanciulla, Neobule, ha dimenticato le tele e il fuso, come Sybaris le armi e i cavalli; ed è innamorata d’un giovane, quale Sybaris era prima che lo amasse Lydia. Il metro è ionico a minori, come è anche così spesso in Anacreonte; ma Orazio non pensa più al molle poeta di Teos. Nell’anno, in cui di nuovo è in gioco Roma e la sua fortuna, egli è tutto rivolto al poeta Mytileneo di cui la grande casa sfavilla di bronzo228.

Presta dunque, o poeta che cantasti la morte di Myrsilo, il tuo barbiton al poeta romano: νῦν χρή... Fu decretata la supplicatio che precede il trionfo; nei templi tutti, avanti gli dei, protettori dell’impero, è fatto il lectisternium. Gli dei banchettano, banchettino anche gli uomini; la città è in festa, sia in festa ogni casa. Nella primavera del 723, quando la speranza combatteva ancora col timore,´ [p. 151 modifica]Orazio aveva domandato: Quando berremo il Caecubo del trionfo? Nell’autunno dell’anno medesimo, si combatteva la battaglia di Actium. La vittoria di Cesare era grande, ma rimanevano in vita sì Antonio, che poteva serbare qualche sorpresa, e sì Cleopatra, che poteva ammaliare il nuovo come aveva sedotto il vecchio Cesare, o sfuggirgli. Finchè quella donna era viva e regina, i Romani non potevano darsi alla gioia. Ma nell’autunno del 724, un anno dopo la vittoria Actiaca, giungeva la notizia, portata dal figlio di Cicerone, che la donna che parve fatale, era morta: morta in modo misterioso che non si seppe bene allora nè poi. Le menti si fermarono all’aspide velenoso. Il poeta trova, in tale momento, in Alcaeo il metro e la mossa del suo canto di gioia229. La mossa e non più: che cosa poteva esserci di simile tra il tirannello Myrsilo e il fatale monstrum che minacciava il Capitolium? Le imitazioni Romane non ci compensano certo della perdita che abbiamo fatto dei modelli greci; Orazio non ci fa dimenticare Archilocho e Alcaeo: tuttavia noi possiamo essere sicuri che in Archilocho, che guida con suo padre la colonia a Thaso, in Alcaeo, che gioisce della morte di Myrsilo, non avremmo trovato l’accento sublime del vate Romano che invita i cittadini a lasciar Roma e cercare le isole lontane, o a bere il Caecubo per la morte della donna che non volle essere «trionfata». Il metro è sì il metro d’Alcaeo, fatto latino, sebbene non ancora del tutto. Orazio tralascia una volta, al v. 14, la dieresi che, a differenza del Lesbio, egli s’im[p. 152 modifica]pose: s’impose, a che, se non a rendere più sensibile a orecchie latine il metro greco? Così egli adatta alla sua lira Romana la più forte delle strofe Lesbie, quella che userà più e meglio. Di simile ispirazione, dello stesso metro, d’un uguale numero di versi (è caso?), è un canto bacchico230. Il poeta ha veduto tra erme rupi e boschi il dio che ammansa le fiere più selvaggie, persino il Cane della Morte, ed empie di forza portentosa le Maenadi. Ha ancora nell’orecchio le grida del tiaso, euhoe, ha ancora avanti gli occhi il dio terribile, eppure non armato che di tirso. È il dio che rende innocui i serpenti, il dio che pugnò contro i Giganti, che in pace e in guerra mostra ugualmente il suo potere. La theophaneia è per il poeta come una consacrazione: egli si sente ora capace di cantare di tutti i soggetti più misteriosi e grandiosi. Nell’ode che fu da lui preposta alle altre come proemio e che contiene il proposito e l’idealità del poeta; ode che non è necessario supporre composta l’ultima; afferma che la corona di edera lo pone tra gli dei, che le danze delle Ninfe e dei Satiri lo tengono lontano dal volgo231. Or qui egli si trova tra Satiri e Ninfe e ode i carmi dell’Ederigero. In tanto Orazio riabbracciava un compagno d’armi. Dopo dodici anni così pieni d’avvenimenti e mutamenti, rivide Pompeo Varo, il primo de’ suoi sodales, con cui si trovò a tanti pericoli e a tanti banchetti, per la Macedonia, l’Asia, la Thracia. Era un’alternativa di morte e vita, bella ora a ripensarla; che fu con[p. 153 modifica]clusa da una mischia terribile, da un giorno oscuro di fuga e strage, nel quale si persero di vista232. Ora si ritrovano e si ripete uno di quei giocondi convivii di dodici anni prima. Forse a un altro reduce è diretta l’ode Musis amicus233: ma il reduce è non più che un giovinetto. L. Aelio Lamia aveva probabilmente seguito Cesare in Egitto; ora, di ritorno, è salutato e festeggiato da Orazio che si fa bello, come nelle due odi precedenti, della sua consecrazione di poeta lirico. Sub lauru mea riposa: dice a Pompeo; o dolce Musa nuova, fa una ghirlanda di fiori sbocciati al sole per il mio Lamia: esclama in questa. Orazio, perchè amato dalle Muse, non ha più alcun timore. Le nuvole, che il giovinetto reduce afferma esserci ancora in Oriente, per i tumulti dei Parthi e per i movimenti dei Daci, Orazio le dissipa al vento. Egli ha la lira nuova, il plettro Lesbio. Il che si riferisce, come in genere a tutta la poesia lirica, così in ispecie alla strofa alcaica, nuova conquista d’un momento di tripudio alla notizia che le guerre civili erano finite per sempre.

All’annunzio della morte di Cleopatra, la strofa di Alcaeo; al ritorno del vincitore, quella di Sappho. In Alcaeo, che Orazio preferiva, egli vedeva la strofa così detta Sapphica, adoperata specialmente, se non esclusivamente, negl’inni234. In verità è di un ritmo proprio della contemplazione, sia il poeta avanti la divinità possente, sia in presenza della propria anima turbata. La placida ondulazione del dattilo tra le due dipodie trocaiche, culla, in certo [p. 154 modifica]modo, il sentimento religioso e amoroso, finchè nell’adonio, a un tratto, si leva, continuando senza mutamento, à un’esclamazione o a un lamento. Nell’alcaica invece l’anacrusi dà un soffio o spinta iambica ai trochei, anapestica ai dattili; e quando il ritmo al terzo verso sembra appaciarsi nella doppia dipodia, guizzano i due dattili e prorompe il doppio adonio del quarto. Con lo stesso translato che fece chiamare femminile la cesura dopo tesi e maschile quella dopo arsi, noi per la conclusione sempre acataletta degli endecasillabi sapphici e sempre catalettica degli Alcaici, potremmo chiamare maschile la strofa di Alcaeo, e femminile quella di Sappho: pensiero questo a cui forse ubbidirono gli antichi grammatici ponendo tali nomi a quei metri. Perchè in tutti e due i poeti è questa e quella strofa; e non si può affermare in alcun modo, non ostante che Alcaeo sia detto un poco più vecchio di Sappho, chi de’ due sia l’inventore dell’una o dell’altra. Forse vi era tra i due qualche differenza nel trattarle forse, per es., Alcaeo nelle due sedi prime degli endecasillabi sapphici, poneva sempre l’epitrito, mentre Sappho spesso il ditrocheo. Nel fatto, Catullo che si modellava su Sappho, ha qualche volta i due trochei, Orazio che emulava Alcaeo, ha sempre trocheo e spondeo. Ma più che certi atteggiamenti, egli prese dal Lesbio gli spiriti e il senso del metro235. Cesare ritorna per trionfare. È il 725: sono corsi quindici anni dall’uccisione, che gettò di nuovo il mondo nella tempesta. Se nella strofa alcaica il poeta espresse il fremito di gioia che lo [p. 155 modifica]scosse nell’apprendere la vittoria, ora esprime nella sapphica il sentimento di riconoscenza alla divinità, sentimento che si fa profondo e quasi triste nell’ora della gioia presente per il pensiero del dolore passato. Il poeta, dopo avere ripercorsi i prodigi che alla morte di Cesare parvero mostrare la fine d’un’età, si trova così presente all’affanno che ha evocato, che non dice «chi doveva» ma «chi deve invocare il popolo, quali preghiere devono formulare le vergini inviolabili?» Le preghiere furono trovate, il dio vendicatore scese in terra. Ma non è egli nè la molle divinità dell’amore nè la feroce deità della guerra; è il dio alato, il dio compagnevole, il dio che uccise Argos e che trovò la lira. Egli vendicò Cesare, fa tornare con la pace la prosperità e vorrà punire i Parthi a cui pensava quel grande quando fu ucciso. È Mercurio, è Cesare Ottaviano236. Ma l’inno non si chiude lietamente, poichè vi è espresso il timore che il dio non si levi sulle ali sue, lasciando i Romani ai loro vizi e i Parthi senza vendetta. In verità, la colpa fu troppo grande. Siffatto dubbio domina nell’ode ad Asinio Pollione, che in questo anno 725 attendeva alla storia dello sconvolgimento civile finito l’anno prima. Finito veramente? le faville, dice il poeta, covano sotto la cenere, il sangue civile è ancora sulle nostre armi. E ripensa le battaglie e le stragi, per mare e per terra, in tutte le parti del mondo. A un certo punto, tutto pareva domato: restava contumace un’anima, Catone. E dire che questa orribile guerra cominciò dopo l’ultima grande sconfitta delle [p. 156 modifica]armi Romane da parte d’un altro popolo! E i Romani, piuttosto che vendicarsi o difendersi, si uccidevano tra loro! placavano anzi col loro sangue le ombre dei nemici già trionfati in altri tempi! Quanto sangue, quanto sangue! Il poeta ammonisce sè stesso a cercare altri canti, invece di queste nenie funebri237. Anche dall’inno trionfale, dopo simili lotte, è inseparabile la tristezza. I vincitori vogliono che il poeta narri le loro gesta, ma egli non può. È colpa dell’arte non pari a quel soggetto eroico, o dell’anima negata a quelle compiacenze crudeli? Si meriterebbe l’accusa di giudicare cose antiche con senso moderno chi asseverasse che era l’anima che non si prestava alla gioia funebre della vittoria civile. Eppure l’interruzione al fine della detta ode ha molto significato. A ogni modo, Orazio stesso diceva che era colpa dell’arte. Crediamogli. «O Agrippa, Un altro cantore ti occorre per le tue gesta eroiche: Vario, il poeta epico. Io canto non battaglie, ma conviti, o battaglie sì ma di fanciulle»238 «O Maecenate, narra tu in prosa le battaglie di Cesare; io non so dire che di Eicymnia, che canta così dolce e danza così snella»239.

X.

Convivii e amori! la melica torna donde mosse. In Alcaeo più che delle poesie politiche (troppo diversi gli uomini, le città, i tempi) trovava delle [p. 157 modifica]simpotiche ed erotiche il modello. E qual modello insuperabile! È un guerriero, è un marino che banchetta e ama: egli combatteva forse la mattina del giorno nella cui sera domandava amore, e mentre si faceva versare in fretta il vino e diceva lo scolio, i suoi uomini si apparecchiavano a sciogliere gli ormeggi della nave. Quindi intenso era il sentimento e pittoresca, rapida, calda l’espressione. Orazio, la cui vita, del resto, in qualche parte rassomigliava a quella d’Alcaeo, certo non doveva essere pari al suo autore; ma per noi è pure ammirevole più in queste che nelle altre odi. Già egli nelle conviviali pone sovente tratti e accenti personali e Romani, sì che la sua non è un’imitazione pedestre. Non copia egli, ma s’ispira, nè solo ad Alcaeo, sì anche ad altri, ad Anacreonte specialmente. E sempre? tutte proprio queste odi sono fatte di pietre scavate a Lesbo e, aggiungo, a Teo? I nomi sono sempre o quasi sempre greci, è vero; ciò era richiesto dal gusto dominante; ma in alcune è tanta vivacità e tanta spontaneità, che mal possiamo indurci a crederle non originali. Ma a che tali ricerche? contentiamoci di assistere a questi convivii d’un tempo, ora chiassosi, ora tristi, in cui dalla rissa si conchiude alla gioia, e dalla oscurità della stagione si prende ispirazione all’amore. Leuconoe, fanciulla meditabonda, non pensiamo alla morte, beviamo!

