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Adone/Canto II

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Canto II

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Canto I Canto III
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IL PALAGIO D’AMORE

CANTO SECONDO

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ALLEGORIA

Le ricchezze della Casa d’Amore, e le sculture della Porta di essa, contenenti l’azzioni di Cerere e di Bacco, ci dànno a conoscere le delizie della Sensualità, e quanto l’uno e l’altra concorrano al nutrimento della lascivia. Le cinque torri comprese nel detto Palazzo son poste per essempio de’ cinque sentimenti umani, che son ministri delle dolcezze amorose; e la torre principale, ch’è più elevata dell’altre quattro, dinota in particolare il senso del tatto, in cui consiste l’estremo e l’eccesso di simili dilettazioni. La soavità del pomo gustato da Adone ci insegna che per lo più sogliono sempre i frutti d’Amore essere nel principio dolci e piacevoli. Il Giudicio di Paride è simbolo della vita dell’uomo, a cui si rappresentano innanzi tre Dee, cioè l’attiva, la contemplativa, e la voluttaria; la prima sotto nome di Giunone, la seconda di Minerva, e la terza di Venere. Questo giudicio si commette all’uomo, a cui è dato libero l’arbitrio della elezzione, perché determini qual di esse più gli piaccia di seguitare. Ed egli per ordinario più volentieri si piega alla libidine ed al piacere, che al guadagno o alla virtù. [p. 102 modifica]

ARGOMENTO

Al Palagio ov’ Amor chiude ogni gioia
ne van Clizio ed Adone in compagnia.
Clizio gli prende a raccontar per via
il gran Giudicio del Pastor di Troia.



1.Giunto a quel passo il giovinetto Alcide
che fa capo al camin di nostra vita,
trovò dubbio e sospeso in fra due guide
una via, che ’n due strade era partita.
Facile e piana la sinistra ei vide,
di delizie e piacer tutta fiorita;
l’altra vestia l’ispide balze alpine
di duri sassi, e di pungenti spine.

2.Stette lung’ora irrisoluto in forse
tra’ duo sentieri il Giovane inesperto:
alfine il piè ben consigliato ei torse
lunge dal calle morbido ed aperto;
e dietro a lei, ch’a vero onor lo scòrse,
scelse da destra il faticoso ed erto,
onde per gravi rischi e strane imprese
di somma gloria in su la cima ascese.

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3.E così va chi con giudicio sano
di Virtù segue l’onorata traccia.
Ma chïunque credendo al Vizio vano
cerca il mal, c’ha di ben sembianza e faccia,
giunge per molle e spazïoso piano
dove in mille catene il piede allaccia.
Quante il perfido ahi quante, e ’n quanti modi
n’ordisce astute insidie, occulte frodi!

4.Per l’arringo mortal, nova Atalanta,
l’anima peregrina e semplicetta
corre veloce, e con spedita pianta
del gran vïaggio al termine s’affretta.
Ma spesso il corso suo stornar si vanta
il Senso adulator, ch’a sé l’alletta
con l’oggetto piacevole e giocondo
di questo pomo d’or, che nome ha mondo.

5.Curi lo scampo suo, fugga e disprezzi
le dolci offerte, i dilettosi inganni,
né per che la lusinghi e l’accarezzi
disperda in fiore il verdeggiar degli anni.
Mille ognor le propon con finti vezzi
per desvïarla da’ lodati affanni
gioie amorose, amabili diporti,
che poi fruttano altrui ruine e morti.

6.Da sì fatte dolcezze ella invaghita
di farsi ésca al focile, e segno a l’arco,
ne la cruda magion passa tradita
di mille pene a sostener l’incarco:
gabbia senz’uscio e carcer senza uscita,
mar senza riva, e selva senza varco,
labirinto ingannevole d’errore,
tal è il Palagio, ov’ha ricetto Amore.

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7.Già l’augel mattutin battendo intorno
l’ali, a bandir la luce ecco s’appresta,
e ’l capo e ’l piè superbamente adorno
d’aurato sprone, e di purpurea cresta,
de la villa oriuol, tromba del giorno,
con garriti iterati il mondo desta,
e sollecito assai più che non suole,
già licenzia le stelle, e chiama il Sole:

8.quando di là, dove posò pur dianzi,
dal suo sonno riscosso, Adon risorge,
ché veder vuol pria che ’l calor s’avanzi
se ’l Ciel di caccia occasïon gli porge.
Clizio pastor con la sua greggia innanzi
al vicin bosco l’accompagna e scòrge,
là dove a suon di rustica sambuca
convien su ’l mezo dì ch’ei la riduca.

9.Disegna Adon, se pur tra via s’abbatte
in Damma, in Daino, o in altra fera alcuna,
errando ancor per quell’ombrose fratte
torcer de l’arco la cornuta Luna.
Quest’armi avea (come non so) ritratte
in salvo dal furor de la fortuna;
né so qual tolto avria fra le tempeste
più tosto abbandonar, la vita o queste.

10.Così, mentre vagante e peregrino
scorre l’antico suo paterno regno,
del crudo Arcier, del perfido destino
affretta l’opra, agevola il disegno.
Ma stimando fatale il suo camino,
poi che campò gran rischio in picciol legno,
spera, quando alcun dì quivi soggiorni,
che lo scettro perduto in man gli torni.

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11.Veggendo come per sì strania via
da la terra odorifera Sabea
mirabilmente a l’isola natia
pietà d’amico Ciel scòrto l’avea,
e che del loco, ond’ebbe origin pria,
il leggittimo stato in lui cadea,
nel favor di Fortuna ancor confida,
che de’ suoi casi a’ bei progressi arrida.

12.A punto il Sol su la cornice allora
de la finestra d’òr levava il ciglio,
forse per risguardar s’avesse ancora
nulla esseguito Amor del suo consiglio,
quando di lei che ’l terzo giro onora,
dolente pur del fuggitivo figlio,
vie più da lui, che dal Pastor guidato,
giunse presso a l’ostello aventurato.

13.Ancor che chiusa sia, com’ognor suole,
l’entrata principal de la magione,
tanta è però di sì superba mole
la luce esterïor, ch’abbaglia Adone.
La reggia famosissima del Sole
de’ suoi chiari splendori al paragone
fora vile ed oscura: e ’l Giovinetto
d’infinito stupor ne colma il petto.

14.Sorge il Palagio, ov’ha la Dea soggiorno,
tutto d’un muro adamantino e forte.
I gran chiostri, i gran palchi invidia e scorno
fanno a le logge de l’Empirea Corte.
Ha quattro fronti e quattro fianchi intorno,
quattro torri custodi, e quattro porte;
e piantata ha nel mezo un’altra torre,
che vien di cinque il numero a comporre.

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15.Ne’ quattro angoli suoi quasi a compasso
poste le torri son tutte egualmente.
Quella di mezo è del medesmo sasso,
ma de l’altre maggiore, e più eminente.
L’una a l’altra risponde e s’apre il passo
per più d’un ponte eccelso e risplendente,
e con arte assai bella e ben distinta
ciascuna de le quattro esce a la quinta.

16.Sì alto e sì sottile è ciascun arco
che sotto ciascun ponte si distende,
che ben si par che quel sublime incarco
per miracol divino in aria pende.
L’incurvatura, ond’ogni ponte ha varco,
di tante gemme varïata splende,
ch’ogni arco ai lumi ed ai color che veste
somiglia in terra un’Iride celeste.

17.Le quattro torri in su i canton costrutte
son fatte in quadro, e son d’egual misura,
tranne la principal fra l’altre tutte,
ch’è fabricata in sferica figura.
Son distanti del pari, e son condutte
le linee a fil con vaga architettura:
e salvo la maggior, che ’n grembo il tiene,
per ogni torre in un giardin si viene.

18.Non di porfidi ornaro o serpentini
quello strano edificio i dotti mastri,
ma fér di sassi orïentali e fini
comignoli e cornici, archi e pilastri.
Prezïosi crisoliti e rubini
segàr di marmi in vece e d’alabastri,
e tutte qui de l’Indiche spelonche
e de’ lidi Eritrei votàr le conche.

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19.Da le vene del Gange il fabro scelse
il più pregiato e lucido metallo,
e da le rupi de l’Arabia svelse
il diamante purissimo e ’l cristallo,
onde compose le colonne eccelse
con ben dritta misura ed intervallo,
che su dïaspro rilucente e saldo
ferman le basi, e i capi han di smeraldo.

