Orlando furioso (1928)/Canto 43

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Canto quarantesimoterzo

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Canto 42 Canto 44

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CANTO QUARANTESIMOTERZO

1
     O esecrabile Avarizia, o ingorda
fame d’avere, io non mi maraviglio
ch’ad alma vile e d’altre macchie lorda,
sí facilmente dar possi di piglio;
ma che meni legato in una corda,
e che tu impiaghi del medesmo artiglio
alcun, che per altezza era d’ingegno,
se te schivar potea, d’ogni onor degno.

2
     Alcun la terra e ’l mare e ’l ciel misura,
e render sa tutte le cause a pieno
d’ogni opra, d’ogni effetto di Natura,
e poggia sí ch’a Dio riguarda in seno;
e non può aver piú ferma e maggior cura,
morso dal tuo mortifero veleno,
ch’unir tesoro: e questo sol gli preme,
e ponvi ogni salute, ogni sua speme.

3
     Rompe eserciti alcuno, e ne le porte
si vede entrar di bellicose terre,
et esser primo a porre il petto forte,
ultimo a trarre, in perigliose guerre;
e non può riparar che sino a morte
tu nel tuo cieco carcere noi serre.
Altri d’altre arti e d’altri studi industri,
oscuri fai, che sarian chiari e illustri.

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4
     Che d’alcune dirò belle e gran donne
ch’a bellezza, a virtú de fidi amanti,
a lunga servitú, piú che colonne
io veggo dure, immobili e constanti?
Veggo venir poi l’Avarizia, e ponne
far sí, che par che subito le incanti:
in un dí, senza amor (chi fia che ’l creda?)
a un vecchio, a un brutto, a un mostro le dá in preda.

5
     Non è senza cagion s’io me ne doglio:
intendami chi può, che m’intend’io.
Né però di proposito mi toglio,
né la materia del mio canto oblio;
ma non piú a quel c’ho detto, adattar voglio,
ch’a quel ch’io v’ho da dire, il parlar mio.
Or torniamo a contar del paladino
ch’ad assaggiare il vaso fu vicino.

6
     Io vi dicea ch’alquanto pensar volle,
prima ch’ai labri il vaso s’appressasse.
Pensò, e poi disse: — Ben sarebbe folle
chi quel che non vorria trovar, cercasse.
Mia donna è donna, et ogni donna è molle:
lascián star mia credenza come stasse.
Sin qui m’ha il creder mio giovato, e giova:
che poss’io megliorar per farne prova?

7
     Potria poco giovare e nuocer molto;
che ’l tentar qualche volta Idio disdegna.
Non so s’in questo io mi sia saggio o stolto;
ma non vo’ piú saper, che mi convegna.
Or questo vin dinanzi mi sia tolto:
sete non n’ho, né vo’ che me ne vegna;
che tal certezza ha Dio piú proibita,
ch’al primo padre l’arbor de la vita.

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8
     Che come Adam, poi che gustò del pomo
che Dio con propria bocca gl’interdisse,
da la letizia al pianto fece un tomo,
onde in miseria poi sempre s’afflisse;
cosí, se de la moglie sua vuol l’uomo
tutto saper quanto ella fece e disse,
cade de l’allegrezze in pianti e in guai,
onde non può piú rilevarsi mai. —

9
     Cosí dicendo il buon Rinaldo, e intanto
respingendo da sé l’odiato vase,
vide abondare un gran rivo di pianto
dagli occhi del signor di quelle case,
che disse, poi che racchetossi alquanto:
— Sia maledetto chi mi persuase
ch’io facesse la prova, ohimè! di sorte,
che mi levò la dolce mia consorte.

10
     Perché non ti conobbi giá dieci anni,
sí che io mi fossi consigliato teco,
prima che cominciassero gli affanni,
e ’l lungo pianto onde io son quasi cieco?
Ma vo’ levarti da la scena i panni;
che ’l mio mal vegghi, e te ne dogli meco:
e ti dirò il principio e l’argumento
del mio non comparabile tormento.

11
     Qua su lasciasti una cittá vicina,
a cui fa intorno un chiaro fiume laco,
che poi si stende e in questo Po declina,
e l’origine sua vien di Benaco.
Fu fatta la cittá, quando a ruina
le mura andar de l’agenoreo draco.
Quivi nacque io di stirpe assai gentile,
ma in pover tetto e in facultade umíle.

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12
     Se Fortuna di me non ebbe cura
sí che mi desse al nascer mio ricchezza,
al diffetto di lei supplí Natura,
che sopra ogni mio ugual mi diè bellezza.
Donne e donzelle giá di mia figura
arder piú d’una vidi in giovanezza;
ch’io ci seppi accoppiar cortesi modi;
ben che stia mal che l’uom se stesso lodi.

13
     Ne la nostra cittade era un uom saggio,
di tutte l’arti oltre ogni creder dotto,
che quando chiuse gli occhi al febeo raggio,
contava gli anni suoi cento e ventotto.
Visse tutta sua etá solo e selvaggio,
se non l’estrema; che d’Amor condotto,
con premio ottenne una matrona bella,
e n’ebbe di nascosto una cittella.

14
     E per vietar che simil la figliuola
alla matre non sia, che per mercede
vendé sua castitá che valea sola
piú che quanto oro al mondo si possiede,
fuor del commercio popular la invola;
et ove piú solingo il luogo vede,
questo amplo e bel palagio e ricco tanto
fece fare a’ demonii per incanto.

15
     A vecchie donne e caste fe’ nutrire
la figlia qui, ch’in gran beltá poi venne;
né che potesse altr’uom veder, né udire
pur ragionarne in quella etá, sostenne.
E perch’avesse esempio da seguire,
ogni pudica donna che mai tenne
contra illicito amor chiuse le sbarre,
ci fe’ d’intaglio o di color ritrarre:

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16
     non quelle sol che di virtude amiche
hanno sí il mondo all’etá prisca adorno;
di quai la fama per l’istorie antiche
non è per veder mai l’ultimo giorno:
ma nel futuro ancora altre pudiche
che faran bella Italia d’ogn’intorno,
ci fe’ ritrarre in lor fattezze conte,
come otto che ne vedi a questa fonte.

17
     Poi che la figlia al vecchio par matura
sí, che ne possa l’uom cogliere i frutti;
o fosse mia disgrazia o mia aventura,
eletto fui degno di lei fra tutti.
I lati campi oltre alle belle mura,
non meno i pescarecci, che gli asciutti,
che ci son d’ogn’intorno a venti miglia,
mi consegnò per dote de la figlia.

17
     Ella era bella e costumata tanto,
che piú desiderar non si potea.
Di bei trapunti e di riccami, quanto
mai ne sapesse Pallade, sapea.
Vedila andare, odine il suono e ’l canto:
celeste e non mortal cosa parea.
E in modo all’arti liberali attese,
che, quanto il padre, o poco men n’intese.

19
     Con grande ingegno, e non minor bellezza
che fatta l’avria amabil fin ai sassi,
era giunto un amore, una dolcezza,
che par ch’a rimembrarne il cor mi passi.
Non avea piú piacer né piú vaghezza,
che d’esser meco ov’io mi stessi o andassi.
Senza aver lite mai stemmo gran pezzo:
l’avemmo poi, per colpa mia, da sezzo.

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20
     Morto il suocero mio dopo cinque anni
ch’io sottoposi il collo al giugal nodo,
non stêro molto a cominciar gli affanni
ch’io sento ancora, e ti dirò in che modo.
Mentre mi richiudea tutto coi vanni
l’amor di questa mia che sí ti lodo,
una femina nobil del paese,
quanto accender si può, di me s’accese.

21
     Ella sapea d’incanti e di malie
quel che saper ne possa alcuna maga:
rendea la notte chiara, oscuro il die,
fermava il sol, facea la terra vaga.
Non potea trar però le voglie mie,
che le sanassin l’amorosa piaga
col rimedio che dar non le potria
senza alta ingiuria de la donna mia.

22
     Non perché fosse assai gentile e bella,
né perché sapess’io che sí me amassi,
né per gran don, né per promesse ch’ella
mi fêsse molte, e di continuo instassi,
ottener poté mai ch’una fiammella,
per darla a lei, del primo amor levassi;
ch’a dietro ne traea tutte mie voglie
il conoscermi fida la mia moglie.

23
     La speme, la credenza, la certezza
che de la fede di mia moglie avea,
m’avria fatto sprezzar quanta bellezza
avesse mai la giovane ledea,
o quanto offerto mai senno e ricchezza
fu al gran pastor de la montagna Idea.
Ma le repulse mie non valean tanto,
che potesson levarmela da canto.

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24
     Un dí che mi trovò fuor del palagio
la maga, che nomata era Melissa,
e mi poté parlare a suo grande agio,
modo trovò da por mia pace in rissa,
e con lo spron di gelosia malvagio
cacciar del cor la fé che v’era fissa.
Comincia a comendar la intenzïon mia,
ch’io sia fedele a chi fedel mi sia.

