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Adone/Canto I

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Canto primo. La Fortuna

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Discorso di Chapelain sull'Adone Canto II
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LA FORTUNA

CANTO PRIMO

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ALLEGORIA


Nella sferza di rose e di spine, con cui Venere batte il figlio, si figura la qualità degli amorosi piaceri, non già mai discompagnati da’ dolori. In Amore, che commove prima Apollo, poi Vulcano, e finalmente Nettuno, si dimostra quanto questa fiera passione sia potente per tutto, eziandio negli animi de’ Grandi. In Adone, che con la scorta della Fortuna dal paese d’Arabia sua patria passa all’Isola di Cipro, si significa la gioventù, che sotto il favore della prosperità corre volentieri agli amori. Sotto la persona di Clizio s’intende il Signor Giovan Vincenzo Imperiali, gentiluomo genovese di belle lettere, che questo nome si ha appropriato nelle sue poesie. Nelle lodi della vita pastorale si adombra il Poema dello Stato Rustico, dal medesimo leggiadramente composto.


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ARGOMENTO

Passa in picciol legnetto a Cipro Adone
da le spiagge d’Arabia, ov’egli nacque.
Amor gli turba intorno i venti e l'acque,
Clizio Pastor l’accoglie in sua magione.



1.Io chiamo te, per cui si volge e move
la più benigna e mansueta sfera,
santa madre d’Amor, figlia di Giove,
bella Dea d’Amathunta, e di Cithera;
te, la cui stella, ond’ogni grazia piove,
de la notte e del giorno è messaggiera;
te, lo cui raggio lucido e fecondo
serena il Cielo, ed innamora il mondo.

2.Tu dar puoi sola altrui godere in terra
di pacifico stato ozio sereno.
Per te Giano placato il tempio serra,
addolcito il Furor tien l’ire a freno:
poi che lo Dio de l’armi e de la guerra
spesso suol prigionier languirti in seno,
e con armi di gioia e di diletto
guerreggia in pace, ed è steccato il letto.

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3.Dettami tu del Giovinetto amato
le venture e le glorie alte e superbe:
qual teco in prima visse, indi qual fato
l’estinse e tinse del suo sangue l’erbe.
E tu m’insegna del tuo cor piagato
a dir le pene dolcemente acerbe,
e le dolci querele, e ’l dolce pianto:
e tu de’ Cigni tuoi m’impetra il canto.

4.Ma mentr’io tento pur, Diva cortese,
d’ordir testura ingiurïosa agli anni,
prendendo a dir del foco che t’accese
i pria sì grati, e poi sì gravi affanni;
Amor con grazie almen pari a l’offese
lievi mi presti a sì gran volo i vanni:
e con la face sua (s’io ne son degno)
dia quant’arsura al cor, luce a l’ingegno.

5.E te, ch’Adone istesso, o gran Luigi,
di beltà vinci, e di splendore abbagli,
e seguendo ancor tenero i vestigi
del morto Genitor, quasi l’agguagli;
per cui suda Vulcano; a cui Parigi
convien che palme colga, e statue intagli;
prego intanto m’ascolti: e sostien’ ch’io
intrecci il Giglio tuo col lauro mio.

6.Se movo ad agguagliar l’alto concetto
la penna, che per sé tanto non sale,
facciol per ottener dal gran suggetto,
col favor che mi regge, ed aure, ed ale.
Privo di queste, il debile intelletto,
ch’al Ciel degli onor tuoi volar non vale,
teme a l’ardor di sì lucente sfera
stemprar l’audace e temeraria cera.

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7.Ma quando quell’ardir, ch’or gli anni avanza,
sciogliendo al vento la paterna insegna,
per domar la superbia e la possanza
del Tiranno crudel che ’n Asia regna,
vinta col suo valor l’altrui speranza
fia che ’n su ’l fiore a maturar si vegna,
allor con spada al fianco e cetra al collo
l’un di noi sarà Marte, e l’altro Apollo.

8.Così la Dea del sempreverde alloro,
Parca immortal de’ nomi e degli stili,
a le fatiche mie con fuso d’oro
di stame adamantin la vita fili,
e dia per fama a questo umil lavoro
viver fra le pregiate opre gentili,
come farò che fulminar tra l’armi
s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi.

9.La Donna che dal Mare il nome ha tolto,
dove nacque la Dea ch’adombro in carte:
quella, che ben a lei conforme molto
produsse un novo Amor d’un novo Marte:
quella, che tanta forza ha nel bel volto
quant’egli ebbe ne l’armi ardire ed arte,
forse m’udrà, né sdegnerà che scriva
tenerezze d’Amor penna lasciva.

10.Ombreggia il ver Parnaso, e non rivela
gli alti misteri ai semplici profani,
ma con scorza mentita asconde e cela
(quasi in rozo Silen) celesti arcani.
Però dal vel, che tesse or la mia tela
in molli versi, e favolosi, e vani,
questo senso verace altri raccoglia:
smoderato piacer termina in doglia.

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11.Amor pur dianzi, il fanciullin crudele,
Giove di nova fiamma acceso avea.
Arse di sdegno, e ’l cor d’amaro fiele
sparsa, gelò la sua gelosa Dea,
e ’ncontro a lui con flebili querele
richiamossi del torto a Citherea:
onde il Garzon sovra l’etade astuto
da la materna man pianse battuto.

12.— Oimè, possibil fia — dicea Ciprigna —
ch’io mai per te di pace ora non abbia?
Qual Cerasta più livida e maligna
nutre del Nilo la deserta sabbia?
qual Furia insana, o qual Arpia sanguigna
là negli antri di Stige ha tanta rabbia?
Dimmi, quel tosco, ond’ogni core appesti,
Aspe di Paradiso, onde traesti?

13.Vuoi tu più mai contaminar di Giuno
le leggittime gioie e i casti amori?
udrò di te mai più richiamo alcuno,
ministro di follie, fabro d’errori?
sollecito avoltor, verme importuno,
morbo de’ sensi, ebrïetà de’ cori,
di fraude nato e di furor nutrito,
omicida del senno, empio appetito?

14.Ira mi vien di romperti que’ lacci
e quell’arco che fa piaghe sì grandi,
né so chi mi ritien, ch’or or non stracci
quante reti malvage ordisci e spandi,
che per sempre dal Ciel non ti discacci,
che ’n essilio perpetuo io non ti mandi
su i gioghi ircani, e tra le caspie selve,
Arcier villano, a saëttar le belve.

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15.Che tu fra gli egri e languidi mortali,
di cui s’odono ognor gridi e lamenti,
semini colaggiù martìri e mali
convien, malgrado mio, ch’io mi contenti.
Ma soffrirò che ’n Ciel vibri i tuoi strali,
non perdonando a le beate genti?
che sostengan per te strazii sì rei,
serpentello orgoglioso, anco gli Dei?

16.Che più? fin de le stelle il sommo Duce
questo malnato di sforzar si vanta:
e spesso a stato tale anco il riduce,
ch’or in mandra, or in nido, or mugghia, or canta.
Un pestifero mostro, orbo di luce,
avrà dunque fra noi baldanza tanta?
un, che la lingua ancor tinta ha di latte,
cotanto ardisce? — E ciò dicendo il batte.

17.Con flagello di rose insieme attorte,
ch’avea groppi di spine, ella il percosse,
e de’ bei membri, onde si dolse forte,
fe’ le vivaci porpore più rosse.
Tremaro i poli, e la stellata Corte
a quel fiero vagir tutta si mosse.
Mossesi il Ciel, che più d’Amor infante
teme il furor, che di Tifeo Gigante.

18.De la reggia materna il figlio uscito,
con quello sdegno allor se n’allontana
con cui soffiar per l’arenoso lito
calcata suol la Vipera Africana
o l’Orso cavernier, quando ferito
si scaglia fuor de la sassosa tana
e va fremendo per gli orror più cupi
de le valli Lucane, e de le rupi.