Non cercare così chè non si può quale a me, quale a te
sorte, o Candida, sia data da Dio: lascia di leggere
quelle cifre Caldee. Prenditi su quel che vien viene, e via!
O che abbiamo più verni anche, oppur sia l’ultimo questo, che
ora il mare Tirreno urta ed infrange alle scogliere, tu

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spoglia il vino nel filtro, e, s’è così breve la nostra via,
lunga non la voler tu la speranza. Ecco, parliamo e un po’
questa vita fuggì. L’oggi lo sai: non il domani, oh! no.

Postumo Postumo, beviamo, si deve morire! I monti sono bianchi di neve, le selve scricchiolano: si ponga legna sul focolare. Il vino toglie ogni affanno, se usato moderatamente; porta ogni guaio, se smodatamente bevuto240. E sono le donne d’Orazio tutte greche come dice il nome? tutte etère? Vi è bensì Pyrrha mutabile come il mare; guai a chi fida in quella bonaccia! Ma vi è la giovinetta che trema come la foglia da cui ha il nome. Vi è Barine, cui la perfidia dà bellezza e il tradimento aggiunge adoratori. Ma vi è Asterie, che piange, che ha il marito lontano, che ha un insidioso vicino; vi è Lyce che lascia piangere sulla soglia vietata ramatore. Il capolavoro è il dialogo di Lydia e di Orazio. Acme e Septimio parlano certo con parole e frasi più native e giulive. Ma se noi diciamo leggendo Catullo «come è vero», avanti Orazio esclamiamo «come è profondo». Là è la verità aperta a tutti, qua la verità scoperta dal poeta, È così: il poeta non deve sempre e soltanto ritrarre, deve rivelare, deve far sì che il lettore, dopo aver riconosciuta la verità della cosa rappresentata, abbia a soggiungere che era così facile a vedersi ma che egli non la vedeva. L’ode accennata, nona del libro [p. 159 modifica]terzo, non poteva essere imaginata e condotta se non da un profondo conoscitore di anime. Comincia l’uomo col rimpiangere la sua felicità passata: un rimprovero e una lode a lei indirettamente, non altro. Parla in fatti di un preferito, potior, parla del collo di Lydia che era così bianco! Il rimprovero è rintuzzato fieramente: Lydia può dire anche il nome della rivale, Chloe. E resa è la lode, indirettamente: l’uomo ha lodato della donna la bellezza, la donna loda dell’uomo la fama e la gloria. E il rimpianto della felicità passata è anche in lei. Dunque? non sono essi d’amore e d’accordo? No: sarebbe semplice, ma non vero. L’uomo sente il bisogno e di scusarsi e di accusarsi, di confermare che la colpa è di lei e di affermare che ne è venuto il piacer suo. La conferma è in una paroletta, nunc: ora sì, non allora. Ma non importa: esso è tanto felice! E felicissima è la donna: dice il nome dell’amato, due volte morrebbe per lui. Solo ora la riconciliazione è matura, poichè l’uno e l’altra ha cresciuto pregio all’amor suo desiato e goduto da altri. Ma tali poesie non sono, si può dire, personali. C’è tutto al più l’anima e il pensiero del poeta, come quella e quello dell’autore drammatico nelle parlate dei personaggi del dramma. Che però, in quella, l’amatore di Lydia sia Orazio, si può sospettare dal fuggevole accenno Multi Lydia nominis241: delle altre si deve negare che abbiano per soggetto un amore vero di lui. Raccogliendo e ordinando questi sparsi poemetti erotici e conviviali, si avrebbe non la storia dell’anima e degli amori di [p. 160 modifica]Flacco, ma, ciò che a me pare meglio, la pittura più colorita e geniale della vita giovanile nel mondo greco-romano. E si vedrebbe (non è questo il luogo dove dimostrarlo a parte a parte) che Orazio intese, molto obiettivamente, a fare questa pittura più compiuta che si potesse, vincendo di molto Luciano e i suoi Dialoghi. In Orazio è la donna di tutte le età, da Chloe a Lyce, di tutte le condizioni, da Lyce a Barine, dell’indole più diversa, Asterie e Pyrrha. Orazio ha voluto figurare come tutte le specie di donne, così tutti i momenti dell’amore: il principio, la gelosia, il rammarico, la riconciliazione, l’addio. Parla ora uno che vuol persuadere con racconti lugubri, ora uno che implora con pianto amaro, e persino chi consiglia e chi ammonisce. Se ne potrebbe fare uno svariato romanzo di costumi: se ne potrebbe dipingere un quadro pieno di vita gioconda, in cui di figure maschili non avrebbe a esservi la sola del buon Venusino. Sì! se fosse nostrum dilatus in aevum, ne sorriderebbe egli per primo. La sua anzi, forse, non avrebbe a esservi affatt. Al pittore (mi si passi questa fantasia) vorrei raccomandare che ponesse nel bel mezzo e bene in luce quel grazioso e snello bronzo Praxiteleo, che è il Nearcho dell’ode vigesima del libro terzo; il Nearcho che ha il ramo di palma sotto il piede nudo e lascia tremolare a un poco di vento i capelli profumati e sparsi sugli omeri.

XI.

Nel principio del 727 Cesare Ottaviano ebbe il nome di Augustus. Munatio Planco aveva proposto questo appellativo religioso, invece d’un altro nome, [p. 161 modifica]che poteva suscitare odî e sospetti, Romulus. Ma in vero Cesare meritava di essere agguagliato al fondatore di Roma, egli che la aveva tratta da una morte parsa sicura. Un’idea che serpeggiò sino a che divenne fatto, da Cesare arrivando a Costantino, errava nel mondo antico: che Roma non potesse continuare a essere la sede dell’impero. Si sapeva o diceva che Iulio Cesare aveva manifestato il proposito di trasferirla ad Alessandria o ad Ilio; si era veduto o creduto che Antonio, che presso molti passava per il vero continuatore di Cesare, minacciasse la stessa diminuzione all’Urbe. Le ragioni che tre secoli dopo parvero buone a Costantino, non erano cattive nemmeno ora, e di Ottaviano si poteva dubitare, sospettare, temere, che le trovasse ottime. Quando fu noto e aperto il consiglio suo di rimanere in Roma, il che fu probabilmente significato dall’ordine di ricostruire i templi arsi o rovinati, Augustus egli divenne per il popolo, e il poeta inneggiò a lui come a dio. L’opera non era compiuta: ai confini rumoreggiavano popoli non domi o mal domi; ma il domarli non sembrava più se non questione di tempo, ora che l’impero aveva riacquistato la sua unità e la sua forza. Le discordie civili erano finite, bastava ora regolare le nozze, rinvigorire l’educazione, emendare i costumi e riafforzare il carattere dei cittadini. Il rimedio disperato di riportare in Oriente i penati di Troia, era messo da parte, e il Capitolio si vedeva raggiare col fastigio d’oro in mezzo al mondo pacificato. Queste idee e sentimenti esprime Orazio con una specie di poema gnomico ed eroico nel tempo stesso, originalissimo, che ha i liberi trapassi e gli episodi dell’alta lirica; del[p. 162 modifica]l’alta lirica i suoi luoghi, direi quasi, d’ombra di silenzio di mistero, in cui l’uditore rapito medita e contempla. Il poeta preannunziò questo canto sublime con un ditirambo (l’ode vigesima quinta del libro III) che ad altri parve stare a sè, e dire le lodi di Cesare il grande, egregii Caesaris, nelle parole stesse con le quali le promette. Ma a me pare che di tale artifizio il poeta non avrebbe menato vanto così altamente, nè solo con le parole insigne recens adhuc Indictum ore alio, che da alcuni si riferiscono al fatto cantato più che al canto stesso, ma col simbolico suo smarrirsi in paesi selvaggi non segnati da orme. Il che si conviene mirabilmente ai carmina non prius Audita, i quali come hierodoulos delle muse canta alla nuova generazione quegli che vates nella sua giovinezza fu testimone della rovina imminente della patria e consigliere dell’abbandono di essa per plaghe felici e pie. Ora egli dice: la Necessità della morte preme su tutti. La Virtù sola ce ne libera. Per questa Cesare è consacrato al cielo, come fu già Quirino. Il quale fu fatto dio ma a un patto: che non si trasferisse l’impero in Oriente. E il nuovo Augusto questo patto ha attenuto. Egli vinse le sedizioni interne; vincerà i nemici esterni, che già ha atterrito, che già sono vinti, perchè è per tornare in fiore il costume e la disciplina dei maggiori242. In altre poesie egli insiste sull’argomento della corruzione, dell’avidità, del lusso. Nessuno creda che il poeta non sia sincero in quelle invettive e moniti e consigli! La ridente e serena pittura della mediocrità campestre e [p. 163 modifica]frugale è la nota comune dei primi poeti Augustei, Vergilio, Orazio, Tibullo. Vogliamo credere a una parola d’ordine data loro da Maecenate o da Augusto? E come anche a Tibullo? No: era un sentimento comune, un grande desiderio di pace che prendeva quelle sante anime piene del timore d’uno sfacelo, veduto imminente, poi allontanato bensì ma ancora in vista. Orazio più di tutti ebbe il presentimento del futuro, egli che vates giovane sentì già nella Roma fatta deserto il calpestìo di cavalli barbarici, e maturo poi pensò ai popoli forti casti poveri, come gli Scythi e i Geti, in confronto ai Quiriti degenerati. Orazio fu, in questo presentimento, il precursore di Tacito.

Le odi, che abbiamo detto, simposiache e amorose, sopo dunque parti di dialoghi (una è dialogo vero e proprio); sono piccoli mimi in cui per lo più ignoriamo il nome dell’interlocutore di cui sentiamo le parole. I carmi «non prima uditi» sono sì in persona di Orazio, ma di Orazio invasato dalla divinità, d’un sacerdote delle Muse, cui la infanzia miracolosa predestinava e consacrava. L’anima di Orazio è in quelle come riflessa, in questi quasi transfigurata. Meglio noi possiamo coglierla in altre poesie, nelle quali troviamo la conosciuta sorridente faccia dell’autore dei sermoni e delle epistole. Sono le odi ispirate dalla campagna, dalla religione, dall’amicizia. Sin dall’anno 723 Orazio aveva avuto da Maecenate in dono la villa Sabina, con un bel fondo coltivato, a quel che pare, da cinque famiglie di mezzaioli, più otto opere. Sappiamo quanto Orazio se ne compiacesse, con quanta sollecitudine cogliesse ogni occasione per andare a respirare l’aria [p. 164 modifica]montanina impregnata dell’odor del timo. Vi era stato anche, per esempio, nel tempo che componeva il suo poema lirico sull’Augusto, e in quella campagna aveva ripensato la sua fanciullezza, i paeselli Lucani posti sulle roccie come nidi, il Vulture pieno di selve, e le selve piene di paurosi serpenti e orsi. Orazio era fedele alle sue memorie. Aveva nell’orecchio, si può dire, il mormorio d’una fonte che lo aveva dissetato e addormentato nelle sue gite di ragazzo ardito; della fonte Bandusia vicino alla sua Venosa; ed egli ingannò il suo desiderio ponendo il nome di Bandusia alla sorgente vicina alla villa Sabina, la qual sorgente poi diventava ruscello, scendendo alla valle di Ustica. Sgorgava essa all’ombra dei lecci, e i bovi sazi d’arare e gli armenti e i greggi erranti vi trovavano acqua e rezzo, e il poeta sentiva in quel gorgoglìo parole sommesse. Era Bandusia, la ninfa lucana che gli parlava di suo padre, della sua nutrice, della sua patria. Un pino, sacro a Diana, nereggia accanto alla villa; echeggia nella valle lo zufolo del vento primaverile; passa tra gli albatrelli densi un, branco scalpicciante che si rivela al grave e improvviso odore. Viene l’inverno, sono le None decembri. I contadini banchettano sull’erba, i bovi hatino scianto anch’essi, e il vento porta per tutto l’odore buono dei sacrifizi e il suono di canzoni e di ballonzoli. Cadono le foglie.... è la selva che festeggia a suo modo il dio che passa invisibile facendo sentire una melodia di zampogna tra il fogliame già rado degli alberi: Fauno.