25
     — Ma che ti sia fedel, tu non puoi dire,
prima che di sua fé prova non vedi.
S’ella non falle, e che potria fallire,
che sia fedel, che sia pudica credi.
Ma se mai senza te non la lasci ire,
se mai vedere altr’uom non le conciedi,
onde hai questa baldanza, che tu dica
e mi vogli affermar che sia pudica?

26
     Scostati un poco, scostati da casa;
fa che le cittadi odano e i villaggi,
che tu sia andato, e ch’ella sia rimasa;
agli amanti dá commodo e ai messaggi.
S’a prieghi, a doni non fia persuasa
di fare al letto maritale oltraggi,
e che, facendol, creda che si cele,
allora dir potrai che sia fedele. —

27
     Con tal parole e simili non cessa
l’incantatrice, fin che mi dispone
che de la donna mia la fede espressa
veder voglia e provare a paragone.
— Ora pogniamo (le soggiungo) ch’essa
sia qual non posso averne opinïone:
come potrò di lei poi farmi certo
che sia di punizion degna o di merto? —

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28
     Disse Melissa: — Io ti darò un vasello
fatto da ber, di virtú rara e strana;
qual giá per fare accorto il suo fratello
del fallo di Genevra, fe’ Morgana.
Chi la moglie ha pudica, bee con quello:
ma non vi può giá ber chi l’ha puttana;
che ’l vin, quando lo crede in bocca porre,
tutto si sparge, e fuor nel petto scorre.

29
     Prima che parti, ne farai la prova,
e per lo creder mio tu berai netto;
che credo ch’ancor netta si ritrova
la moglie tua: pur ne vedrai l’effetto.
Ma s’al ritorno esperïenza nuova
poi ne farai, non t’assicuro il petto:
che se tu non lo immolli, e netto bèi,
d’ogni marito il piú felice sei. —

30
     L’offerta accetto; il vaso ella mi dona:
ne fo la prova, e mi succede a punto;
che, com’era il disio, pudica e buona
la cara moglie mia trovo a quel punto.
Dice Melissa: — Un poco l’abbandona;
per un mese o per duo stanne disgiunto:
poi torna; poi di nuovo il vaso tolli;
prova se bevi, o pur se ’l petto immolli. —

31
     A me duro parea pur di partire;
non perché di sua fé sí dubitassi,
come ch’io non potea duo di patire,
né un’ora pur, che senza me restassi.
Disse Melissa: — Io ti farò venire
a conoscere il ver con altri passi.
Vo’ che muti il parlare e i vestimenti,
e sotto viso altrui te l’appresenti. —

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32
     Signor, qui presso una cittá difende
il Po fra minacciose e fiere corna;
la cui iuridizion di qui si stende
fin dove il mar fugge dal lito e torna.
Cede d’antiquitá, ma ben contende
con le vicine in esser ricca e adorna.
Le reliquie troiane la fondaro,
che dal flagello d’Attila camparo.

33
     Astringe e lenta a questa terra il morso
un cavallier giovene, ricco e bello,
che dietro un giorno a un suo falcone iscorso,
essendo capitato entro il mio ostello,
vide la donna, e sí nel primo occorso
gli piacque, che nel cor portò il suggello;
né cessò molte pratice far poi,
per inchinarla ai desiderii suoi.

34
     Ella gli fece dar tante repulse,
che piú tentarla al fine egli non volse;
ma la beltá di lei, ch’Amor vi sculse,
di memoria però non se gli tolse.
Tanto Melissa allosingommi e mulse,
ch’a tor la forma di colui mi volse;
e mi mutò (né so ben dirti come)
di faccia, di parlar, d’occhi e di chiome.

35
     Giá con mia moglie avendo simulato
d’esser partito e gitone in Levante,
nel giovene amator cosí mutato
l’andar, la voce, l’abito e ’l sembiante,
me ne ritorno, et ho Melissa a lato,
che s’era trasformata, e parea un fante;
e le piú ricche gemme avea con lei,
che mai mandassin gl’Indi o gli Eritrei.

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36
     Io che l’uso sapea del mio palagio,
entro sicuro, e vien Melissa meco;
e madonna ritrovo a sí grande agio,
che non ha né scudier né donna seco.
I miei prieghi le espongo, indi il malvagio
stimulo inanzi del mal far le arreco:
i rubini, i diamanti e gli smeraldi,
che mosso arebbon tutti i cor piú saldi.

37
     E le dico che poco è questo dono
verso quel che sperar da me dovea:
de la commoditá poi le ragiono,
che, non v’essendo il suo marito, avea:
e le ricordo che gran tempo sono
stato suo amante, com’ella sapea;
e che l’amar mio lei con tanta fede
degno era avere al fin qualche mercede.

38
     Turbossi nel principio ella non poco,
divenne rossa, et ascoltar non volle;
ma il veder fiammeggiar poi, come fuoco,
le belle gemme, il duro cor fe’ molle:
e con parlar rispose breve e fioco,
quel che la vita a rimembrar mi tolle;
che mi compiaceria, quando credesse
ch’altra persona mai nol risapesse.

39
     Fu tal risposta un venenato telo
di che me ne senti’ l’alma traffissa:
per l’ossa andommi e per le vene un gielo;
ne le fauci restò la voce fissa.
Levando allora del suo incanto il velo,
ne la mia forma mi tornò Melissa.
Pensa di che color dovesse farsi,
ch’in tanto error da me vide trovarsi.

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40
     Divenimmo ambi di color di morte,
muti ambi, ambi restián con gli occhi bassi.
Potei la lingua a pena aver sí forte,
e tanta voce a pena, ch’io gridassi:
— Me tradiresti dunque tu, consorte,
quando tu avessi chi ’l mio onor comprassi? —
Altra risposta darmi ella non puote,
che di rigar di lacrime le gote.

41
     Ben la vergogna è assai, ma piú lo sdegno
ch’ella ha, da me veder farsi quella onta;
e multiplica sí senza ritegno,
ch’in ira al fine e in crudele odio monta.
Da me fuggirsi tosto fa disegno;
e ne l’ora che ’l Sol del carro smonta,
al fiume corse, e in una sua barchetta
si fa calar tutta la notte in fretta:

42
     e la matina s’appresenta avante
al cavallier che l’avea un tempo amata,
sotto il cui viso, sotto il cui sembiante
fu contra l’onor mio da me tentata.
A lui che n’era stato et era amante,
creder si può che fu la giunta grata.
Quindi ella mi fe’ dir ch’io non sperassi
che mai piú fosse mia, né piú m’amassi.

43
     Ah lasso! da quel dí con lui dimora
in gran piacere, e di me prende giuoco;
et io del mal che procacciammi allora,
ancor languisco, e non ritrovo loco.
Cresce il mal sempre, e giusto è ch’io ne muora;
e resta omai da consumarci poco.
Ben credo che ’l primo anno sarei morto,
se non mi dava aiuto un sol conforto.

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44
     Il conforto ch’io prendo, è che di quanti
per dieci anni mai fur sotto al mio tetto
(ch’a tutti questo vaso ho messo inanti),
non ne trovo un che non s’immolli il petto.
Aver nel caso mio compagni tanti
mi dá fra tanto mal qualche diletto.
Tu tra infiniti sol sei stato saggio,
che far negasti il periglioso saggio.

45
     Il mio voler cercare oltre alla meta
che de la donna sua cercar si deve,
fa che mai piú trovare ora quïeta
non può la vita mia, sia lunga o breve.
Di ciò Melissa fu a principio lieta:
ma cessò tosto la sua gioia lieve;
ch’essendo causa del mio mal stata ella,
io l’odiai sí, che non potea vedella.

46
     Ella d’esser odiata impazïente
da me che dicea amar piú che sua vita,
ove donna restarne immantinente
creduto avea, che l’altra ne fosse ita;
per non aver sua doglia sí presente,
non tardò molto a far di qui partita;
e in modo abbandonò questo paese,
che dopo mai per me non se n’intese. —

47
     Cosí narrava il mesto cavalliero:
e quando fine alla sua istoria pose,
Rinaldo alquanto ste’ sopra pensiero,
da pietá vinto, e poi cosí rispose:
— Mal consiglio ti diè Melissa in vero,
che d’attizzar le vespe ti propose;
e tu fusti a cercar poco avveduto
quel che tu avresti non trovar voluto.

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48
     Se d’avarizia la tua donna vinta
a voler fede romperti fu indutta,
non t’ammirar: né prima ella né quinta
fu de le donne prese in sí gran lutta;
e mente via piú salda ancora è spinta
per minor prezzo a far cosa piú brutta.
Quanti uomini odi tu, che giá per oro
han traditi padroni e amici loro?