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19.Sferzato, e pien di dispettosa doglia,
fuggì piangendo a la vicina sfera,
là dove cinto di purpurea spoglia
(gran Monarca de’ tempi) il Sole impera.
E ’n su l’entrar de la dorata soglia
stella nunzia del giorno e condottiera
Lucifero incontrò, che ’n Orïente
apria con chiave d’or l’uscio lucente.

20.E ’l Crepuscolo seco a poco a poco
uscito per la lucida contrada
sovra un corsier di tenebroso foco
spumante il fren d’ambrosia e di rugiada,
di fresco giglio e di vivace croco,
Forier del bel mattin, spargea la strada,
e con sferza di rose e di vïole
affrettava il camino innanzi al Sole.

21.La bella Luce, che ’n su l’aurea porta
aspettava del Sol la prima uscita,
era di Citherea ministra e scorta,
d’amoroso splendor tutta crinita.
Per varcar l’ombre innanzi tempo sorta
già la biga rotante avea spedita,
e ’l venir de la Dea stava attendendo,
quando il fier pargoletto entrò piangendo.

22.Pianse al pianger d’Amor la mattutina
del Re de’ lumi ambasciadrice stella,
e di pioggia argentata e cristallina
rigò la faccia rugiadosa e bella,
onde di vive perle accolte in brina
poté l’urna colmar l’Alba novella:
l’Alba, che l’asciugò col vel vermiglio
l’umido raggio al lagrimoso ciglio.

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23.Ricoverato al ricco albergo Amore,
trovò che, posto a’ corridori il morso,
già s’era accinto il Principe de l’ore
con la verga gemmata al novo corso;
e i focosi destrier sbuffando ardore
l’altere iube si scotean su ’l dorso:
e sdegnosi d’indugio, il pavimento
ferian co’ calci, e co’ nitriti il vento.

24.Sta quivi l’Anno sovra l’ali accorto,
che sempre il fin col suo principio annoda,
e ’n forma d’angue innanellato e torto
morde l’estremo a la volubil coda;
e qual Anteo, caduto, e poi risorto,
cerca nova materia ond’egli roda.
V’ha la serie de’ mesi, e i dì lucenti,
i lunghi e i brevi, i fervidi e gli algenti.

25.L’aurea corona, onde scintilla il giorno,
del Tempo gli ponean le quattro figlie.
Due schiere avea d’alate ancelle intorno,
dodici brune, e dodici vermiglie.
Mentre accoppiavan queste al carro adorno
gli aurati gioghi e le rosate briglie,
gli occhi di foco il Sol rivolse, e ’l pianto
vide d’Amor, che gli languiva a canto.

26.Era Apollo di Venere nemico,
e tenea l’odio ancor nel petto vivo,
da che lassù de l’adulterio antico
publicò lo spettacolo lascivo,
quando accusò del talamo impudico
al fabro adusto il predator furtivo,
e con vergogna invidïata in Cielo
ai suoi dolci legami aperse il velo.

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27.Or che gli espone Amor sua grave salma,
— E che sciocchi dolor — dice — son questi?
Se’ tu colui che litigar la palma
in riva di Peneo meco volesti?
Tu tu mente del mondo, alma d’ogni alma,
vincitor de’ mortali e de’ celesti,
or con strale arrotato e face accesa
vendicar non ti sai di tanta offesa?

28.Quanto fora il miglior, sì come afflitto
di lagrime infantili il volto or bagni,
volgere il duolo in ira, e ’l dardo invitto
aguzzar ne l’ingiuria onde ti lagni?
Fa’ che con petto lacero e trafitto
per te pianga colei, per cui tu piagni;
ché (se vorrai) non senza gloria e nome
seguiranne l’effetto; ascolta come.

29.Là ne la regïon ricca e felice
d’Arabia bella Adone il giovinetto
quasi competitor de la Fenice,
senza pari in beltà vive soletto.
Adon nato di lei, cui la nutrice
col proprio genitor giunse in un letto;
di lei, che volta in pianta, i suoi dolori
ancor distilla in lagrimosi odori.

30.Schernì la scelerata il Re mal saggio
accesa il cor di sozzo foco indegno,
ond’egli poi per così grave oltraggio,
quant’ella già d’amore, arse di sdegno;
e le convenne in loco ermo e selvaggio
girne ad esporre il malconcetto pegno:
pegno furtivo, a cui la propria madre
fu sorella in un punto, avolo il padre.

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31.Fattezze mai sì signorili e belle
non vide l’occhio mio lucido e chiaro.
Sventurato fanciullo, a cui le stelle
prima il rigor, che lo splendor mostraro!
Contro gli armò crude influenzie e felle
ancor da lui non visto, il Cielo avaro:
poi che, mentre l’un sorse, e l’altra giacque,
al morir de la madre il figlio nacque.

32.Qual trofeo più famoso? e qual altronde
spoglia attendi più ricca, o più superba,
se per costui, ch’or prende a solcar l’onde,
il cor le ferirai di piaga acerba?
Dolci le piaghe fian, ma sì profonde,
ch’arte non vi varrà di pietra o d’erba.
Questa fia del tuo mal degna vendetta:
spirto di profezia così mi detta.

33.Più oltre io ti dirò. Mira là dove
a caratteri Egizzii in note oscure
intagliati vedrai per man di Giove
i vaticinii de l’età future.
Havvi quante il Destino al mondo piove
da’ canali del Ciel sorti e venture,
che de’ Pianeti al numero costrutte
sono in sette metalli incise tutte.

34.Quivi ciò che seguir deggia di questo
legger potrai, quasi in vergate carte.
Prole tal nascerà del bell’innesto,
che non ti pentirai d’avervi parte.
In lei, pur come gemme in bel contesto,
saran tutte del Ciel le grazie sparte;
e questa (oh per tai nozze a pien beato)
al Tiranno del mar promette il fato.

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35.Se ciò farai, non pur n’andrà in oblio
la memoria tra noi de’ gran contrasti,
ma tal premio n’avrai d’un dono mio
che ’n mercé di tant’opra io vo’ che basti.
Lira nel mio Parnaso aurea serb’io,
c’ha d’or le corde, e di rubino i tasti.
Fu d’Harmonia tua suora, e io di lei
con questa celebrai gli alti imenei.

36.Questa fia tua. Cosi qualor ti stai
di cure e d’armi alleggerito e scarco,
Musico com’Arcier, trattar potrai
il plettro a par di me non men che l’arco:
ché l’armonia non sol ristora assai
qualunque sia più faticoso incarco,
ma molto può co’ numeri sonori
ad eccitare ed incitar gli amori. —

37.Fur queste efficacissime parole
fòlli, ch’al folle cor soffiaro orgoglio:
ond’irritato abbandonò del Sole
senza far motto il lampeggiante soglio;
e rüinando da l’eterea mole
invèr le piagge del materno scoglio,
corse col tratto de le penne ardenti,
più che vento leggier, le vie de’ venti.

38.Come prodigïosa acuta stella,
armata il volto di scintille e lampi,
fende de l’aria, orribil sì, ma bella
passaggiera lucente, i larghi campi:
mira il nocchier da questa riva e quella
con qual purpureo piè la nebbia stampi,
e con qual penna d’or scriva e disegni
le morti ai Regi, e le cadute ai regni:

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39.così mentre ch’Amor dal Ciel disceso
scorrendo va la region più bassa,
con la face impugnata, e l’arco teso,
gran traccia di splendor dietro si lassa.
D’un solco ardente e d’auree fiamme acceso
riga intorno le nubi, ovunque passa,
e trae per lunga linea in ogni loco
striscia di luce, impressïon di foco.

40.Su ’l mar si cala, e sì com’ira il punge,
se stesso aventa impetuoso a piombo.
Circonda i lidi quasi mergo, e lunge
fa de l’ali stridenti udire il rombo.
Né grifagno Falcon quando raggiunge
col fiero artiglio il semplice Colombo
fassi lieto così, com’ei diventa
quando il leggiadro Adon gli si presenta.