Fauno ch’ami le fuggitive ninfe,
dal mio regno, dai solatii miei campi

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tu senz’ira, senza guastarmi i redi
                         piccoli, passa;
se un capretto nato nell’anno uccido,
se il boccale empisco per te del vino
ch’è compagno a Venere, e l’ara antica
                         fuma d’incenso.
Tutto il branco è là nella piana e ruzza,
per la festa tua decembrina, e torno
torno ha scioperio con gli sfaccendati
                         bovi il villaggio.
Erra tra gli agnelli sicuri il lupo; ed
ogni selva sparge per te le foglie e,
con un odio allegro, il villan la terra
                         picchia in tre tempi.

Conobbe il poeta tra quelle ridde o vide alla fonte la contadinella Phidyle, tutta economia e religione? «Non importa», egli le dice, «pensare a vittime, che sono fatte per i ricchi: una ghirlanda di rosmarino e mortella, un poco di mola salsa, che scoppietta nel focolare, una preghiera al nascere della luna e la tua fede innocente, basteranno a disperdere, o Phidyle, o piccola massaia, le tue piccole disgrazie». La pietà e la bontà è tutto: non fu per essa salvo il poeta da un grosso lupo che incontrò errando per i monti? E un’altra volta corse pericolo d’essere schiacciato da un albero. Quell’albero era stato piantato in un giorno in cui la religione vietava il lavoro, dalla mano d’un malvagio: onde la pena doveva ricadérne sui nepoti, se non sul poeta innocente. Il quale, ogni anno, nel dì anniversario del pericolo mortale, ossia nel Calendimarzo festeggiava la sua salvazione con un sacro banchetto243. Profondo in Orazio è il sentimento [p. 166 modifica]religioso, per quanto l’espressione ne scolorisca e vanisca nei molti e vari nomi e simboli del politeismo. Ma chi migliorò Omero nella rappresentazione del Dio Cuncta supercilio moventis, aveva della divinità un concetto molto vicino a quello de’ monoteisti. Un baleno, un tuono, di cui trema l’universo; e la navicella che erra, rifà la sua rotta. Il poeta, che da Epicuro ha appreso gli dei securum agere aevum, sente però la forza d’un ignoto potere che abbatte e innalza senza rivelarsi agli uomini. Gl’inni alle divinità greche sono meno sentiti; pure è soave di pietà la preghiera ad Apollo, a cui con Pindaro non chiede oro e terre, ma la salute, la limpidezza della mente e della coscienza, una vecchiaia serena.e consolata dalla poesia.

Che mai nel nuovo tempio il poeta al dio
domanda, mentre versa il vin nuovo dal-
     la tazza, e prega? Non le messi
          fertili della Sardegna opima,
e non le ricche mandre dell’arsa mia
Calabria, non l’oro Indo e l’avorio, non
     i campi cui con placid’acqua il
          tacito fiume del Tiri rode.
A cui le diè la sorte, si poti le
Galene viti; il ricco mercante in suoi
     bicchieri d’oro beva il vino
          ch’egli cambiò con le droghe Syre;
persino al Cielo caro, ch’ogni anno ei va
più volte incolume a rivedere il mar
     d’Atlante. Io ceno con le olive,
          mangio radicchio e leggiere malve.
O della Notte figlio, a me dà godere
il poco bene mio, con le forze mie,
     con tutta, prego, la mia mente,
          vecchio, ma sano; e poeta sempre!

[p. 167 modifica]È animato nel fine dall’amor di patria l’inno a Diana e ad Apollo. Latina invece quasi tutta e perciò più severa e grandiosa l’ode alla Fortuna, che si chiude con l’augurio del vate ai guerrieri di Roma che vanno a compiere il programma del divo Iulio244.

Nè gli amici ebbero da Orazio i peggiori de϶ suoi canti. Sia che finga di dirigere loro alate parole nel convivio, sia che mandi il suo dono poetico invece d’un vaso corinthio o di una patera cesellata, noi ammiriamo non solo l’artista, ma l’uomo; l’uomo che mostra ora un buon sorriso, ora una lagrima di compianto, ora festeggia, ora consola. Iccio parte per l’Oriente alla guerra; e il poeta lo saluta, tutto meravigliato di vedere un filosofo mutare i libri in armi, desideroso di ricchezze e di piaceri. Numida torna dall’Occidente, e il poeta lo festeggia con un banchetto pieno di letizia nel quale, tra il fumo degli incensi e il tintinno delle cetre, mostra al reduce ciò che egli ritrova di più dolce nella patria, gli amici e l’amata. Murena è fatto augure: non manca l’ode, nella quale circonda il nuovo augure delle persone che più ama, unite in ilare convivio; e tra queste è forse Maecenate, il marito di Terentia di lui sorella, co’ suoi dotti discorsi, ai quali si oppone il vocìo dei propinanti e lo squillo delle tibie e delle pive e delle lire245. La cornacchia chiama acqua: domani sarà burrasca, e il bosco sarà pieno di foglie cadute e il lido tutto nero d’alghe. O nobile Lamia, prepara per domani un buon fuoco e una bella cena! Il [p. 168 modifica]vino della Sabina non è generoso, tu lo sai, o Maecenate, ma fu messo nell’anfora nel giorno d’una tua gioia!246. A questi simposii amichevoli, cui già cantò e iambicamente e melicamente, dopo Philippi e dopo Actium, la canzone all’anfora è come il preludio. Vi è dentro il vino fatto nel suo anno natalizio, per il qual vino mostra una predilezione quasi superstiziosa. È dentro l’anfora il lamento e lo scherzo, la rissa e il sonno, l’ispirazione all’eroismo e al canto, distrazione ed espansione, speranza, conforto, coraggio247. Lo sa ben egli, che nel triste giorno invernale in cui la fronte sua e quella degli amici era solcata di rughe, domandava già il vino fatto Torquato consule meo. Ma quali erano gli amici d’allora? Ora si chiamano Maecenate, VergiHo, Valgio, Albio, Tibullo, Licinio Murena, Sallustio Crispo, Dellio, Septimio. Sono, col protettore e amico sopra tutti caro, poeti e potenti. I suoi canti vanno a questi e a quelli con lo stesso tono familiare e sincero. Egli nel 728 consola Maecenate uscito allor allora da una gravissima malattia assicurandolo che, quando sarà l’ora, insieme andranno nell’ultimo cammino. Come avvenne. Con Dellio, l’acrobata delle guerre civili, se la cava consigliando l’equanimità, perchè si deve morire a ogni modo, e la natura stessa ci consiglia a godere dei brevi fiori della vita. A Sallustio Crispo, il ricco nepote dello storico, il rivale di Maecenate nel favore di Augusto, l’imitatore di Maecenate nel nascondere con una vita molle l’ambizione e la forza, loda [p. 169 modifica]l’uso moderato delle ricchezze. È un’ode di carattere generale, incolora se si vuole. Ma certo più che lo spendereccio e il ricco Sallustio vi si loda il generoso Proculeio che divise coi fratelli immiseriti le sue ricchezze, vi si loda il sapiente che disprezza i tesori. Nel fatto, Orazio era dalle sue relazioni con Maecenate e Augusto messo nella necessità di dedicare qualche canto a personaggi che non amava e non poteva stimare. Nessuno avrebbe potuto trarsi d’impiccio con più serena franchezza. Egli prendeva le mosse da qualche particolarità dell’uomo, la varia fortuna (doveva dire altrimenti) del girella Dellio, la fastosa ricchezza del molle Sallustio; e poi poetava per conto suo. Ne veniva fuori qualche cosa di meno piacevole per le orecchie di Sallustio e di Dellio? Lasciava correre: fingeva di non averci pensato, come quelli avrebbero finto di non capire. A Grospho, un ricco siciliano, loda la pace che non si compra con l’oro, e oppone alla ricchezza e agli sfoggi di lui la sua mediocrità e la sua poesia. Il barbiton modulato già dal civis di Lesbo non poteva risonare di adulazione e di menzogna. Il poeta sembra avvertirne nell’ode trigesima seconda del primo, che si deve porre a capo di questi canti ad amici. Ma coi poeti era più a suo agio. Non senza un sorrisetto ironico esorta Valgio, il poeta elegiaco d’amori, a cantar d’altro; non piove sempre, non venta sempre, non gela sempre. Non senza un sorrisetto malizioso consola Albio Tibullo, il sommo elegiaco, del tormento di seguire chi fugge. Il poeta mostra di amare molto Valgio e Tibullo, Valgio amico vecchio, Tibullo candido giudice dei suoi ser[p. 170 modifica]moni248, ma di non amare troppo i versi che nell’Arte Poetica chiama exiguos, e qui mollis querellas e miserabilis elegos. E sì che ne furono attribuiti anche a lui, come ha Svetonio nella sua Vita. Con Vergilio, l’anima di tutte più candida e più a lui congiunta insieme con Vario, egli piange nel 730 sulla morte appunto di Vario; e con una delicatezza e una dolcezza degna del Parthenias, evoca Orpheo, il cantore, udito dagli alberi, a cui Vergilio assomigliava. Ma chi è Septimio? di qual anno è il canto a lui diretto? il canto, in cui l’amicizia è espressa con tanta tenerezza, in cui l’animo del poeta si mostra così stanco, eppur così rassegnato. È, l’amico e il canto, della prima giovinezza? è degli anni 728 e 729 in cui i capelli del vate amico già imbiancavano? Donde l’aspirazione a Tibure e a Taranto, i paesi che, come si può raccogliere da fuggevoli indizi, amò da giovane, prima di avere la villa sabina? E ora, invecchiando, cancella, in un momento di rammarico, tutto lo spazio di vita che gli è corso dopo quei giorni, in cui era stanco veramente di marcie e di mare, e povero, in Roma, ripensava alla milizia in cui, sotto la condotta di Bruto, si alternavano banchetti e battaglie?249

XII.