49
     Non dovevi assalir con sí fiere armi,
se bramavi veder farle difesa.
Non sai tu, contra l’oro, che né i marmi
né ’l durissimo acciar sta alla contesa?
Che piú fallasti tu a tentarla parmi,
di lei che cosí tosto restò presa.
Se te altretanto avesse ella tentato,
non so se tu piú saldo fossi stato. —

50
     Qui Rinaldo fe’ fine, e da la mensa
levossi a un tempo, e domandò dormire;
che riposare un poco, e poi si pensa
inanzi al dí d’un’ora o due partire.
Ha poco tempo, e ’l poco c’ha, dispensa
con gran misura, e invan nol lascia gire.
Il signor di lá dentro, a suo piacere,
disse, che si potea porre a giacere;

51
     ch’apparecchiata era la stanza e ’l letto
ma che se volea far per suo consiglio,
tutta notte dormir potria a diletto,
e dormendo avanzarsi qualche miglio.
— Acconciar ti farò (disse) un legnetto,
con che volando, e senz’alcun periglio
tutta notte dormendo vo’ che vada,
e una giornata avanzi de la strada. —

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52
     La proferta a Rinaldo accettar piacque,
e molto ringraziò l’oste cortese:
poi senza indugio lá, dove ne l’acque
da’ naviganti era aspettato, scese.
Quivi a grande agio riposato giacque,
mentre il corso del fiume il legno prese,
che da sei remi spinto, lieve e snello
pel fiume andò, come per l’aria augello.

53
     Cosí tosto come ebbe il capo chino,
il cavallier di Francia adormentosse;
imposto avendo giá, come vicino
giungea a Ferrara, che svegliato fosse.
Restò Melara nel lito mancino;
nel lito destro Sermide restosse:
Figarolo e Stellata il legno passa,
ove le corna il Po iracondo abbassa.

54
     De le due corna il nocchier prese il destro,
e lasciò andar verso Vinegia il manco:
passò il Bondeno: e giá il color cilestro
si vedea in oriente venir manco,
che votando di fior tutto il canestro,
l’Aurora vi facea vermiglio e bianco;
quando, lontan scoprendo di Tealdo
ambe le ròcche, il capo alzò Rinaldo.

55
     — O cittá bene aventurosa (disse),
di cui giá Malagigi, il mio cugino,
contemplando le stelle erranti e fisse,
e constringendo alcun spirto indovino,
nei secoli futuri mi predisse
(giá ch’io facea con lui questo camino)
ch’ancor la gloria tua salirá tanto,
ch’avrai di tutta Italia il pregio e ’l vanto. —

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56
     Cosí dicendo, e pur tuttavia in fretta
su quel battel che parea aver le penne,
scorrendo il re de’ fiumi, all’isoletta
ch’alla cittade è piú propinqua, venne:
e ben che fosse allora erma e negletta,
pur s’allegrò di rivederla, e fenne
non poca festa; che sapea quanto ella,
volgendo gli anni, saria ornata e bella.

57
     Altra fïata che fe’ questa via,
udí da Malagigi, il qual seco era,
che settecento volte che si sia
girata col monton la quarta sfera,
questa la piú ioconda isola fia
di quante cinga mar, stagno o riviera;
sí che, veduta lei, non sará ch’oda
dar piú alla patria di Nausicaa loda.

58
     Udí che di bei tetti posta inante
sarebbe a quella sí a Tiberio cara;
che cederian l’Esperide alle piante
ch’avria il bel loco, d’ogni sorte rara;
che tante spezie d’animali, quante
vi fien, né in mandra Circe ebbe né in hara;
che v’avria con le Grazie e con Cupido
Venere stanza, e non piú in Cipro o in Gnido:

59
     e che sarebbe tal per studio e cura
di chi al sapere et al potere unita
la voglia avendo, d’argini e di mura
avria sí ancor la sua cittá munita,
che contra tutto il mondo star sicura
potria, senza chiamar di fuori aita;
e che d’Ercol figliuol, d’Ercol sarebbe
padre il signor che questo e quel far debbe.

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60
     Cosí venía Rinaldo ricordando
quel che giá il suo cugin detto gli avea,
de le future cose divinando,
che spesso conferir seco solea.
E tuttavia l’umil cittá mirando:
— Come esser può ch’ancor (seco dicea)
debban cosí fiorir queste paludi
de tutti i liberali e degni studi?

61
     e crescer abbia di sí piccol borgo
ampla cittade e di sí gran bellezza?
e ciò ch’intorno è tutto stagno e gorgo,
sien lieti e pieni campi di ricchezza?
Cittá, sin ora a riverire assorgo
l’amor, la cortesia, la gentilezza
de’ tuoi signori, e gli onorati pregi
dei cavallier, dei cittadini egregi.

62
     L’ineffabil bontá del Redentore,
de’ tuoi principi il senno e la iustizia,
sempre con pace, sempre con amore
ti tenga in abondanzia et in letizia;
e ti difenda contra ogni furore
de’ tuoi nimici, e scuopra lor malizia:
del tuo contento ogni vicino arrabbi,
piú tosto che tu invidia ad alcuno abbi. —

63
     Mentre Rinaldo cosí parla, fende
con tanta fretta il suttil legno l’onde,
che con maggiore a logoro non scende
falcon ch’al grido del padron risponde.
Del destro corno il destro ramo prende
quindi il nocchiero, e mura e tetti asconde:
San Georgio a dietro, a dietro s’allontana
la torre e de la Fossa e di Gaibana.

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64
     Rinaldo, come accade ch’un pensiero
un altro dietro, e quello un altro mena,
si venne a ricordar del cavalliero
nel cui palagio fu la sera a cena;
che per questa cittade, a dire il vero,
avea giusta cagion di stare in pena:
e ricordossi del vaso da bere,
che mostra altrui l’error de la mogliere;

65
     e ricordossi insieme de la prova
che d’aver fatta il cavallier narrolli;
che di quanti avea esperti, uomo non trova
che bea nel vaso, e’l petto non s’immolli.
Or si pente, or tra sé dice: — E’ mi giova
ch’a tanto paragon venir non volli.
Riuscendo, accertava il creder mio;
non riuscendo, a che partito era io?

66
     Gli è questo creder mio, come io l’avessi
ben certo, e poco accrescer lo potrei:
sí che, s’al paragon mi succedessi,
poco il meglio saria ch’io ne trarrei;
ma non giá poco il mal, quando vedessi
quel di Clarice mia, ch’io non vorrei.
Metter saria mille contra uno a giuoco;
che perder si può molto, e acquistar poco. —

67
     Stando in questo pensoso il cavalliero
di Chiaramonte, e non alzando il viso,
con molta attenzïon fu da un nocchiero
che gli era incontra, riguardato fiso:
e perché di veder tutto il pensiero
che l’occupava tanto, gli fu aviso,
come uom che ben parlava et avea ardire,
a seco ragionar lo fece uscire.

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68
     La somma fu del lor ragionamento,
che colui malaccorto era ben stato,
che ne la moglie sua l’esperimento
maggior che può far donna, avea tentato;
che quella che da l’oro e da l’argento
difende il cor di pudicizia armato,
tra mille spade via piú facilmente
difenderallo, e in mezzo al fuoco ardente.

69
     Il nocchier suggiungea: — Ben gli dicesti,
che non dovea offerirle sí gran doni;
che contrastare a questi assalti e a questi
colpi non sono tutti i petti buoni.
Non so se d’una giovane intendesti
(ch’esser pò che tra voi se ne ragioni),
che nel medesmo error vide il consorte,
di ch’esso avea lei condannata a morte.

70
     Dovea in memoria avere il signor mio,
che l’oro e ’l premio ogni durezza inchina;
ma, quando bisognò, l’ebbe in oblio,
et ei si procacciò la sua ruina.
Cosí sapea lo esempio egli, com’io,
che fu in questa cittá di qui vicina,
sua patria e mia, che ’l lago e la palude
del rifrenato Menzo intorno chiude:

71
     d’Adonio voglio dir, che ’l ricco dono
fe’ alla moglie del giudice, d’un cane. —
— Di questo (disse il paladino) il suono
non passa l’Alpe, e qui tra voi rimane;
perché né in Francia, né dove ito sono,
parlar n’udi’ ne le contrade estrane:
sí che di’ pur, se non t’incresce il dire:
che volentieri io mi t’acconcio a udire. —

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72
     Il nocchier cominciò: — Giá fu di questa
terra un Anselmo di famiglia degna,
che la sua gioventú con lunga vesta
spese in saper ciò ch’Ulpïano insegna;
e di nobil progenie, bella e onesta
moglie cercò, ch’al grado suo convegna;
e d’una terra quindi non lontana
n’ebbe una di bellezza sopraumana;

73
     e di bei modi e tanto grazïosi,
che parea tutto amore e leggiadria;
e di molto piú forse, ch’ai riposi,
ch’allo stato di lui non convenia.
Tosto che l’ebbe, quanti mai gelosi
al mondo fur, passò di gelosia:
non giá ch’altra cagion gli ne desse ella,
che d’esser troppo accorta e troppo bella.

74
     Ne la cittá medesma un cavalliero
era d’antiqua e d’onorata gente,
che discendea da quel lignaggio altiero
ch’uscí d’una mascella di serpente,
onde giá Manto, e chi con essa fêro
la patria mia, disceser similmente.
Il cavallier, ch’Adonio nominosse,
di questa bella donna inamorosse.