41.Era Adon ne l’età che la facella
sente d’Amor più vigorosa e viva,
ed avea dispostezza a la novella
acerbità degli anni intempestiva.
Né su le rose de la guancia bella
alcun germoglio ancor d’oro fioriva;
o se pur vi spuntava ombra di pelo,
era qual fiore in prato, o stella in cielo.

42.In bionde anella di fin or lucente
tutto si torce e si rincrespa il crine.
De l’ampia fronte in maëstà ridente
sotto gli sorge il candido confine.
Un dolce minio, un dolce foco ardente
sparso tra vivo latte e vive brine
gli tinge il viso in quel rossor, che suole
prender la rosa in fra l’Aurora e ’l Sole.

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43.Ma chi ritrar de l’un e l’altro ciglio
può le due stelle lucide serene?
Chi de le dolci labra il bel vermiglio,
che di vivi tesor son ricche e piene?
O qual candor d’avorio, o qual di giglio
la gola pareggiar, ch’erge e sostiene,
quasi colonna adamantina, accolto
un Ciel di meraviglie in quel bel volto?

44.Qualor, feroce e faretrato Arciero,
di quadrella pungenti armato e carco
affronta, o segue, in un leggiadro e fiero,
o fere attende fuggitive al varco,
e in atto dolce Cacciator guerriero,
saëttando la morte, incurva l’arco,
somiglia in tutto Amor: se non che solo
mancano a farlo tale il velo, e ’l volo.

45.Egli tanto tesoro in lui raccolto
di Natura e d’Amor par ch’abbia a vile,
e cerca del bel ciglio e del bel volto
turbar il Sole, inorridir l’Aprile.
Ma minacci cruccioso, o vada incolto,
esser però non sa, se non gentile;
e rustico quantunque, e sdegnosetto,
convien pur ch’altrui piaccia a suo dispetto.

46.Or mentre per l’Arabiche foreste,
dov’ei nacque e menò l’età primiera,
l’orme seguia per quelle macchie e queste
d’alcuna vaga e timidetta fera,
errore il trasse, o pur destin celeste,
da la terra deserta a la costiera,
colà dove fa lido a la marina
del lembo ultimo suo la Palestina.

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47.Giunto a la sacra e glorïosa riva
che con boschi di palme illustra Idume,
dietro una cerva lieve e fuggitiva
stancando il piè, sì com’avea costume,
trovò di guardia e di governo priva,
ritratta in secco appo le salse spume,
da’ pescatori abbandonata, e carca
d’ogni arredo marin, picciola barca.

48.Ed ecco varia d’abito e di volto
strania Donna venir vede per l’onde,
c’ha su la fronte il biondo crine accolto
tutto in un globo, e quel ch’è calvo asconde.
Vermiglio e bianco il vestimento sciolto
con lieve tremolio l’aura confonde.
Lubrico è il lembo, e quasi un aër vano,
che sempre a chi lo stringe esce di mano.

49.Ne l’ampio grembo ha de la Copia il corno,
e ne la destra una volubil palla.
Fugge ratto sovente, e fa ritorno
per le liquide vie scherzando a galla.
Alato ha il piede, e più leggiera intorno
che foglia al vento, si raggira e balla;
e mentre move al ballo il piè veloce,
in sì fatto cantar scioglie la voce:

50.— Chi cerca in terra divenir beato,
goder tesori, e possedere imperi,
stenda la destra in questo crine aurato,
ma non indugi a cogliere i piaceri;
ché se si muta poi stagione e stato,
perduto ben di racquistar non speri.
Così cangia tenor l’Orbe rotante,
ne l’incostanza sua sempre costante. —

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51.Così cantava, indi arrestando il canto,
con lieto sguardo al bel Garzone arrise,
ed a lo scoglio avicinata intanto
spalmò quel legno, e ’n su ’l timon s’assise.
— Adon, seguimi — disse — e vedrai quanto
cortese stella al nascer tuo promise.
Prendi la treccia d’or, che ’n man ti porgo,
né temer di venirne ov’io ti scòrgo.

52.Ben che vulgare opinïone antica
mi stimi un Idol falso, un’ombra vana,
e cieca, e stolta, e di virtù nemica
m’appelli, instabil sempre, e sempre insana;
e Tiranna impotente altri mi dica,
vinta talor da la Prudenza umana:
pur son Fata, e son Diva, e son Reina,
m’ubbidisce Natura, il Ciel m’inchina.

53.Chïunque Amore o Marte a seguir prende,
convien che ’l nome mio celebri e chiami.
Chi solca l’acqua e chi la terra fende,
o s’alcun v’ha ch’onore e gloria brami,
porge preghi al mio Nume, e voti appende,
e io dispenso altrui scettri e reami.
Toglier posso e donar tutto ad un cenno,
e quanto è sotto il Sol reggo a mio senno.

54.Me dunque adora, e ’n su l’eccelsa cima
de la mia rota ascenderai di corto.
Per me nel trono, onde ti trasse in prima
l’empio inganno materno, or sarai scòrto;
sol che poi dove il fato or ti sublima
sappi nel conservarti essere accorto:
ché spesso suol con preveder periglio
romper fortuna rea cauto consiglio. —

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55.Tace ciò detto, ed egli vago allora
di costeggiar quel dilettoso loco,
entra nel legno, e de l’angusta prora
i duo remi a trattar prende per gioco.
Ed ecco al sospirar d’agevol òra
s’allontana l’arena a poco a poco,
sì che mentr’ei dal mar si volge ad essa,
par che navighi ancor la terra istessa.

56.Scorrendo va piacevolmente il lido,
mentr’è placido e piano il molle argento,
e da principio del suo patrio nido
rade la riva a passo tardo e lento.
Indi a l’instabil fé del flutto infido
se stesso crede, e si commette al vento
lunge di là, dov’a morir va l’onda,
e con roco latrar morde la sponda.

57.Trasparean sì le belle spiagge ondose
che si potean de l’umide spelonche
ne le profonde viscere arenose
ad una ad una annoverar le conche.
Zefiri destri al volo, aure vezzose
l’ali scotean, ma tosto lor fur tronche,
il mar cangiossi, il Ciel ruppe la fede.
Oh malcauto colui ch’ai venti crede!

58.Oh stolto quanto industre, oh troppo audace
fabro primier del temerario legno,
ch’osasti la tranquilla antica pace
romper del crudo e procelloso regno!
Più ch’aspro scoglio, e più che mar vorace
rigido avesti il cor, fiero l’ingegno,
quando sprezzando l’impeto marino
gisti a sfidar la morte in fragil pino.

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59.Per far una leggiadra sua vendetta
Amor fu solo autor di sì gran moto.
Amor fu, ch’a pugnar con tanta fretta
trasse turbini e nembi, Africo e Noto.
Ma de la stanca e misera barchetta
fu sempr’egli il Poppiero, egli il Piloto.
Fece vela del vel, vento con l’ali,
e fur l’arco timon, remi gli strali.

60.Da la madre fuggendo iva il figliuolo
quasi bandito e contumace intorno,
perché (com’io dicea) vinto dal duolo
di fanciullesca stizza arse, e di scorno.
Né per che poscia il richiamasse, il volo
fermar volse già mai, né far ritorno;
e ’n tal dispetto, in tant’orgoglio salse,
che di vezzo o pregar nulla gli calse.

61.Per gli spazii sen gia de l’aria molle
scioccheggiando con l’aure Amor volante,
e dettava talor rabbioso e folle
tragiche rime a più d’un mesto amante.
Talor lungo un ruscello o sovra un colle
piegava l’ali, e raccogliea le piante,
e dovunque ne giva il superbetto,
rubava un core, o trapassava un petto.

62.— Non è questo lo stral possente e fiero
ch’al Rettor de le stelle il fianco offese?
per cui più volte dal celeste impero,
l’aureo scettro deposto, in terra scese?
quel ch’al quinto del Ciel Nume guerriero
spezzò passò l’adamantino arnese?
quel che punse in Thessaglia il biondo Dio,
superbo sprezzator del valor mio?

