Sulle antiche miniere di Bergamo
Questo testo è stato riletto e controllato. |
SULLE
ANTICHE MINIERE DI BERGAMO.
RELAZIONE EPISTOLARE
DEL CANONICO
GIO. FINAZZI.
MILANO
PRESSO LA SOCIETÀ PER LA PUBBLICAZIONE DEGLI ANNALI UNIVERSALI
DELLE SCIENZE E DELL’INDUSTRIA
Nella Galleria De-Cristoforis
1860.
Estratto dagli Annali Universali di Statistica,
Fascicolo di Ottobre 1860.AL NOBILE SIGNORE
CAV. GIAMBATTISTA PIAZZONI
Presidente della Camera di Commercioe della Società Industriale in Bergamo
e Senatore del Regno.
Queste poche memorie sulle nostre antiche miniere io le raccolsi per occasione di certi discorsi, che ci accadde già da alcun tempo di fare insieme. Or che mi avvenne di compilarle, se hanno ad uscire in pubblico, non devono uscire altrimenti che intitolate del Vostro Nome. Perchè son cose Vostre, anche per le materie che toccano, così affini agli studi della Camera di Commercio e della Società industriale, di cui Voi siete già da molti anni benemerito Presidente, e così degne ad un tempo, che come Senatore del Regno accordiate loro la più valida protezione.
Aggradite pertanto la tenue offerta, ed abbiatevela per una novella prova della profonda stima e considerazione, onde vi sono.
Bergamo, il 29 Agosto 1860.
Devotiss.° Obbligatiss.° |
SULLE ANTICHE MINIERE DI BERGAMO
Pregiatissimo mio Signore.
Un giorno della passata estate, all’occasione che ebbi ad accennarvi di una mia gita in valle di Scalve, caduto il discorso sulle miniere di ferro; che fanno il principale prodotto di quella Valle, voi mi chiedeste se e dove si troverebbe negli scrittori delle cose nostre accurata notizia sulle origini e le vicende di questo ramo d’industria, onde avere i dati di utili confronti e deduzioni sulle condizioni in cui attualmente si trova, e sui miglioramenti al quali potrebbe essere avviato. Vi dissi che, se non molte, alcune buone notizie poteansi rinvenire, così riferibili ai tempi dei Romani come e anche più a quelli del medio evo; ma trovarsi esse sparse, e doversi racimolare con apposito studia; per poterne cavare un qualche costrutto. Vi soggiunsi trovarsene più particolarmente alcuni saggi in una Memoria orografico-mineralogica delle valli di Scalve e di Bondione del nostro professor Maironi, inserita nel tomo IV della Società italiana, e più tardi averne fatto uno special Commentario il signor Gabriele Rosa, pubblicato già nel Politecnico, sull’antichità dell’escavazione del ferro in Lombardia. Nè vi tacqui averne io medesimo ne’ miei scartabelli alcune memorie, che avrei potuto presentarvi quando che fosse, ove aveste creduto potervi tornare di qualche utilità per così fatte ricerche. Ed ora eccomi a soddisfarvi in qualche modo, se non posso bene come vorrei, dicendovi famigliarmente in una lettera ciò che starebbe meglio trattato in una dotta dissertazione.
E innanzi tutto, quanto alle prime origini dell’escavazione massime de’ più usuali metalli quale è il ferro e il rame in alcune delle nostre valli e più specialmente in quella di Scalve e di Bondione, nessuna precisa notizia possiamo averne, ma solo alcuna probabile induzione, dedotta dalla considerazione delle più antiche parole fabbrili usate dai primi lavoratori delle nostre miniere e radicate come parte vitale nell’originario dialetto di queste valli. Parendoci ben avvertito1, che quel popolo, il quale trova un’arte nuova, trovi eziandio le parole che la dinotino, e altri poi la riceva e la usi col medesimo nome originario. Or la più parte dei vocaboli di metallurgia usati dai nostri lavoratori, tranne pochissimi che si mostrerebbero d’origine latina (come discente, menestatore, ceppo, taisare), e alcuni anche più pochi, che apparirebbero d’origine settentrionale (come ghisa, cioè ferraccia che ci fu importata di recente, e che meglio si dice in vernacolo sca, che è la piastra di ferro appena fuso e consolidato), mostransi generalmente di origine greca e orientale. Infatti (come toglievasi già a dimostrare un solerte indagatore di queste etimologie2, dicesi, per modo d’esempio, brasca il minuto carbone lasciato dalle bragie spente, ciò che ha relazione al greco βράζω che significa cuocere, arrostire; e le parole médol, metallér, metáll hanno affinità coi vocaboli greci μέταλλον, μεταλλικος, μεταλλευς, μεταλλευσις; dove è ben da osservare che le sovradette voci médol, medàl nel dialetto dello nostra Valle non corrispondono già all’italiano metallo, ma bensì al μεταλλευ greco, in senso di miniera o vena: col quale nome Strabone indicò la stessa cava del marmo di Carrara. Onde possiamo desumere che anche alcune delle voci, che a primo aspetto parrebbero derivare dal latino, meglio considerando, si trovano aver più alta e più vera derivazione del greco. Di che non dissentiamo da chi vorrebbe arguire, non senza molta probabilità d’induzione, che forse uomini di greca origine, ivi passati in colonie, venissero primi a tentare in queste nostre valli lo scavo e il lavoro delle miniere, e ne arricchissero per conseguenza l’originale dialetto di tutte quelle voci che si richiedevano a significare i diversi opifici di quella nuova arte da loro importata3. E un passo prezioso di Strabone ed uno di Plinio ne confermano in questa congettura; facendoci essi conoscere come prima del Dominio romano le miniere dell’Italia settentrionale fossero più coltivate, che nol furono dopo, quando queste terre caddero sotto quel potente Impero: parendo essere stato principio di quel Governo, che gli Italiani dovessero porre la loro prima cura nel coltivare la terra, perchè non si avvilissero troppo col lavoro delle miniere, o piuttosto perchè non venisse loro abbondanza di que’ mezzi che possono procacciare ad un popolo una pericolosa ricchezza. Strabone infatti dopo di aver descritta la parte settentrionale dell’Italia, termina dicendo: «Ora le miniere di questo paese non si coltivano egualmente, per esser più utili quelle dei Celti Transalpini; ma prima si lavoravano4»; e Plinio osserva: «l’Italia non è seconda ad alcun paese per abbondanza di metalli, ma un antico precetto de’ padri, inteso al bene di questa nazione, impedì il cavarli»: Italia metallorum omnium fertilitate nullis cedit terris; sed interdictum id (cioè il cavarli) vetere consulto patrum, Italiae parci jubentium; e appresso; Italiae parcitum est, vetere interdicto patrum, ut diximus; alioquin nulla faecundior metallorum quoque erat tellus. Extat lex censuaria, quae in Vercellensi agro cavebatur ne plus quinque hominum in opere pubblicani haberent5.