20.Tra colonna e colonna al peso altero
sommessi i busti smisurati e grossi,
servon d’appoggio al grave magistero
in forma di Giganti alti colossi.
Son fabricati d’un berillo intero,
e d’ardente piropo han gli occhi rossi.
Ciascun regge un feston distinto e misto
di zaffir, di topazio, e d’ametisto.

21.Splende intagliata di fabril lavoro
la maggior porta del mirabil tetto.
Sovra gangheri d’or spigoli d’oro
volge, e serragli ha d’or limpido e schietto.
È sostegno, e non fregio al gran tesoro
del ricco ingresso il calcidonio eletto.
Soggiace al piè, quasi sprezzato sasso,
ne la lubrica soglia il fin balasso.

22.Quel di mezo è d’argento, e mille in esso
illustri forme industre mano incise,
e di lor col rilievo e col commesso
gli atti e i volti distinse in varie guise.
Vero il finto dirà, vero ed espresso
uom che v’abbia le luci intente e fise.
L’opra, ch’opra è de l’Arte, e quasi spira,
com’opra di sua man Natura ammira.

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23.In una parte del superbo e bello
uscio, ch’al vivo ogni figura esprime,
scolpì Vulcan col suo divin scarpello
l’alma inventrice de le biade prime.
Fumar Etna si vede, e Mongibello
fiamme eruttar da le nevose cime.
Ben sepp’egli imitar del patrio loco
con rubini e carbonchi il fumo e ’l foco!

24.Vedesi là per la campagna aprica,
tutta vestita di novella messe,
biondeggiar d’oro ed ondeggiar la spica,
sparsa pur or da le sue mani istesse.
«Scoglio gentil» par che tacendo dica
sì ben le voci ha nel silenzio espresse
«siami fido custode il tuo terreno
del caro pegno ch’io ti lascio in seno».

25.Ecco ne vien con le compagne elette
la Vergin fuor de la materna soglia,
e per ordir monili e ghirlandette
de’ suoi fregi più vaghi il prato spoglia.
Già par che i fior tra le ridenti erbette
apra con gli occhi, e con le man raccoglia.
Ritrar non sapria meglio Apelle o Zeusi
la bella figlia de la Dea d’Eleusi.

26.Ed ecco aperte le sulfuree grotte,
mentre ch’ella compon gigli e vïole,
dal fondo fuor de la Tartarea notte
il Rettor de le Furie uscire al Sole.
Fuggon le Ninfe, e con querele rotte
la rapita Proserpina si dole.
Spuman tepido sangue, e sbuffan neri
aliti di caligine i destrieri.

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27.Ecco Cerere in Flegra afflitta riede,
ecco gemino pin succide e svelle,
e per cercarla, fattone due tede,
le leva in alto ad uso di facelle.
Simile al vero il gran carro si vede
ricco di gemme sfavillanti e belle.
Van con lucido tratto il ciel fendenti
l’ali verdi battendo i duo Serpenti.

28.Da l’altro lato mirasi scolpito
il giovinetto Dio che ’l Gange adora,
come immaturo ancor, non partorito
Giove dal sen materno il tragge fòra:
come gli è madre il padre; indi nutrito
da le Ninfe di Nisa, i boschi onora.
Stranio parto e mirabile, che fue
una volta concetto, e nacque due.

29.In un carro di palmiti sedere
vedilo altrove, e gir sublime e lieve.
Tirano il carro rapide e leggiere
quattro d’Hircania generose allieve.
Leccano intinto il fren l’orride fere
del buon licor che fa gioir chi ’l beve.
Egli tra i plausi de la vaga plebe
passa fastoso e trïonfante a Thebe.

30.Il non mai sobrio e vecchiarel Sileno
sovra pigro asinel vien sonnacchioso,
tinto tutto di mosto il viso e ’l seno,
verdeggiante le chiome e pampinoso.
Già già vacilla! e per cader vien meno:
reggon Satiri e Fauni il corpo annoso.
Gravi porta le ciglia e le palpebre
di vino e di stupor tumide ed ebre.

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31.Vulgo dal destro lato e dal sinistro
di fanciulli e di ninfe si confonde,
e par ch’a suon di crotalo e di sistro
vibrin tirsi e corimbi e frasche e fronde.
Inghirlandan di Bacco ogni ministro
verdi viticci, uve vermiglie e bionde:
e son le viti di smeraldo fino,
l’uve son di giacinto e di rubino.

32.Quinci e quindi dintorno ondeggia e bolle
la turba de le Vergini Baccanti,
e corre e salta infurïato e folle
lo strepitoso stuol de’ Coribanti.
Par già tutto tremar facciano il colle
buccine, e corni, e cembali sonanti.
Pien di tant’arte è quel lavor sublime,
che nel muto metallo il suono esprime.

33.Quanto Adon più da presso al loco fassi,
più la mente gl’ingombra alto stupore.
“Questo è il Ciel de la terra, e quinci vassi
a le bëatitudini d’Amore”.
Così colà volgendo i guardi e i passi,
in fronte gli mirò scritto di fore.
Tutto d’incise gemme era lo scritto,
tarsïato a caratteri d’Egitto.

34.— Ecco il Palagio ove Ciprigna alberga —
disse allor Clizio — e dov’Amor dimora.
Io quando avien che ’l Sol più alto s’erga,
menar qui la mia greggia uso talora;
né fin che poi ne l’Ocean s’immerga,
la richiama a l’ovil canna sonora.
Ma poi che Sirio latra, io vo’ ben oggi
miglior ombra cercar tra que’ duo poggi.

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35.Tra que’ duo poggi, che non lunge vedi,
teco verrò per solitarie vie.
Poi da te presi i debiti congedi,
t’attenderò su ’l tramontar del die;
e recherommi a gran mercé, se riedi
a ricovrar ne le cappanne mie.
Forse intanto il tuo legno esposto a l’onda
fia che guidi a buon porto aura seconda. —

36.Adon disposto di seguir sua sorte,
cortesemente al contadin rispose.
In questo mentre innanzi a le gran porte
estranie vide e disusate cose:
in mezo un largo pian, che vi fa corte,
stende tronco gentil braccia ramose,
di cui non verdeggiò mai sotto il cielo
più raro germe, o più leggiadro stelo.

37.Cedan le ricche e fortunate piante
che dispiegaro la pomposa chioma
nel bel giardin del Libico Gigante,
che ’l tergo incurva a la stellata soma.
Non so se là ne le contrade sante,
carica i rami di vietate poma,
arbor nutrì sì prezïosa e bella
quel che suo Paradiso il mondo appella.

38.Ha di diamante la radice e ’l fusto,
di smeraldo le fronde, i fior d’argento.
Son d’oro i frutti, ond’è mai sempre onusto,
e la porpora a l’or cresce ornamento.
Di contentar dopo la vista il gusto
al curïoso Adon venne talento,
ond’un ne colse, e com’a punto grave
fusse d’ambrosia, il ritrovò soave.

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39.E tutto colmo d’un piacer novello
al Pastor dimandò: — Che frutto è questo? —
— Il frutto di quel nobile arboscello
non è — rispose — di terreno innesto;
e s’è dolce a la bocca, agli occhi bello,
ben di gran lunga è più perfetto il resto:
per la virtù ch’asconde il suo sapore,
s’accresce grazia, e si raddoppia amore.

40.Udito hai ragionar del pomo Ideo,
che ’n premio di beltà Venere ottenne,
per cui con tanto sangue il ferro Acheo
fe’ il ratto de l’Adultera sollenne.
Questo poi che di lei restò trofeo,
la Dea qui di sua mano a piantar venne:
e piantato che fu, volse dotarlo
de la proprïetà di cui ti parlo. —

41.— Deh — gli soggiunse Adon — se non ti pesa,
narra l’origin prima, e ’n qual maniera
nacque fra le tre Dee l’alta contesa,
com’ella andò di sì bel pomo altera.
Da le ninfe Sabee n’ho parte intesa,
ma bramo udir di ciò l’istoria intera.
Così men malagevole ne fia
l’aspro rigor de la malvagia via. —

42.— Poi ch’ebbe Amor con tanti lacci e tanti —
il Pastor cominciò — tese le reti,
ch’alfin pur strinse dopo lunghi pianti
in nodo marital Peleo con Theti;
le nozze illustri di sì degni amanti
vennero ad onorar festosi e lieti
quanti son Numi in Ciel, quanti ne serra
il gran cerchio del mare, e de la terra.