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63.Questa la face è pur, cui sola adora
(non che la terra e ’l Ciel) Stige e Cocito;
che strugger fe’, che fe’ languir talora
il Signor de le fiamme incenerito.
Quella, da cui non si difese ancora
di Theti il freddo ed umido marito;
che tra’ gelidi umori infiamma i fonti,
tra l’ombre i boschi, e tra le nevi i monti!

64.Ed or costei, da cui con biasmo eterno
mill’onte gravi io mi soffersi, e tacqui,
perché dee le mie forze aver a scherno,
se ben dal ventre suo concetto io nacqui?
Dunque andrà da que’ lacci il cor materno
libero, a cui (non ch’altri) anch’io soggiacqui?
Arse per Marte, è ver; ma questo è poco,
lieve piaga fu quella, e debil foco.

65.Altro ardor più penace, altra ferita
vo’ che più forte al cor senta pur anco.
Sì vedrà, ch’ella istessa ha partorita
la Vipera crudel che l’apre il fianco!
Degg’io sempre onorar chi più m’irrita?
Forse per tema il mio valor vien manco?
No no, segua che può. — Così dicea
l’implacabil figliuol di Citherea.

66.Mentre che quinci e quindi or basso, or alto
vola e rivola il predator fellone,
come prima lontan dal verde smalto
vede in picciol legnetto il vago Adone,
subitamente al disegnato assalto
l’armi apparecchia, e l’animo dispone;
e tutto inteso a tribular la madre,
vassene in Lenno a la magion del padre.

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67.Ne la fuliginosa atra fucina,
dove il zoppo Vulcan suo genitore
de’ Numi eterni i vari arnesi affina
tinto di fumo e molle di sudore,
entra per fabricar tempra divina
d’un aureo strale, imperïoso Amore;
stral ch’efficace, e penetrante, e forte
possa un petto immortal ferire a morte.

68.Libero l’uscio al cieco Arciero aperse
la gran ferriera del divino Artista,
parte di già polite opre diverse
parte imperfette ancor, confusa e mista.
Colà fan l’armi lampeggianti e terse
del celeste Guerrier superba vista.
Qui la folgor fiammeggia alata e rossa
del gran fulminator d’Olimpo e d’Ossa.

69.V’è di Pallade ancor lo scudo e l’asta,
il rastello di Cerere e ’l bidente,
l’acuto spiedo di Dïana casta,
la grossa mazza d’Hercole possente,
la falce onde Saturno il tutto guasta,
l’arco ond’Apollo uccise il fier Serpente,
di Nettuno il trafiero, e di Plutone
con due punte d’acciaio havvi il forcone.

70.Le trombe v’ha, con cui volando suona
la Fama, e gli altrui fatti or biasma, or loda.
V’ha i ceppi, tra’ cui ferri Eolo imprigiona
i vènti insani, e le tempeste inchioda.
V’ha le catene, onde talor Bellona
il Furor lega e la Discordia annoda.
E v’ha le chiavi, ond’a dar pace o guerra
Giano il gran tempio suo serra e disserra.

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71.Presso al focon di mille ordigni onusto
travaglia il nero fabro entro la grotta.
Più d’un callo ha la man forte e robusto,
a le fatiche essercitata e dotta.
Ruginosa la fronte, il volto adusto,
crespa la pelle ed abbronzata e cotta,
sparso il grembial di mill’avanzi e mille
di limature e ceneri e faville.

72.Quand’egli scorge il nudo pargoletto,
la forbice e ’l martel lascia e sospende,
e curvo e chino entro il lanoso petto
con un riso villan da terra il prende.
Tra le ruvide braccia avinto e stretto
l’ispido labro per baciarlo stende,
e la sudicia barba ed incomposta
al molle viso e dilicato accosta.

73.Ma mentre ch’egli l’accarezza e stringe,
raccolto in braccio con paterno zelo,
Amor, perché baciando il punge, e tinge,
la faccia arretra da l’irsuto pelo,
e con quel sozzo lin, che ’l sen gli cinge,
per non macchiarsi di carbone il velo,
a l’aspra guancia d’una in altra ruga
de l’immondo sudor le stille asciuga.

74.— Padre, da la tua man — poscia gli dice —
voglio or or sovrafina una saetta,
che fia de’ torti tuoi vendicatrice:
lascia la cura a me de la vendetta.
Il come appalesar né vo’, né lice:
basti sol tanto, spácciati, c’ho fretta.
Non porta indugio il caso, altro or non puoi
da me saper, l’intenderai ben poi.

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75.Il quadrel ch’io ti cheggio, esser conviene
di perfetto artificio, e ben condotto,
ch’esserne fin ne le più interne vene
deve un petto divin forato e rotto.
S’usò mai sforzo ad impiegarsi bene
il tuo braccio, il tuo senno esperto e dotto,
fa’ (prego) in cosa ov’hai tanto interesse,
del gran saper le meraviglie espresse.

76.Starò qui teco a ministrarti intento
sotto la rocca del camin che fuma.
Acciò che ’l foco non rimanga spento,
mantice ti farò de l’aurea piuma.
E s’egli averrà pur che manchi il vento
al fòlle che l’accende e che l’alluma,
prometto accumular tra questi ardori
in un soffio i sospir di mille cori. —

77.Non pon Vulcano in quell’affar dimora
ma sceglie la miglior fra cento zolle,
e pria che ’n su l’incudine sonora
ei la castighi, al focolar la bolle;
e non la batte, e non la tratta ancora
fin che ben non rosseggia, e non vien molle.
Divenuta poi tenera e vermiglia,
con la morsa tenace ei la ripiglia.

78.Amor presente ed assistente a l’opra
come l’abbia a temprar, come l’aguzzi
gli mostra, acciò che poi quando l’adopra
non si rompa, o si pieghi, o si rintuzzi;
e di sua propria man vi sparge sopra
de l’umor d’un’ampolla alquanti spruzzi,
piena di stille di dogliosi pianti
di sfortunati e desperati amanti.

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79.Mentr’è caldo il metallo, i tre fratelli
ch’un sol occhio hanno in fronte, e son Giganti,
con vicende di tuoni i gran martelli
movono a grandinar botte pesanti;
e ’l dotto mastro al martellar di quelli,
che fan tremar le volte arse e fumanti,
per dar effetto a quel c’ha nel disegno
pon gli stromenti in opera, e l’ingegno.

80.Tosto che ’l ferro è raffreddato, in prima
sbozza il suo lavorio rozo ed informe,
poi sotto più sottil minuta lima
con industria maggior gli dà le forme.
L’arrota intorno, e lo forbisce in cima,
applicando al pensier studio conforme.
Col foco alfin l’indora, e col mordente,
e fa l’acciaio e l’or terso e lucente.

81.Poi che l’egregio artefice a lo strale
per tutto il liscio e ’l lustro ha dato a pieno,
n’arma il fanciullo un’asticciuola frale
ma che trafige ogni più duro seno.
Gl’impenna il calce di due picciol’ale,
e ’l tinge di dolcissimo veleno:
e tutto pien d’una superbia stolta
pon la caverna e i lavoranti in volta.

82.Va de la Dea che generaro i flutti
il baldanzoso e temerario figlio
spïando intorno, e i ferramenti tutti
de la scola fabril mette in scompiglio.
Or de’ Ciclopi mostruosi e brutti
la difforme pupilla e ’l vasto ciglio,
or il corto tallon del piè paterno
prende con risi e con disprezzi a scherno.