Ma checchè sia di questi primi tempi, più positive si fanno le memorie degli scavi delle nostre miniere ai tempi dei Romani; perchè (a non valutare tradizioni popolari, che pur si mantengono fra quei valligiani, e che narrano come i Romani cavassero nei loro monti gran copia di metallo sì di rame che di ferro per farne attrezzi rurali e diverse maniere di armi) abbiamo, specialmente riguardo agli scavi delle miniere di rame e al grande spaccio che a questi tempi se ne faceva, una testimonianza di gran valore in Plinio; il quale asserisce: che al suo tempo ciò non si trovava meglio che nelle parti settentrionali dell’Italia e precisamente nei monti delle valli di Bergamo: Fit aes et e lapide aeroso, quem dicunt cadmiam. Celebritas in Asia et quondam in Campania; nunc in Bergomatium agro, extrema parte Italiae6. Nè minori delle cave del rame si deve creder che fossero a questi tempi nei nostri monti le cave del ferro. Perocchè, essendo fuori di dubbio per la allegata autorità di Plinio che i Romani facevano e con molto successo cavare nei monti molte miniere di rame, dovettero naturalmente, pur non volendolo, esser condotti a quivi stesso trovare e a scovare pur le miniere del ferro, i cui strati o filoni si hanno anche attualmente quasi a contatto, per non dire confusi con quelli di qualche miniera di rame; come si può vedere, per modo d’esempio, in una delle vette del Polzone, che è sopra Colere al lato settentrionale della Presolana e sulle falde meridionali del Venercolo, che è a settentrione della valle di Scalve tra Vilmaggiore e Schilpario7.
E poichè siamo nel campo delle congetture non lascierò di registrare un piccolo documento storico-geologico, che non può esser privo d’importanza quando si tratta di tempi in cui torna preziosa ogni più piccola memoria. In alcune aggiunte che si trovano manoscritte nella Memoria storica intorno alla Valle Seriana di P. A. Brasi, secondo un esemplare che mi fu già favorito dal mio carissimo professor Ronicelli, si leggono le seguenti parole: «In mezzo ad una viva pietra arenaria stata tagliata nel 1829 nell’appianamento di parte del monte a settentrione della Chiesa parrocchiale di Clusone, ad una profondità di oltre otto metri, si trovò un chiodo ossidato di notabili dimensioni, dalla quale fu improvvidamente spiccato a colpi di martello, e passò in mano del sig. Gianbattista Bertacchi. E parimenti in mezzo d’altra simile pietra fu trovato un pezzo di ferro greggio. Prima dunque (nota l’osservatore di quel documento) che la ghiaja di quel monte prendesse consistenza di pietra, in queste Valli si conoscevano già le miniere e le manifatture del ferro».
Ma una qualche più precisa notizia sull’escavazione e sul lavoro del ferro, che si faceva nelle nostre valli al tempo dei Romani, possiamo raccoglierla dalle nostre lapidi. Parecchie infatti se ne ricordano, alcune delle quali si possono tuttavia vedere, che accennano a Prefetti di fabbri, a Collegi di fabbri, di dendrofori, di centonari, e ad altri offizi di fabbrili lavori e di armerie8. Una fra le altre famosa e di singolare importanza è quella che ripartano i nostri scrittori, già esistente in Clusone, e che ora si può riscontrare conservatissima nel patrio Museo; e comecchè mutila nelle prime righe, ben conservata nelle parli che più fa al nostro scopo, dice così:
. . . . . . . .
ARMORVM CVSTODI
SECVNDIO ET TERTIA
SORORES
EX TESTAMENTO
EIVS
FACIENDVM CVRARVNT.
E sotto di essa lapide pure ben conservalo trovavasi un basso-rilievo portante l’indizio di un’armeria e l’effigie loricata di un custode di essa; come accuratamente ai suoi tempi notava di avervi riscontrato il P. Celestino: «la figura d’un uomo con un manto, avente da una parte una spada, uno scudo, un elmo ed un bracciale; dall’altra un usbergo, una lancia ed altre armi». Al che tutto pare non aver badato il Brocchi9, o non avere avuto notizia di questa nostra lapide, la quale può essere di decisiva importanza nella presente questione. Perchè quantunque si voglia convenire con lui a non tener calcolo delle iscrizioni generali, che si riferiscono ai Collegi o Prefetti dei fabbri, perciò che «Faber presso i Latini non era circoscritto alla professione da noi indicata collo stesso nome, ma era un vocabolo generale applicato a una moltitudine di mestieri meccanici, al falegname, al fabbricatore dei carri, all’argentiere, a un di presso come il nostro artefice»; qual altro significato si vorrebbe dare però all’Armorum custodi di questa nostra lapide, se non quello di vero Prefetto di opere fabbrili, di custode d’armi o d’armeria? E custode d’armeria interpreta senz’altro l’Orsato Armorum custodi di una somigliante lapide Patavina. Nè a scemar forza a questo documento si vorrà opporre che le armi, a cui qui si accenna, potessero essere di solo rame; poichè sappiamo che il più delle armi in questa stessa lapide figurate solevano nei tempi romani essere più che altro di ferro, talchè era stile appo loro di chiamare col nome di ferro ogn’arma da ferire, «ferrum per synecdochem ponitur pro gladio».
Parrebbe adunque non potersi dubitare che a Clusone vi avesse un deposito d’armi, di cui fosse custode la persona ricordata e scolpita nella suddetta lapide. Ora ben si sa che l’Impero nelle principali provincie tenea parecchi di questi depositi d’armi, alcuni dei quali dovevano essere come a dire magazzeni delle diverse armi che si lavoravano col ferro scavato nelle vicine miniere, altri veri depositi militari, e questi nei luoghi più opportuni agli usi degli eserciti. «Gran parte delle armi, dice il nostro Rota, che si fabbricavano in varie città dell’Impero, si riponevano nelle pubbliche armerie, le quali tenevansi nelle città più importanti e più forti». «E convien credere, seguìta, che questi repositorii d’armi fossero ben rari; attesochè se si leggano tutte le iscrizioni d’Italia raccolte dal Grutero, dal Rainesio, dal Fabbretti, dal Gudio, dal Muratori e dal Donati, non si troverà indizio di tali repertorii se non in Roma, Ravenna e Padova». Nè noi oseremmo di asserire col medesimo Rota che questo nostro fosse un vero deposito militare; che anzi, non costandoci che Clusone sia stato luogo forte nè acconcio a farlo deposito centrale, meglio ci accostiamo all’opinione che questo di Clusone fosse (come la natura del sito e la sua antica posizione politica in rapporto di tutta la Valle pareva richiedere) un deposito di tutti gli opifici specialmente d’armi di ogni maniera che si avevano delle diverse officine, dove si lavorava il ferro che si cavava dalle vicine miniere della Valle Bondione e di Scalve. Nè è improbabile che le armi di questo deposito fossero fornite dall’antichissima fabbrica di spade, che secondo la tradizione del luogo esisteva in Gromo nella contrada di Goglio, dove, come abbiamo da contemporanea Memoria10, fino al 1666 erano ben «ventisette edifizi in ordine alla suddetta fabbrica delle armi, che fornirono non solo lo Stato del serenissimo Dominio, ma in gran pane d’Europa»; e che nello stesso anno, sono un grande scoscendimento della sovrastante montagna, rimasero irreparabilmente sepolti senza che i tempi permettessero ai valligiani di rifarsi di quelle rovine. E che quella fabbrica di armi risalisse per avventura sino ai tempi romani possiamo congetturarlo dal fatto, che essendosi nel 1834 per istraordinaria alluvione scoperte le rovine di quegli antichi edifizi, si rinvennero non solo frammenti d’armi, ma parecchio monete degli imperatori Augusto, Antonino e Vespasiano11.