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43.Fu di Thessaglia aventuroso il monte,
dove si celebràr questi imenei.
Di mirti e lauri gli fiorì la fronte,
del trïonfo d’Amor fregi e trofei;
e le stelle gli fur propizie e pronte,
e le genti mortali, e gli alti Dei,
se non spargea dissensïon crudele
tra le dolci vivande amaro fiele.

44.Senza invidia non è gioia sincera
né molto dura alcun felice stato.
Quel gran piacer da la Discordia fiera,
madre d’ire e di liti, ecco è turbato;
ch’esclusa fuor de la divina schiera,
e dal convito splendido e beato,
gli alti diletti e l’allegrezze immense
venne a contaminar di quelle mense.

45.A l’arti sue ricorre, e col consiglio
di quella rabbia che la punge e rode,
corre al Giardin d’Hesperia, e dà di piglio
a le piante che ’l Drago ebber custode.
Quindi un pomo rapisce aureo e vermiglio,
de’ cui rai senz’offesa il guardo gode.
Di minio e d’oro un fulgido baleno
vibra, e gemme per semi accoglie in seno.

46.Ne la scorza lucente e colorita,
il cui folgore lieto i lumi abbaglia,
la Diva di disdegno inviperita,
cui nulla Furia in fellonia s’agguaglia,
di propria man (come il furor l’irrita)
parole poi sedizïose intaglia.
Dice il motto da lei scolpito in quella:
“Diasi questo bel dono a la più bella”.

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47.Torna, ove la richiama a la vendetta
de l’alta ingiuria la memoria dura,
e d’astio accesa, e di veleno infetta,
nel velo ascosa d’una nube oscura,
con la sinistra man su ’l desco getta
de l’ésca d’or la perfida scrittura.
Questo magico don tra tante feste
gettò nel mezo a l’assemblea celeste.

48.Lasciaro i cibi, e da’ fumanti vasi
le destre sollevar tutti coloro:
e di stupore attoniti rimasi,
presero a contemplar quel sì bell’oro.
Donde si vegna non san dir, ma quasi
un presente del Fato ei sembra loro;
e sì di sé gli alletta al bel possesso,
che par ch’Amor si sia nascosto in esso.

49.Ma sovra quanti il videro e ’l bramaro
le tre cupide Dee n’ebber diletto,
e stimulate da desire avaro,
che di quel sesso è natural difetto,
la sollecita man steser di paro
a la rapina del leggiadro oggetto,
e con gara tra lor non ben concorde
se ne mostraro a meraviglia ingorde.

50.Quando lo Dio che del Signor d’Anfriso
guardò gli armenti, e che conduce il giorno,
meglio in esso drizzando il guardo fiso,
vide le lettre ch’avea scritte intorno;
e lampeggiando in un gentil sorriso,
di purpuree scintille il volto adorno,
fe’ de le note peregrine e nove
sculte su la corteccia, accorger Giove.

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51.Letta l’inscrizzïon di quella scorza,
le troppo avide Dee cessaro alquanto,
e cangiàr volto, e ’n su la mensa a forza
il deposito d’or lasciaro intanto.
Cede il merto al desio, ma non s’ammorza
l’ambizïon, ch’aspira al primo vanto.
San, ch’averlo non può se non sol una:
il voglion tutte, e nol possiede alcuna.

52.Degli assistenti l’immortal corona
nova confusïon turba e scompiglia.
Con vario disparer ciascun ragiona,
chi di qua, chi di là freme e bisbiglia.
Sovra ciò si contende e si tenzona,
omai tutta sossovra è la famiglia.
Tutta ripiena è già d’alto contrasto
la gran sollennità del nobil pasto.

53.Giunon superba è sì di sua grandezza
che più de l’altre due degna s’appella.
Né sé cotanto Pallade disprezza
che non pretenda la vittoria anch’ella.
Vener, ch’è madre e Dea de la bellezza,
e sa ch’è destinato a la più bella,
ridendosi fra sé di tutte loro,
spera senz’altro al mirto unir l’alloro.

54.Tutti gli Dei nel caso hanno interesse,
e son divisi a favorir le Dee.
Marte vuol sostener con l’armi istesse
che ’l ricco pomo a Citherea si dee.
Apollo di Minerva in campo ha messe
le lodi, e chiama l’altre invide e ree.
Giove, poi ch’ascoltato ha ben ciascuno,
parzïal de la moglie, applaude a Giuno.

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55.Alfin, perch’alcun mal pur non seguisse
in quel drappel ch’al paragon concorre,
bramoso di placar tumulti e risse,
e querele e litigi in un comporre,
«Le cose belle» a lor rivolto disse
«son sempre amate, ognun v’anela e corre:
ma quanto altrui più piace il bello e ’l bene,
con vie maggior difficoltà s’ottiene.

56.Ubbidir fia gran senno, ed è ben dritto
ch’a la ragion la passïon soggiaccia,
e ch’a quanto si vole ed è prescritto
da la Necessità si sodisfaccia;
ché se ben di chi regna alcuno editto
talor, troppo severo, avien che spiaccia,
non ostante il rigor con cui si regge,
giusto non è di vïolar la legge.

57.Parlo a voi belle mie, tutte rivolte
a la pretensïon d’un pregio istesso.
Pur non può questo pomo esser di molte,
sapete ad una sola esser promesso.
Or se bellezze eguali in voi raccolte
ponno egualmente aver ragione in esso,
né voglion l’altre due dirsi più brutte,
come possibil fia contentar tutte?

58.Giudice delegar dunque conviensi,
saggio conoscitor del vostro merto,
a cui conforme il guiderdon dispensi
con occhio sano, e con giudicio certo.
A lui quanto di bello ascoso tiensi
vuolsi senz’alcun vel mostrar aperto,
perché le differenze onde garrite
distinguer sappia, e terminar la lite.

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59.Io renunzio a l’arbitrio; esser tra voi
arbitro idoneo in quanto a me non posso,
ché s’ad una aderisco, io non vo’ poi
l’odio de l’altre due tirarmi addosso.
Amo di par ciascuna, i casi suoi
pari zelo a curar sempre m’ha mosso.
Potess’io trïonfanti e vincitrici
veder così di par tutte felici.

60.Pastor vive tra’ boschi in Frigia nato,
ma sol nel nome e ne l’ufficio è tale,
ché s’ancor non tenesse invido fato
chiuso tra roze spoglie il gran natale,
al mondo tutto il suo sublime stato
conto fora, e ’l legnaggio alto e reale.
Di Priamo è figlio, Imperador Troiano,
di Ganimede mio maggior germano.

61.Paride ha nome, e non è forse indegno
ch’egli tra voi la questïon decida,
poi c’ha l’integrità pari a l’ingegno
da poter acquetar tanta disfida.
Sconosciuto si sta nel patrio regno
dove il Gargaro altier s’estolle in Ida.
Itene dunque là; colui che porta
l’ambasciate del Ciel, vi sarà scorta».

62.Così diss’egli, e con applauso i detti
raccolti fur del gran Rettor superno,
e scritti per man d’Atropo fur letti
nel bel diamante del destino eterno;
e le Dive a quel dir sedàr gli affetti,
pur di vento pascendo il fasto interno.
Già s’apprestano a prova al gran vïaggio,
e ciascuna s’adorna a suo vantaggio.

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63.L’altera Dea che del gran Rege è moglie
de l’usato s’ammanta abito regio.
Di doppie fila d’or son quelle spoglie
tramate tutte, e d’oro han doppio fregio;
sparse di Soli, e folgorando toglie
ogni Sole al Sol vero il lume e ’l pregio.
Di stellante diadema il capo cinge,
e lo scettro gemmato in man si stringe.

64.Quella ch’Atene adora ha di bei stami
di schietto argento e semplice la vesta,
riccamata di tronchi e di fogliami
di verde olivo, e di sua man contesta.
Tien d’una treccia degl’istessi rami
il limpid’elmo incoronato in testa.
Sostien l’asta la destra, e ’l braccio manco
di scudo adamantin ricopre il fianco.

65.L’altra, c’ha ne’ begli occhi il foco e ’l telo,
d’artificio fabril pompa non volse,
ma d’un serico a pena azurro velo
la nudità de’ bianchi membri involse:
color del mare, anzi color del cielo
(quello la generò, questo l’accolse);
leggier leggiero, e chiaramente oscuro,
che facea trasparer l’avorio puro.