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83.Veggendo alternamente arsicci e neri
pestar ferro con ferro i tre gran mostri,
— Troppo son — dice — deboli e leggieri
a librar le percosse i polsi vostri!
Omai con colpi assai più forti e fieri
questa mano a ferir v’insegni e mostri.
Impari ognun da la mia man che spezza
qualunque di diamante aspra durezza. —

84.Vòlto a colui c’ha fabricato il telo,
soggiunge poscia: — In questa tua fornace
le fiamme son più gelide che gelo,
altro ardor più cocente ha la mia face! —
Tolto indi in mano il fulmine del Cielo,
e sciolto il freno a l’insolenza audace,
in cotal guisa, mentre il vibra e move,
prende le forze a beffeggiar di Giove:

85.— Deh quanto, o Tonator, che da le stelle
fai sdegnoso scoppiar le nubi orrende,
più de la tua, ch’a spaventar Babelle
dal Ciel con fiero strepito discende,
atta sola a domar genti rubelle
senza romor la mia saetta offende!
Tu de’ monti, io de’ cori abbiam le palme:
l’una fulmina i corpi, e l’altra l’alme. —

86.Depon l’arme tonante, e ricercando
di qua di là l’affumigato albergo,
trova di Marte il minaccioso brando,
il fin brocchier, l’avantaggiato usbergo.
— Or la prova vedrem — dice scherzando —
s’a difender son buoni il fianco e ’l tergo! —
Lo strale in questa uscir da l’arco lassa:
falsa lo scudo, e la lorica passa.

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87.Di sì fatte follie sorridea seco
lo Dio distorto, che ’l mirava intanto.
— Tu ridi — disse il faretrato cieco —
né sai che l’altrui riso io cangio in pianto!
E più che la fumea di questo speco
farti d’angoscia lagrimar mi vanto. —
Ciò detto al gran Nettun vola leggiero,
che nel mondo de l’acque ha sommo impero.

88.Velocemente a Tenaro sen viene,
e l’aria scossa al suo volar fiammeggia.
Abitator de le più basse arene
quivi ha Nettun la cristallina reggia,
che da l’umor, di cui le sponde ha piene,
battuta sempre e flagellata ondeggia.
Rende dagli antri cavi Eco profonda
rauco muggito a lo sferzar de l’onda.

89.A l’arrivo d’Amor da’ cupi fonti
sgorga, e crespo di spuma il mar s’imbianca.
Quinci e quindi gli estremi in duo gran monti
sospende, e in mezo si divide e manca:
e scoverti del fondo asciutti i ponti,
del gran Palagio i cardini spalanca.
Passa ei nel regno ove la madre nacque,
patria de’ pesci, e regïon de l’acque.

90.Passa e sen va tra l’una e l’altra roccia
quasi per stretta e discoscesa valle.
L’onda nol bagna, e ’l mar, non che gli noccia,
ritira indietro il piè, volge le spalle.
Filano acuto gelo a goccia a goccia
ambe le rupi del profondo calle,
e tra questo e quell’argine pendente
a pena ei scorger può l’aria lucente.

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91.Né già, mentre varcava i calli ondosi,
la faretra o la face in ozio tenne,
ma con acuti stimuli amorosi
faville e piaghe a seminar vi venne;
e là dove de l’acqua augei squamosi
spiegano i pesci l’argentate penne,
tra gl’infiniti esserciti guizzanti
sparse mill’esche di sospiri e pianti.

92.Strana di quella casa è la struttura,
strano il lavoro, e strano è l’ornamento.
Ha di ruvide pomici le mura
e di tenere spugne il pavimento.
Di lubrico zaffiro è la scultura
de la scala maggior, l’uscio è d’argento,
varïato di pietre e di cocchiglie
azurre e verdi e candide e vermiglie.

93.Ne l’antro istesso è la magion di Theti,
e gran famiglia di Nereidi ha seco,
che ’n vari uffici ed essercizii lieti
occupate si stan nel cavo speco.
Queste con passi incogniti e secreti
e per sentier caliginoso e cieco
van de l’arida terra irrigatrici
a nutrir piante e fiori, erbe e radici.

94.Intorno e dentro a l’umida spelonca
chi danzando di lor le piante vibra,
chi sceglie o gemma in sabbia o perla in conca,
chi fila l’oro, e chi l’affina e cribra;
qual de’ germi purpurei i rami tronca,
qual degli ostri sanguigni i pesi libra;
e sotto il piè d’Amor v’ha molte Ninfe,
che van di musco ad infiorar le linfe.

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95.Belle son tutte sì, ma differenti:
altra ceruleo, ed altra ha verde il crine,
altra l’accoglie, altra lo scioglie ai venti,
altra intrecciando il va d’alghe marine;
e di manti diafani e lucenti
velan le membra pure e cristalline.
Simili al viso, ed agili e leggiadre
mostran che figlie son d’un stesso padre.

96.Pasce Protheo Pastor mandra di Foche,
Orche, Pistri, Balene ed altri mostri,
de le cui voci mormoranti e roche
fremon per tutto i cavernosi chiostri;
e le guarda, e le conta, e non son poche,
e scagliose han le terga e curvi i rostri.
Glauchi ha gli occhi lo Dio, cilestro il volto,
e di teneri giunchi il crine involto.

97.Giunto a la vasta e spazïosa Corte
stupisce Amor da tuttiquanti i lati,
poi che per cento vie, per cento porte
cento vi scorge entrar fiumi onorati,
che quindi poi con piante oblique e torte
tornan per invisibili meati
fuor del gran sen, che gli concepe e serra,
con chiare vene ad innaffiar la terra.

98.Vede l’Eufrate divisor del mondo,
che i bei cristalli suoi rompendo piange.
Vede l’original fonte profondo
del Nil, che ’l mar con sette bocche frange.
E vede in letto rilucente e biondo
del più fino metal corcarsi il Gange:
il Gange, onde trae l’or, di cui si suole
vestir quand’esce in su ’l mattino il Sole.

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99.Vede pallido il Tago in su la riva
non men ricchi sputar vomiti d’oro:
e trar groppi di gel ne l’onda viva
il Rheno, e l’Istro, e ’l Rhodano sonoro.
Di salce il Mincio, l’Adige d’oliva,
l’Arno al par del Peneo cinto d’alloro,
di pampini il Meandro, e d’edre l’Hebro,
e d’auree palme incoronato il Tebro.

100.Vede di verdi pioppe ombrar le corna
l’Eridano superbo e trïonfale,
ch’ove il Rettor del pelago soggiorna
vien da l’Alpi a votar l’urna reale;
e mercé de’ suoi Duci, il ciglio adorna
di splendor glorïoso ed immortale:
onde quel ch’è nel Ciel, di lume agguaglia,
e con fronte di Luna il Sole abbaglia.

101.Poi di grido minor ne vede molti
che con rami divisi in varie parti
per l’Italia felice errano sciolti
del gran padre Appennin concetti e parti.
E quai di canna e quai di mirto avolti
le tempie, e quai di rosa ornati e sparti,
somministran con l’acque in lunga schiera
sempiterno alimento a Primavera.

102.Tra questi umil figliuol del bel Tirreno
il mio Sebeto ancor l’acque confonde:
picciolo sì, ma di delizie pieno,
quanto ricco d’onor, povero d’onde.
— Giriti intorno il Ciel sempre sereno,
né sfiori aspra stagion le belle sponde,
né mai la luce del tuo vivo argento
turbi con sozzo piè fetido armento.

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103.Giacque in te la Sirena, e per te poi
sorger Virtute e fiorir Gloria io veggio.
Trono di Giove, e di pregiati Eroi
felice albergo e fortunato seggio.
Dolce mio porto, agli abitanti tuoi,
ne’ cui petti ho il mio nido, eterno io deggio.
Padre di Cigni, e lor ricovro eletto,
e de’ fratelli miei fido ricetto. —

104.Con questi encomii affettuosi Amore
del patrio fiume mio le lodi spande,
ché ’l riconosce al limpido splendore,
che fra mill’altri è segnalato e grande,
e de’ cedri fioriti al grato odore,
di cui s’intesse al crin verdi ghirlande.
Intanto ne la gelida caverna,
dove siede Nettuno, i passi interna.

103.Seggio di terso orïental cristallo
preme de’ flutti il Regnator canuto,
che da colonne d’oro e di corallo
con basi di diamante è sostenuto.
E chi d’una Testudine a cavallo,
chi d’un Delfin, chi d’un Vitel cornuto,
cento altri Dei minor, Numi vulgari,
cedono a lui la monarchia de’ mari.