È certo che un tale deposito ci dovea essere fra noi e fornito d’ogni maniera d’armatura che occorresse ad allestire un esercito, mentre un nostro assai antico scrittore Mosè del Brolo ebbe ad affermare in quel suo famoso Pergameno, pubblicato già dal Muratori, che nei due soli borghi annessi alla città, chiamali l’uno Fabbriciano e l’altro Pompiliano, poteansi ad un bisogno fornire all’Impero ben mille soldati di cavalleria, a tutto punto armati e militarmente allestiti:
Si peteret quondam Romana potentia Poenos;
Aut hos aut illos qui nollent summere frenos;
Mille dabant isti Romæ toracas ahenos,
Et validos bellis animos vultusque serenos.
Sed fortuna bonis hominum male fida recessit,
Et loca tanta prius severissima sub pede pressit.
Nam modo vix equites capiunt hic arma ducenti,
Unde phalanx ibat mille sub aere nitenti.
Dopo i tempi della dominazione Romana, della escavazione delle miniere e delle relative fucine, che si aveano nelle nostre o nelle confinanti valli, non ci avviene di trovar documenti anteriori all’Historiola di Rodolfo Notajo, che narra come ai tempi di Carlo Magno, nell’811, essendo dallo stesso Carlo posto a Governatore di Brescia il conte Suppone, e facendo egli immoderatamente, e senza affrancarne gli schiavi, come avea promesso, e senza la debita retribuzione della pattuita mercede, lavorare nello scavo delle miniere e negli annessi edifizii gli abitanti della Val Trompia, se gli ribellarono e uccisero sediziosamente il figliuolo di lui e tutti gli altri che in nome suo gli avevan gravati dì quella vessazione. Onde Suppone con una mano d’armati entrò nella Valle e con efferato furore vi menò tanta strage che quasi la fece deserta e senza abitatori: Suppo, quum in multis ferreis laboribus, et prope sine mercede opprimeret Trompianos, nec vellet thingare (affrancare) servos, quos diu cavare fodinas cogeret, ut pullicitationem eis fecerat, omnes moverunt seditionem, et interfecerunt filium Supponis cum pluribus aliis, qui eos saevis verberibus afficiebant. Tum Sappo cum manu armatorum ingressus est vallem, et tantam caedem belluino furore patravit ut illam faceret desertam et prope sine habitatore.
Dopo questo documento generale, riferibile agli scavi e lavorieri delle miniere nelle nostre Valli ai tempi di Carlo Magno, abbiamo il prezioso documento tutto nostro proprio del privilegio di Enrico III agli abitanti della Valle di Scalve. Questo Imperatore detto il Nero e da altri il Pio, un anno a quanto pare dopo la sua incoronazione, e precisamente nel 1047, largiva da Mantova a tutti gli abitanti di Scalve, o come ivi è detto del monte Scalfo, ampio diritto e privilegio di negoziare e di vendere come loro piacesse il loro ferro, per tutta l’estensione dell’Impero e ciò a norma delle consuetudini dei loro antenati: Per nostram preceptatem paginam concessimus atque pro ut jure et legaliter potuimus largiti sumus omnibus hominibus in Monte Scalfi habitantibus facultatem et largitionem negociandi, et eorum ferrum vel quidquid voluerint per vastitudinem nostri Imperii vendendi, usque montem Crucium et montem Bondionem.... secundum suorum priscorum parentum vel decessorum morem et consuetudinem.
Abbiam riferito le sopra citate parole del privilegio di Enrico III, secondo la lezione che ne dà il nostro Lupo alla pagina 622 del II volume del suo Codice diplomatico, dietro una copia che potè averne ex Libro privilegiorum ipsius Vallis. Ma la lezione, come noteremo più avanti ritornando su questo stesso privilegio riportato per intero in altro somigliante diploma di Enrico VII, non si mostra ben conveniente con altri più antichi e pregievoli codici che ancor si conservano negli Archivi della Valle, e dai quali si avrebbe una lezione più coerente e più probabile. Frattanto ci permetteremo di osservare come dalle parole del Decreto si possa ricavare che lo scavo e il lavoro del ferro nella Valle di Scalve dovette essere e da tempo ben in fiore, se il diploma dice di aver largito agli uomini di quella Valle l’ampio privilegio di vendere e di negoziare il loro ferro per tutto l’Impero, a norma degli usi e delle consuetudini dei loro antenati. Per cui, dice il Lupo, satis perspicua est hujus diplomatis sententia, ex quo patet hoc privilegium longe antiquiorem fuisse, et ni velustius saltem a tempore Ottonum Imperatorum.. Hinc etiam liquet quam antiquitus late pateret horum incolarum ferri commercium in universo scilicet Imperio; quod saltem Italiam, Germaniam et magnam Galliarum partem amplectebatur.
Un’altra Memoria dell’escavazione delle miniere, e dei lavori del ferro che si facevano a questi tempi nelle nostre Valli, abbiamo in un Istrumento di divisione fra i comuni di Schilpario, di Vilmaggiore e di Barzesto; rogato l’anno 1251 nell’antica chiesa di san Giorgio, che forse era allora la matrice di tutta la Valle, ad Ecclesiam Domini Sancti Georgii de Scalve; e del quale, smarrito l’originale, conservasi un’antica copia autentica del 1571 ultimamente posseduta dall’egregio dottore Gio. Battista Grassi che fu di Schilpario. Nel quale Istrumento si fa più d’una volta menzione di un antico Forno, che si trovava nei confini del predetto territorio: come si può raccogliere dallo stesso atto che in quel suo stile mezzo latino e mezzo volgare dice tra le altre cose: et totam terram quæ erat illius vicinantiæ.... usque ad pontem Schirparii de Petra et ad casam conferti Petri Battilio, finis via Schirparia de supra in Zugum, que venit foris a casis de Stomte et dal Vago, finis Pontem de Furno de lignis in intus versus mane usque ad finem divisorium Palodine..., et totum quod ipsa vicinia generalis et comune ipsius vicinantiæ habebat in Grumello et circa in Grumello de Monte Orfano suum commune et totum furnum de ferro cum suis juribus et pertinentiis et clusis et acqueductibus et schirpio et utensilibus que ipso vicinia habet.