66.Prende Mercurio il pomo, agili e presti
ponsi a le tempie i vanni ed a’ talloni,
e la verga fatal, battendo questi,
si reca in man, ch’attorti ha duo Dragoni.
Per ben seguirlo l’emule celesti
lascian Colombe, e Nottule, e Pavoni:
ed è lor carro un nuvoletto aurato
lievemente da Zefiro portato.

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67.Dipinge un bel seren l’aria ridente
di vermiglie fiammelle e d’aurei lampi,
e qual Sol che calando in Occidente
di rosati splendori intorno avampi,
segnando il tratto del sentier lucente
indora e inostra i suoi cerulei campi,
mentre condotta da la saggia guida
la superbia del Ciel discende in Ida.

68.Stassene in Ida a le fresch’ombre estive
Paride assiso a pasturar le gregge,
là dove intorno in mille scorze vive
il bel nome d’Enon scritto si legge.
Misera Enon, se de le belle Dive
giudice eletto, ei la più bella elegge,
di te che fia, c’hai da restar senz’alma?
Ahi che perdita tua fia l’altrui palma!

69.Voglion costor la tua delizia cara,
lassa, rapirti, e ’l tuo tesor di braccio.
Vanne dunque infelice, e pria ch’avara
Fortuna un tanto ardor converta in ghiaccio,
quanto gioir sapesti, or tanto impara
a dolerti di lui, che scioglie il laccio:
e mentre puoi, dentro il suo grembo accolta,
bacia Paride tuo l’ultima volta.

70.A piè d’un antro nel più denso e chiuso
siede il Pastor, de la solinga valle.
La mitra ha in fronte, e (qual de’ Frigi è l’uso)
barbaro drappo annoda in su le spalle.
Lungo il chiaro Scamandro erra diffuso
l’armento fuor de le sbarrate stalle;
e ’l verde prato gli nutrisce e serba
di rugiada conditi i fiori e l’erba.

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71.Egli gonfiando la cerata canna,
v’accorda al dolce suon canto conforme.
Per gran dolcezza le palpebre appanna
il fido cane, e non lontan gli dorme.
Tacciono intente a piè de la cappanna
ad ascoltarlo le lanose torme.
Cinti le corna di fiorite bacche
obliano il pascolar giovenchi e vacche.

72.Quand’ecco declinar la nube ei vede,
che ’l fior d’ogni bellezza in grembo serra,
e rotando colà, dov’egli siede,
di giro in giro avicinarsi a terra.
Ecco a la volta sua drizzano il piede
accinte a nova e dilettosa guerra
le tre belle nemiche, a’ cui splendori
rischiara il bosco i suoi selvaggi orrori.

73.In rimirando sì mirabil cosa
stringe la labra allor, curva le ciglia,
e su la fronte crespa e spaventosa
scolpisce col terror la meraviglia.
Sovra il tronco vicin la testa posa,
ed al tronco vicin si rassomiglia.
La canzon rompe, e lascia intanto muta
cadersi a piè la garrula cicuta.

74.«Fortunato Pastor, Giovane illustre»
il messaggio divin dissegli allora,
«il cui gran lume ascoso in vel palustre
lo stesso Ciel, non che la terra onora;
degno ti fa la tua prudenza industre
di venture a mortal non date ancora.
A te con queste Dee Giove mi manda,
e che tu sia lor Giudice comanda.

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75.Vedi questo bel pomo? a la contesa
questo, che fu suggetto, or premio fia.
Colei l’avrà, che ’n così bella impresa
di bellezza maggior dotata sia.
Donalo pur senza temere offesa
a chi ’l merita più ch’a chi ’l desia.
Ben sopir saprai tu discordie tante
come bel, com’esperto, e com’amante».

76.Tanto dic’egli, e l’aureo pomo sporto
consegna a l’altro, il qual fra gioia e tema
in udir quel parlar facondo e scòrto,
e ’n risguardar quella beltà suprema,
il prende, e tace: e sbigottito e smorto
fuor di se stesso impallidisce e trema.
Pur fra tanto stupor, che lo confonde,
moderando i suoi moti, alfin risponde:

77.«La conoscenza c’ho de l’esser mio,
o de le stelle Ambasciador felice,
questa gran novità, che qui vegg’io,
al mio basso pensier creder disdice:
gloria, di cui godere ad alcun Dio
maggior forse lassù gloria non lice;
che dal Ciel venga a povero Pastore
tanto bene insperato, e tanto onore.

78.Ma ch’abbia a proferir lingua mortale
decreto in quel ch’ogni intelletto eccede,
quanto a lo stato mio sì diseguale
più mi rivolgo, ei tanto meno il crede.
Nulla degnar mi può di grado tale,
se non l’alto favor che mel concede.
Pur se ragion di merito mi manca,
grazia celeste ogni viltà rinfranca.

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79.Può ben d’umane cose ingegno umano
talor deliberar senza periglio.
Trattar cause divine ardisce invano
senz’aiuto divin saggio consiglio.
Come dunque poss’io rozo e villano
non che le labra aprir, volgere il ciglio,
dove l’istessa ancor somma scïenza
non seppe in Ciel pronunzïar sentenza?

80.Com’esser può, che l’esquisita e piena
perfezzïon de la beltà conosca
uom, ch’oltre la caligine terrena,
tra queste verdi tenebre s’imbosca,
dov’altro mai di sua luce serena
non n’è dato mirar ch’un’ombra fosca?
Certo inabil mi sento, e mi confesso,
di tali estremi a misurar l’eccesso.

81.S’avessi a giudicar fra Toro e Toro,
o decretar fra l’una e l’altra Agnella,
discerner saprei ben forse di loro
qual si fusse il migliore, e la più bella.
Ma così belle son tutte costoro,
che distinguer non so questa da quella.
Tutte egualmente ammiro, e tutte sono
degne di laude eguale, e d’egual dono.

82.Dogliomi, che tre pomi aver vorrei,
qual è quest’un ch’a litigar l’ha mosse,
ch’allor giusto il giudicio io crederei
quando commun la lor vittoria fosse.
Aggiungo poi, che degli eterni Dei
paventar deggio pur l’ire e le posse,
poi che di questa schiera aventurosa
due son figlie di Giove, e l’altra è sposa.

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83.Ma da che tali son gli ordini suoi,
forza immortale il mio difetto scusi:
pur che de le due vinte alcuna poi
non sia, ch’irata il troppo ardire accusi.
Intanto, o belle Dee, se pur a voi
piace che ’l peso imposto io non ricusi,
quel chiaro Sol, che tanta gloria adduce,
ritenga il morso a la sfrenata luce».

84.Qui Cillenio s’apparta, ed ei restando
chiama tutti a consiglio i suoi pensieri,
e gli spirti al gran caso assottigliando
comincia ad aguzzar gli occhi severi.
Già s’apparecchia a la bell’opra, quando
con atti gravi e portamenti alteri
di real maëstà, gli s’avicina
e gli prende a parlar la Dea Lucina.

85.«Poi ch’al giudicio uman si sottomette
da la giustizia tua fatta secura
la ragion, che le prime e più perfette
meraviglie del Ciel vince ed oscura:
de la beltà, ch’eletta è fra l’elette,
dèi conoscer, Pastor, la dismisura;
ma conosciuta poi, riconosciuta
convien che sia con la mercé devuta.

86.E s’egli è ver, che l’eccellenza prima
possa sol limitar la tua speranza
di mai meglio veder, vista la cima,
e ’l colmo di quel bel ch’ogni altro avanza;
acciò che l’occhio tuo, ch’or si sublima
sovra l’umana e naturale usanza,
non curi Citherea più, né Minerva,
in me rimira, e mie fattezze osserva.

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87.Tu discerni colei, se me discerni,
cui cede ogni altro Nume i primi onori,
Imperadrice degli Eroi superni,
consorte al gran Motor Re de’ Motori.
Vedi il più degno in fra i suggetti eterni
che ’l Cielo ammiri, o che la terra adori;
innanzi ai raggi de la cui beltade
lo Stupor di stupor stupido cade.

88.L’istesso Sol d’idolatrarmi apprese
di scorno spesso e di vergogna tinto;
e ’l mio più volte il suo splendore accese,
l’estinse pria, poi ravivollo estinto.
Negar dunque non puoi di far palese
quel lume altrui, che ’l maggior lume ha vinto,
senza accusar di cecità la luce
di colui che per tutto il dì conduce».