106.— Non pensar che per ira — Amor gli disse — ,
Gran Padre de le cose, a te ne vegna;
ché non può Dio di pace amar le risse,
e nel petto d’Amore odio non regna.
Ma perché novamente il Ciel prefisse
impresa a l’arco mio nobile e degna,
per render l’opra agevole e spedita
di cortese favor ti cheggio aita.

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107.Tu vedi là, dove di Siria siede
la spiaggia estrema, che col mar confina,
vago fanciul del mio bel regno erede
col remo essercitar l’onda marina.
Questo, che di bellezza ogni altro eccede,
a la mia bella madre il Ciel destina,
onde frutto uscir dee di beltà tanta
che fia simile in tutto a la sua pianta.

108.Se deriva da te l’origin mia,
s’a chi mi generò désti la cuna,
se ’l tuo desir, quando d’Amor languia,
ottenne unqua da me dolcezza alcuna,
acciò ch’io possa per più facil via
condurlo a posseder tanta fortuna,
mercé di quanto feci o a far mi resta
siami nel regno tuo breve tempesta.

109.Di questa immensa tua liquida sfera
turbar la bella e placida quïete
piacciati tanto sol, ch’innanzi sera
venga Adone a cader ne la mia rete.
E fia tutto a suo pro, perché non pèra
sì ricca merce in malsecuro abete,
il cui navigio con incerta legge
più ’l timor che ’l timon governa e regge.

110.Sai che quando Ciprigna in novi amori
occupata non è, com’ha per uso,
usurpando a Minerva i suoi lavori
non sa se non trattar la spola o ’l fuso:
onde inutil letargo opprime i cori,
torpe spento il mio foco, il dardo ottuso,
manca il seme a la vita, ed infecondo
a rischio va di spopolarsi il mondo.

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111.Oltre queste cagion, per cui devrei
impetrar qualch’effetto a le mie voci,
dee l’util proprio almeno a’ preghi miei
far più le voglie tue pronte e veloci.
Da questi felicissimi imenei
corteggiata da mille e mille Proci
Beroe uscirà, che più d’ogni altra bella
fia de le Grazie l’ultima sorella.

112.Costei, sì come mi mostraro in Cielo
l’adamantine tavole immortali,
dove nel cerchio del Signor di Delo
Giove scolpì gli oracoli fatali,
concede al Re del liquefatto gelo
l’alto tenor di quegli eterni annali,
perché venga a scaldar col dolce lume
del freddo letto tuo l’umide piume.

113.Ma quando ancor da quel ch’ivi scolpio
chi move il tutto, il fato altro volgesse,
se ben di Thebe il giovinetto Dio
fia tuo rivai ne le bellezze istesse,
a dispetto del Ciel tel promett’io,
scritte in diamante sien le mie promesse.
Io, che Giove o destin punto non curo,
per l’acque sacre, e per me stesso il giuro. —

114.Così parlava, e ’l Re de l’onde intanto
a lui si vòlse con tranquilla faccia.
— O domatore indomito di quanto
il Ciel circonda e l’Oceano abbraccia,
a chi può dar altrui letizia e pianto
ragion è ben, ch’a pieno or si compiaccia.
Spendi comunque vuoi quanto poss’io,
pende dal cenno tuo l’arbitrio mio.

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115.E qual onda fia mai, ch’a tuo talento
qui non si renda o torbida o tranquilla,
s’ardon nel molle e mobile elemento
per Cimothoe Triton, Glauco per Scilla?
Come fia tardo ad ubbidirti il vento,
se ’l Re de’ venti ancor per te sfavilla?
e ricettan l’ardor ne’ freddi cori
Borea d’Orithia, e Zefiro di Clori?

116.Tu virtù somma de’ superni giri,
dispensier de le gioie e de’ piaceri,
imperador de’ nobili desiri,
illustrator de’ torbidi pensieri,
dolce requie de’ pianti e de’ sospiri,
dolce unïon de’ cori e de’ voleri,
da cui Natura trae gli ordini suoi,
Dio de le meraviglie, e che non puoi?

117.Sì come tanti qui fiumi che vedi
del mio reame tributarii sono,
così, Signor, che l’anime possiedi,
tributario son io del tuo gran trono.
Ond’a quant’oggi brami, e quanto chiedi
da questo scettro a te devoto in dono,
o gioia, o vita universal del mondo,
altro che l’esseguir più non rispondo. —

118.Così dice Nettuno, e così detto
crolla l’asta trisulca, e ’l mar scoscende.
D’Alpi spumose oltre il ceruleo letto
cumulo vasto invèr le stelle ascende.
Urtansi i venti in minaccioso aspetto,
de le concave nubi anime orrende;
e par che rotto, o distemprato in gelo
voglia nel mar precipitare il cielo.

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119.Borea d’aspra tenzon tromba guerriera
sfida il turbo a battaglia, e la procella.
Curva l’arco dipinto Iride arciera,
e scocca lampi in vece di quadrella.
Vibra la spada sanguinosa e fiera
il superbo Orïon, torbida stella,
e ’l Ciel minaccia, ed a le nubi piene
d’acqua insieme, e di foco, apre le vene.

120.Fuor del confin prescritto in alto poggia
tumido il mar di gran superbia, e cresce.
Rüinosa nel mar scende la pioggia,
il mar col cielo, il ciel col mar si mesce.
In novo stile, in disusata foggia
l’augello il nuoto impara, il volo il pesce.
Oppongosi elementi ad elementi,
nubi a nubi, acque ad acque, e venti a venti.

121.Poté, tant’alto quasi il flutto sorse,
la sua sete ammorzar la Cagna estiva;
e di nova tempesta a rischio corse,
non ben secura in Ciel, la nave Argiva.
E voi fuor d’ogni legge, o gelid’Orse,
malgrado ancor de la gelosa Diva,
nel mar vietato i luminosi velli
lavaste pur de le stellate pelli.

122.Deh che farai dal patrio suol lontano
misero Adone, a navigar mal atto?
Vaghezza püeril tanto pian piano
il malguidato palischelmo ha tratto,
che la terra natia sospiri invano
dal gran rischio confuso e sovrafatto.
Tardi ti penti, e sbigottito e smorto
omai cominci a desperar del porto.

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123.Già già convien che ’l timido Nocchiero
a l’arbitrio del caso s’abbandoni.
Fremono per lo ciel torbido e nero
fra baleni ondeggianti i rauchi tuoni.
E tuona anch’egli il Re de l’acque altero,
ch’a suon d’Austri soffianti e d’Aquiloni
col fulmine dentato (emulo a Giove)
tormentando la terra, il mar commove.

124.Corre la navicella, e ratta e lieve
la corrente del mar seco la porta.
Piega l’orlo talvolta, e l’onda beve,
assai vicina a rimanerne absorta.
Più pallido e più gelido che neve
volgesi Adon, né scorge più la scorta:
e di morte sì vasta il fiero aspetto
confonde gli occhi suoi, spaventa il petto.

125.Ma mentre privo di terreno aiuto
l’agitato battel vacilla ed erra,
ambo i fianchi sdruscito, e combattuto
da quell’ondosa e tempestosa guerra,
quando il fanciul più si tenea perduto,
ecco rapidamente approda in terra,
e tra giunchi palustri in su l’arena
vomitato da l’acque, il corso affrena.

126.Oltre l’Egeo, là donde spunta in prima
il pianeta maggior, che ’l dì rimena,
sotto benigno e temperato clima
stende le falde un’Isoletta amena.
Quindi il superbo Tauro erge la cima,
quinci il famoso Nil fende l’arena.
Ha Rhodo incontro, e di Soria vicini
e di Cilicia i fertili confini.

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127.Questa è la terra ch’a la Dea che nacque
da l’onde con miracolo novello,
tanto fu cara un tempo, e tanto piacque,
che disprezzato il suo divino ostello,
qui sovente godea fra l’ombre e l’acque
con invidia de l’altro un Ciel più bello;
e v’ebbe eretto a l’immortale essempio
de la sua diva imago altare e tempio.