Sopra tutti gli amici era l’Augusto. Orazio che aveva combattuto contro a lui a Philippi, si teneva da lui alquanto in disparte, forse perchè non paresse [p. 171 modifica]adulazione quella che sentiva di dovergli lode divina. Aveva veduto i tempi oscuri, il poeta; aveva disperato che si potesse mai riuscire alla pace e all’ordine. Il furore civile era giunto a tal grado di delirio, che il cittadino preferiva il nemico della patria al suo avversario cittadino. Non era morto nelle file dei Parthi, mandatovi da Bruto e Cassio, il figlio di Labieno? Ora vedeva, per esempio, intorno all’Augusto i figli di Cicerone e di Antonio, onorati e soddisfatti. Veramente egli era un dio, un Dionyso che ammansava, un Mercurio che conciliava. Le campagne riavevano i loro coltivatori, le case si riaprivano agli esuli. A mano a mano i nemici che avevano messo in pericolo l’impero, erano vinti e tenuti in rispetto. Che poteva desiderare di più un buon cittadino? Anche le forme della repubblica erano conservate; e sì che di queste doveva importare ben poco a Orazio, figlio di un liberto. Laonde egli con pienezza di cuore cantava, sebbene indirettamente, le glorie di questo grande, ugualmente grande in guerra e in pace. Nel 729, mentre Iulia la figlia si maritava a Marcello il nepote, Augusto andava a debellare i Cantabri, popolo fierissimo dell’Hispania. E Orazio componeva in onore di lui un inno, dalla movenza Pindarica, in quel metro Sapphico cui col primo saggio aveva come consacrato allo stesso eroe. Quando poi tornò, l’anno dopo, vincitore, invita con un’altra ode pure sapphica popolo a festeggiare il glorioso reduce, ed egli stesso appresta il convivium adventicium. La gioia trabocca. Ma al poeta già cominciano a imbiancarsi i capelli, e si ricorda della sua balda giovi[p. 172 modifica]nezza, Consule Planco250. Già, quell’anno che Planco era console, Orazio aveva venti tre anni. Diciotto anni erano corsi da allora, diciotto anni di lavoro e di gloria. Dentro essi pubblicò per mezzo dei fratelli Sosii un primo libro di Sermoni, l’Epodon, il secondo libro dei Sermoni. In questo anno 730 diede fuori tre libri di Carmina. Nel distribuire e disporre le odi non fece tutto a caso. Le prime nove odi del libro primo sono in nove metri diversi: saggio della varietà del libro e omaggio alle Muse. Le prime tre sono consacrate a Maecenate, ad Augusto, a Vergilio. Vi è anche traccia d’un ordine per il quale a capo e in fine di gruppi di nove odi starebbe una poesia sapphica, poichè sapphica è la seconda e la decima, la dodicesima e la ventesima, la vigesima seconda e la trentesima, la trentesima e la trigesima ottava. Dopo l’ode di proemio, la prima del libro è una sapphica, una sapphica l’ultima. Il secondo libro è il libro degli amici. Maecenate che è il più diletto, ha tre odi: dieci altri, una ognuno. Le prime tre odi sono dedicate ad Asinio Pollione, Sallustio Crispo e Dellio, tre potenti. Al complesso di tutti i tre libri pose un proemio e un epilogo, nello stesso metro. Nel proemio parla dell’edera, di lauro nell’epilogo. Poichè anche il libro secondo si conchiude con un’ode in cui si ripromette l’immortalità, e questa ode, che è la ventesima, è dedicata a Maecenate, come la prima e la ventesima del primo, e poichè fra il terzo e i due primi libri si trovano alcune leggiere differenze di lingua e di metro, alcuni credono che i primi due fossero dati [p. 173 modifica]fuori insieme prima, e il terzo da sè poi. Senza credere che le differenze siano casuali, noi possiamo ammettere che si debbano a particolare cura o trascuratezza del poeta nel dare l’ultima mano alle poesie che raccoglieva. Quanto all’ode di chiusa, si potrebbe sostenere che anche il libro primo ne ha una: l’invito al puer di non aggiungere nulla alla ghirlanda di mirto; e così il mirto di Venere sarebbe terzo tra l’edera di Baccho e il lauro della Musa. E si potrebbe osservare che togliendo al primo libro il proemio e il detto piccolo epilogo conviviale, le odi sarebbero trenta sei, quanto a dire quattro novene, e negli altri due libri, considerando come un solo carme le sei odi del principio del terzo e conservando l’ultima, che è però la chiusa di tutti e tre, avremmo quaranta cinque odi, ossia cinque novene: nove novene avrebbe dunque messe insieme il vates Qui Musas amat imparis, e chiede perciò Ternos ter cyathos (3, 19). La qual somma meglio risulta levando alle 83 odi (le sei prime del terzo valgono per una) di questi libri, il proemio e l’epilogo. Ma per fare più legittimi questi computi, che sono oziosi per giunta, bisognerebbe essere certi di non contare, tra i carmi d’Orazio, qualche esercitazione o imitazione d’altri. Dedurne l’integrità e autenticità assoluta dell’opera Oraziana, sarebbe strano più che audace. Che però non manchino di base, può essere la prova nel carme sopra citato costituito dalle prime sei odi del libro terzo; in cui le strofe, prese a due a due, come è lecito per la cadenza del senso, procedono, sino alla quinta ode, per novene precedute da proemi (1+9+9+1+9). Checchè sia di ciò, il poeta levava la mano dal [p. 174 modifica]l’opera sua certo dell’immortalità, e ricordava nella chiusa l’umile sua origine251, come nell’ultima ode composta prima della chiusa, pensava con sicura coscienza e grazioso rimpianto alla giovinezza sua fiera e al consolato di Planco; all’anno, cioè, in cui combatteva a Philippi ed era salvato dal dio dei poeti.

Orazio lasciò a questo punto il barbiton lesbio e attese a scrivere epistole. Nel 734 probabilmente pubblicava il primo libro di esse facendole precedere da un’introduzione e dedica a Maecenate. Prima dicta mihi, summa dicende camena: «O tu, il cui nome è a capo della mia prima opera e sarà a capo di questa che è l’ultima, vorresti di nuovo fare entrare nella lizza il gladiatore che ha già avuta la sua rudis? l’età non è più quella, la voglia è mutata». Così dice il poeta nel dichiarare di deporre i versi et cetera ludicra. Che cosa voleva Maecenate da Orazio? un altro libro d’iambi? Non parrebbe improbabile a chi ricordasse le sollecitazioni che gli faceva in gioventù, per averne finito quel ne finito quel promissum carmen252. Voleva un poema epico? un quarto libro di odi? di odi, come pare al Cima253, erotiche? Parrebbe non improbabile, poichè già melica soggettiva e poesia amorosa sono per gli antichi una cosa. Orazio delle fides, senza coro, dice essere officio iuvenum curas et libera vina referre254. Nè senza questo motivo egli pone a introduzione del quarto libro un’ode quasi simbolica in cui la facoltà d’amare è come identificata con quella di poetare, [p. 175 modifica]in cui sono riprese le parole Non eadem est aetas dell’epistola con queste altre: Non sum qualis eram. Ma, più semplicemente, per me Orazio pone o finge che Maecenate gli domandi appunto ciò che esso gli offre, dei versi in genere, le epistole. Le parole Non eadem est aetas, non mens sono non la ragione del rifiuto a verseggiare secondo l’invito del patrono, ma la scusa di non aver verseggiato così bene come e il poeta e l’altro avrebbero voluto. Ha bensì Orazio una voce interna che gli mormora, Sciogli, sciogli il cavallo che invecchia; ma Orazio non l’ha ancora sciolto. L’ultima sua corsa è questa; d’or innanzi riposerà255. Ma egli stesso dirà poi di sè: Ipse ego qui nullos me adfirmo scribere versus, Invenior Parthis mendacior: con la quale espressione, del resto, a me par di vedere che alluda quanto e più che alla fides di quei popoli, alla lor fuga simulata, alla battaglia che cominciano proprio nell’atto di schivarla256. Questo scrivendo ad Augusto, nel 737 o giù di lì. Nel quale anno fu il trinoctium dei Ludi Secolari. Il terzo giorno, nel tempio d’Apollo Palatino, tre volte nove fanciulli e altrettante vergini, patrimi e madrimi, dovevano cantare un inno ad Apollo e Diana. Augusto diede l’incarico dell’inno ad Orazio. Egli riprese il metro degli, inni [p. 176 modifica]suoi, il metro che aveva in certo modo consacrato ad Augusto, e cantò il suo canto più bello. Gli anni corsi dal 730 erano stati di pace quasi al tutto, se non di felicità. Nel 731 Augusto si era veduto rapire nel fiore degli anni e delle speranze Marcello, il nepote e genero. Ma un grande successo aveva avuto il principe: nel 734 Phrahates aveva rimandato le insegne di Crasso. Questo fatto poteva compensare la iattura dell’erede. L’anno dopo moriva Vergilio, lasciando incompiuto il poema della gente Iulia e di Roma; mentre la gloria di Augusto era al suo colmo. Egli promulgò nel 736 la legge suntuaria, quella sui costumi e sui maritaggi. Così preparava la città e il mondo alle feste secolari. E l’inno del poeta fu pari alla grande occasione. Sembra, in certo modo, come la sintesi dell’azione Augustea, così il riașsunto dell’opera del vate; di due vati, anzi. Orazio fa sentire, in questo giorno solenne, anche la voce dell’amico estinto, di Vergilio il cantore eroico di Aenea che pietate insignis et armis raffigura Augusto, ed è vero fondatore di Roma e il capostipite della gens Iulia. La parte centrale dell’inno è l’argomento e l’intenzione dell’Aeneide. E due strofe prima è il ricordo delle Georgiche. Nel resto tutte le odi, dirò così, pubbliche di Orazio come vates, hanno il loro compimento. Egli aveva temuto lo spopolamento di Roma, aveva paventata la degenerazione, aveva preveduta la vittoria dei barbari, rattenuti solo dal mare, non ostante il mare Latio inminentis: ora l’Urbe aveva larga promessa di Quiriti, rifiorivano i costumi, i nemici erano vinti e alcuni senza spargimento di sangue, con più sicuro effetto di pace, poichè il sangue fermenta la ven[p. 177 modifica] detta. O buon Vergilio, e, secondo il tuo voto, la Saturnia tellus ha le sue messi rigogliose, i suoi vigneti e oliveti, i suoi briosi cavalli e i bianchi bovi trionfali. In vero, come è nel tuo canto, Aenea doveva dare agli esuli d’Ilio plura relictis. Ma nell’inno sublime è anche una voce più antica e profonda; un’eco degli axamenta: «O Sole della vita, che col carro di luce mostri il giorno e lo nascondi, e sempre altro e sempre lo stesso nasci, possa non illuminare nella tua corsa città più grande dell’Urbe Roma!»257 E questa eco di axamenta si trova anche in alcuna delle odi che seguirono il Carmen Saeculare e sono nel quarto libro il quale, secondo la notizia di Suetonio nella citata Vita, da Augusto fu il poeta costretto ad aggiungere ex longo intervallo ai primi tre. Di queste odi, alcune esprimono l’incremento dell’idea di poesia e di gloria poetica il quale si fece nell’animo del poeta dopo l’inno secolare. Altre si aggirano intorno ad amori senili o invecchiati quasi con essi sia simboleggiata la stanchezza dell’ispirazione. Altre sono forse avanzi dell’età giovanile, bozze riassunte e ripulite. Altre infine celebrano Augusto, la prosperità la costumatezza la pace la gloria che egli conserva inalterate. La sconfitta di Lollio nel 738 è seguita l’anno dopo dalle vittorie di Tiberio e Druso. Le quali vittorie sono appunto gli argomenti dati, secondo Suetonio, da Augusto ad Orazio. Egli li trattò con qualche sforzo di stile e di lingua, con qualche disùguaglianza di tono e di spirito. Il poeta è veramente stanco; tuttavia, nel 740 a significare il desiderio [p. 178 modifica]che si aveva di Cesare assente, nel 741 a celebrarne il ritorno, quando fu eretta Vara della Pace, il poeta canta più sciolto e più sincero. Il secondo anzi fu il canto del cigno, canto di pace e d’amore e di gloria e di serenità258. Rileggiamo con questo il suo primo Epodo: Altera iam teritur bellis civilibus aetas. Parte per parte, i guai d’allora sono ora cessati. Non più il timore del deserto, non più la vergogna dei Parthi, non più la guerra, non più la corruzione: Tua, Caesar, aetas! Visse ancora più di cinque anni, lavorando al secondo libro delle epistole e all’Arte poetica259. Nel 746, V. Kal. dee., poco dopo Maecenate, morì.

XIII.

La poesia, quella vera, ha da avere l’ispirazione in un passato di dolore, e l’adempimento in un presente di serenità. Direi: come la vite: radici tra i sassi e grappoli al sole: come il grano: primavera piovosa ed estate serena. La poesia augustea è di due ragioni, e i poeti di due schiere. Li divide presso a poco quel giorno delle Idi di Marzo, che fu de’ più burrascosi per il genere umano. Chi era adulto quando lo vide, non lo dimenticò più, quel giorno,´ [p. 179 modifica]e gli anni di strage che lo seguirono. Che differenza tra Vergilio e Ovidio! E non d’ingegno, non d’attitudine, non di studio, non di fantasia. Di codesto anzi ce n’è più, se si vuole, in Ovidio; ma c’è in Vergilio, come ho a dire? la pace, ancor piena di singulti, dopo un grande sfogo di lagrime; il soave, il fresco, il libero, il buono, il lucido che è nella terra dopo un temporale estivo. In terra tutto scintilla; in cielo varino ancora nuvole orlate di oro e di rosa. Il buon Marziale fingeva di credere o credeva veramente che Maecenate con i suoi doni facesse tutta la differenza tra esso Marziale e quei poeti, per intenderci, Maecenatiani. È vero che conclude con la sua modestia arguta (VIII Ivi 24 e seg.):

     Dunque Vergilio sarò, se i regali di Maecenate
          or tu mi faccia! Vergilio, ecco, no; Marso sarò.