89.Rompe allora il silenzio ed apre il varco
a la voce il Pastor con questo dire:
«Poi ch’a’ suoi cenni col commesso incarco
legge di Ciel mi sforza ad ubbidire,
non fia ritroso ad onorarvi, o parco,
gloriosa Reina, il mio desire,
del cui pronto voler vi farà noto
un schietto favellar libero il voto.

90.Io vi giudico già tanto perfetta
che più nulla mirar spero di raro,
tal che ’l merto di quel, ch’a voi s’aspetta,
contentar ben vi può, ch’a tutti è chiaro,
senza bisogno alcun ch’io vi prometta
ciò che tòr non vi dee Giudice avaro,
onde cosa la speme abbia a donarvi
che ’n effetto il dever non può negarvi.

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91.Ben volentier (se senza ingiuria altrui
così determinar fusse in mia mano)
concederei questo bel pomo a vui,
né dal dritto giudicio andrei lontano.
Ma mi convien (com’ammonito fui
dal facondo corrier del Re sovrano)
darlo a colei ch’a l’altre il pregio invola:
e voi scesa dal Ciel non siete sola».

92.L’orgogliosa moglier del gran Tonante
sì fatte lodi udir non si scompiacque,
e senza trïonfar già trïonfante
attese il fin di quel certame, e tacque
Ed ecco allor colei trattasi avante
che senza madre del gran Giove nacque,
d’onestà virginal sparsa le gote
chiede il pomo al Pastor con queste note:

93.«Tutti i mortali e gl’immortali in questo
sospetti a mio favor sarebbon forse.
Paride sol, ch’amico è de l’onesto,
e dal giusto e dal ver già mai non torse,
degno è d’ufficio tale, ed io ben resto
paga d’un tant’onor, che ’l Ciel gli porse,
poi che non so da cui più certo or io
mi potessi ottener quanto desio.

94.Tu, che lume cotanto hai ne la mente,
ed appregi valore e cortesia,
rivolgerai ne l’animo prudente
tutto ciò ch’io mi vaglia, e ciò ch’io sia:
ond’oggi crederò che facilmente
vincitrice farai la beltà mia,
quell’ossequio e quel dritto a me porgendo
che merito, che bramo, e che pretendo.

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95.Non son, non son qual credi: in me vedere
di Vener forse, o di Giunon pensasti
lusinghe false ed apparenze altere,
i risi e i vezzi, e le superbie e i fasti?
Cose tu vedi essenzïali e vere,
vedi Minerva, e tanto sol ti basti:
senza cui nulla val regno o ricchezza,
fuor del cui bel difforme è la bellezza.

96.Virtù son io, di cui non altro mai
vide uom mortal ch’una figura, un’orma.
A te però con disvelati rai
ne rappresento la corporea forma;
da cui (se saggio sei) prender potrai
de la vera beltà la vera norma,
e conoscer quaggiù fuor d’ogni nebbia
quel che seguir, quel ch’adorar si debbia.

97.Forse, mentre tu miri, ed io ragiono,
per troppo meritar mi stimi indegna,
e la vergogna di sì picciol dono
ti fa parer che poco a me convegna.
Ma io mi scorderò di quel che sono,
sol che la palma di tua mano ottegna.
Pur ch’ella oggi da te mi sia concessa,
per amor tuo sconoscerò me stessa».

98.Da la virtù di quel parlar ferito
Paride parer cangia, e pensier muta:
e dal presente oggetto instupidito
la memoria de l’altro ha già perduta.
«Diva» risponde, «il merito infinito
di cotanta beltà non più veduta
dona al mio cieco ingegno occhi a bastanza
da poter ammirar vostra sembianza.

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99.Io ben conosco, che quel ch’oggi appare
in quest’ombroso e solitario chiostro
è puro specchio e lucido essemplare
de la divinità, ch’a me s’è mostro.
Ma se vittime e voti, incensi ed are
consacra il mondo al simulacro vostro,
qual sacrificio or v’offerisco e porgo
io, che vivo e non finto il ver ne scorgo?

100.Il presentarvi ciò che vi conviene
è dever necessario, e giusta cosa;
e l’istessa ragion, che v’appartiene,
vi fa senza il mio dir vittorïosa.
La speranza del ben potete bene
concepire omai lieta e baldanzosa.
Intanto in aspettandone l’effetto
purghi la grazia vostra il mio difetto».

101.Queste offerte cortesi assai possenti
furo nel cor de la più saggia Dea.
E qual più certo omai di tali accenti
pegno i suoi dubbi assecurar potea?
Da parole sì dolci e sì eloquenti,
con cui quasi il trofeo le promettea,
presa rimase, e fu delusa anch’essa
la Sapïenza, e l’Eloquenza istessa.

102.Ma la madre d’Amor, nel cui bel viso
ogni delizia lor le Grazie han posta,
quel ciglio, ch’apre in terra il Paradiso,
verso il Garzon volgendo, a lui s’accosta;
e la serenità del dolce riso
d’una gioconda affabiltà composta,
la favella de’ cori incantatrice
lusinghevole scioglie, e così dice:

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103.«Paride, io mi son tal, che ne l’acquisto
del desïato e combattuto pomo
senza temer d’alcun successo tristo
rifiutar non saprei giudice Momo.
Te quanto meno, in cui sovente ho vista
accortezza e bontà più che ’n altr’uomo?
Quanto più volentier senza spavento
al foro tuo di soggiacer consento?

104.In terra o in Ciel tra’ più tenaci affetti
qual cosa più sensibile d’Amore?
Qual possanza o virtù, ch’abbia ne’ petti
più de le forze sue forza e valore?
Or che pensi? che fai? che dunque aspetti?
Dove dove è il tuo ardir? dove il tuo core?
Dimmi come avrai core, e come ardire
da poterti difendere, o fuggire?

103.Se ’l pomo, per cui noi stiam qui pugnando,
come senso non ha, potesse averlo,
tu lo vedresti a me correr volando,
né fora in tua balìa di ritenerlo.
Poi ch’e’ venir non pote, io tel dimando,
sì come degna sol di possederlo.
Qualunque don la mia beltà riceve
è tributo d’onor, che le si deve.

106.La vista (il veggio ben) del mio bel volto
t’ha dolcemente l’anima rapita.
Or riprendi gli spirti, e ’n te raccolto
il cor rinfranca, e la virtù smarrita.
Quel che mirabil è, mirato hai molto:
comprender non si può luce infinita.
Gli occhi tuoi, che veduto oggi tropp’hanno,
ad ogni altro splendor ciechi saranno.

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107.Faccian prima però di quanto han scorto,
testimoni del ver, fede a la bocca,
acciò che poi sentenzïando il torto
non s’abbia a dimostrar maligna o sciocca.
E s’è dever di giudicante accorto
a ciascun compartir ciò che gli tocca,
bella colei dichiara in fra le belle,
che di beltà sovrasta a l’altre stelle.

108.Poi che l’istesso dono a sé mi chiama,
il dritto il chiede, e la ragione il vole;
poi che del senno tuo la chiara fama
t’obliga ad esseguir quel ch’egli suole;
s’a quant’oggi da me si spera e brama
non corrisponderan le tue parole,
la giustizia dirò ch’ingiusta sia,
e che la verità dica bugia».

109.Vinto il Pastor da parolette tali,
e da tanta beltà legato e preso,
a que’ novi miracoli immortali
senza spirito o polso è tutto inteso.
Amor gli ha punto il cor di dolci strali,
e di dolci faville il petto acceso:
onde con sospirar profondo e rotto
geme, langue, stupisce, e non fa motto.

110.Paride, a che sospiri? o perché taci?
Dove bisogna men, più ti confondi.
Tu désti a l’altre due pegni efficaci
di tua promessa; a questa or che rispondi?
Sono i silenzii tuoi nunzii loquaci
d’effetti favorevoli e secondi:
dunque del tuo tacer s’appaghi e goda,
se di ciò la cagion le torna in loda.

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111.Pensa, né sa di quella schiera eterna
qual beltà con più forza il cor gli mova,
ché mentre gli occhi trasportando alterna
or a questa, or a quella, egual la trova.
Là dove pria s’affisa, e ’l guardo interna,
ivi si ferma, e quel c’ha innanzi approva.
Volgesi a l’una, e bella a pien la stima,
poscia a l’altra passando, oblia la prima.