128.Scende quivi il Garzon salvo a l’asciutto,
ma pur dubbioso, e di suo stato incerto,
ch’ancor gli par de l’orgoglioso flutto
veder l’Abisso orribilmente aperto.
Volgesi intorno, e scorge esser per tutto
circondato dal mar bosco e deserto.
Ma quella solitudine che vede,
gioconda è sì, ch’altro piacer non chiede.

129.Quivi si spiega in un sereno eterno
l’aria in ogni stagion tepida e pura,
cui nel più fosco e più cruccioso verno
pioggia non turba mai, né turbo oscura;
ma prendendo di par l’ingiurie a scherno
del gelo estremo, e de l’estrema arsura,
lieto vi ride, né mai varia stile,
un sempreverde e giovinetto Aprile.

130.I discordi animali in pace accoppia
Amor, né l’un da l’altro offeso geme.
Va con l’Aquila il Cigno in una coppia,
va col Falcon la Tortorella insieme.
Né de la Volpe insidïosa e doppia
il semplicetto Pollo inganno teme.
Fede a l’amica Agnella il lupo osserva,
e secura col Veltro erra la Cerva.

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131.Da’ molli campi, i cui bennati fiori
nutre di puro umor vena vivace,
dolce confusïon di mille odori
sparge e ’nvola volando aura predace:
aura, che non pur là con lievi errori
suol tra’ rami scherzar, spirto fugace,
ma per gran tratto d’acque anco da lunge
peregrinando i naviganti aggiunge.

132.Va oltre Adone, e Filomena e Progne
garrir ode per tutto, ovunque vanne,
e di stridule pive e rauche brogne
sonar foreste e risonar cappanne,
di villane sordine e di sampogne,
di boscherecci zuffoli e di canne,
e con alterno suon da tutti i lati
doppiar muggiti, e replicar balati.

133.Solitario garzon posarsi stanco
vede a l’ombra d’un lauro in roza pietra.
Ha l’arco a piedi, e gli attraversa il fianco
d’un bel cuoio linceo strania faretra.
Veste pur di Cerviero a negro e bianco
macchiata spoglia, e tiene in man la cetra.
Dolce con questa al mugolar de’ tori
accorda il suon de’ suoi selvaggi amori.

134.Di dorato coturno ha il piè vestito,
eburneo corno a verde fascia appende.
Ride il labro vivace e colorito,
sereno lampo il placid’occhio accende.
Ha fiorita la guancia, il crin fiorito,
e fiorita è l’età che bello il rende.
Tutto insomma di fiori è sparso e pieno,
fior la man, fior la chioma, e fiori il seno.

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135.Formidabil mastin dal destro lato
in un groppo giacer presso gli scorse,
che con rabbioso ed orrido latrato
quando il vide apparir, contro gli corse.
Ma posto il plettro in su l’erboso prato
il cortese Villan sùbito sorse,
e l'indomito can, perché ristesse,
fugò col grido, e col baston corresse.

136.Ubbidisce il superbo, a piè gli piega
l’irsuta testa, e l’irta coda abbassa.
Quegli a la gola intorno allor gli lega
con tenace cordon serica lassa.
Poscia il real Donzello invita e prega
ch’oltre vada securo, ed egli passa.
Passa colà, dove raccoglie umile
famiglia pastoral rustico ovile.

137.Stassene alcun su le fiorite rive
d’una sorgente cristallina e fresca.
Altri per l’elci folte a l’ombre estive
i vaghi augelli insidioso invesca.
Altri ne’ verdi faggi intaglia e scrive
d’Amor tutto soletto il foco e l’ésca.
Altri rintraccia di sua Ninfa l’orme,
altri salta, altri siede, ed altri dorme.

138.Quei con versi d’Amor l’aure addolcisce
al sussurrar de’ lubrici cristalli.
Questi al Tauro, al Monton, che gli ubbidisce,
insegna al suon de la siringa i balli.
Qual fiscelle d’ibisco, e qual ordisce
serti di fiori o purpurini o gialli.
Chi torce a l’agne le feconde poppe,
chi di latte empie i giunchi, e chi le coppe.

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139.Col bel fanciullo, ove grand’ombra stende
pergolato di mirti, il Pastor siede.
Quivi Adon sue fortune a narrar prende,
de la contrada e di lui stesso chiede.
L’un gli risponde, e l’altro intanto pende
dal parlar, che d’amore il cor gli fiede.
— Strani — gli dice — oltr’ogni creder quasi,
Peregrino gentil, sono i tuoi casi.

140.Ma cangiar patria omai deh non ti spiaccia
con sì bel loco, e rasserena il ciglio:
ché se pur (come mostri) ami la caccia,
qui fere avrai senz’ira, e senza artiglio.
Né creder vo’, che ’ndarno il Ciel ti faccia
campar da tanto e sì mortal periglio,
o senz’alta cagion per via sì lunga
perduto legno a queste rive giunga.

141.Così compia i tuoi voti amico Cielo,
e secondi i desir destra Fortuna,
come, fra quanti col suo piè di gelo
paesi inferïor scorre la Luna,
non potea più conforme a sì bel velo
terra trovarsi, o regione alcuna.
Certo con lei, che con Amor qui regna,
sol di regnar tanta bellezza è degna.

142.L’Isola, dove sei, Cipro s’appella,
che del mar di Panfilia in mezo è posta.
La gran reggia d’Amor (vedila) è quella,
ch’io là t’addito invèr la destra costa.
Né (se non quanto il vuol la Dea più bella)
colà già mai profano piè s’accosta.
Scender di Ciel qui spesso ella ha per uso,
in altro tempo il ricco albergo è chiuso.

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143.V’ha poi templi ed altari, havvi Amor seco
simulacri, olocausti, e sacerdoti,
dove in segno d’onor, del popol greco
pendono affissi in lunga serie i voti.
Offrono al Nume faretrato e cieco
vittime elette i supplici devoti,
e gli spargono ognor tra roghi e lumi
di ghirlande e d’incensi odori e fumi.

144.Qui per elezzïon, non per ventura
già di Liguria ad abitar venn’io.
Pasco per l’odorifera verdura
i bianchi armenti, e Clizio è il nome mio.
Del suo bel Parco la custodia in cura
diemmi la madre de l’alato Dio,
dov’entrar, fuor ch’a Venere, non lice,
ed a la Dea selvaggia e cacciatrice.

143.Trovato ho in queste selve ai flutti amari
d’ogni umano travaglio il vero porto.
Qui da le guerre de’ civili affari
quasi in securo Asilo, il Ciel m’ha scòrto.
Serici drappi non mi fur sì cari
come l’arnese ruvido ch’io porto;
ed amo meglio le spelonche e i prati,
che le logge marmoree, e i palchi aurati.

146.Oh quanto qui più volentieri ascolto
i sussurri de l’acque, e de le fronde,
che quei del foro strepitoso e stolto,
che ’l fremito vulgar rauco confonde!
Un’erba, un pomo, e di Fortuna un volto
quanto più di quiete in sé nasconde
di quel ch’avaro Principe dispensa
sudato pane in malcondita mensa!

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147.Questa felice e semplicetta gente,
che qui meco si spazia e si trastulla,
gode quel ben, che tenero e nascente
ebbe a goder sì poco il mondo in culla:
lecita libertà, vita innocente,
appo ’l cui basso stato il regio è nulla,
ché sprezzare i tesor, né curar l’oro,
questo è secolo d’or, questo è tesoro.

148.Non cibo o pasto prezïoso e lauto
il mio povero desco orna e compone.
Or Damma errante, or Cavriuolo incauto
l’empie, or frutto maturo in sua stagione.
Detto talora a suon d’avena o flauto
ai discepoli boschi umil canzone.
Serva no, ma compagna amo la greggia;
questa mandra malculta è la mia reggia.