75
     E per venire a fin di questo amore,
a spender cominciò senza ritegno
in vestire, in conviti, in farsi onore,
quanto può farsi un cavallier piú degno.
Il tesor di Tiberio imperatore
non saria stato a tante spese al segno.
Io credo ben che non passâr duo verni,
ch’egli uscí fuor di tutti i ben paterni.

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76
     La casa ch’era dianzi frequentata
matina e sera tanto dagli amici,
sola restò, tosto che fu privata
di starne, di fagian, di coturnici.
Egli che capo fu de la brigata,
rimase dietro, e quasi fra mendici.
Pensò, poi ch’in miseria era venuto,
d’andare ove non fosse conosciuto.

77
     Con questa intenzïone una mattina,
senza far motto altrui, la patria lascia;
e con sospiri e lacrime camina
lungo lo stagno che le mura fascia.
La donna che del cor gli era regina,
giá non oblia per la seconda ambascia.
Ecco un’alta aventura che lo viene
di sommo male a porre in sommo bene.

78
     Vede un villan che con un gran bastone
intorno alcuni sterpi s’affatica.
Quivi Adonio si ferma, e la cagione
di tanto travagliar vuol che gli dica.
Disse il villan, che dentro a quel macchione
veduto avea una serpe molto antica,
di che piú lunga e grossa a’ giorni suoi
non vide, né credea mai veder poi;

79
     e che non si voleva indi partire,
che non l’avesse ritrovata e morta.
Come Adonio lo sente cosí dire,
con poca pazïenzia lo sopporta.
Sempre solea le serpi favorire;
che per insegna il sangue suo le porta
in memoria ch’uscí sua prima gente
de’ denti seminati di serpente.

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80
     E disse e fece col villano in guisa
che, suo mal grado, abbandonò l’impresa;
sí che da lui non fu la serpe uccisa,
né piú cercata, né altrimenti offesa.
Adonio ne va poi dove s’avisa
che sua condizïon sia meno intesa;
e dura con disagio e con affanno
fuor de la patria appresso al settimo anno.

81
     Né mai per lontananza, né strettezza
del viver, che i pensier non lascia ir vaghi,
cessa Amor che sí gli ha la mano avezza,
ch’ognor non li arda il core, ognor impiaghi.
È forza al fin che torni alla bellezza
che son di riveder sí gli occhi vaghi.
Barbuto, afflitto, e assai male in arnese,
lá donde era venuto, il camin prese.

82
     In questo tempo alla mia patria accade
mandare uno oratore al Padre santo,
che resti appresso alla sua Santitade
per alcun tempo, e non fu detto quanto.
Gettan la sorte, e nel giudice cade.
Oh giorno a lui cagion sempre di pianto!
Fe’ scuse, pregò assai, diede e promesse
per non partirsi; e al fin sforzato cesse.

83
     Non gli parea crudele e duro manco
a dover sopportar tanto dolore,
che se veduto aprir s’avesse il fianco,
e vedutosi trar con mano il core.
Di geloso timor pallido e bianco
per la sua donna, mentre staria fuore,
lei con quei modi che giovar si crede,
supplice priega a non mancar di fede:

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84
     dicendole ch’a donna né bellezza,
né nobiltá, né gran fortuna basta,
sí che di vero onor monti in altezza,
se per nome e per opre non è casta;
e che quella virtú via piú si prezza,
che di sopra riman quando contrasta,
e ch’or gran campo avria per questa absenza,
di far di pudicizia esperïenza.

85
     Con tai le cerca et altre assai parole
persuader ch’ella gli sia fedele.
De la dura partita ella si duole,
con che lacrime, oh Dio! con che querele!
E giura che piú tosto oscuro il sole
vedrassi, che gli sia mai sí crudele,
che rompa fede; e che vorria morire
piú tosto ch’aver mai questo desire.

86
     Ancor ch’a sue promesse e a suoi scongiuri
desse credenza e si achetasse alquanto,
non resta che piú intender non procuri,
e che materia non procacci al pianto.
Avea uno amico suo, che dei futuri
casi predir teneva il pregio e ’l vanto;
e d’ogni sortilegio e magica arte,
o il tutto, o ne sapea la maggior parte.

87
     Diegli, pregando, di vedere assunto,
se la sua moglie, nominata Argia,
nel tempo che da lei stará disgiunto,
fedele e casta, o pel contrario fia.
Colui da prieghi vinto, tolle il punto,
il ciel figura come par che stia.
Anselmo il lascia in opra, e l’altro giorno
a lui per la risposta fa ritorno.

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88
     L’astrologo tenea le labra chiuse,
per non dire al dottor cosa che doglia,
e cerca di tacer con molte scuse.
Quando pur del suo mal vede c’ha voglia,
che gli romperá fede gli concluse,
tosto ch’egli abbia il piè fuor de la soglia,
non da bellezza né da prieghi indotta,
ma da guadagno e da prezzo corrotta.

89
     Giunte al timore, al dubbio ch’avea prima,
queste minaccie dei superni moti,
come gli stesse il cor, tu stesso stima,
se d’amor gli accidenti ti son noti.
E sopra ogni mestizia che l’opprima,
e che l’afflitta mente aggiri e arruoti,
è ’l saper come, vinta d’avarizia,
per prezzo abbia a lasciar sua pudicizia.

90
     Or per far quanti potea far ripari
da non lasciarla in quel error cadere
(perché il bisogno a dispogliar gli altari
tra’ l’uom talvolta, che sel trova avere),
ciò che tenea di gioie e di danari
(che n’avea somma) pose in suo potere:
rendite e frutti d’ogni possessione,
e ciò c’ha al mondo, in man tutto le pone.

91
     — Con facultade (disse) che ne’ tuoi
non sol bisogni te li goda e spenda,
ma che ne possi far ciò che ne vuoi,
li consumi, li getti, e doni e venda;
altro conto saper non ne vo’ poi,
pur che, qual ti lascio or, tu mi ti renda:
pur che, come or tu sei, mi sie rimasa,
fa che io non trovi né poder né casa. —

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92
     La prega che non faccia, se non sente
ch’egli ci sia, ne la cittá dimora;
ma ne la villa, ove piú agiatamente
viver potrá d’ogni commercio fuora.
Questo dicea, però che l’umil gente
che nel gregge o ne’ campi gli lavora,
non gli era aviso che le caste voglie
contaminar potessero alla moglie.

93
     Tenendo tuttavia le belle braccia
al timido marito al collo Argia,
e di lacrime empiendogli la faccia,
ch’un fiumicel dagli occhi le n’uscia;
s’attrista che colpevole la faccia,
come di fé mancata giá gli sia;
che questa sua sospizïon procede,
perché non ha ne la sua fede fede.

94
     Troppo sará, s’io voglio ir rimembrando
ciò ch’ai partir da tramendua fu detto.
— Il mio onor (dice al fin) ti raccomando: —
piglia licenzia, e partesi in effetto;
e ben si sente veramente, quando
volge il cavallo, uscire il cor del petto.
Ella lo segue, quanto seguir puote,
con gli occhi che le rigano le gote.

95
     Adonio intanto misero e tapino,
e (come io dissi) pallido e barbuto,
verso la patria avea preso il camino,
sperando di non esser conosciuto.
Sul lago giunse alla cittá vicino,
lá dove avea dato alla biscia aiuto,
ch’era assediata entro la macchia forte
da quel villan che por la volea a morte.

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96
     Quivi arrivando in su l’aprir del giorno,
ch’ancor splendea nel cielo alcuna stella,
si vede in peregrino abito adorno
venir pel lito incontra una donzella
in signoril sembiante, ancor ch’intorno
non l’apparisse né scudier né ancella.
Costei con grata vista lo raccolse,
e poi la lingua a tai parole sciolse:

97
     — Se ben non mi conosci, o cavalliero,
son tua parente, e grande obligo t’aggio:
parente son, perché da Cadmo fiero
scende d’amenduo noi l’alto lignaggio.
Io son la fata Manto, che ’l primiero
sasso messi a fondar questo villaggio;
e dal mio nome (come ben forse hai
contare udito) Mantua la nomai.

98
     De le fate io son una; et il fatale
stato per farti anco saper ch’importe,
nascemo a un punto, che d’ogn’altro male
siamo capaci, fuor che de la morte.
Ma giunto è con questo essere immortale
condizïon non men del morir forte;
ch’ogni settimo giorno ogniuna è certa
che la sua forma in biscia si converta.

99
     Il vedersi coprir del brutto scoglio,
e gir serpendo, è cosa tanto schiva,
che non è pare al mondo altro cordoglio;
tal che bestemmia ogniuna d’esser viva.
E l’obligo ch’io t’ho (perché ti voglio
insiememente dire onde deriva),
tu saprai che quel dí, per esser tali,
siamo a periglio d’infiniti mali.

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100
     Non è sí odiato altro animale in terra,
come la serpe; e noi, che n’abbián faccia,
patimo da ciascuno oltraggio e guerra;
che chi ne vede, ne percuote e caccia.
Se non troviamo ove tornar sotterra,
sentiamo quanto pesa altrui le braccia.
Meglio saria poter morir, che rotte
e storpiate restar sotto le botte.