E sì, Marso e più di Marso: non s’ingannava Marziale. Un Marso divenne nel fatto, un Marso molto migliore. Un po’ d’agiatezza e d’incoraggiamento, un po’ d’onore e di gloria, d’un buon ingegno arguto e pronto, che si sarebbe altrimenti dissipato nel nulla, può fare un Marso e un Marziale. Per fare un Vergilio ci vuole qualcosa di meglio e di peggio: il dolore. Ci vuole, per dire più propriamente, in un’anima grande la grande emozione superstite d’un grande dolore. Ci vogliono le grandi sventure pubbliche, oltre le piccole private; e ci vuole poi una liberazione quasi impensata ed insperata; un uomo simile a uri dio, che appaci e ordini, cose ed anime: un Augusto. La pace e l’ordine Augusteo durarono molto tempo, e sopravvissero al loro autore, senza dubbio; ma non pote[p. 180 modifica]vano suscitare più la gioia della riconoscenza e il fiore della poesia, in chi non poteva più fare il paragone tra il cattivo e il buon tempo. La poesia diventò versificazione, un’esercitazione d’ingegno; ed ebbe per fine il plauso e il diletto. Cose da non disprezzarle nè poeti nè lettori: fine proporzionato all’atto, effetto proporzionato al fine.

Domizio Marzo fu contemporaneo, sebbene nato dopo (nel 710 proprio, parrebbe) dei due grandi poeti Augustei. Ebbe forse a maestro quello stesso iracondo Orbilio, che ebbe Orazio; satireggiò quello stesso poetastro Bavio cui marcò Vergilio, pianse la morte di Vergilio e Tibullo avvenuta nel medesimo anno 735.

     Nella campagna de’ pii con Vergilio, a compagno, o Tibullo,
          Morte, non giusta, mandò giovane ancora pur te;
     che non cantasse più niuno, con gli elegi mesti, l’amore,
          o con il metro guerriero ire e battaglie di re260.

Si citano di lui Cicuta, che doveva essere una raccolta di epigrammi; Fabellae di almeno nove libri, poichè Charisio (72 Keil) cita quattro parole del nono libro; oltre un poema Amazon, al quale si vuole che alludesse Orazio con quella scappata del Carme quarto libro quarto, verso 20261; oltre un trattato de urbanitate; oltre una serie d’elegie, Melaenis, una donna, come dice anche il nome, bruna. Ma il meglio di Marso doveva essere negli epi[p. 181 modifica]grammi della Cicuta. L’epigramma si vede un po’ da per tutto, dopo la fioritura Augustea. Accanto ai generi poetici che durarono un pezzo, con molta magnificenza di forma ma con poca più anima, l’epigramma, breve e vivo, che si nutriva di verità, entrando da per tutto, come tien poco posto, e da per tutto occhieggiando e origliando, ebbe molto favore. Marziale poteva dire (IX 1):

Gauro, tu provi che il mio è un ingegno minuscolo, in quanto
     carmi compongo di cui gustano la brevità.
Bene. Sta bene. Ma tu, che il re Priamo in dodici libri
     canti e la guerra di Troia, grande sei forse per ciò?
Noi non si fa che fanciulli, che statue piccine: ma vive!
     Grande, un gigante tu fai ch’altro che creta non è.

E così epigrammi scrissero un po’ tutti, tornando a Catullo, ma ripulendo e limando. Niente elisioni, nessuna varietà nelle basi, pentametri quasi sempre a un modo. E l’arguzia in fondo: ingegnosità più che verità, agghindatezza piuttosto che grazia. Si veda in Seneca: esso pettina e acconcia, per così dire, il suo dolore262. Ha detto in un epigramma che un relegato è come sepolto? In un altro, esso è morto, è sepolto, è cenere: chi l’offende, viola la religione del sepolcro. Più viva è la sua satura contro Claudio: Claudio morto, s’intende. Chè questo vezzo s’introduce, invece della sboccata libertà repubblicana di Catullo e di Bibaculo: di gettar le freccie iambiche a chi non le può sentir più. Petronio, no. Secondo il racconto di Tacito, non avrebbe aspettato che morisse Nerone, bensì di [p. 182 modifica]morir esso, per satireggiare il terribile matricida263. E del resto, seppe Lucano che cosa volesse dire non tener la lingua a segno e recitare emistichi sonori di Nerone, e dove, e a che proposito. Il qual Nerone ebbe a soffrir non poco da’ suoi compagni d’arte, ma nascosti però264.

Sangue d’Enea non è dunque Nerone? Si tolsero entrambi,
     l’uno sua madre, ma via; l’altro suo padre, ma su.

Certo questa poesia, che è di quelle piante che fanno a baclo, fioriva. Ricorda anche Tacito, al tempo di Tiberio questa passione dell’anonimo: exercentibus plerisque per occultum, atque eo procacius, libidinem ingeniorum265. Meglio era della poesia farsi una ricreazione, un ingegnoso passatempo. Come faceva Caesio Basso. Di lui Persio, che gli era amico266, ricorda il plettro grave e solenne (tetricus) e lo strepito virile della sua lira, e lo dichiara: Mire opifex numeris veterum primordia vocum... intendisse. In verità egli era un grande artefice di versi e ne faceva, come poeta, e ne trattava, come grammatico; nominandosi di lui un liber de metris267. Con questo libro si sa che facesse almeno due libri di lyrica. E Quintiliano, che aveva gusto fine, aggiunge solo lui a Orazio, ne’ poeti lirici. «Tra i lirici Orazio è presso a poco il solo degno d’esser letto.... se vuoi aggiungere qualcun altro, questi sarà Caesio Basso, vissuto a nostra me[p. 183 modifica]moria»268. Morì nell’eruzione del Vesuvio, bruciando con la sua villa269. Ciò che resta di lui, attesta solamente la sua grande abilità di verseggiatore.

Questo è ciò che di lirica fiorì dopo Orazio, durante l’impero de’ Cesari. Sotto i Flavii poetarono nel tempo stesso, sovente di medesime cose, con ingegno pari se non uguale, con animo e fortuna non troppo dissimile, due veri artisti: Papinio Stazio e M. Valerio Marziale; il primo più facile, il secondo più raccolto, quello più elegante, questo più arguto, ma tutti e due spontanei, facondi, vivi, e perfetti nelle forme metriche; tutti e due bisognosi, tutti e due propensi a cambiare i loro canti in contanti, ma con una certa ingenuità che muove a compassione più che a sdegno. Eh! non avevano essi Augusto avanti loro nè le sue vittorie nè i suoi provvedimenti legislativi. Per loro c’era Domiziano, Nerone calvo, e i ludi del circo e liberti ricchissimi e la propria mediocrità o povertà.

P. Papinio Stazio nato a Neapoli verso il 40 dopo Cristo venne a Roma con una certa fama per le vittorie riportate negli agoni poetici della sua patria. In Roma l’accrebbe e con vittorie dello stesso genere e con recitazioni, quali si usavano sin dal tempo di Asinio Pollione. E mendicò e adulò: con poco frutto, se poi cominciando a invecchiare, nel 95 vinto in uno di quei concorsi (nel Capitolino), si ritrasse con la sua moglie Claudia in patria, dove morì due anni dopo. Le Silvae, o abbozzi270, [p. 184 modifica]contengono come la testimonianza della sua vita poco dignitosa e libera, così la sua scusa. Sono esse non tutte poesie «comandate», poesie «mendicanti»: qualche volta ci mostrano il cuore di Stazio, che era buono, e i suoi dolori, che non erano pochi e piccoli. Ne risulta, per esempio, che il poeta cercava piuttosto la lode e la gloria, che il danaro. E tante altre cose si vedono! Per esempio ancora: non commuove il sentire (nella quinta del libro III) il suo dolore perchè la sua figlia, figlia veramente di sua moglie la quale egli sposò vedova, la sua figliastra che ama come figlia, consuma la sua giovinezza in solitudine infeconda? che non trova marito, insomma. E sì che è bella e buona, e sa sonare la chelys e cantare e danzare! Ma tanta grazia cessat: è non vista, è obliata, è oziosa. Perchè? Il perchè è forse questo: è povera la tua figlia, o povero poeta! Le smanacciate e le lodi toccano ai poeti, e le mancie, alcuna volta; ma una «posizione» di rado. E anche quel po’ di gloriola quanto è contrastata! Stazio che vinse tre volte la corona poetica nell’agone Albano, nel Capitolino fu vinto. E dallo stesso carme che citai, si vede quale sventura fu quella per Stazio. Sventura familiare: la moglie piangeva con lui, accusando Giove271. Non si abbia a sdegno di entrare, dopo tanti secoli, nell’anima del poeta, che Dante assolse e mandò in cielo. Egli chiama senium la sua età quando giungeva sì e no [p. 185 modifica]a 50 anni272. Egli era tormentato dall’insonnia273.

Di lui Giovenale ha questa dolente parola: esurit274.

Oh! certo egli pagava cari i plausi delle sale e i doni dell’imperatore. Era infelice. E d’altra parte si legga il Genethliacon Lucani. Qui Stazio fa sentire la sua voce d’uomo libero. Ed è una voce a volte altissima.

Chi non crederà capace d’ogni nobile sentimento l’intelletto che ha sculto in questo verso l’opera e l’uffizio non di Lucano solo, ma di tutti i poeti?

das solatia grandibus sepulcris.

Un altro infelice è Marziale. Nato a Bilbili in Hispania, anch’esso verso il 40, venne a Roma circa il 63, ben giovane; vi dimorò trentacinque anni e ne partì per la patria disilluso e povero. Egli fu prima (se è suo l’epigrammaton liber)275 poeta di ludi. Chi si vuol rendere conto d’un tratto della mutazione dei tempi e dei cuori, legga il Carmen Saeculare, poi questo libretto Spectaculorum. È l’ultima parte della festa secolare, la venatio, che ora ispira, e da sola, i poeti276. Marziale pubblicò poi quei piccoli epigrammi dei «doni ospitali» e «conviviali» che sono così graziosi e interessanti277. A me pare che essi formino come una abbondevole e conservata supellettile d’una casa antica, che si sia disotterrata a [p. 186 modifica]Pompei. Poi uno per anno, dall’86 al 96, gli undici primi libri degli epigrammi. L’ultimo che certo contiene poesie scritte in Hispania, fu pubblicato dopo un certo intervallo. Questi dodici libri sono (questa volta l’immagine l’ha suggerita esso, il poeta) sono una collezione di statuette (non tutte da esporsi a tutti gli occhi) che rappresentano il mondo Romano con una grazia e vivacità straordinarie278. Il mondo Romano? il mondo antico? Bene spesso bisogna dire «il mondo» senz’altro. Cotilo il Mondano non l’ho conosciuto io? C’è dal mio e Cotilo una differenza soltanto: la caramella. E Mathone? Mathone, il parlatore o scrittore elegante e fine; che s’ingegna non di dir cose buone e vere, ma di dirne sempre belle, ossia, per tradurre a lettera, benino? Non un oblio, non una negligenza mai, superumanamente stucchevole!

     Tutto vuoi dire benino, o Mathone. Alle volte di’ bene
          anche, così e così; male, magaridio, di’,

E Afro, che parla sempre de’ suoi crediti e delle sue rendite?

               «Corano centomila, il doppio Mancino,
               trecento mila Tizio, due volte Albino,
               Sabino dieci, venti tanto Serrano,
               mi devono: da case e fondi milioni
               tre, dalle mandre Parmigiane secento
               mil....» Afro! sempre questa fola mi conti?
               Oh! altro conta se tu vuoi che ci regga:
               lo stomaco rifammi con un po’ d’oro:
               codeste cose non le posso udir gratis.

[p. 187 modifica]

Qualche volta il bozzetto è una caricatura, come quella amenissima di Rufo, che si fa tanto lisciare, pettinare, pitturare, speluzzare, che il barbiere, ragazzo al principio della «toilette», alla fine ha tanto di barba; come quella di Selio che ha una sua grande melanconia, perchè non c’è invito a cena per quella sera; come quella del terribile lettor di versi, Ligurino.... Oh! proprio caricatura codesta? Come aveva ragione Marziale di affermare, con divina espressione, il «sentor d’uomo» che è nei suoi libri: hominem pagina nostra sapit! E spesso come è acuto oltre che vero! Per fermarci alle miseriole di codest’arte poetica, la quale non ha cessato davvero di dare come le sue rose così le sue spine, considerino i poeti d’oggidì l’epigramma che riportai nella prefazione279; meditino quest’altro:

                    Soli ammiri poeti d’una volta
                    e non lodi se non poeti morti.
                    Grazie tante, o Vacerra: non lodarmi.
                    Io non voglio morire per piacerti.