Ma raccogliendo le notizie, che si hanno pei tempi di mezzo delle nostre miniere, troviamo notevoli alcuni documenti, che si riferiscono allo scavo che per alcun tempo deve essersi fatto con qualche successo di varie miniere d’argento. Poichè da certe vecchie pergamene, che si conservano nell’Archivio Vescovile, in parte pubblicale dal Lupo e dal Ronchetti, e in parte tuttavia inedite, abbiamo prima che nel 1077 certo Landolfo Milanese Canonico della Cattedrale e Camerario Vescovile compera da Otta vedova di Alberico di Martinengo tutto che le apparteneva de vene argenti quae sunt in montibus de Valle Ardese. E da alcune di esse pergamene, che qui appresso si accennano, si rileva che l’acquisto di queste miniere dovette esser fatto in nome del Vescovo, o almeno passare subito, dopo qualche nuovo atto in proprietà dello stesso Vescovo: Emptio ista Landulphi Presbiteri Bergamatis Ecclesiae idest Canonici cathedralis et Camerarii Episcopatus... ex consequentibus chartis potet quod revera facta fuit ut argenti fodine in montibus Ardesii rite ad Bergomatem Episcopatum parvenirent: propterea quatuor post die Landulfus Camerarius eos donat Arnulpho electo Bergomati Episcopo atque Episcopio12. E le carte quivi accennate sono prima una promessa del 30 dicembre dello stesso anno 1077 dei figli di Alberico di Martinengo e delle loro mogli, fatta ad Arnulfo Vescovo eletto di Bergamo, eum non molestandi pro argenti fodinis Ardesii13. Appresso nel 1080 troviamo un’altra carta di compera fatta da Olrico Canonico de eo toto quod pertinebat Otoni et Vitale de Martinengo in argenti fodinis Ardesii. E non v’ha dubbio (noia qui il Lupo) hanc ipsam emptionem fictitiam fuisse, factamque jussu et pecunia Arnulphi Episcopi; post hanc enim nullus alius praeter Episcopum Bergomensem in illis fodinis jus habuit14. Più tardi nel 1180 troviamo che Carpellione figlio del fu Alberto Collione ed Ugucione figlio del fu Guglielmo Collione, a nome anche de’ fratelli e nepoti, rassegnano in mano del Vescovo totum hoc quod habebant et eis aliquo modo vel jure pertinebat in loco et territorio et pertinentiis de Ardesis et Vallis de Ardesie et in loco et territorio de Bondellino in integrum, et quae ipsi tenebant per feudum ab Episcopatu15. Più tardi nel 1214 abbiamo un istrumento stipulato nel Palazzo Vescovile, pel quale Mazzocco di Rivola e Oldicino suo figlio vendono al Vescovo Giovanni i suoi diritti di feudo o di gastaldo nelle vene d’argento della Valle d’Ardesio e di Gromo, sui lavorieri di esse, sulle persone che si impiegavano, come nelle terre e esse, che per la stessa ragione lor competevano. Istrumento che il Lupo riscontrava nell’Archivio Vescovile, apponendovi la scheda, agitur de gastaldacio Ardesii et de venis argenti juris Episcopatus16. Un altro istrumento trovava parimente il Lupo nell’Archivio Vescovile del 1217, che noi pure potemmo riscontrare, e che si riferisce ad una questione supra venas argenti de Ardexie inter milites justitiae Bergomi et quemdam de Gromo. Ma un più ampio documento dello stato di attività in cui si trovavano a questi tempi le nostre miniere lo abbiamo in una carta del 6 novembre 1222, conservata nell’Inventario degli Istrumenti della valle di Scalve, e da noi pubblicata in altro nostro lavoro17: nella quale Giovanni dei Tornielli di Novara Vescovo di Bergamo, per autorità avutane dal Metropolita di Milano e col consenso del Capitolo di Bergamo, investe i Capitani di Scalve della signoria, che il Vescovo di Bergamo vi avea: riservando però a sè ed a’ suoi successori la giurisdizione nelle mancipazioni, nei duelli, nelle appellazioni, e in generale omnnes honores et jura argenti et fodinarum. Dove sotto la parola di fodine non vuolsi intendere solo le miniera di argento, ma anche quelle di altri metalli, come di ferro e di rame, che erano nella valle di Ardesio dal Ponte nuovo di essa valle sino alla Scalugia verso Bondione18.
Un altro documento del 1235, 14 giugno, veduto dal Mozzi nell’Archivio Vescovile, e da lui indicato nel suo primo volume, Antiquitates Bergomi, Vol. F., p. 58., riferisce una Sententia data super laboreriis et statutis Comunis Pergami occasione venarum argenti in favorem R. D. Ja. Episcopi Perg. loco Ardesii. E sotto lo stesso anno si ha l’esame e la decisione di questa causa in una Bolla, rimasta fra le carte del Lupo, di Papa Gregorio, data Dom. Guale Episcopo Brixiensi super causam revocandi Statuta edita Bergomi contra Ecclesiasticam libertatem19.
Ed oltre a queste carte più comunemente note ed accennate in parte anche dal Rota20 e più particolarmente dal Ronchetti21, molte altre se ne hanno riferibili alle vicende di queste miniere d’argento, che noi trovammo registrate nell’accennato repertorio del Mozzi e che a quanto ci parve da un breve riscontro, pressochè tutte anche attualmente conservansi nell’Archivio del Vescovado, dove lo stesso Mozzi dichiara di averle vedute.
E del 1242, 11 aprilis, trovasi Relaxatio quaedam facta per D. V. Domini Potestatis, in qua fit mentio de quodam jure Episcopatas Pergami circa venam argentine.
Del 1243, 14 novembris, Sententia ficti montis de Ardizzono Valle de Adesio.
Del 1245, 31 maii, Charta circa laborem metallorum de Gromo juris Episcopatus Pergami.
Del 1248, 15 aprilis, Praecepta et acta pro venis argenti de Ardesio.
Del 1249, octob. Sententia inter D. Episcopum et illos de Gandellino pro venis de Ardexio.
Del 1254, 7 novemb., Investitura facta de venis argenti, etc.
E del 1258, 15 junii, Alia investitura de iisdem venis argenti.
La quale ultima, e per la speciale importanza e per l’opportunità di averla noi avuta trascritta dal Lupo, diamo qui per intero:
In nomine Domini Nostri Jesu Christi, Anno ejusdem currente 1258.