112.Bella è Giunone, e ’l suo candore intatto
di perla orïental luce somiglia.
Ha leggiadro ogni moto, accorto ogni atto
del maggior Dio la bellicosa figlia.
Ma tien de la bellezza il ver ritratto
la Dea d’Amor nel volto e ne le ciglia;
e tutta, ovunque a risguardarla prenda,
da le chiome a le piante è senza emenda.

113.Un rossor dal candor non ben distinto
varia la guancia, e la confonde e mesce.
Il ligustro di porpora è dipinto,
là dove manca l’un, l’altra s’accresce.
Or vinto il giglio è da la rosa, or vinto
l’ostro appar da l’avorio, or fugge, or esce.
A la neve colà la fiamma cede,
qui la grana col latte in un si vede.

114.D’un nobil quadro di diamante altera
la fronte, e chiara al par del Ciel lampeggia.
Quivi Amor si trastulla, e quindi impera
quasi in sublime e spazïosa reggia.
Gli albori l’Alba, i raggi ogni altra sfera
da lei sol prende, e ’n lei sol si vagheggia,
il cui cristallo limpido riluce
d’una serena e temperata luce.

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115.Le luci vaghe a meraviglia e belle
senz’alcun paragone uniche e sole
scorno insieme e splendor fanno a le stelle,
in lor si specchia, anzi s’abbaglia il Sole.
Da l’interne radici i cori svelle
qualor volger tranquillo il ciglio suole.
Nel tremulo seren, che ’n lor scintilla,
umido di lascivia il guardo brilla.

116.Per dritta riga da’ begli occhi scende
il filo d’un canal fatto a misura,
da cui fior che s’appressi, invola e prende
più che non porge, aura odorata e pura.
Sotto, ove l’uscio si disserra e fende
de l’erario d’Amore e di Natura,
apre un corallo in due parti diviso
angusto varco a le parole, al riso.

117.Né di sì fresche rose in ciel sereno
ambizïosa Aurora il crin s’asperse,
né di sì fini smalti il grembo pieno
Iride procellosa al Sole offerse,
né di sì vive perle ornato il seno
rugiadosa cocchiglia a l’Alba aperse,
che la bocca pareggi, ov’ha ridente
di ricchezze e d’odori un Orïente.

118.Seminate in più sferze, e sparse in fiocchi
sen van le fila innanellate e bionde
de’ capei d’or, ch’a bello studio sciocchi
lasciva trascuragine confonde.
Or su gli omeri vaghi, or fra’ begli occhi
divisati e dispersi errano in onde;
e crescon grazia a le bellezze illustri
arti neglette, e sprezzature industri.

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119.De le Ninfe del Ciel gli occhi e le guance
considerate, e le proposte udite,
mentr’ancor vacillante in dubbia lance
del concorso divin pende la lite,
più non vuole il Pastor favole o ciance,
più non cura mirar membra vestite:
ma più dentro a spïar di lor beltade
la curïosità gli persüade.

120.«Poi che del pari in quest’agon si giostra,
più oltre» dice «essaminar bisogna,
né diffinir la controversia vostra
si può, se ’l vel non s’apre a la vergogna;
perché tal nel difuor bella si mostra,
che senza favellar dice menzogna.
Pompa di spoglie altrui sovente inganna,
e d’un bel corpo i mancamenti appanna.

121.Ciascuna dunque si discinga, e spogli
de’ ricchi drappi ogni ornamento, ogni arte,
perché la vanità di tali invogli
ne le bellezze sue non abbia parte.»
Giunon s’oppone, e con superbi orgogli
ciò far ricusa, e traggesi in disparte.
Minerva ad atto tal non ben si piega,
tien gli occhi bassi, e per modestia il nega.

122.Ma la prole del mar, che ne’ cortesi
gesti ha grazia ed ardir quant’aver pote:
«Esser vogl’io la prima a scior gli arnesi»
prorompe «ed a scoprir le parti ignote!
Onde chiaro si veggia, e si palesi,
che non solo ho begli occhi, e belle gote,
ma ch’è conforme ancora, e corrisponde
al bello esterïor quel che s’asconde».

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123.«Orsù» Palla soggiunse «ecco mi svesto,
ma pria che scinte abbiam le gonne e i manti,
fa’ tu, Pastor, ch’ella deponga il cesto,
se non vuoi pur che per magia t’incanti.»
Replicò l’altra: «Io non ripugno a questo,
ma tu, che di beltà vincer ti vanti,
perché non lasci il tuo guerriero elmetto?
e lo spaventi con feroce aspetto?

124.Forse che ’n te si noti e si riprenda
degli occhi glauchi il torvo lume hai scorno?»
Impon Paride allor, che si contenda
senza celata, e senza cinto intorno.
Restò l’aspetto lor, tolta ogni benda,
senz’alcuna ornatura assai più adorno.
Sì di se stesse, e non d’altr’armi altere
nel grand’arringo entrar le tre Guerrere.

125.Quando le vesti alfin que’ tre modelli
de la perfezzïone ebber deposte,
e de’ lor corpi immortalmente belli
fur le parti più chiuse al guardo esposte,
vider tra l’ombre lor lumi novelli
le caverne più chiuse, e più riposte;
né presente vi fu creata cosa
che non sentisse in sé forza amorosa.

126.Il Sol ritenne il corso al gran vïaggio,
inutil fatto ad illustrare il mondo,
perché vide offuscato ogni suo raggio
da splendor più sereno, e più giocondo.
Volea scendere in terra a fargli omaggio,
ambizïoso pur d’esser secondo:
poi tra sé si pentì de l’ardimento,
e d’ammirarlo sol restò contento.

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127.Onorata la terra, e fatta degna
d’abitatrici sì beate e sante,
con bella gratitudine s’ingegna
di rispondere in parte a grazie tante.
Di bei semi d’Amor gravida impregna,
e partorisce a que’ begli occhi avante.
Ringiovenì Natura, e Primavera
germogliò d’ognintorno, ove non era.

128.Contro i lor naturali aspri costumi
generàr dolci poma i pini irsuti.
Nacquer vïole da’ pungenti dumi,
fiorir narcisi in su i ginebri acuti.
Scaturir mèle e corser latte i fiumi,
e ’l mar n’ebbe più ricchi i suoi tributi.
Sparser zaffiro i rivi, argento i fonti,
fur d’ostro i prati, e di smeraldo i monti.

129.Lascia il canto ogni augel de la foresta
per pascer gli occhi di sì lieto oggetto.
L’acque loquaci in quella rupe e ’n questa
fermaro il mormorio per gran diletto.
L’aere confuso di dolcezza, arresta
i sussurri de l’acque al lor cospetto.
Trema al dolce spettacolo ogni belva,
e con attenzïon tace la selva.

130.Tacea, se non che gli arbori felici
allievi de la prossima palude,
mossi talor da venticelli amici
bisbigliavano sol, ch’erano ignude.
E voi di tanta gloria spettatrici
sentiste altro velen, Vipere crude,
onde tornando ai vostri dolci amori,
vi saëttaste con le lingue i cori.

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131.Le Naiadi lascive, i Fauni osceni
abbandonano gli antri, escon de l’onde.
Ciascun per far con gli occhi ai bianchi seni
qualche furto gentil, presso s’asconde.
Vegeta Amor ne’ rozi sterpi, e pieni
d’Amor ridono i fior, l’erbe e le fronde.
Ai sassi, esclusi dal piacere immenso,
spiace sol non avere anima e senso.

132.Paride istesso in quelle gioie estreme
non vive no, se non per gli occhi soli.
Tanto eccesso di luce, il miser teme
non la vista, e la vita in un gl’involi.
Sguardo non ha per tanti raggi insieme,
né cor bastante a sostener tre Soli.
Triplicato balen gli occhi gli serra,
un Sole in Cielo, e tre ne vede in terra!

133.«O Dei» dicea «che meraviglie veggio?
Chi de l’ottimo a trar m’insegna il meglio?
Son prodigi del Ciel? sogno, o vaneggio?
Qual di lor lascio? o qual fra l’altre sceglio?
Deh poi che ’nvan, per far ciò che far deggio,
i sensi affino, e l’intelletto sveglio,
in tanto dubbio alcun de’ raggi vostri,
o bellezze divine, il ver mi mostri.