E tutti, poeti o non poeti, dicano se non hanno incontrato mai per la loro via uno di codesti finti buoni, uno di codesti invidiosi in maschera di benevoli, uno di codesti dal miele in bocca e dal fiele in cuore, ottimisti-pessimisti; se non hanno, in somma, incontrato mai Callistrato:

     Loda Callistrato, per non lodare chi merita, tutti.
          Ma, cui nessuno è cattivo, essere buono chi può?

E come quella de’ suoi tempi, così è in questi libri, aperta e ingenua, la vita di lui. Egli si conosceva. [p. 188 modifica]Aveva un certo successo di gloriola: era «conosciuto in tutto il mondo»; ma sapeva la, distanza che era tra lui e i grandi poeti. Egli dice delle sue cose ciò che i nostri critici, sì quelli del fiele e si quelli del miele, dovrebbero aver presente quando impugnano quella loro penna dalla punta o amara o dolce:

     Ce n’è di buoni, ce n’è di così e così: la più parte
          sono cattivi. Oh! oh! Prova! fa un libro anche te!

Solamente, per lo più, i nostri critici (probabilmente anche quelli di lui) dovrebbero trasporre quelle due parole bona mala. Quando gli uni dicono mala plura si ha a intendere bona plura; e viceversa280.

Come il suo carattere, così nei suoi libri sono le sue vicende. Nacque per il Calendimarzo, si prese a modello Catullo, ebbe le sue soddisfazioni e i suoi dispettucci d’autore, provò le noie degli imitatori e dei plagiari, provò la miseria. Ebbe qualche onore e qualche dono da Tito e più da Domiziano. Accattò e adulò. Ebbe anche una villetta a Nomento. Poteva mandare un regaluccio di noci al «facondo Giovenale »! Ebbe amici, oltre a questo, Silio, Quintiliano, Stella e Plinio. Sopra tutti quel garbato Plinio, che gli diede il danaro per il ritorno a Bilbili... Perchè, morto Domiziano, Marziale tornò in patria. Per quanto egli cantasse la palinodia delle lodi date a Domiziano, non potè venire in grazia a Nerva. Tornò via. La Musa gli aveva fruttato ben poco, e, se non [p. 189 modifica]era Plinio, non avrebbe avuto di che fare il viaggio. A Bilbili trovò una brava signora, che gli regalò una villa piena di belle cose. Ritornò poi a Roma? ritornò agli antichi amori, da cui si era allontanato quasi infastidito, eppure a malincuore? Tornò a rivedere il monumentino di Erotion, della sua bimba vernula? di quella bimba che gli disse, oh! per pochi anni, per cinque, babbo? e che egli raccomanda, morta, ai suoi propri genitori, Frontone e Flaccilla (se si può affermare), morti anche loro, perchè le facciano coraggio nel mondo di là? La fine della vita di Marziale è avvolta, come quella di Catullo, nelPombra. Solo leggiamo ancora con commozione la lettera che della sua morte scrisse Plinio: Era un uomo d’ingegno e di spirito, e che scrivendo aveva bensì e sale e fiele, ma non meno ingenua bontà281.

E la lirica continuò stenta stenta nel mondo imperiale. Al tempo di Adriano troviamo, rilevato e notevole, Floro, che è forse tutt’uno con lo storico e con il retore dello stesso nome. Adriano stesso scriveva versi, e, argomentando da suoi cinque all’animula, versi Catulliani passati attraverso Maecenate. Poi abbiamo qualche resto di ludicra d’un poeta Falisco, Anniano, e di Apuleio; di Excellentia (storia Romana verseggiata in dimetri iambici) di Avito; di Lupercalia di Mariano. E via via. Ecco Septimio Sereno autore di opuscula ruralia in diversi e strani metri. Di questi tempi è l’ardente cantico «la veglia di Venere». Seppure non è da met[p. 190 modifica]tersi più tardi, al secolo IV dopo Cristo, e non si ha a credere che sonasse nello stesso tempo che le selvaggie ballate delle legioni di Aureliano282.

La nuova religione ha trionfato. La lirica di Catullo e di Orazio fa ancora sentire i suoi accenti in Ausonio (console nel 379) cristiano di vita e pagano d’ispirazione. Ma già altri inni si levano: quelli di Hilario e d’Ambrosio. Pure anche in essi sopravvivono le forme antiche. E Orazio si sente in Prudenzio. Grandi, soavi, dotti canti quelli di Prudenzio; ma la religione cristiana doveva avere i suoi poeti nelle lingue novelle, non ancor nate. Intanto la terra nascondeva il seme secco, il seme morto. A primavera, i germogli.

                    Così vegeta l’arido seme
               che morì, che fu posto sotterra:
               che di fondo spuntando alla zolla,
               ora pensa la spiga d’un tempo283.

Note

  1. Dalla «Lyra» di Giovanni Pascoli, editore R. Giusti, Livorno. Prima edizione, 1895; settima, 1924.
         Le note senza nome di autore o indicazione di opera si riferiscono alla su detta «Lyra».
  2. Hymn. Hom. B 17. La chelys che Hermeia fece cantatrice, pascolava avanti la porta, quando egli la vide e se la portò dentro, dicendo, con molte altre festevolezze (36),

    Meglio restarsene a casa, dannoso è starsene fuori

    il qual verso è da molti rifiutato per trovarsi in Hes. O. et D. 365. Non sarebbe assurdo sospettare che derivasse da un’antica canzone sulla chelys di cui avremmo il primo verso, almeno, in quella cantilena di fanciulle conservata da Polluce 9, 125:

    cheli chelone e che fai tu in quel mezzo?

  3. Ouloi ed iouloi erano le biche di grano, le mete. E Ioulo era chiamata anche Demeter, ed ouloi e iouloi gl’inni ad essa.
  4. La piva, cioè la syrigx. Σ 520.
  5. id. 567.
  6. ib. 593.
  7. A 37
  8. Α 451.
  9. Γ 276.
  10. Γ 298.
  11. Ω 725-45
  12. Q 748.
  13. ib. 762.
  14. Hes. O. et D. 448. Aristoph. Aves 710 «seminare quando la gru, gracchiando, alla Libya valica e allora al marino dice: Appendi il timone e dormi». Motivi popolari.
  15. Hes. ib. 582. Alcaeo derivò i suoi coriambi (39 Bergk) non da Hesiodo forse, ma dalla fonte stessa, popolare, d’Hesiodo.
  16. Id. ib. 485. Aristoph. Av. 504.
  17. Vedi Hes. ib. 568, 571, 524, 778, 605, 560, 742.
  18. Ψ 29 γ 309. Il medesimo senso ha forse τάφος nell’ultimo verso dell’Iliade.
  19. es. sc. Herc. 281. Il comos d’Hesiodo è come l’opposto d’un hymenaios che è in altra parte della città festeggiante.
  20. Hymn. H. B 55.
  21. Vedi il canto di Catullo [LXII]; è un’imitazione Lesbiaca.
  22. Σ 491, Hes. se. Herc. 272 e segg. Anche in queste nozze sono i convivii (thaliai v. 284) e le phormigges con le syrigges nel corteo nuziale; nel comos solo l’aulos.
  23. Catullus [v] 4.
  24. Xenophanes I, 12 Bergk.
  25. Callinus B. 9 segg.
  26. Arch. 9, 10, 13; 1 e 2; poi 6 e 4 B.
  27. Tyrt. 10, 1 e 2; n, 5 e 6; 12, 35 B.
  28. Tyrt. 10 B. v. 3. Mimnermus 1 B. v. 6.
  29. Mimn. 2 B.
  30. id. 5 B. v. 4; 1 B. v. I.
  31. Theognis 159, 167.
  32. Theognis 877.
  33. id. 973.
  34. id. 1069.
  35. id. 983.
  36. Solon 13 B. 63.
  37. Non è anche dei convivi furerei Hor. C. [II-VII] 28.
  38. Xen. 1 B. v. 21 e segg. 2 B. v. 11.
  39. Io Chius 2 B. v. 7.
  40. Xen. 1 B.
  41. Theogn. 237.
  42. Hymn. H. Δ 205 leggendo col Voss ἑορταῖς.
  43. Arist. Pol. 7, 15.
  44. Hymn. H. Δ v. 491; Steph. Byz. alla parola Πάρος.
  45. Schol. Aristoph. Aves 1764.
  46. Arch. 65 B.
  47. id. 66.
  48. id. 56. Cfr. Theogn. 1048.
  49. Arch. 84.
  50. id. 29.
  51. id. 86, 87, 88.
  52. Simonides Amorginus 7 B. cfr. Phocylides 3.
  53. Hipponax 16, 17, 20 B.
  54. id. 43, 19, 90 B.
  55. id. 29 B.
  56. Leggi il V e II Epodon.
  57. Alcaeus 62 B. «Giglio» è traduzione di Κρίνοι.
  58. Sappho 29 B.
  59. Alcaeus 20 B.
  60. id. 33. Trovo una certa somiglianza tra questo frammento e l’ode [II, VII] di Orazio e altre a reduci: donde la supposizione che sia conviviale.
  61. id. 21, 23, 25, 27-31. Arist. Pol. 3, 9, 5.
  62. Vedi per es. il fr. 39; il fr. 41 v. 3, i 55-57» 59 e 63.
  63. Alc. 36 B.
  64. Sappho 4, 54, 53, 52, 39, 88.
  65. ead. 90.
  66. ead. 85.
  67. ead. 38, 42, 93-95.
  68. Sappho 68 B.
  69. Stobaeus Serm. 29, 28.
  70. Anacr. 94, 47, 43 B.
  71. E i poeti corali da Alcmane a Pindaro? Il poeta anche quando esprime dalla sua anima il miele più buono, intimo e segreto, sa che con quello dolcifica il genere umano. Perchè l’usignolo, pur cantando nella notte, canta così forte? Ma al poeta, che diede tante prove, cantando solo, di cantare per tutti e il canto di tutti, si chiede ancora che insegni l’inno cui gli altri inalzino, come in persona d’una schiera e d’un popolo. Ed egli lo insegna, l’inno che, pur materiato dell’anima sua, sembra emanare, ed emana veramente, tanto è tra la sua e quella di tutti il rapporto come d’eco a suono, dall’anima popolare. È poesia quindi soggettiva anche codesta dei cori, ed è simile alla monodica in ciò, sebbene nella forma sia molto diversa. Ma i Latini anche quando fecero poesia corale, predilessero le forme monodiche; e Orazio prende ad Alcaeo e Sappho i metri anche dove si trova con Pindaro per la natura e per l’uffizio del canto.
  72. Ovid. F. i, 65 seqq.
  73. Ovid. F. III 523 seqq. specialmente 579, 643, 645, 657, 690.
  74. Catull. [XXXIV] 17 (p. 86).
  75. Vedi Mommsen, Storia Romana, vol. I, cap. 15.
  76. Pag. 1. Lezione e interpretazione in Versus Italici Antiqui. Carolus Zander, Lundae, 1890, pag. 29.
  77. Pag. 1. Lezione e interpretazione in De Saturnio Latinorum versu. L. Havet, Paris, Vieweg, 1880.
  78. Zander, gentile anima di poeta, sottile ingegno di critico: ib. pag. 30.
  79. Pag. 2. Carmen Arvale. Fest. Pilomnoe poploe in Carmine Saliari Romani velut pilis uti assueti.
  80. Pag. 3. Obtestationes.
  81. Hor. Epl. II i 156.
  82. Pag. 3 Comprecatio etc.
  83. Moretum v. 29; Georg. i 293; Hor. Serm. I v 14 sqq.; Cic. Rep. iv 12; Plin. HN. XXVIII ii 17; 10; Fest. p. 181; Serv. in Verg. ecl. viii 99; Plaut. Aulul. III 2, 31.
  84. Hor. Epl. II i 139-155; Liv. VII ii 7; Lue. Phars. ii 368; Hor. Serm. I vii 29.
  85. Inter carminum prope modum incondita quaedam militariter ioculantes Torquati cognomen auditum: celebratimi deinde posteris etiam familiaeque honori fuit. T. Liv. VII x.
  86. Pag. 4-6. Carmina rustica, proverbia: 6, 27, 14, 18, 11, 12, 28. Il 14 Di facientes adiuvant, Mureto interpreta eos qui rite operantur sacris, contro l’interpretazione di Erasmo: Mur. ad Tibullum 1, 1, 11.
  87. Pag. 7. Marcius vates.
  88. Pag. 4-6 Carmina rustica, proverbia: 20, 22, 13, 23, 31, 7.
  89. Fest. Nenia est carmen quod in funere laudandi gratia cantatur ad tibiam.
  90. CIL. 1, pag. 277 e segg.
  91. Pag. 9-12 Elogia specialmente iii, iv. vii.
  92. Cic. Tusc. disp. IV, ii 4.
  93. Pag. 7. Alia vetera carmina.
  94. Pag. 12. Livius Andronicus.
  95. Pag. 13. Naevius: nota al 5.
  96. Pag. 27-28. M. Terentius Varro.
  97. Pag. 13-14, nota al 4, 2.
  98. Pag. 13. Naevius nota al 1.
  99. Pag. 17. Ambracia.
  100. Cic. Tusc. I, 2, ib. IV, 2, Brut, xix 75, sen. 13, 44.
  101. Pag. 13 Cato.
  102. Pag. 18. C. Lucilius.
  103. Pag. 19-21. Leggi in L’Epigramma latino di Salomone Piazza (Padova, Drueker, 1898) da pag. 101 a pag. 126 una bella e piena trattazione su questi epigrammi. Troppo tardi io l’ebbi per profittarne nel testo degli epigrammi e qui; specialmente riguardo al 1º di Valerio Aedituo, che ravvicinato all’ode 2 di Sappho è più verisimilmente emendato dal Piazza.
  104. Poenico bello secundo Musa pinnato gradu
    Intulit se bellicosam in Romuli gentem feram.