«Die 16 Mensis Junii, indictione prima, in Episcopali Palacio Pergami, Dominus Frater Algisius Dei gratia Episcopus Pergamensis, nomine et vice Episcopatus investivit nomine et jure simplicis locationis usque in caput annorum decem proxime vent. completorum a quintadecima die post festum S. Martini currente millesimo ducentesimo sexagesimo secundo in antea Dominum Petrum filium quond. Domini Alberti Ragnoldi Civitatis Pergami nominatim de toto honore, jurisdictione et districtu Curie de Ardexie et de Palacio, et de omnibus fictis, redditibus et obventionibus et proventibus ejusdem Curie et de arientera et de omnibus que ad arienteram faciunt et competunt, et de omnibus aliis juribus, actionibus, requisitionibus et manciis temporalibus et eidem pertinentibus et competentibus tam in monte quam in plano sub terra et supra terram sicut appellatur et appellari consuevit Curia de Ardexie et Vallis Finis de Villa de Clixione in susum usque ad Bondionum detracto ficto de Bondiono etc. etc. Supradictus Dominus Petrus investitus solvet eidem Domino Episcopo vel ejus successoribus pro Episcopatu Pergomen. libras quinquaginta honorum denariorum ad rationem Imperialem».
«Ego Marchise Jacobi Almirati Episcopalia Curie Pergamen. Notarius». (In Arch. Episcop., Fasc. II).
Come poi colla men comune e quasi privilegiata scavazione dell’argento si mostrasse per questi tempi specialmente viva e ferace la scavazione delle miniere del ferro e non men prospero il lavoro delle officine e fiorente il commercio delle varie manifatture di esso che si aveano rinomatissime, possiamo desumerlo dai diplomi di Enrico VI, o VII come più comunemente è detto, e di Giovanni Re di Boemia, che confermando in ogni sua parte il già citato privilegio di Enrico III, usano espressioni che ben fanno conoscere quale fosse pei nostri a que’ tempi e quanto feconda questa sorgente di patria ricchezza. Enrico VII di Luxemburgo, eletto Imperatore nel 1308, nel 1311, espugnando Brescia, ridotto che era da’ Guelfi, segna un piacito in favore degli uomini del monte Scalfo, hominum in monte Schalfi habitantium; e conferma in esso il privilegio di Enrico III per modo, che lo riporta alla lettera; anzi è da quest’ultimo che ci fu conservata la copia dell’antico. Il qual diploma di Enrico VIII, che ripete per appunto quello di Enrico III, ci permettiamo di qui riferir per intiero, come l’ebbimo da un codice autentico, che si conserva nell’Archivio della Valle fedelmente copiato da quell’egregio Arciprete sig. Palamini; e per esser diverso da quello veduto dal Lupo, potrà rettificare, o, se non tanto, chiarire col confronto le non evidenti lezioni, che di questo diploma ci ha dato il Lupo.
«Heinricus Dei gratia Romanorum Rex semper augustus. Universis Sacri Romani Imperii fidelibus presentes litteras inspecturis gratiam suam et omne bonum. Ex parte prudentium virorum hominum in monte Scalfi habitantium dilectorum nostrorum et Imperii fidelium nobis extitit humiliter suplicatum quatenus privilegium inscriptum sibi concessum confirmare de benignitate regia diguaremur. Cujus privilegii tenor talis:
«In nomine sancte et individue Trinitatis. Heinricus divina favente clemencia Romanorum Imperator Augustus. Noverit omnium sancte Dei Ecclesie nostrorumque presentium scilicet ac futurorum fidelium sagacitas quomodo nos pro Dei amore22 nostreque remedio anime per nostram preceptalem paginam concessimus atque prout juste23 et legaliter potuimus lorgiti sumus omnibus hominibus in monte Scalfi habitantibus facultatem et largitionem negociandi et eorum ferrum vel quidquid volunt24 per vastitudinem nostri Imperii vendendi usque montem cinerem25 et montem Bardonem26 absque alicujus mortalis hominis contradictione vel molestacione, sine etiam27 alicujus publicalis28 functionis redibitione preter libras mille ferri quas in nostra Regali curia Dervi vocata per condicionem et secundum suorum priscorum parentum vel decessorum morem et consuetudinem hactenus dederunt ac dehinc annuatim dare debent29 ea videlicet30 racione quod31 nullus dux, marchio, Episcopus, Comes aut aliqua magna parvaque nostri Regni persona hominibus in predicto monte Scalfi habitantibus audeat aliquam molestiam vel violenciam32 aut aliquam superpositam inferre sive theloneum vel fodrum33 aut aliquam publicam functionem ab eis vel eorum heredibus34 exigere presumat nisi sicut supra decrevimus. Si quis igitur hujusmodi precepti35 violator extiterit sciat se cumpositurum auri optimi libras centum medictatem Camere nostre et medictatem predictis hominibus vel corum heredibus36. Quod ut verius credatur et diligentius ab omnibus observetur hoc preceptum propria manu confirmantes37 sigilli nostri impressione jussimus assignari.
«Signum Domini Heinrici secundi Romanorum Invictissimi Imperatoris Augusti...
«Heinricus Cancellarius vice Hermanni Archicancellarii recognovi.
«Datum Kal. Maji anno dominice incarnationis m xlvii Indict. xv, anno autem Dom. Heinrici tercii ordinationis ejus xviii, Regnantis viii secundi, Imperantis38 primo.
«Actum Mantue in Dei nomine feliciter. Amen.»
«Devotis igitur supplicationibus predictorum hominum in monte Scalfi habitantium favorabiliter inclinati prenotatum privilegium prout rite et provide per Imperatorem supradictum nostrum predecessorem concessum ect. approbamus, ratificamus et presentis scripti patrocinio confirmamus salvo tamen juro Imperii.
«Nulli ergo omnino hominum liceat.... approbationes ratificationis et confirmationis paginam infringere vel aliquo ausu temerario contraire. Quod qui facere presumpserit gravem indignationem nostram se noverit incurrisse. In quorum testimonium presentes litteras scribi et majestatis nostre sigillo jussimus communiri.
«Signum Domini Heinrici Romanorum Regis Invictissimi...
«Datum Mediolani iii Idus febr. anno Domini millesimo trecentesimo undecimo, Regni vero nostri anno tercio.
«Ego frater Heinricus Tridentinus Episcopus Imperialis Aule Cancellarius vice Domini Heinrici Colonien. Archiep. per Italiam Archicancellarii recognovi.
(Ex autentico Heinrici VII, quod asservatur in Tabulario Vallis).