101
     L’obligo ch’io t’ho grande, è ch’una volta
che tu passavi per quest’ombre amene,
per te di mano fui d’un villan tolta,
che gran travagli m’avea dati e pene.
Se tu non eri, io non andava asciolta,
ch’io non portassi rotto e capo e schene,
e che sciancata non restassi e storta,
se ben non vi potea rimaner morta:

102
     perché quei giorni che per terra il petto
traemo avvolte in serpentile scorza,
il ciel ch’in altri tempi è a noi suggetto,
niega ubbidirci, e prive sián di forza.
In altri tempi ad un sol nostro detto
il sol si ferma e la sua luce ammorza;
l’immobil terra gira e muta loco;
s’infiamma il ghiaccio, e si congela il fuoco.

103
     Ora io son qui per renderti mercede
del beneficio che mi festi allora.
Nessuna grazia indarno or mi si chiede
ch’io son del manto viperino fuora.
Tre volte piú che di tuo padre erede
non rimanesti, io ti fo ricco or ora;
né vo’ che mai piú povero diventi,
ma quanto spendi piú, che piú augumenti.

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104
     E perché so che ne l’antiquo nodo,
in che giá Amor t’avinse, anco ti trovi,
voglioti dimostrar l’ordine e ’l modo
ch’a disbramar tuoi desiderii giovi.
Io voglio, or che lontano il marito odo,
che senza indugio il mio consiglio provi;
vadi a trovar la donna che dimora
fuori alla villa, e sarò teco io ancora. —

105
     E seguitò narrandogli in che guisa
alla sua donna vuol che s’appresenti;
dico come vestir, come precisa-
mente abbia a dir, come la prieghi e tenti;
e che forma essa vuol pigliar, devisa;
che, fuor che ’l giorno ch’erra tra serpenti,
in tutti gli altri si può far, secondo
che piú le pare, in quante forme ha il mondo.

106
     Messe in abito lui di peregrino
il qual per Dio di porta in porta accatti:
mutosse ella in un cane, il piú piccino
di quanti mai n’abbia Natura fatti,
di pel lungo, piú bianco ch’armellino,
di grato aspetto e di mirabili atti.
Cosí trasfigurato, entraro in via
verso la casa de la bella Argia:

107
     e dei lavoratori alle capanne,
prima ch’altrove, il giovene fermosse;
e cominciò a sonar certe sue canne,
al cui suono danzando il can rizzosse.
La voce e ’l grido alla padrona vanne,
e fece sí, che per veder si mosse.
Fece il romeo chiamar ne la sua corte,
sí come del dottor traea la sorte.

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108
     E quivi Adonio a comandare al cane
incominciò, et il cane a ubbidir lui,
e far danze nostral, farne d’estrane,
con passi e continenze e modi sui,
e finalmente con maniere umane
far ciò che comandar sapea colui,
con tanta attenzïon, che chi lo mira,
non batte gli occhi, e a pena il fiato spira.

109
     Gran maraviglia, et indi gran desire
venne alla donna di quel can gentile;
e ne fa per la balia proferire
al cauto peregrin prezzo non vile.
— S’avessi piú tesor, che mai sitire
potesse cupidigia feminile
(colui rispose), non saria mercede
di comprar degna del mio cane un piede. —

109
     E per mostrar che veri i detti fôro,
con la balia in un canto si ritrasse,
e disse al cane, ch’una marca d’oro
a quella donna in cortesia donasse.
Scossesi il cane, e videsi il tesoro.
Disse Adonio alla balia, che pigliasse,
soggiungendo: — Ti par che prezzo sia,
per cui sí bello e util cane io dia?

111
     Cosa, qual vogli sia, non gli domando,
di ch’io ne torni mai con le man vòte;
e quando perle, e quando annella, e quando
leggiadra veste e di gran prezzo scuote.
Pur di’ a madonna, che fia al suo comando;
per oro no, ch’oro pagar nol puote:
ma se vuol ch’una notte seco io giaccia,
abbiasi il cane, e ’l suo voler ne faccia. —

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112
     Cosí dice; e una gemma allora nata
le dá, ch’alla padrona l’appresenti.
Pare alla balia averne piú derata,
che di pagar dieci ducati o venti.
Torna alla donna, e le fa l’imbasciata;
e la conforta poi, che si contenti
d’acquistare il bel cane; ch’acquistarlo
per prezzo può, che non si perde a darlo.

113
     La bella Argia sta ritrosetta in prima;
parte, che la sua fé romper non vuole,
parte, ch’esser possibile non stima
tutto ciò che ne suonan le parole.
La balia le ricorda, e rode e lima,
che tanto ben di rado avvenir suole;
e fe’ che l’agio un altro dí si tolse,
che ’l can veder senza tanti occhi volse.

114
     Quest’altro comparir ch’Adonio fece,
fu la ruina e del dottor la morte.
Facea nascer le doble a diece a diece,
filze di perle, e gemme d’ogni sorte:
sí che il superbo cor mansuefece,
che tanto meno a contrastar fu forte,
quanto poi seppe che costui ch’inante
gli fa partito, è ’l cavallier suo amante.

115
     De la puttana sua balia i conforti,
i prieghi de l’amante e la presenzia,
il veder che guadagno se l’apporti,
del misero dottor la lunga absenzia,
lo sperar ch’alcun mai non lo rapporti,
fêro ai casti pensier tal vïolenzia,
ch’ella accettò il bel cane, e per mercede
in braccio e in preda al suo amator si diede.

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116
     Adonio lungamente frutto colse
de la sua bella donna, a cui la fata
grande amor pose, e tanto le ne volse,
che sempre star con lei si fu ubligata.
Per tutti i segni il sol prima si volse,
ch’al giudice licenzia fosse data:
al fin tornò, ma pien di gran sospetto
per quel che giá l’astrologo avea detto.

117
     Fa, giunto ne la patria, il primo volo
a casa de l’astrologo, e gli chiede,
se la sua donna fatto inganno e dolo,
o pur servato gli abbia amore e fede.
Il sito figurò colui del polo,
et a tutti i pianeti il luogo diede:
poi rispose che quel ch’avea temuto,
come predetto fu, gli era avvenuto;

118
     che da doni grandissimi corrotta,
data ad altri s’avea la donna in preda.
Questa al dottor nel cor fu sí gran botta,
che lancia e spiedo io vo’ che ben le ceda.
Per esserne piú certo, ne va allotta
(ben che pur troppo allo indivino creda)
ov’è la balia, e la tira da parte,
e per saperne il certo usa grande arte.

119
     Con larghi giri circondando prova
or qua or lá di ritrovar la traccia;
e da principio nulla ne ritrova,
con ogni diligenzia che ne faccia;
ch’ella, che non avea tal cosa nuova,
stava negando con immobil faccia;
e come bene instrutta, piú d’un mese
tra il dubbio e ’l certo il suo patron sospese.

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120
     Quanto dovea parergli il dubio buono,
se pensava il dolor ch’avria del certo!
Poi ch’indarno provò con priego e dono,
che da la balia il ver gli fosse aperto,
né toccò tasto ove sentisse suono
altro che falso; come uom ben esperto,
aspettò che discordia vi venisse;
ch’ove femine son, son liti e risse.

121
     E come egli aspettò, cosí gli avvenne;
ch’al primo sdegno che tra loro nacque,
senza suo ricercar, la balia venne
il tutto a ricontargli, e nulla tacque.
Lungo a dir fôra ciò che ’l cor sostenne,
come la mente consternata giacque
del giudice meschin, che fu sí oppresso,
che stette per uscir fuor di se stesso:

122
     e si dispose al fin, da l’ira vinto,
morir, ma prima uccider la sua moglie;
e che d’amendue i sangui un ferro tinto
levassi lei di biasmo, e sé di doglie.
Ne la citta se ne ritorna, spinto
da cosí furibonde e cieche voglie;
indi alla villa un suo fidato manda,
e quanto esequir debba, gli commanda.

123
     Commanda al servo, ch’alla moglie Argia
torni alla villa, e in nome suo le dica
ch’egli è da febbre oppresso cosí ria,
che di trovarlo vivo avrá fatica;
sí che, senza aspettar piú compagnia,
venir debba con lui, s’ella gli è amica
(verrá: sa ben che non fará parola);
e che tra via le seghi egli la gola.

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124
     A chiamar la patrona andò il famiglio,
per far di lei quanto il signor commesse.
Dato prima al suo cane ella di piglio,
montò a cavallo et a camin si messe.
L’avea il cane avisata del periglio,
ma che d’andar per questo ella non stesse;
ch’avea ben disegnato e proveduto
onde nel gran bisogno avrebbe aiuto.

124
     Levato il servo del camino s’era;
e per diverse e solitarie strade
a studio capitò su una riviera
che d’Apennino in questo fiume cade;
ov’era bosco e selva oscura e nera,
lungi da villa e lungi da cittade.
Gli parve loco tacito e disposto
per l’effetto crudel che gli fu imposto.