    Geli. XVII, 21. Vedi in Epos xlvii l’interpretazione che io credo giusta di quel pinnato.

  105. Su Laevio bisogna leggere alcuni ragionevoli dubbi del valente Eleuterio Menozzi (sui frammenti etc. 1895 Loescher). Però alla sua negazione che possano esistere carmi «di contenuto mitologico narrativo e dialogico» in metri lirici, si può, mi pare, con fortuna opporre l’Attis di Catullo sebbene del galliambo esso dica che «è un metro largo e sonoro, quanto l’esametro e adatto quasi quanto questo alla narrazione». Ecco: noi troviamo appunto tra i frammenti di Laevio il pterygion che è in ionici. Non si direbbe che da Laevio a Catullo è, per questo rispetto, come una preparazione? sì che Laevio non dei νεώτεροι è pur l’ultimissimo dei veteres?
  106. Pag. 101 M. Furius Bibaculus — 106 Memmius.
  107. Pag. 54 XX, specialmente nota al v. 8. Cicero pro Sulla viii 24.
  108. Cic. Tusc. III xix 45: O poetam egregium (Ennium), quamquam ab his cantoribus Euphorionis contemnitur. Ciò però nel 709, quando la copia aveva generato sazietà. Un anno prima parlando dell’elisione dell’s finale avanti consonante, diceva quam nunc fugiunt poetae novi: Or. xlix 161. Prima ancora, nel 704, scriveva ad Attico VII ii: ita belle nobis

    Flavit ab Epiro lenissimus Onchesmites.

    hunc σπονδειάζοντα si cui voles τῶν νεωτέρων pro tuo vendita. Cicerone allude più che ad altro, agli epyllia di questi poeti, pieni come vediamo nel LXIV di Catullo, di versi spondaici.