Non poche, come si può vedere dalle noterelle poste a piè pagina del surriferito Diploma, sono le varianti fra l’autentico di Enrico VII, che serve di testo alla presente edizione, e la copia non forse delle più esatte che il Lupo ha potuto avere. Ma la più notevole di queste varianti è quella appunto, che concerne il valore o l’estensione che si dovrebbe dare al concesso privilegio; leggendo il Lupo «largiti sumus... facultatem... per vastitudinem nostri Imperii vendendi usque ad montem crucium et montem Bondionem»; mentre il codice, che noi seguiamo, porta: «usque ad montem cinerem et montem Bardonem». Ora, attenendosi alla lezione del Lupo, i valligiani s’industrierebbero di prendere il montem crucem per il sopra croce, sover-cros, prima miniera che zi trova procedendo da Schilquio verso i fondi, al disopra dalla quale zi trovano scavi abbondanti detti appunto sover-cros; quanto poi al Bondionem il Lupo, senza troppo badare, parrebbe averlo addottato per la consonanza del nome della confinante valle di Bondione e del vicino monte Gaffione notevole per ricchezza di miniera: «ex eo colligitur, dice però il Lupo, quam uberes sint ferri fodinae, in ea valle e conterminis montibus Bondione nempe ut modo appellatur et Gaffione; ad eas enim extenditur privilegium istud». Ma ove si addotti questa lezione il privilegio non avrebbe senso o lo avrebbe pressochè ridicolo. Poichè, dopo d’essersi detto che gli abitanti di Scalve potrebbero vendere il loro ferro per vastitudinem Imperii, si verrebbe poi a limitare nel breve giro della Valle, fra il monte Croce e il Bondione o Gaffione; e converrebbe in tal caso, per non render ridicolo il Diploma, storpiarne un poco le parole, o farci dire piuttosto, che quelli di Scalve potean vendere per tutto il vasto impero il ferro che scavavano dalle miniere dal monte Bondione o Gaffione sino al monte Croce. Ma nel Codice autentico da noi seguito è chiaro che non s’ha a legger Bondione, ma Bardone, e invece di Crucem si troverebbe di dover leggere Cinerem, perchè nel Codice è chiaro Cinerem e Bardonem; quantunque la i è poco dissimile da r, come l’u e la e si mostrano assai affini alla n e alla c; e questo può aver dato luogo all’errore. «A conferma poi dalla lezione Cinerem, che può essere più controversa, più che altre copie (fatte più tardi una sull’altra, senza che si potesser confrontare coll’originale che come è memoria teneasi chiuso sotto undici chiavi, nè si poteva ispezionare che presente tutto il Consiglio della Valle) valgono due altri Diplomi, che a questo si riferiscono, e sono uno del medesimo anno 1314 della stessa cancelleria Imperiale ma di altra mano, l’altro dello stesso secolo di Azzone Visconti. E questi hanno tutti e due anche più evidente la nostra lezione, anzi il Visconti dice Cenerem». Ritenuta la quale lezione, si potrebbe intendere che il Cenerem fosse il cenisio o il monte detto precisamente monte cenere, che è nei confini svizzeri, e il Bardonem fosse il monte Bardone, che deve trovarsi sul Parmigiano presso le ruine di Velleja. Dai quali due punti sarebbero per avventura ragionevolmente determinati i confini del Regno e dell’Impero, fino ai quali dovea estendersi l’imperial Privilegio: «per vastitudinem nostri Imperii, usque ad montem Cinerem et montem Bardonem».
Non meno ampi dei riportati due Diplomi di Enrico III. e di Enrico VII. seguirono ad essere i privilegi della Valle di Scalve sotto i Re e Principi che appresso ne ebbero il supremo dominio. Conservasi negli archivi di essa Valle un Codice di privilegi, dove in originale o in copie abbastanza antiche ed autentiche si può vedere la serie di questi placiti, che si succedono ripetendo più o meno letteralmente la conferma degli stessi privilegi. Quivi nel 1331 abbiamo un amplissimo privilegio rinnovato da Giovanni Re di Boemia; e del 1335 è l’atto di Azzone Visconti; poi del 1385 quello di Galeazzo Visconti, che rispettano le concesse esenzioni e pienamente confermano i privilegi della Valle di Scalve, massime in ordine alle scavazioni e manifatture delle miniere. Dal 1405 Pandolfo Malatesta, e del 1419 il Carmagnola pel Duca di Milano Filippo Maria Visconti, e appresso del 1424 Bartolomeo Colleone per autorità avutane dal Duca Francesco Sforza, danno nuove conferme a quelle essenzioni e a quei privilegi. Verso la fine del 1427, la Valle di Scalve, siccome Guelfa e legata alle democrazie artigiane di Bergamo e di Brescia, fu tra le prime ad accogliere il Dominio Veneto; e però il 2 giugno del 1428 il Foscari si affrettava e compiaceva di notificare ai cari e fedeli uomini di Scalve «come fossero rispettati e confermati i loro privilegi». Privilegi poi che tornano ad ogni tratto confermati da una serie di Ducali, che si succedono se non ad ampliarli certo a mantenerli od a rimetterli ove fosse stato bisogno nel loro pieno vigore. Tantochè al cadere della Veneta Repubblica la Valle di Scalve vantava ancora pressochè intatti tutti i suoi privilegi; fra i quali questi erano singolarmente notevoli: 1. l’esenzione dal servizio militare, 2. il diritto esclusivo d’aprire e possedere miniere entro i confini della Valle, 3. la fabbricazione della polvere da mina, 4. la conservazione e l’osservanza del proprio Statuto e degli ordini e capitali sulle miniere e sui forni stabiliti a norma delle antiche consuetudini della Valle.