126
     Trasse la spada, e alla padrona disse
quanto commesso il suo signor gli avea;
sí che chiedesse, prima che morisse,
perdono a Dio d’ogni sua colpa rea.
Non ti so dir com’ella si coprisse:
quando il servo ferirla si credea,
piú non la vide, e molto d’ogn’intorno
L’andò cercando, e al fin restò con scorno.

127
     Torna al patron con gran vergogna et onta,
tutto attonito in faccia e sbigottito;
e l’insolito caso gli racconta,
ch’egli non sa come si sia seguito.
Ch’a’ suoi servigi abbia la moglie pronta
la fata Manto, non sapea il marito;
che la balia onde il resto avea saputo,
questo, non so perché, gli avea taciuto.

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128
     Non sa che far; che né l’oltraggio grave
vendicato ha, né le sue pene ha sceme.
Quel ch’era una festuca, ora è una trave,
tanto gli pesa, tanto al cor gli preme.
L’error che sapean pochi, or sí aperto have,
che senza indugio si palesi, teme.
Potea il primo celarsi; ma il secondo,
publico in breve fia per tutto il mondo.

129
     Conosce ben che, poi che ’l cor fellone
avea scoperto il misero contra essa,
ch’ella, per non tornargli in suggezione,
d’alcun potente in man si sará messa;
il qual se la terrá con irrisione
et ignominia del marito espressa;
e forse anco verrá d’alcuno in mano,
che ne fia insieme adultero e ruffiano.

129
     Sí che, per rimediarvi, in fretta manda
intorno messi e lettere a cercarne:
ch’in quel loco, ch’in questo ne domanda
per Lombardia, senza cittá lasciarne.
Poi va in persona, e non si lascia banda
ove o non vada o mandivi a spiarne:
né mai può ritrovar capo né via
di venire a notizia, che ne sia.

131
     Al fin chiama quel servo a chi fu imposta
l’opra crudel che poi non ebbe effetto,
e fa che lo conduce ove nascosta
se gli era Argia, sí come gli avea detto;
che forse in qualche macchia il dí reposta,
la notte si ripara ad alcun tetto.
Lo guida il servo ove trovar si crede
la folta selva, e un gran palagio vede.

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132
     Fatto avea farsi alla sua fata intanto
la bella Argia con subito lavoro
d’alabastri un palagio per incanto,
dentro e di fuor tutto fregiato d’oro.
Né lingua dir, né cor pensar può quanto
avea beltá di fuor, dentro tesoro.
Quello che iersera sí ti parve bello,
del mio signor, saria un tugurio a quello.

133
     E di panni di razza, e di cortine
tessute riccamente e a varie foggie,
ornate eran le stalle e le cantine,
non sale pur, non pur camere e loggie;
vasi d’oro e d’argento senza fine,
gemme cavate, azzurre e verdi e roggie,
e formate in gran piatti e in coppe e in nappi,
e senza fin d’oro e di seta drappi.

134
     Il giudice, sí come io vi dicea,
venne a questo palagio a dar di petto,
quando né una capanna si credea
di ritrovar, ma solo il bosco schietto.
Per l’alta maraviglia che n’avea,
esser si credea uscito d’intelletto:
non sapea se fosse ebbro, o se sognassi,
o pur se ’l cervel scemo a volo andassi.

135
     Vede inanzi alla porta uno Etïopo
con naso e labri grossi; e ben gli è avviso
che non vedesse mai, prima né dopo,
un cosí sozzo e dispiacevol viso;
poi di fattezze, qual si pinge Esopo,
d’attristar, se vi fosse, il paradiso;
bisunto e sporco, e d’abito mendico:
né a mezzo ancor di sua bruttezza io dico.

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136
     Anselmo che non vede altro da cui
possa saper di chi la casa sia,
a lui s’accosta, e ne domanda a lui;
et ei risponde: — Questa casa è mia. —
Il giudice è ben certo che colui
lo beffi e che gli dica la bugia:
ma con scongiuri il negro ad affermare
che sua è la casa, e ch’altri non v’ha a fare;

137
     e gli offerisce, se la vuol vedere,
che dentro vada, e cerchi come voglia;
e se v’ha cosa che gli sia in piacere
o per sé o per gli amici, se la toglia.
Diede il cavallo al servo suo a tenere
Anselmo, e messe il piè dentro alla soglia;
e per sale e per camere condutto,
da basso e d’alto andò mirando il tutto.

138
     La forma, il sito, il ricco e bel lavoro
va contemplando, e l’ornamento regio;
e spesso dice: — Non potria quant’oro
è sotto il sol pagare il loco egregio. —
A questo gli risponde il brutto Moro,
e dice: — E questo ancor trova il suo pregio:
se non d’oro o d’argento, nondimeno
pagar lo può quel che vi costa meno. —

139
     E gli fa la medesima richiesta
ch’avea giá Adonio alla sua moglie fatta.
De la brutta domanda e disonesta,
persona lo stimò bestiale e matta.
Per tre repulse e quattro egli non resta;
e tanti modi a persuaderlo adatta,
sempre offerendo in merito il palagio,
che fe’ inchinarlo al suo voler malvagio.

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140
     La moglie Argia che stava appresso ascosa,
poi che lo vide nel suo error caduto,
saltò fuora gridando: — Ah degna cosa
che io veggo di dottor saggio tenuto! —
Trovato in sí mal’opra e vizïosa,
pensa se rosso far si deve e muto.
O terra, acciò ti si gettassi dentro,
perché allor non t’apristi insino al centro?

141
     La donna in suo discarco, et in vergogna
d’Anselmo, il capo gl’intronò di gridi,
dicendo: — Come te punir bisogna
di quel che far con sí vil uom ti vidi,
se per seguir quel che natura agogna,
me, vinta a’ prieghi del mio amante, uccidi?
ch’era bello e gentile; e un dono tale
mi fe’, ch’a quel nulla il palagio vale.

142
     S’io ti parvi esser degna d’una morte,
conosci che ne sei degno di cento:
e ben ch’in questo loco io sia sí forte,
ch’io possa di te fare il mio talento;
pure io non vo’ pigliar di peggior sorte
altra vendetta del tuo fallimento.
Di par l’avere e ’l dar, marito, poni;
fa, com’io a te, che tu a me ancor perdoni:

143
     e sia la pace e sia l’accordo fatto,
ch’ogni passato error vada in oblio;
né ch’in parole io possa mai né in atto
ricordarti il tuo error, né a me tu il mio. —
Il marito ne parve aver buon patto,
né dimostrossi al perdonar restio.
Cosí a pace e concordia ritornaro,
e sempre poi fu l’uno all’altro caro. —

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144
     Cosí disse il nocchiero; e mosse a riso
Rinaldo al fin de la sua istoria un poco;
e diventar gli fece a un tratto il viso,
per l’onta del dottor, come di fuoco.
Rinaldo Argia molto lodò, ch’avviso
ebbe d’alzare a quello augello un gioco
ch’alla medesma rete fe’ cascallo,
in che cadde ella, ma con minor fallo.

145
     Poi che piú in alto il sole il camin prese,
fe’ il paladino apparecchiar la mensa,
ch’avea la notte il Mantuan cortese
provista con larghissima dispensa.
Fugge a sinistra intanto il bel paese,
et a man destra la palude immensa:
viene e fuggesi Argenta e ’l suo girone
col lito ove Santerno il capo pone.

146
     Allora la Bastia credo non v’era,
di che non troppo si vantâr Spagnuoli
d’avervi su tenuta la bandiera;
ma piú da pianger n’hanno i Romagniuoli.
E quindi a Filo alla dritta riviera
cacciano il legno, e fan parer che voli.
Lo volgon poi per una fossa morta,
ch’a mezzodí presso a Ravenna il porta.

147
     Ben che Rinaldo con pochi danari
fosse sovente, pur n’avea sí alora,
che cortesia ne fece a’ marinari,
prima che li lasciasse alla buon’ora.
Quindi mutando bestie e cavallari,
Arimino passò la sera ancora;
né in Montefiore aspetta il matutino,
e quasi a par col sol giunge in Urbino.

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148
     Quivi non era Federico allora,
né l’Issabetta, né ’l buon Guido v’era,
né Francesco Maria, né Leonora,
che con cortese forza e non altiera
avesse astretto a far seco dimora
sí famoso guerrier piú d’una sera;
come fêr giá molti anni, et oggi fanno
a donne e a cavallier che di lá vanno.

149
     Poi che quivi alla briglia alcun nol prende,
smonta Rinaldo a Cagli alla via dritta.
Pel monte che ’l Metauro o il Gauno fende,
passa Apennino, e piú non l’ha a man ritta;
passa gli Ombri e gli Etrusci, e a Roma scende;
da Roma ad Ostia; e quindi si tragitta
per mare alla cittade a cui commise
il pietoso figliuol l’ossa d’Anchise.

150
     Muta ivi legno, e verso l’isoletta
di Lipadusa fa ratto levarsi;
quella che fu dai combattenti eletta,
et ove giá stati erano a trovarsi.
Insta Rinaldo, e gli nocchieri affretta,
ch’a vela e a remi fan ciò che può farsi;
ma i venti avversi e per lui mal gagliardi,
lo fecer, ma di poco, arrivar tardi.