  109. Pag. 29. Hieronymus ad Euseb. chron. a. Abr. 1930 = a. Ch. 87, ha: Gaius Valerius Catullus scriptor lyricus Veronae nascitur. Apuleius Apol. 10 conferma il prenome, Gaius. Il prenome Quintus è in codici di Plinio (HN. XXXVII vi 81) poco degni di fede.
  110. Pag. 56 v. 33 e 36. Il CXVI diretto a un Gellio che il poeta poi assalì con velenosissimi epigrammi, ha l’unico esempio dell’s eliso avanti consonante; «tu dabi» supplicium; e ha un verso tutto di spondei. Potrebbe essere de’ primi fatti e testimoniare col primo distico delle domande di libri greci che si facevano al nuovo venuto.
  111. Il LVI, tralasciato.
  112. Secondo lo Schwabe (Ludovicus Schwabius - V. 1 P. 1. Quaestionum Catullianarum Liber 1. Gissae 1872) questo epyllion può essere stato composto in un anno qualunque dal 692 al 700: inchina peraltro a crederlo dell’età matura ed esperta. Forse fu abbozzato nei primi tempi e ripulito e pubblicato dopo la gita Bithynica.
  113. Per questo, vedi nota al [XXXIX].
  114. Per questo, vedi [LIII] v. 5.
  115. Pag. 26, IX, nota.
  116. Vedi [LXI], [LXII], [XXXIV].
  117. Vedi [L].
  118. [XIV].
  119. [XII].
  120. [XLIV].
  121. [IX] e [XIII].
  122. Vedi Bibaculus II.
  123. Pag. 32 [XLIX] e note. Cic. pro Archia, 2, 3 e 4.
  124. Cic. pro Arch. 7, 16.
  125. Schol. Bob. ad Cic. Sest. 54. Sallustins Cat. 25.
  126. Plutarchus, Cic. 29.
  127. Pag. 40 e 41 [XIII] e [XXVII].
  128. Pag. 42 [LI]. Mi sono domandato qualche volta se Catullo nel dare a Clodia il nome di Lesbia ricordasse e non curasse, o non sapesse o non credesse ciò che di Sappho avevano detto i comici attici e poteva malignamente interpretare ogni lettore. Questa ode stessa.... ma io credo che egli, avendola forse senza l’ultima strofa, la riputasse soggettiva bensì ma, per così dire, in persona d’altri, dell’uomo. Non era anche in Alcaeo una poesia in persona di donna? (Vedi a pag. 177, nota). Oppure è cosa che condurrebbe a considerare in modo assai nuovo la poesia Lesbiaca, che, sparsasi e fattasi popolare (ricordiamo Solone vecchio che impara la canzone d’oltre mare) fu poi dai grammatici e critici Alessandrini distribuita tra due cantori, dal nome un po’ sospetto, il «Forte, Cicis» e la «Clara, Sappho». Il contrasto dei due (vedi sopra), riportato da Aristotele pare piuttosto un frammento unico d’un’unica poesia, che due di due. Ma di ciò altrove, e quando il nostro mago Kenyon avrà dato al mondo aspettante le nuove odi di Sappho.
  129. Pag. 44-45 [LXVIII]b. Che Lesbia sia Clodia (cosa non ammessa da tutti) risulta da Apuleio, Apol. 10: accusent C. Catullum quod Lesbiam pro Clodia nominarit. Lesbia (dello stesso numero e valor di sillabe che Clodia) è rappresentata in Catullo, come nupta nel [LXXXIII], e poi come tale che potesse nubere nel [LXX]. Clodia era maritata e restò vedova. Il marito di Lesbia era fatuus (LXXXIII, 2): Metello è per Cicerone (ad Att. 1, 18) non homo sed litus atqne aer et solitudo mera. Catullo ebbe per rivale un Caelius, un Rufus (58 e 77) e Caelius Rufus fu amante di Clodia. Nella difesa poi che ne fa Cicerone, sono molte particolarità della vita, costumi, relazioni di Clodia che combinano perfettamente con ciò che Catullo dice di Lesbia.
  130. Pag. 46-49 [II], [IH], [V], [VII].
  131. Pag. 55, v. 22.
  132. Pag. 50-52 [XXXVIII] e [XXX].
  133. Pag. 52 [LXV].
  134. Pag. 54 [LXVIII]. Il tutto è molto incerto. La mia interpretazione si fonda per gran parte sul leggere, al v. 27, Quare, quod scribis «Veronae turpe, Catulle, Esse, quod hic (cioè ego), qui sit de meliore nota, Frigida deserto tepefactat membra cubili» Id, Manli, non est turpe, magis miserum est.
  135. Le elegie e gli epigrammi che riporto qui e stampo con caratteri di corpo più piccolo sono a illustrare i primordi della lirica Romana, nei quali l’elego è strettamente connesso con le altre forme iambiche e meliche. Dopo, se ne libera e si svolge per conto suo. Orazio non scrisse elegi, non ostante che gliene attribuissero. Tibullo non scrisse iambi e odi, sebbene vada sotto il suo nome una sconcia Priapea. Resta l’epigramma, che è elegiaco e d’altri metri.
  136. Pag. 57 e pag. 44 [LXVIII]b.
  137. Vedi a pag. 62 nota al v. 5: vibrare vale in questo verso veramente «agitare minacciosamente» o meglio «palleggiare e provare», come in Cic. de or. II lxxx, 325: vibrant hastas ante pugnam.
  138. Pag. 57 [VIII].
  139. Pag. 59 [LXXVII] e [LXXIII].
  140. Pag. 60 [XCII]. Il primo verso non è troppo bene spiegato nella nota: va inteso come qui sopra, e avverti il chiasmo in tutta la frase, che comincia con mi e termina con me.
  141. Pag. 60 [CIV].
  142. Pag. 61 [CVII]. Sappho si sente non solo in carius auro, ma nella geminatio di restituis.
  143. Pag. 62 [CIX].
  144. Pag. 62 [XXXVI].
  145. Pag. 63-65 [LXX], [LXXXVII], [LXXII], [LXXV].
  146. Pag. 65 e 66 [XL] e [XXXIX].
  147. Pag. 68 [LXXXV], [LX].
  148. Pag. 68 [LXXVI].
  149. Pag. 70 [XI].
  150. Pag. 72 [CI].
  151. Pag. 73 [XLVI].
  152. Pag. 74 [XXXI].
  153. Epos, Ennius VI i.
  154. Pag. 75 [IV]. Il grazioso poema era molto nella memoria di Orazio, come annoto qua e là. Se ne vedono traccie anche in C. I xiv specialmente ai v. 11 e 13
  155. Pag. 78 [XXXV].
  156. È il [X] da me omesso.
  157. Pag. 79 [XCV].
  158. Pag. 81 [XCVI].
  159. Pag. 82 [CVIII] e [LXXXIV].
  160. Pag. 83 [LIII].
  161. Pag. 84 [LII].
  162. Pag. 84 [XXXV].
  163. Quintil. IO. 10, 1.
  164. Porph. Od. III i 3,
  165. Plin. Ep. IV, xiv, 3.
  166. Vell. Paterc. 2, 36.
  167. Hor. S. I, x, 19; Epl. I, xix, 23; C. III, xxx, 14.
  168. Lydia doctorum maxima cura liber, disse Ticida, poeta di imenei e epigrammi, il quale cantò i suoi amori con una Metella, cui chiamò Perilla. È nominato da Ovid. Trist. 2, 433, dopo Catullo e Calvo, avanti Cinna, insieme con Memmio.
  169. Ciò nei primi otto versi sudditizi della Sat. decima del libro primo in Orazio.
  170. Catull. [LVI], omesso.
  171. Vedi gli otto versi sopra detti. l’eques grammaticus è forse Orbilio che equo meruit (Suet. gramm. 9) ed era naturae acerbae.... etiam in discipulos (id. ib.). Orazio provò, pare, la sua scutica, come di professor da fanciullo, così di critico da grande.
  172. Pag. 39 nota al [XXVI].
  173. Pag. 101 M. Furius Bibaculus e note, specialmente al III, v. 8.
  174. Tacit. ann. IV 34. Acron ad Hor. Sat. II v. 40.
  175. Pag. 103-106.
  176. Pag. 107 e 105.
  177. Pag. 109.
  178. Schol. Lucani 7, 726, e Seneca rhet. 382 Keil.
  179. Tanto per Catullo, quanto per Calvo vedi Suet. Caes. 73. Vedi anche a pag. 71, nota al v. 10.
  180. C. Licinius L. f. Macer, padre dell’oratore, accusato avanti Cicerone pretore per concussioni fatte nella sua provincia pretoria e da lui condannato, si diede la morte nel 688. Di lui vedi Cic. Brut. 238. Per il resto Sen. contr. 7, 4, 6.
  181. Mommsen SR. 5, 9. Cic. ad fam. XVI xii 4.
  182. C. Cilnius Maecenas, nato nelle idi di Aprile tra il 650 e il 690, morto nel 746. Vedi a pag. 109.
  183. Pag. 117 e 11S Priapea.
  184. Pag. 110-113 P. Verg. Maro: Priapea.
  185. Pag. 113-117 Catalepton. Le traccie di Catullo nel secondo si vedono, per es. al v. 7 Vale, Sabine, iam valete, formosi, posto vicino a Vale, puella, iam dell’[VIII] del poeta Veronese.
  186. Lucanus, Pharsalia I 128.
  187. Dio Cassius XLVII 43 e segg.
  188. Iambi [Epodon] I [XVI].
  189. I. [Ep.] II [VII].
  190. Solon Salamis 1, 2.
  191. Vedi a pag. 185 nota al v. 10 di [II-VII]. Quei versi sono per me pieni ancora di dubbio. Sensi fugam può valere fugi? o non varrà piuttosto «provai le amare conseguenze della fuga degli altri»? E l’abl. relicta.... parmula non dipende egli da fugam, meglio che da sensi? C’è tanta relazione tra fugere e relinquere! Cesare, a Munda, ai suoi che cominciavano a fuggire, diceva: proinde viderent quem et quo loco imperatorem deserturi forent (Vell. Pat. I, 55). Due cose dunque per me sono chiare: qui sentit fugam non vale fugit; qui fugit, non qui sentit fugam, relinquit aliquid o aliquem. Quindi non «reliqui parmulam et fugi»; ma sensi fugam in qua relicta est parmula. Può dunque significare (sebbene vi ripugni parmula, in tanta scarsezza di diminutivi Oraziani) «sentii l’amarezza in Philippi, di quella fuga e di quell’abbandono di scudi», senza la menoma nota di dispregio per sè e per Pompeo Varo. Tecum! Si è mai considerato abbastanza che egli dice «con te»? Oppure significa «sentii l’amaro di quella fuga, quando fu abbandonata la cavalleria, che dovette piegare anch’essa». A ogni modo, lontano ogni cenno d’ignavia. In così fiera battaglia! con così buon commilitone! nel dì del ritorno, nell’ora dei racconti familiarmente eroici!
  192. Hor. Sat. I vi 72.
  193. Sat. I x 31.
  194. Natus mare citra in quel luogo a LMueller pare non si possa dire se non di chi fosse in Italia, allora. Ma citra e ultra sono cenni in latino molto aiutati dalla propria fantasia. Vedi per es. Uv. 21, 26: leggerai citeriore agro, ulteriorem ripam, che rispetto a Livio sono il campo di là e la riva di qua.
  195. Epl. II, ii, 46 e segg.
  196. Sat. I, ii, 25. Vedi Porphyrione a questo verso: sub Malthini nomine quidam Maecenatem suspicantur significari. Vedi però Madvig Opusc. 1, pag. 64; vedi anche Cima ne’ suoi acuti Saggi, pag. 6; ma osserva ad ogni modo che se gli antichi indussero che Maltino fosse Maecenate dalla concordanza dell’abito e del portamento (Sen. Ep. 114), nessuno più di Orazio vedeva tale concordanza. Che se non satireggiò Maecenate in persona, egli derise certo il suo fare e il suo costume in altri.
  197. I. [Ep.] III [XV]. Il nome (agnomen) è nel v. 12, a modo quasi di bisticcio. Solennemente pone il nomen in C. IV vi 45, Vatis Horati. Fuor di questi due luoghi, non è mai nelle poesie meliche e iambiche il suo nome o cognome o prenome. Catullo invece, abbiamo veduto, si nomina a ogni momento. Di imitazione Catulliana è dunque segno anche si quid in Flacco viri est.
  198. I. [Ep.] IV [XIII].
  199. Pag. 116 nota a III [X].
  200. Pag. 114 nota a II [VIII].
  201. Ecl. i 7.
  202. Baehrens FPR. pag. 341.
  203. Pag. 131 nota a VI [X]. Servius ad ecl. ix 36.
  204. Pag. 107 nota al 2. Pag. 130 nota a V [VI], pag. 131 nota a VI [X].
  205. I. [Ep.] V [VI], VI [X].
  206. I. [Hp-] IX [V], X [II]. Alcuni da queste somiglianze deducono che l’epodo sia posteriore alle Georgiche.
  207. I. [Ep.] VII [IV].
  208. Sat. II vi 42.
  209. I. [Ep.] VIII [III].
  210. I. [Ep.] XI [XIV] e vedi anche l’[XI] tralasciato.
  211. I. [Ep.] XII [VIII].
  212. I. [Ep.] XIII [1].
  213. Pag. 148, v. 10 e nota. Pure nella nota al 12 si aggiunga che il pes non elaboratus può essere di questi emiambi, schietti, non accompagnati, come per es. proprio in quella poesia, da esametri, e in altre da trimetri, e in altre allineati con mezzi elegiaci: s’intende, nella loro forma acataletta.
  214. Pag. 212.
  215. Il metro pare di Alcaeo. Vedi fg. 43 Bergk.
  216. Carmina I [I-VII].
  217. Carmina II [I-XXVIII].
  218. Pag. 165 nota in fine.
  219. C. III [II-XVIII].
  220. I versi pari della [I-IV] hanno tutti lo spondeo nella prima sede fuori che il v. 2 Trahuntque; quelli della [II-XVIII] tutti l’iambo, fuorchè il v. 6 Ignotus e il v. 34 Regumque.
  221. C. VII [I-VIII]: vedine la nota anche per l’[XI] Epodon.
  222. C. IV [I-III].
  223. Il Peerlkamp rifiuta i vv. 15-20, e i vv. 25-36. All’obbiezione sua (di cui vedi a pag. 170 nota al v. 36, e in fine) Hercules non erat homo, si può bensì rispondere oltre che con Tac. Ann. IV 38 optumos quippe mortalium altissima cupere: sic Herculem et Liberum apud Graecos; oltre che con quella faccia del mito secondo la quale i giganti erano invincibili, se con gli dei non era anche un uomo, Heracles appunto; si può rispondere che persino in Orazio Hercules è uomo che si conquista l’immortalità; ma è, a ogni modo, un esempio che invita a tentare, non a posare.
  224. C. V. [I-XV].
  225. C. VI. [I-XIIII].
  226. C. VII. [I-VIII].
  227. C. VIII. [III-XII].
  228. Alc. 15 Bergk.
  229. C. IX [I-XXXVII].
  230. C. X [II-XIX].
  231. Carmina [I-1] a pag. 155.
  232. C. XI [II-VII].
  233. C. XII [II-XXVI].
  234. È scolion il fg. 36 Bergk.
  235. C. XIV [I-X].
  236. C. XIII [I-II].
  237. C. XV [II-I].
  238. C. XVI [I-VI].
  239. C. XVII [II-XII].
  240. Vedi le odi raccolte sotto il titolo IV. I convivii. L’amor di Glycera ([I-XIX] e [I-XXX] omesse) acquista con la [III-XIX] colore di verità, ma confrontando il v. 1 della [I-XIX] col v. 5 della [IV-I] e il tono e il metro, sospetto in tutte l’intenzione simbolica. So purtroppo che ai critici moderni ripugna credere a simboli e allegorie. Eppure Orazio e Vergilio ne hanno di evidenti!
  241. Vedi le odi raccolte sotto il titolo, V. Le Donne.
  242. Vedi le odi raccolte sotto il titolo, VI. Canto nuovo.
  243. Vedi le odi raccolte sotto il titolo, VII. In campagna.
  244. Vedi le odi raccolte sotto il titolo, VIII. Alla divinità.
  245. Ode decima nona del terzo: piena di dubbi.
  246. L’ode vigesima del primo, ancor più incerta.
  247. Vedi le odi raccolte?otto il titolo, IX. Banchetti con amici.
  248. Sat. I x 82; Epl. I iv.
  249. Vedi le odi raccolte sotto il titolo, X. Canti ad amici.
  250. Vedi le odi raccolte sotto il titolo, XI. Per Augusto.
  251. Vedi le due «Odi di Commiato».
  252. Pag. 148 XI nota.
  253. Saggi: pag. 54.
  254. Ars poetica v. 85.
  255. Può fare difficoltà iterum antiquo me includere ludo. Una seconda volta! mentre prima e summa accennano che le camenae o le opere poetiche sue dovevano essere, come sono, più di due. Iterum dunque potrebbe dare ansa alla supposizione che Maecenate volesse un altro libro di Iambi, più ancora che un altro libro di Carmina, specialmente per chi creda non essere una sola silloge quella dei tre libri. Ma no: il poeta ha in mente solo il gladiatore congedato, che dopo la rude si vorrebbe di nuovo, iterum, nell’arena.
  256. Epl. II i 111. Egli fa versi proprio nel dire che non li fa.
  257. Vedi III, Carmen Saeculare.
  258. Vedi IV. Odi del quarto libro.
  259. Al Sabbadini l’arte poetica e l’Epistola a Floro paiono anteriori al Carmen Saeculare. Vedi Le Epistole di Orazio comm. da R. Sabbadini, Loescher, pag. 9 e segg. Le ragioni sono ingegnose: una ingegnosissima. Ma. bisognerebbe tener conto anche delle particolarità linguistiche e metriche. Ne accenno qualcuna: l’A. P. non ha esempio d’iperbato di et; contiene molti più neologismi, per es. le caratteristiche formazioni di sost. in tor e di avverbi in ter etc.
  260. Pag. 316 Domitius Marsus. L’epigramma contro Bavio, riferito da Philarg. ad Verg. ecl. iii 90 in Cicuta, è tralasciato.
  261. Vedi a pag. 305 nella nota a V [XIV]. Del poema e dell’elegie (se erano elegie, non un’elegia sola o altro) ha lasciato memoria Marziale in IV xxix 7 e VII xxix 7; il qual Marziale parla di Marso, come di suo grande predecessore, qua e là.
  262. Pag. 317-321: specialmente il III [2] e il V [20].
  263. Tac. Ann. XVI xix.
  264. Pag. 321, Petronius, pag. 323 versus in Neronem.
  265. Tac. Ann. V iv.
  266. Pers. vi 1-6. Nella Vita Persii è: amicos habuit a prima adolescentia Caesium Bassum poetam et....
  267. Da Terent. Maur. 2358, e da Victorin. GL. 6, 209, 10.
  268. X i 96.
  269. Schol. Pers. ad vi 1. E vedi a pag. 322: Caesius Bassus.
  270. Pag. 323 P. Papinius Statius. Che cosa sia silva, oltre che dalle prefazioni prosastiche di Stazio, si rileva da Quintiliano X iii 17: decurrere per materiam stilo quam velocissimo volunt, et sequentes calorem atque impetum ex tempore seribunt. Itane silvam vocant.
  271. Silv. III v. 60, sgg. 41 sgg.
  272. Silv. IV iv 69, III v 13.
  273. Pag. 333 Somnus.
  274. Iuv. vii 86: (Statius) cum fregit subsellia versu, Esurit, intactam Paridi nisi vendit Agaven. Agave era un «libretto» di pantomima.
  275. Pag. 334. M. Val. Martialis. Epigrammaton liber.
  276. Pag. 296. Nota ultima.
  277. Pag. 338. Xenia, pag. 345 Apophoreta.
  278. Pag. 353. Lib. I-XII, e spec. pag. 368: Bei tipi.
  279. [IX lxxxi].
  280. Vedi a pag. 371 il XIII e l’XI, a pag. 372 il XIX, a pag. 356 il XII 10, a pag. 368 il II e il XV, a pag. 353 l’I 2; a pag. 356 il XIII.
  281. Pag. 353-366. Accenni alla propria vita. E vedi Plin. Ep. III xxi.
  282. Pag. 374-380. Florus.... Cantilena in Aurelianum.
  283. Pag. 381-393. Ausonius e Prudentius. Vedi a pag. 390, V. 120-123.