Quanto allo stato attuale delle nostre miniere fin dallo scorcio del passato secolo il benemerito nostro prof. Maironi da Ponte, nella sua già citata Memoria orografica mineralogica delle montagne di Val di Scave e Bondione scriveva: «La Valle Bondione e la Valle di Scalve hanno delle cave di ferro abbandonate, e degli indizi che vi esistano degli altri minerali, che con vantaggio si potrebbero cavare. Ma la mancanza di Società, che vi rivolgano i loro studi e vi impieghino i loro capitali è l’ostacolo principale che si oppone a cotali industriose nazionali risorse». Nè altro può essere, se non forse più incalzante nelle attuali condizioni della Società, l’avviso dei meglio periti in così fatte industrie. E dove scorsa, sconnessa, imperfetta riesce l’opera dei privati, si fa necessaria l’opera per unione e armonia di forze più vigorose di ben regolate Società, che intraprendano di ritentare le fonti, che negli andati tempi furono sì feconde di ricchezze per le nostre Valli. I saggi e gli esperimenti, che si faranno per riconoscere quali dei vari tesori metallici già conosciuti sieno ora esausti o solo sottratti alle superficiali e non insistenti ricerche, chiariranno dell’importanza e convenienza di tentare lo scavo di nuove e preziose miniere, o forse di attenersi alle vecchie, ma con più larghi e approvati metodi di escavazione e di riduzione nei relativi opificii. Nelle nuove ricerche non dovrebbero essere dimenticate le miniere del rame, delle quali Plinio menò sì gran vanto, e delle quali ne dovrebbe certo essere alcuna anche nelle nostre Valli. E comunque; quale che ne sia stata la cagione, ne’ tempi moderni ne fossero quasi perdute le traccie, sarà però da tener conto, come è memoria dei vecchi della Valle, che alla destra del Tino e della via che da Vilminore conduce a Vilmaggiore fosse nel 1776 eretto un forno, dove si fondeva la miniera di rame che si cavava nello vicina Valle di Ronco; e pare a quanto ne fu detto dai pratici39 che l’opera non attecchisse per la sola imperizia di chi mal seppe intraprenderla. Checchè poi fosse il forno, da più anni dimesso, in una straordinaria piena del Tino il 18 novembre del 1791 fu sfasciato e distrutto; onde anche ci rimase dallo scavare più avanti la miniera, che fu chiusa e abbandonata. Dello scavo del mercurio, che sembra stato tentato nella Valle di Scalve al luogo detto del Ribasso, e dello scavo del piombo, della cui miniera pure si fosse avuto alcuna traccia, non accade il dire; poichè, o fosse mancanza di sufficienti ricerche o poca speranza di riuscita, non si ha che mai se ne abbia ottenuto successo di qualche importanza, e appena i più esperti della Valle ne saprebbero per avventura indicare i luoghi a cui si legano le incerte tradizioni di antichi ritrovamenti di così fatti metalli. Egualmente incerta è l’esistenza o almeno l’entità di qualche miniera d’oro che fosse nella Valle; o almeno non si ha accertata memoria che mai si sia trovato conveniente di tentarne lo scavo o la riduzione. Però è a nostra memoria che alcuni della Valle, sulle tracce di vetusti indizi, intrapresero uno scavo nelle falde della Presolana. Ma fatto assaggiare il minerale che ne estrassero, non ne ebbero infatti lo sperato vantaggio, e abbandonarono l’impresa40. Non così parea che dovesse avvenire delle non poche preziose cave d’argento, che per quanto ora sieno disusate e mal note, furono nel medio evo tenute in conto di sì ricchi proventi sì della Valle che dello stesso Municipio di Bergamo, da dovercene certo increscere il totale abbandono. Ma la mutata condizione dei tempi, la difficoltà dell’escavazione, la scarsezza forse anche del minerale ottenuto, e certo lo scemato valor del metallo ha persuaso ai vecchi della Valle di abbandonare non si sa quando o come questa particolare escavazione delle già famose nostre miniere d’argento; nè si saprebbe ben dire se mai convenisse di ritentare questa non facile ed incerta sorgente di nostrale ricchezza.
Ma quando pure non fossero da ritentare escavazioni di altre miniere, quelle sole del ferro, e per la perenne abbondanza e per l’eccellente qualità, dovrebbero ridestar l’attenzione su questa un tempo così ubertosa ed ora quasi inarridita sorgente di nazionale commercio. Poichè è notissimo che le montagne tra le altre di Val Bondione e di Scalve sono tutte una miniera di ferro spatico della migliore qualità, la cui fusione e lega dà metallo di ottima tempra, e si presta a sì varie manifatture, da poter gareggiare colle più riputate industrie di simil genere che si conoscano. Me perchè il ricco patrimonio non rimanga infruttuoso alla Valle e a tutta la Provincia, che pur n’ebbe e può averne sì estese e vitali risorse, è bisogno sempre più urgente, che i proprietari della Valle, congiungendosi se accade coi doviziosi della Provincia si uniscano, come già in antico, ma con più larghi e provati metodi, in opportune e forti associazioni, per intraprendere con più estese vedute nuove escavazioni, promuovere facilitazioni di strade e di mezzi di trasporto, pensare a far pro delle ferrovie per aver surrogati di nuovi combustibili al carbone che già è scarso, provvedere, non badando a spese, al reclamato miglioramento dei metodi tanto di escavazione come di fusione, non senza pensare al miglior trattamento degli artieri e braccianti; onde si ottenga a mettere nuova lena e gara in tutta l’opera, e si faccia insieme che il beneficio dei migliorati metodi e dei cresciuti proventi si estenda com’è di ragione dai proprietari agli operai, dai membri delle associazioni a tutte le classi del popolo.
Nè basta al generale miglioramento dello stato economico delle nostre Valli e diremo anche di tutta la Provincia, che si faccia in più larghe proporzioni e con maggior lena lo scavo e la fusione delle ricche miniere; conviene che si intraprendano con coraggio e intendimento proporzionato ai tempi nuove officine fiorenti di tutte le industrie e commerci, che già si fecero e potrebbero farsi del prezioso metallo. Rispetto alle antiche rinomatissime fabbriche, che faceano ricca l’armeria di Clusone, e alle altre che erano più conosciute nella terra di Gromo, che mai sono le poche officine che ci rimangono nell’una o nell’altra delle Valli di Scalve o di Bondione? Perchè, a tacere di più antichi documenti, il solo breve riassunto che ci fornisce il Celestino sulle fiorenti condizioni di questo ramo d’industria nelle nostre Valli, può bastare ad accennarci quanto a nostri giorni sia scaduto e come potrebbe avviarsi a più prospero stato. «Ne’ Comuni di Gromo, Valgolio e Gandelino si fabbrica, nara egli, ogni sorta di spade, pugnali, cortelle ed arme d’asta; nelle quali entra acciajo e ferro e carbone: e prima si cavano le vene sotto terra nel fine della Valle, le quali