151
     Giunse ch’a punto il principe d’Anglante
fatta avea l’utile opra e glorïosa:
avea Gradasso ucciso et Agramante,
ma con dura vittoria e sanguinosa.
Morto n’era il figliuol di Monodante;
e di grave percossa e perigliosa
stava Olivier languendo in su l’arena,
e del piè guasto avea martíre e pena.

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152
     Tener non poté il conte asciutto il viso,
quando abbracciò Rinaldo, e che narrolli
che gli era stato Brandimarte ucciso,
che tanta fede e tanto amor portolli.
Né men Rinaldo, quando sí diviso
vide il capo all’amico, ebbe occhi molli:
poi quindi ad abbracciar si fu condotto
Olivier che sedea col piede rotto.

153
     La consolazïon che seppe, tutta
diè lor, ben che per sé tor non la possa;
che giunto si vedea quivi alle frutta,
anzi poi che la mensa era rimossa.
Andaro i servi alla cittá distrutta,
e di Gradasso e d’Agramante l’ossa
ne le ruine ascoser di Biserta,
e quivi divulgâr la cosa certa.

154
     De la vittoria ch’avea avuto Orlando,
s’allegrò Astolfo e Sansonetto molto;
non sí però, come avrian fatto, quando
non fosse a Brandimarte il lume tolto.
Sentir lui morto il gaudio va scemando
sí, che non ponno asserenare il volto.
Or chi sará di lor, ch’annunzio voglia
a Fiordiligi dar di sí gran doglia?

155
     La notte che precesse a questo giorno.
Fiordiligi sognò che quella vesta
che, per mandarne Brandimarte adorno,
avea trapunta e di sua man contesta,
vedea per mezzo sparsa e d’ogn’intorno
di goccie rosse, a guisa di tempesta:
parea che di sua man cosí l’avesse
riccamata ella, e poi se ne dogliesse.

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156
     E parea dir: — Pur hammi il signor mio
commesso ch’io la faccia tutta nera:
or perché dunque riccamata holl’io
contra sua voglia in sí strana maniera? —
Di questo sogno fe’ giudicio rio;
poi la novella giunse quella sera:
ma tanto Astolfo ascosa le la tenne,
ch’a lei con Sansonetto se ne venne.

157
     Tosto ch’entraro, e ch’ella loro il viso
vide di gaudio in tal vittoria privo;
senz’altro annunzio sa, senz’altro avviso,
che Brandimarte suo non è piú vivo.
Di ciò le resta il cor cosí conquiso,
e cosí gli occhi hanno la luce a schivo,
e cosí ogn’altro senso se le serra,
che come morta andar si lascia in terra.

156
     Al tornar de lo spirto, ella alle chiome
caccia le mani; et alle belle gote,
indarno ripetendo il caro nome,
fa danno et onta piú che far lor puote:
straccia i capelli e sparge; e grida, come
donna talor che ’l demon rio percuote,
o come s’ode che giá a suon di corno
Menade corse, et aggirossi intorno.

159
     Or questo or quel pregando va, che porto
le sia un coltel, sí che nel cor si fera:
or correr vuol lá dove il legno in porto
dei duo signor defunti arrivato era,
e de l’uno e de l’altro cosí morto
far crudo strazio e vendetta acra e fiera:
or vuol passare il mare, e cercar tanto,
che possa al suo signor morire a canto.

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160
     — Deh perché, Brandimarte, ti lasciai
senza me andare a tanta impresa? (disse).
Vedendoti partir, non fu piú mai
che Fiordiligi tua non ti seguisse.
T’avrei giovato, s’io veniva, assai,
ch’avrei tenute in te le luci fisse;
e se Gradasso avessi dietro avuto,
con un sol grido io t’avrei dato aiuto;

161
     o forse esser potrei stata sí presta,
ch’entrando in mezzo, il colpo t’avrei tolto:
fatto scudo t’avrei con la mia testa;
che morendo io, non era il danno molto.
Ogni modo io morrò; né fia di questa
dolente morte alcun profitto colto;
che, quando io fossi morta in tua difesa,
non potrei meglio aver la vita spesa.

162
     Se pur ad aiutarti i duri fati
avessi avuti e tutto il cielo avverso,
gli ultimi baci almeno io t’avrei dati,
almen t’avrei di pianto il viso asperso;
e prima che con gli angeli beati
fossi lo spirto al suo Fattor converso,
detto gli avrei: Va in pace, e lá m’aspetta;
ch’ovunque sei, son per seguirti in fretta.

163
     È questo, Brandimarte, è questo il regno
di che pigliar lo scettro ora dovevi?
Or cosí teco a Dammogire io vegno?
cosí nel real seggio mi ricevi?
Ah Fortuna crudel, quanto disegno
mi rompi! oh che speranze oggi mi levi!
Deh, che cesso io, poi c’ho perduto questo
tanto mio ben, ch’io non perdo anco il resto? —

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164
     Questo et altro dicendo, in lei risorse
il furor con tante impeto e la rabbia,
ch’a stracciare il bel crin di nuovo corse,
come il bel crin tutta la colpa n’abbia.
Le mani insieme si percosse e morse,
nel sen si cacciò l’ugne e ne le labbia.
Ma torno a Orlando et a’ compagni, intanto
ch’ella si strugge e si consuma in pianto.

165
     Orlando, col cognato che non poco
bisogno avea di medico e di cura,
et altretanto, perché in degno loco
avesse Brandimarte sepultura,
verso il monte ne va che fa col fuoco
chiara la notte, e il dí di fumo oscura.
Hanno propizio il vento, e a destra mano
non è quel lito lor molto lontano.

166
     Con fresco vento ch’in favor veniva,
sciolser la fune al declinar del giorno,
mostrando lor la taciturna diva
la dritta via col luminoso corno;
e sorser l’altro di sopra la riva
ch’amena giace ad Agringento intorno.
Quivi Orlando ordinò per l’altra sera
ciò ch’a funeral pompa bisogno era.

167
     Poi che l’ordine suo vide esequito,
essendo omai del sole il lume spento,
fra molta nobiltá ch’era allo ’nvito
de’ luoghi intorno corsa in Agringento,
d’accesi torchi tutto ardendo ’l lito,
e di grida sonando e di lamento,
tornò Orlando ove il corpo fu lasciato,
che vivo e morto avea con fede amato.

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168
     Quivi Bardin di soma d’anni grave
stava piangendo alla bara funèbre,
che pel gran pianto ch’avea fatto in nave,
dovria gli occhi aver pianti e le palpèbre.
Chiamando il ciel crudel, le stelle prave,
ruggia come un leon ch’abbia la febre.
Le mani erano intanto empie e ribelle
ai crin canuti e alla rugosa pelle.

169
     Levossi, al ritornar del paladino,
maggiore il grido, e raddoppiossi il pianto.
Orlando, fatto al corpo piú vicino,
senza parlar stette a mirarlo alquanto,
pallido come colto al matutino
è da sera il ligustro o il molle acanto;
e dopo un gran sospir, tenendo fisse
sempre le luci in lui, cosí gli disse:

170
     — O forte, o caro, o mio fedel compagno,
che qui sei morto, e so che vivi in cielo,
e d’una vita v’hai fatto guadagno,
che non ti può mai tor caldo né gielo,
perdonami, se ben vedi ch’io piagno;
perché d’esser rimaso mi querelo,
e ch’a tanta letizia io non son teco;
non giá perché qua giú tu non sia meco.

171
     Solo senza te son; né cosa in terra
senza te posso aver piú, che mi piaccia.
Se teco era in tempesta e teco in guerra,
perché non anco in ozio et in bonaccia?
Ben grande è ’l mio fallir, poi che mi serra
di questo fango uscir per la tua traccia.
Se negli affanni teco fui, perch’ora
non sono a parte del guadagno ancora?

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172
     Tu guadagnato, e perdita ho fatto io:
sol tu all’acquisto, io non son solo al danno.
Partecipe fatto è del dolor mio
l’Italia, il regno franco e l’alemanno.
Oh quanto, quanto il mio signore e zio,
oh quanto i paladin da doler s’hanno!
quanto l’Imperio e la cristiana Chiesa,
che perduto han la sua maggior difesa!

173
     Oh quanto si torrá per la tua morte
di terrore a’ nimici e di spavento!
Oh quanto Pagania sará piú forte!
quanto animo n’avrá, quanto ardimento!
Oh come star ne dee la tua consorte!
Sin qui ne veggo il pianto, e ’l grido sento.
So che m’accusa, e forse odio mi porta,
che per me teco ogni sua speme è morta.

174
     Ma, Fiordiligi, almen resti un conforto
a noi che sián di Brandimarte privi;
ch’invidiar lui con tanta gloria morto
denno tutti i guerrier ch’oggi son vivi.
Quei Decii, e quel nel roman foro absorto,
quel sí lodato Codro dagli Argivi,
non con piú altrui profitto e piú suo onore
a morte si donâr, del tuo signore. —

175
     Queste parole et altre dicea Orlando.
Intanto i bigi, i bianchi, i neri frati,
e tutti gli altri chierci, seguitando
andavan con lungo ordine accoppiati,
per l’alma del defunto Dio pregando,
che gli donasse requie tra’ beati.
Lumi inanzi e per mezzo e d’ogn’intorno,
mutata aver parean la notte in giorno.