149.Lunge da’ fasti ambizïosi e vani
m’è scettro il mio baston, porpora il vello,
ambrosia il latte, a cui le proprie mani
scusano coppa, e nèttare il ruscello.
Son ministri i bifolci, amici i Cani,
sergente il Toro e cortigian l’Agnello,
musici gli augelletti e l’aure e l’onde,
piume l’erbette, e padiglion le fronde.

150.Cede a quest’ombre ogni più chiara luce,
ai lor silenzii i più canori accenti.
Ostro qui non fiammeggia, òr non riluce,
di cui sangue e pallor son gli ornamenti.
Se non bastano i fior, che ’l suol produce,
di più bell’ostro e più bell’or lucenti,
con sereno splendor spiegar vi suole
pompe d’ostro l’Aurora, e d’oro il Sole.

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151.Altro mormorator non è che s’oda
qui mormorar, che ’l mormorio del rivo.
Adulator non mi lusinga o loda,
fuor che lo specchio suo limpido e vivo.
Livida Invidia, ch’altrui strugga e roda,
loco non v’ha, poi ch’ogni cor n’è schivo,
se non sol quanto in questi rami e ’n quelli
gareggiano tra lor gli emuli augelli.

152.Hanno colà tra mille insidie in Corte
Tradimento e Calunnia albergo e sede,
dal cui morso crudel trafitta a morte
è l’innocenza, e lacera la fede.
Qui non regna perfidia, e se per sorte
picciol’ape talor ti punge e fiede,
fiede senza veleno, e le ferite
con usure di mèl son risarcite.

153.Non sugge qui crudo Tiranno il sangue,
ma discreto Bifolco il latte coglie.
Non mano avara al poverello essangue
la pelle scarna, o le sostanze toglie.
Solo a l’agnel, che non però ne langue,
liavvi chi tonde le lanose spoglie.
Punge stimulo acuto il fianco a’ buoi,
non desire immodesto il petto a noi.

154.Non si tratta fra noi del fiero Marte
sanguinoso e mortal ferro pungente,
ma di Cerere sì, la cui bell’arte
sostien la vita, il vomere e ’l bidente.
Né mai di guerra in questa o in quella parte
furore insano o strepito si sente,
salvo di quella, che talor fra loro
fan con cozzi amorosi il Capro e ’l Toro.

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155.Con lancia o brando mai non si contrasta
in queste bëatissime contrade.
Sol di Bacco talor si vibra l’asta,
onde vino, e non sangue in terra cade.
Sol quel presidio ai nostri campi basta
di tenerelle e verdeggianti spade,
che nate là su le vicine sponde
stansi tremando a guerreggiar con l’onde.

156.Borea con soffi orribili ben pote
crollar la selva e batter la foresta.
Pacifici pensier non turba o scote
di cure vigilanti aspra tempesta.
E se Giove talor fiacca e percote
de l’alte querce la superba testa,
in noi non avien mai che scocchi o mandi
fulmini di furor l’ira de’ Grandi.

157.Così tra verdi e solitari boschi
consolati ne meno i giorni e gli anni.
Quel Sol, che scaccia i tristi orrori e foschi,
serena anco i pensier, sgombra gli affanni.
Non temo o d’Orso o d’Angue artigli o toschi,
non di rapace Lupo insidie o danni;
ché non nutre il terren fere o serpenti,
o se ne nutre pur, sono innocenti.

158.Se cosa è che talor turbi ed annoi
i miei riposi placidi e tranquilli,
altri non è ch’Amor. Lasso, dapoi
che mi giunse a veder la bella Filli,
per lei languisco, e sol per gli occhi suoi
convien che quant’io viva, arda e sfavilli;
e vo’ che chiuda una medesma fossa
del foco insieme il cenere, e de l’ossa.

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159.Ma così son d’Amor dolci gli strali,
sì la sua fiamma e la catena è lieve,
che mille strazii rigidi e mortali
non vagliono un piacer che si riceve.
Anzi pur vaga de’ suoi propri mali
conosciuto velen l’anima beve;
e ’n quegli occhi, ov’alberga il suo dolore,
volontaria prigion procaccia il core.

160.Curi dunque chi vuol delizie ed agi,
io sol piacer di villa apprezzo ed amo.
Co’ tuguri cangiar voglio i palagi,
altro tesor che povertà non bramo.
Sazio de’ vezzi perfidi e malvagi,
c’han sotto l’ésca dolce amaro l’amo,
qui sol quella ottener gioia mi giova
che ciascun va cercando, e nessun trova.

161.Non ti meravigliar, che la selvaggia
vita tanto da me pregiata sia:
ch’ancor di Giano in su la patria spiaggia
ne cantai già con rustica armonia;
onde vanto immortal d’arguta e saggia
concesse Apollo a la sampogna mia.
de’ cui versi lodati in Helicona
il Ligustico mar tutto risona. —

162.Del maestro d’Amor gli amori ascolta
stupido Adone, ed a’ bei detti intento.
Colui, poi ch’affrenò la lingua sciolta,
fe’ da’ rozi Valletti in un momento
recar copia di cibi, a cui la molta
fame accrebbe sapore e condimento.
Mèl di diletto, e nettare d’Amore,
soave al gusto, e velenoso al core.

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163.Né mai di Loto abominabil frutto
di secreta possanza ebbe cotanto,
né fu già mai con tal virtù costrutto
di bevanda Circea magico incanto,
che non perdesse e non cedesse in tutto
al pasto del Pastor la forza e ’l vanto.
Licore insidïoso, ésca fallace,
dolce velen, ch’uccide, e non dispiace.

164.Nel Giardin del Piacer le poma colse
Clizio amoroso, e quindi il vino espresse,
ond’ebro in seno il Giovinetto accolse
fiamme sottili, indi s’accese in esse.
Non però le conobbe, e non si dolse,
ché fin ch’uopo non fu, giacquer suppresse,
qual serpe ascosa in agghiacciata falda,
che non prende vigor, se non si scalda.

165.Sente un novo desir ch’al cor gli scende,
e serpendo gli va per entro il petto.
Ama, né sa d’amar, né ben intende
quel suo dolce d’Amor non noto affetto.
Ben crede e vuole amar, ma non comprende
qual esser deggia poi l’amato oggetto;
e pria si sente incenerito il core,
che s’accorga il suo male essere Amore.

166.Amor, ch’alzò la vela e mosse i remi
quando pria tragittollo al bel paese,
va sotto l’ali fomentando i semi
de la fiamma, ch’ancor non è palese.
Fa su la mensa intanto addur gli estremi
de la vivanda il Contadin cortese.
Adon solve il digiuno, e i vasi liba,
e quei segue il parlar, mentr’ei si ciba.

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167.— Signor, tu vedi il Sol, ch’aventa i rai
di mezo l’arco onde saetta il giorno:
però qui riposar meco potrai
tanto che ’l novo dì faccia ritorno.
Ben da sincero cor (prometto) avrai
in albergo villan lieto soggiorno;
avrai con parca mensa e rozo letto
accoglienze cortesi, e puro affetto.

168.Tosto che sussurrar tra ’l mirto e ’l faggio
io sentirò l’auretta mattutina,
teco risorgerò, per far passaggio
a la casa d’Amor, ch’è qui vicina.
Tu poi quindi prendendo altro vïaggio,
potrai forse saldar l’alta ruina,
conosciuto che sii l’unico e vero
successor de la reggia, e de l’impero. —

169.Ben che non tema il folgorar del Sole
tra fatiche e disagi Adon nutrito,
di quell’Oste gentil non però vole
sprezzar l’offerta, o ricusar l’invito.
Risposto al grato dir grate parole,
quivi di dimorar prende partito;
e ringrazia il destin, che lasso e rotto
a sì cara magion l’abbia condotto.

170.Sceso intanto nel mar Febo a corcarsi
lasciò le piagge scolorite e meste,
e pascendo i destrier fumanti ed arsi
nel presepe del Ciel biada celeste,
di sudore e di foco umidi e sparsi
nel vicino Ocean lavàr le teste:
e l’un e l’altro Sol stanco si giacque,
Adon tra’ fiori, Apollo in grembo a l’acque.