134.Perché non son colui che d’occhi pieno
la Giovenca di Giove in guardia tenne?
Avessi in fronte, avessi intorno almeno
quante luci la Fama ha ne le penne.
Fossi la Notte, o fossi il Ciel sereno,
poi che dal Ciel tanta bellezza venne,
per poter rimirar cose sì belle
con tante viste quante son le stelle.

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135.Qual di santa onestà pudico lume
in quella nobil Vergine sfavilla?
quanto di venerando ha l’altro Nume?
qual d’augusto decoro aria tranquilla?
Ma qual vago fanciul batte le piume
intorno a questa? e che dolcezza stilla?
Par che ritenga in sé dolce attrattivo
non so che di ridente, e di festivo.

136.Ciò però non mi basta, ancor sospeso
un ambiguo pensier m’aggira e move.
Mentr’or a questa, or son a quella inteso,
bramo il sommo trovar, né so ben dove.
S’io non vo’ di sciocchezza esser ripreso,
conviemmene veder più chiare prove.
Fia d’uopo investigar meglio ciascuna,
e mirarle in disparte ad una ad una.»

137.Fa, così detto, allontanar le due
e soletta ritien seco Giunone,
la qual promette lui che, se le sue
bellezze a le bell’emule antepone,
principe alcun già mai non fia, né fue
più di scettri possente, e di corone;
e ch’ogni gente al giogo suo ridutta,
il farà possessor de l’Asia tutta.

138.Spedito di costei, Pallade appella,
che ’n aspetto ne vien bravo e virile,
e patteggiando gli promette anch’ella
gloria, cui non fia mai gloria simile;
e che se lei dichiarerà più bella,
farallo invitto in ogni assalto ostile,
chiaro ne l’armi, e sovra ogni guerriero
inclito di trofei, di palme altero.

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139.«No no, cosa in me mai forza non ebbe
da poter la ragion metter di sotto.
Tribunal mercenario il mio sarebbe,
s’oggi a venderla qui fossi condotto.
Giudice giusto parteggiar non debbe,
né per prezzo o per premio esser corrotto.
Pèrdon di vero dono il nome entrambi,
s’avien che con l’un don l’altro si cambi.»

140.Così risponde, e nel medesmo loco
accenna a Citherea che venga in campo.
Ella comparve, e di soave foco
nel teatro frondoso aperse un lampo.
Da quell’oggetto, incontr’a cui val poco
a qual più freddo cor difesa o scampo,
non sa con pena di diletto mista
l’ingordo spettator sveller la vista.

141.La qualità di quelle membra intatte
quai descriver saprian Pittori industri?
Rendono oscuro e l’alabastro e ’l latte,
vincono i gigli, eccedono i ligustri.
Piume di cigno e nevi non disfatte
son foschi essempi ai paragoni illustri.
Vedesi lampeggiar nel bel sembiante
candor d’avorio, e luce di diamante.

142.«Eccomi» disse «omai fa’ che cominci
a specolar con diligenza il tutto,
e dimmi se trovar gli occhi de’ Linci
sapriano in beltà tanta un neo di brutto.
Ma mentre ogni mia parte e quindi e quinci
rimiri pur, per divenirne instrutto,
vo’ che gli occhi e gli orecchi in me rivolti,
le fattezze mirando, i detti ascolti.

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143.So che sei tal che signoria non brami,
né di scettri novelli uopo ti face,
ch’ad appagar del tuo desir le fami
il gran regno paterno è ben capace.
Da guerreggiar non hai, poi che i reami
e di Frigia e di Lidia or stanno in pace,
né dèi tu d’ozii amico e di riposi
altri conflitti amar, che gli amorosi.

144.Le battaglie d’Amor non son mortali,
né s’essercita in lor ferro omicida.
Dolci son l’armi sue, son dolci i mali,
senza sangue le piaghe, e senza strida.
Ma non pertanto ad imenei reali
denno aspirar le Villanelle d’Ida;
né dee povera Ninfa ardere il core
a chi pote obligar la Dea d’Amore.

145.Ad uom che d’alta stirpe origin tragge,
sposa non si convien di bassa sorte.
Nulla teco hanno a far nozze selvagge,
nulla confassi a te roza consorte.
Cedano a tetti illustri inculte piagge,
ceda l’umil tugurio a l’ampia Corte.
Curar non dee di contadini amori
Pastor fra’ Regi, e Rege in fra’ Pastori.

146.Tu fra quanti Pastor guardano ovili
sei per forma il più degno, e per etate;
ma le fortune tue rustiche e vili
mi fan certo di te prender pietate.
Peregrini costumi e signorili,
pregio di gioventù, fior di beltate
deh che giovano a te, se gli anni verdi
e te medesmo inutilmente perdi?

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147.Perché tra boschi, e rupi, e piante, e sassi
in questa solitudine romita
così senz’alcun pro corromper lassi
la Primavera tua lieta e fiorita?
Perché più tosto a ben menar non passi
in qualche città nobile la vita,
cangiando in letti aurati erbette e fiori,
e ’n donzelle e scudier pecore e tori?

148.Giovinetta sì bella in Grecia vive,
che di bellezza ogni altra Donna eccede;
né sol fra le Corinthie e fra l’Argive
questo publico onor le si concede,
ma poco inferior tiensi a le Dive,
e quasi in nulla a me medesma cede.
Questa agli studi miei forte inclinata,
ama amica d’Amor d’essere amata.

149.Lasciò Giove di Leda il ventre greve
di questo novo Sol, di cui favello,
quando in sen le volò veloce e lieve
trasfigurato in nobil Cigno e bello.
Candida e pura è sì, com’esser deve
fanciulla nata d’un sì bianco augello.
Molle e gentil, come nutrita a covo
dentro la scorza tenera d’un ovo.

150.Ha tanta di beltà fama costei,
tanto poi da l’effetto il grido è vinto,
che Theseo il gran campion s’armò per lei,
e lascionne di sangue il campo tinto.
Chiedeano i felicissimi imenei
d’Argo i Principi a prova, e di Corinto,
ma Menelao fra gli altri il più gradito
parve d’Helena sol degno marito.

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151.Pur se ti cal di conquistarla, e vuoi
con un pomo mercar tanto diletto,
la ricompensa de’ servigi tuoi
fia di Donna sì bella il grembo e ’l letto.
Al primo incontro sol degli occhi suoi
farti di lei signore io ti prometto.
Farò ch’abbandonato il lido greco,
dovunque più vorrai, ne venga teco.

152.Là di Lacedemonia a l’alta reggia
tu te n’andrai per via spedita e corta.
Ingégnati sol tu ch’ella ti veggia,
lascia cura del resto a la tua scorta.
In tutto ciò ch’un tanto affar richeggia,
Amor fido ministro, io duce accorta,
co’ suoi compagni e con le serve mie
la verremo a dispor per mille vie».

153.Qui tacque, e fiamma de’ begli occhi uscìo
atta a mollir del Caucaso l’asprezza,
ond’egli ogni altro bel posto in oblio
a quell’incomparabile bellezza,
sforzato dal poter di quel gran Dio
ch’ogni cor vince, ogni riparo spezza,
baciato il pomo, e ’n lei le luci affisse,
reverente gliel porse, e così disse:

154.«O bella oltra le belle, o sovra quante
ha belle il Ciel bellissima Ciprigna;
foco gentil d’ogni felice amante,
madre d’ogni piacer, stella benigna;
sola ben degna a cui s’inchini avante
l’Invidia istessa perfida e maligna;
se null’altra beltà la vostra agguaglia,
ragion è ben, che sua ragion prevaglia.

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155.Se bene, a sì gran luce umil farfalla,
il più di voi mi taccio, e ’l men n’accenno,
audace il dico, e so che ’n me non falla
dal sentier dritto travïato il senno.
Perdonimi Giunon, scusimi Palla,
gareggiar vosco, o disputar non denno.
Giudico, che voi sola al mondo siate
l’Idea, non che la Dea de la beltate.

156.Basta ben, ch’a la gloria a voi concessa
fu lor dato poggiar pur col pensiero;
né fur lor poco onor, che fusse messa
la certezza in bilancio, in dubbio il vero.
Or di mia bocca la Giustizia istessa
publica il suo parer chiaro e sincero.
L’obligo suo per la mia mano offerto
questo pomo presenta al vostro merto.»