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176
     Levan la bara, et a portarla fôro
messi a vicenda conti e cavallieri.
Purpurea seta la copria, che d’oro
e di gran perle avea compassi altieri:
di non men bello e signoril lavoro
avean gemmati e splendidi origlieri;
e giacea quivi il cavallier con vesta
di color pare, e d’un lavor contesta.

177
     Trecento agli altri eran passati inanti,
de’ piú poveri tolti de la terra,
parimente vestiti tutti quanti
di panni negri e lunghi sin a terra.
Cento paggi seguian sopra altretanti
grossi cavalli e tutti buoni a guerra;
e i cavalli coi paggi ivano il suolo
radendo col lor abito di duolo.

177
     Molte bandiere inanzi e molte dietro,
che di diverse insegne eran dipinte,
spiegate accompagnavano il ferètro;
le quai giá tolte a mille schiere vinte,
e guadagnate a Cesare et a Pietro
avean le forze ch’or giaceano estinte.
Scudi v’erano molti, che di degni
guerrieri, a chi fur tolti, aveano i segni.

179
     Venian cento e cent’altri a diversi usi
de l’esequie ordinati; et avean questi,
come anco il resto, accesi torchi; e chiusi,
piú che vestiti, eran di nere vesti.
Poi seguia Orlando, e ad or ad or suffusi
di lacrime avea gli occhi e rossi e mesti;
né piú lieto di lui Rinaldo venne:
il piè Olivier, che rotto avea, ritenne.

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150
     Lungo sará s’io vi vo’ dire in versi
le cerimonie, e raccontarvi tutti
i dispensati manti oscuri e persi,
gli accesi torchi che vi furon strutti.
Quindi alla chiesa catedral conversi,
dovunque andâr, non lasciaro occhi asciutti:
sí bel, sí buon, sí giovene a pietade
mosse ogni sesso, ogni ordine, ogni etade.

151
     Fu posto in chiesa; e poi che da le donne
di lacrime e di pianti inutil opra,
e che dai sacerdoti ebbe eleisonne
e gli altri santi detti avuto sopra,
in una arca il serbar su due colonne:
e quella vuole Orlando che si cuopra
di ricco drappo d’or, sin che reposto
in un sepulcro sia di maggior costo.

182
     Orlando di Sicilia non si parte,
che manda a trovar porfidi e alabastri.
Fece fare il disegno, e di quell’arte
inarrar con gran premio i miglior mastri.
Fe’ le lastre, venendo in questa parte,
poi drizzar Fiordiligi, e i gran pilastri;
che quivi (essendo Orlando giá partito)
si fe’ portar da l’africano lito.

177
     E vedendo le lacrime indefesse,
et ostinati a uscir sempre i sospiri,
né per far sempre dire uffici e messe,
mai satisfar potendo a’ suoi disiri;
di non partirsi quindi in cor si messe,
fin che del corpo l’anima non spiri:
e nel sepolcro fe’ fare una cella,
e vi si chiuse, e fe’ sua vita in quella.

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184
     Oltre che messi e lettere le mande,
vi va in persona Orlando per levarla.
Se viene in Francia, con pension ben grande
compagna vuol di Galerana farla:
quando tornare al padre anco domande,
sin alla Lizza vuole accompagnarla:
edificar le vuole un monastero,
quando servire a Dio faccia pensiero.

185
     Stava ella nel sepulcro; e quivi attrita
da penitenzia, orando giorno e notte,
non durò lunga etá, che di sua vita
da la Parca le fur le fila rotte.
Giá fatto avea da l’isola partita,
ove i Ciclopi avean l’antique grotte,
i tre guerrier di Francia, afflitti e mesti
che ’l quarto lor compagno a dietro resti.

186
     Non volean senza medico levarsi,
che d’Olivier s’avesse a pigliar cura;
la qual, perché a principio mal pigliarsi
poté, fatt’era faticosa e dura:
e quello udiano in modo lamentarsi,
che del suo caso avean tutti paura.
Tra lor di ciò parlando, al nocchier nacque
un pensiero, e lo disse; e a tutti piacque.

187
     Disse ch’era di lá poco lontano
in un solingo scoglio uno eremita,
a cui ricorso mai non s’era invano,
o fosse per consiglio o per aita;
e facea alcuno effetto soprumano,
dar lume a ciechi, e tornar morti a vita,
fermare il vento ad un segno di croce,
e far tranquillo il mar quando è piú atroce:

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188
     e che non denno dubitare, andando
a ritrovar quel uomo a Dio sí caro,
che lor non renda Olivier sano, quando
fatto ha di sua virtú segno piú chiaro.
Questo consiglio sí piacque ad Orlando,
che verso il santo loco si drizzaro;
né mai piegando dal camin la prora,
vider lo scoglio al sorger de l’aurora.

189
     Scorgendo il legno uomini in acqua dotti,
sicuramente s’accostaro a quello.
Quivi aiutando servi e galeotti,
declinano il marchese nel battello:
e per le spumose onde fur condotti
nel duro scoglio, et indi al santo ostello;
al santo ostello, a quel vecchio medesmo,
per le cui mani ebbe Ruggier battesmo.

190
     Il servo del Signor del paradiso
raccolse Orlando et i compagni suoi,
e benedilli con giocondo viso,
e de’ lor casi dimandolli poi;
ben che de lor venuta avuto avviso
avesse prima dai celesti eroi.
Orlando gli rispose esser venuto
per ritrovare al suo Oliviero aiuto;

191
     ch’era, pugnando per la fé di Cristo,
a periglioso termine ridutto.
Levògli il santo ogni sospetto tristo,
e gli promisse di sanarlo in tutto.
Né d’unguento trovandosi previsto,
né d’altra umana medicina instrutto,
andò alla chiesa, et orò al Salvatore;
et indi uscí con gran baldanza fuore:

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192
     e in nome de le eterne tre Persone,
Padre e Figliuolo e Spirto Santo, diede
ad Olivier la sua benedizione.
Oh virtú che dá Cristo a chi gli crede!
Cacciò dal cavalliero ogni passione,
e ritornolli a sanitade il piede,
piú fermo e piú espedito che mai fosse:
e presente Sobrino a ciò trovosse.

193
     Giunto Sobrin de le sue piaghe a tanto,
che star peggio ogni giorno se ne sente,
tosto che vede del monaco santo
il miracolo grande et evidente,
si dispon di lasciar Macon da canto,
e Cristo confessar vivo e potente:
e domanda con cor di fede attrito,
d’inicïarsi al nostro sacro rito.

194
     Cosí l’uom giusto lo battezza, et anco
gli rende, orando, ogni vigor primiero.
Orlando e gli altri cavallier non manco
di tal conversïon letizia fêro,
che di veder che liberato e franco
del periglioso mal fosse Oliviero.
Maggior gaudio degli altri Ruggier ebbe;
e molto in fede e in devozione accrebbe.

195
     Era Ruggier dal dí che giunse a nuoto
su questo scoglio, poi statovi ogniora.
Fra quei guerrieri il vecchiarel devoto
sta dolcemente, e li conforta et ora
a voler, schivi di pantano e loto,
mondi passar per questa morta gora
c’ha nome vita, che sí piace a’ sciocchi;
et alla via del ciel sempre aver gli occhi.

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196
     Orlando un suo mandò sul legno, e trarne
fece pane e buon vin, cacio e persutti;
e l’uom di Dio, ch’ogni sapor di starne
pose in oblio, poi ch’avvezzossi a’ frutti,
per caritá mangiar fecero carne,
e ber del vino, e far quel che fêr tutti.
Poi ch’alla mensa consolati fôro,
di molte cose ragionâr tra loro.

197
     E come accade nel parlar sovente,
ch’una cosa vien l’altra dimostrando,
Ruggier riconosciuto finalmente
fu da Rinaldo, da Olivier, da Orlando,
per quel Ruggiero in arme sí eccellente,
il cui valor s’accorda ognun lodando:
né Rinaldo l’avea raffigurato
per quel che provò giá ne lo steccato.

198
     Ben l’avea il re Sobrin riconosciuto,
tosto che ’l vide col vecchio apparire;
ma volse inarzi star tacito e muto,
che porsi in aventura di fallire.
Poi ch’a notizia agli altri fu venuto
che questo era Ruggier, di cui l’ardire,
la cortesia e ’l valore alto e profondo
si facea nominar per tutto il mondo;

199
     e sapendosi giá ch’era cristiano,
tutti con lieta e con serena faccia
vengono a lui: chi gli tocca la mano,
e chi lo bacia, e chi lo stringe e abbraccia.
Sopra gli altri il signor di Montalbano
d’accarezzarlo e fargli onor procaccia.
Perch’esso piú degli altri, io ’l serbo a dire
ne l’altro canto, se ’l vorrete udire.