sono appropriate parte all’acciajo e parte al ferro: e poi si calano in due forni fabbricati nel comune di Scalve. In sette edifizi di fuochi grossi si lavora il ferro crudo, che deriva dai due forni; ne’ quali fassi acciajo e ferro, sì per le arme, sì per l’acciajo solo, che si manda fuora in cassette. In dodici fuochi minori si lavorano spade, daghe e cortelle; ed ogni fuoco ha un maestro con la servitù di sette o otto persone appresso. In tre o quattro fuochi si lavorano le arme d’asta, con due o tre persone appresso al maestro nella fucina. Ogni fuoco o fucina ha una mola e più per finire le dette arme, ed in ciascuna lavorano due o tre persone. Spade cortelle se ne fabbricano da quattrocento al giorno in tutto; pugnali e daghe da ottocento; ma o queste o quelle solamente. Arme d’asta delle grandi da cinquanta, e delle piccole il doppio al più; ma cesserebbono quelle, perchè gli stessi maestri fanno le une e le altre. Le suddette armi si dispensano in diverse parti, cioè per l’Italia, per la Spagna, per l’Alemagna, e parte per la Francia»41. E anche fino al declinare del passato secolo un Podestà di Bergamo in una sua relazione asseriva: «Fra le altre fu celebre e diramata ad un tempo nella provincia di Bergamo l’arte di costruire l’arme bianche ad uso militare, specialmente nelle terre di Gromo, Valgolio ed altre della Valle Seriana; e potè fornire fino alla metà del presente secolo, tanto ai bisogni dello Stato, quanto a quelli di molte altre provincie d’Italia42». Al principio del corrente secolo vi si aveano quattro fucine, nelle quali si fabbricavano eccellenti scartate, massini da vanghetto, assalotti; ma due ne rovinarono, e nelle due che rimangono non si lavora più che scuri, falciuole, zappe e chiodi. Non scarsa fu ai tempi del Regno Italico in alcuno dei nostri forni la fusione di bombe e palle da cannone; e nel forno di Gajazzo in Val Bondione, in uno con lodati opifici di ghisa, continuò pure a quest’ultimi tempi più o meno animata la fusione delle bombe. Ma di altre arme che fossero da fuoco e da taglio non ne potè essere affatto nulla; tanto era quell’industria dappertutto in generale, ma più specialmente nell’Impero Austriaco, sorvegliata e impedita. Ma ora, che le mutate condizioni politiche cambiano di necessità per la forza delle cose anche la condizione del commercio, sarebbe segno d’inerzia e di poca cognizione o fiducia che si avesse delle proprie forze e dell’opportunità dei tempi, se da codesta agitazione e nuova tendenza della società non si traesse occasione di tentare colla materia, che si ha ricchissima, nuovi argomenti di già sperimentati guadagni nella fabbricazione delle armi da guerra. E di vero, se dappertutto dove gli elementi naturali offrono un campo favorevole, vedonsi raddoppiare le esistenti officine e fondarsi nuovi stabilimenti, perchè una Provincia già rinomata in questi commerci, perchè le nostre Valli, che da secoli ebbero e si mantennero caratteristico il vanto di queste industrie, nol vorranno ora, se i tempi il consentano, con ogni sforzo riacquistare? I primi elementi, di cui già furono trovate ricche le nostre montagne, non sono venuti meno: l’attitudine dei nostri a così fatti lavori, se potè languire nella pratica, non ne è però perduta la naturale capacità. Prova ne sieno alcuni saggi, che il privato ardimento di alcuni de’ nostri operai ci seppe dare all’occasione delle industriali nostre esposizioni43. Il ferro or dunque di eccellente qualità e in copia, la mano d’opera a prezzo moderato, e l’attività dell’operajo esistono ancora; sarà dunque possibile produrre tanto bene e agli stessi prezzi dell’Inghilterra, della Francia, dell’America, del Belgio: non avvi aluna difficoltà pratica di qualche importanza; non fa bisogno che d’intelligenza, d’energia e di capitali44.
Note
- ↑ Rosa, Comment. sopracit.
- ↑ Palamini, Arcip. di Vilminore, in un suo lavoro ms.
- ↑ Rosa, Comment. sopracit.
- ↑ Strab. Lib. V, c. II.
- ↑ Hist. nat., lib. XXXIII, c. IV.
- ↑ Ibid., lib. XXXIV, c. 1.
- ↑ Vedi Maironi, Mem. sopracit.
- ↑ Vedi Serassi Sull’Epitaffio di Pudente Gram.
- ↑ Trattato mineralogico del Dipartimento del Mella.
- ↑ Relazione dello spaventoso turbine scoppiato vicino alla terra di Gromo l’anno 1666, il giorno dei Santi. — Da un Cod. forse autografo del Baldis, posseduto dall’ing. Milesi.
- ↑ Parte almeno di questi strumenti e monete, colla loro descrizione e del loro ritrovamento conservasi presso gli eredi del sig. Gabrieli di Clusone, che lasciò una Storia manoscritta da lui compilata della Valle Seriana.
- ↑ Lupo. Cod. dipl., tom. II, pag. 707.
- ↑ Ibid. pag. 714.
- ↑ Ibid. pag. 722.
- ↑ Lupo. Cod. Dip., pag. 1223.
- ↑ Vedi Ronchetti, lib. 13, pag. 236.
- ↑ Del Codice Diplomatico Bergom,. p. 35.
- ↑ Vedi Ronchetti, lib. 14. pag. 30.
- ↑ Ivi, lib. 15, pag. 84.
- ↑ Storia antica di Bergamo, pag. 141.
- ↑ Lib. 7, pag. 629.
- ↑ Giusta la lezione del Lupo si ha nomine.
- ↑ Jure.
- ↑ Voluerint.
- ↑ Crucium.
- ↑ Bondionem.
- ↑ Eorum.
- ↑ Publicatis.
- ↑ Debeant.
- ↑ Autem.
- ↑ Quatenus.
- ↑ Omesso dal Lupo.
- ↑ Phodium.
- ↑ Ejusdem hominibus.
- ↑ Precepta.
- ↑ Omesso dal Lupo.
- ↑ Confirmamusque.
- ↑ Imperatoris.
- ↑ Dott. Grassi. Mem. ms.
- ↑ Grassi. Mem. ms., aggiunte.
- ↑ Historia di Bergamo, lib. X;, c. 36.
- ↑ Relazione del reggimento di Bergamo sostenuto nel 1786-87. da B. Mora.
- ↑ Vedi Atti della pubblica esposizione dei prodotti naturali e lavorati della provincia di Bergamo del 1857.
- ↑ Vedi il magistrale lavoro del sig. Corioni, Sull’industria del ferro in Lombardia.
- Testi in cui è citato Giovanni Maironi da Ponte
- Testi in cui è citato Gabriele Rosa
- Testi in cui è citato Strabone
- Testi in cui è citato Gaio Plinio Secondo
- Testi in cui è citato Pietro Antonio Brasi
- Testi in cui è citato Celestino Colleoni
- Testi in cui è citato Gian Battista Brocchi
- Testi in cui è citato Sertorio Orsato
- Testi in cui è citato Giovanni Battista Rota
- Testi in cui è citato Jan Gruter
- Testi in cui è citato Thomas Reinesius
- Testi in cui è citato Raffaele Fabretti
- Testi in cui è citato Marquard Gude
- Testi in cui è citato Ludovico Antonio Muratori
- Testi in cui è citato Sebastiano Donati
- Testi in cui è citato Mosè del Brolo
- Testi in cui è citato Rodolfo Notajo
- Testi in cui è citato Mario Lupo
- Testi in cui è citato Giuseppe Ronchetti (storico)
- Testi in cui è citato Giuseppe Ercole Mozzi
- Testi in cui è citato Giacomo Palamini
- Testi in cui è citato Pier Antonio Serassi
- Testi in cui è citato Giovan Battista Grassi
- Testi in cui è citato Bartolomeo Mora
- Testi in cui è citato Giulio Curioni
- Testi SAL 100%
- Testi-S
- Miniere
- Bergamo
- Testi di Giovanni Maria Finazzi
- Testi del 1860
- Testi del XIX secolo
- Testi con versione cartacea a fronte