157.Atteggiata di gioia, ebra di fasto
Venere il prende, indi volgendo i lumi:
«Cedetemi l’onor del gran contrasto»
disse ridente ai duo scornati Numi.
«Confessa pur, Giunon, ch’io ti sovrasto,
e ch’a torto pugnar meco presumi.
Né spiaccia a te, Bellona, a vincer usa,
di chiamarti da me vinta e confusa.

158.Pensò l’una di voi di superarmi
per esser forse in Ciel somma Reina.
E credea l’altra con sue lucid’armi
di spaventar la mia beltà divina.
Ma poco vi giovò, per quanto parmi,
opporsi al ver, ch’al paragon s’affina.
E sì possenti Dee vie più m’aggrada
senza scettro aver vinte, e senza spada.

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159.Venite Grazie mie, venite Amori,
vigorose mie forze, invitte squadre.
Incoronate de’ più verdi allori
la vostra omai vittoriosa madre.
Ite cantando in versi alti e sonori,
e rispondano al suon l’aure leggiadre:
Viva Amor, viva Amor, che ’n Cielo e ’n terra
de la pace trïonfa, e de la guerra.»

160.Mentre intento il Pastore ascolta e mira
la bella a cui ’l bel pregio è tocco in sorte,
le due sprezzate Dee vèr lui con ira
volgon le luci dispettose e torte.
Orgoglio ogni lor atto, e sdegno spira,
quasi ruina minacciante, e morte.
Giunon però dissimular non pote
la rabbia sì, che non la sfoghi in note.

161.«Misero, e come del suo proprio velo
il cieco Arcier» dicea «gli occhi t’involse,
sì che de la ragion perduto il zelo,
il bel lume del ver scorger ti tolse?
Te dunque scelse il gran Rettor del Cielo?
Te deputar per Giudice ne volse,
quasi un uomo il miglior de l’Universo,
perché poi si scoprisse il più perverso?

162.Vie più che glorïosa, a te funesta
sarà (sii certo) elezzïon sì fatta.
E sappi pur, che quest’onore, e questa
gloria, che m’abbi al tuo giudicio tratta,
il vituperio fia de la tua gesta,
e l’infamia immortal de la tua schiatta.
Quella istessa beltà malvagia e ria
che fu il tuo premio, il tuo supplicio fia.

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163.Quella impudica e disonesta putta,
che dee con dolce incendio arderti il core,
ancor sarà de la tua patria tutta
e di tutto il tuo regno ultimo ardore.
Caduto Ilio per te, Troia distrutta
(così ferisce, e così scalda Amore)
sarà, de l’armi e de le fiamme gioco,
campo di sangue, e Mongibel di foco.

164.Tempo verrà, che detestando il fato
perch’abbi i rai del Sol goduti e visti,
il sen bestemmierai che t’ha portato,
e l’ora e ’l punto ch’a la luce uscisti.
Il rimorso e ’l dolor de l’esser nato
fia ’l minor mal, che la tua vita attristi.
De l’aver sostenuto un sì vil pondo
farà sol la memoria infame il mondo.

165.Le stelle, che tal peste hanno concetta,
l’aure, ch’al suo natal nutrita l’hanno,
quelle congiureransi a la vendetta,
queste il proprio fallir sospireranno.
Natura, che per te fia maledetta,
t’aborrirà con rabbia e con affanno;
e farà che nel fine albergo e fossa
neghi a l’anima il Ciel, la terra a l’ossa.»

166.Dopo la Dea di Samo, a lui si volta
con cruccioso parlar l’altra più casta,
né la superbia e l’ira al petto accolta
la modestia del viso a coprir basta.
«Lingua bugiarda, e temeraria, e stolta»
dice con fiera man crollando l’asta
«ben si conforma il tuo decreto iniquo
al cor fellone, ed al pensiero obliquo!

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167.Ah così ben distribuisci i premi
preso a vil ésca di fallaci inganni?
Così mi paghi i glorïosi semi
ch’io t’infusi nel cor fin da’ prim’anni?
Che la lascivia essalti, e ’l valor premi,
e ’l Vizio abbracci, e la Virtù condanni?
E per sozza mercé di molli vezzi
Onor rifiuti, e Castità disprezzi?

168.Ma per cotesta tua data in mal punto
sentenza detestabile e proterva,
non vien già la mia stima a mancar punto,
ch’io per tutto sarò sempre Minerva.
Se perdo il pomo, in un medesmo punto
il merto e la ragion mi si conserva,
a te ’l danno col biasmo: e fia ben pronta
l’occasïon di vendicar quest’onta.

169.Sarà questo tuo pomo empio e nefando
seminario di guerre e di ruine.
Che farai? che dirai, misero, quando
cotante ti vedrai stragi vicine?
Pentito alfin piangendo e sospirando,
t’accorgerai con tardo senno alfine
quant’erra quei che dietro a scorte infide,
la ragion repulsando, al senso arride.»

170.Al parlar de la coppia altera e vaga
l’infelice Pastor trema qual foglia,
e de l’audacia sua pentito, paga
il passato piacer con doppia doglia,
la qual ne’ suoi sospir par che presaga
strani infortunii annunzïar gli voglia.
Ma partite le due, Venere bella
söavissimamente gli favella.

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171.«Paride caro, e qual timor t’assale?
S’è teco Amor, di che temer più dèi?
Non sai, che ’n su la punta del suo strale
tutti i trïonfi stan, tutti i trofei?
ch’appo ’l valor che sovr’ogni altro vale
sono impotenti i più potenti Dei?
e che del foco suo l’invitta forza
di Giove istesso le saette ammorza?

172.Quell’unica beltà, ch’io già ti dissi,
ti farà fortunato in fra le pene.
Le chiome, ch’indorar porian gli Abissi,
fian de l’anima tua dolci catene.
Quelle, possenti a rischiarar l’ecclissi
(Idoli del tuo cor) luci serene
ti faranno languir di tal ferita,
ch’avrai sol per morir cara la vita.

173.Sì ben d’ogni bellezza in quel bel volto
epilogato il cumulo s’unisce,
e sì perfettamente insieme accolto
quanto ha di bel la terra in lei fiorisce,
che l’istessa Beltà vinta di molto
il paraggio ne teme, e n’arrossisce;
e d’aver lavorato un sì bel velo
pugnan tra loro e la Natura e ’l Cielo.

174.Or non può sola imaginata l’ombra
de la figura che t’accenno or io,
con quella idea che nel pensier t’adombra,
felicitar per sempre il tuo desio?
Sì sì, sostien’ l’alta speranza, e sgombra
dal petto ogni timor, Paride mio!
Sapendo che d’Amor la genitrice
di tutto il suo poter t’è debitrice.»

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175.A quest’ultimo motto ancelle e paggi,
Grazie ed Amori intorno a lei s’uniro,
e ’l carro cinto di purpurei raggi
spalmando per lo sferico zaffiro,
la portàr da que’ luoghi ermi e selvaggi
sovra l’ali de’ Cigni al terzo giro,
e di par con gli augei bianchi e canori
sen gir cantando, e saëttando fiori.

176.Qual meraviglia poi, ch’alcuno avezzo
i piati a giudicar de’ cittadini
real ministro, per lusinga o prezzo
da la via del dever talor declini,
se ’n virtù sol d’un amoroso vezzo
costui trapassa i debiti confini?
e d’un futuro e tragico piacere
il promesso guadagno il fa cadere?

177.Che non potran la face e l’arco d’oro?
Qual cor non fia da le lor forze oppresso,
se ’l sacro olivo e ’l sempiterno alloro
inducono a sprezzar Paride istesso?
e l’umil mirto ei preferisce loro,
anzi più tosto il funeral cipresso:
poi che ’l suo nome, onde si canta e scrive,
per tante morti immortalato vive? —

178.Tenea l’orecchie il bell’Adone intente
le lodi ad ascoltar di Citherea,
e si gia figurando entro la mente
la bella ancor non conosciuta Dea.
Ma giunti al loco, ove del dì cocente
Clizio sottrarsi al gran calor devea,
dal benigno Pastor tolta licenza,
con pensier di tornar, fece partenza.

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179.Tolto a pena commiato, un caso estrano
(mercé d’Amor, che lo scorgea) gli avenne.
Prese un cervo a seguir, che per quel piano
parve in fuggendo aver ne’ piè le penne;
e poi ch’assai seguito ei l’ebbe invano,
stanco, il passo, e smarrito, alfin ritenne
là dove molto da villaggi e case,
e da gregge e pastor lunge rimase.