I monumenti e le opere d'arte della città di Benevento/Dell'arco trionfale a Traiano/Esame particolare delle sculture dell'arco di Benevento, facciata interna

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9. Esame particolare delle sculture dell’arco di Benevento: facciata interna

../Considerazioni sulla scultura e sui bassorilievi in genere, e su questi dell'arco di Benevento in ispecie ../Esame particolare delle sculture dell'arco di Benevento, sotto il fornice IncludiIntestazione 14 aprile 2023 100% Da definire

9. Esame particolare delle sculture dell’arco di Benevento: facciata interna
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9.° esame particolare delle sculture
dell’arco di benevento


Il Rossi si diffonde a parlare, al capo X, della preminenza dell’una facciata sull’altra del monumento, per desumere quale delle due, se la rivolta alla campagna o l’altra alla città sia la principale; ed egli inclina alla seconda. Tutte le ragioni che svolge per dimostrare il suo asserto poggiano sulla solita vasta erudizione. Chi è vago di apprenderle consulti la di lui dotta opera1. Ma noi non lo seguiremo, per la semplice ragione che non sempre potremo seguir l’ordine da lui tenuto nella illustrazione di ciascun quadro, pur convenendo che le azioni della vita di Traiano comincino a svolgersi sulla facciata interna, rivolta alla città, e che l’artista abbia avuto il criterio di ripartirle in modo che occupassero la facciata alla campagna le azioni riferentisi alle province. È notevole, in appoggio dell’asserto di Rossi, il fatto che le quattro stagioni, raffigurate nei quattro timpani dell’arcata sotto le forme di quattro puttini con gli attributi di quelle, hanno inizio dalla facciata interna, dove sono raffigurate la primavera a sinistra e l’estate a destra dell’osservatore, sapendosi che secondo l’antico stile di Roma l’anno cominciavasi a contare da Marzo. Come è pur vero che le figure dei due bassorilievi sotto il fornice rivolgano le loro facce principalmente alla città, donde sarebbe il loro vero punto di veduta.

Bassorilievi dei timpani. — Nel primo timpano (Tav. X), che è quello della facciata interna a sinistra dell’osservatore, è scolpita una vittoria alata (non una fama, come vuole Rossi) sotto forme muliebri, col sinistro braccio disteso verso la serraglia [p. 59 modifica] [p. 61 modifica]dell’Arco e il destro verso il capitello della prossima colonna, ambo denudati, in atto di spiegare al vento il vessillo trionfale per dinotare l’azione. Le due braccia protese, di cui mancano le mani, dovevan sostenere l’asta del vessillo, la quale fu pure distrutta, solo avanzandone l’estrema punta. Il vessillo è quadrato ed ha una frangia, come il labaro, o insegna imperiale, che era di color porpora con frange d’oro, tempestato di gemme, e si spiegava allora soltanto che l’Imperadore fosse sul campo; in tal caso dal colore lo si appellava anche flamula2. Delle due cosce la sinistra è scoperta quasi per intero, e la destra si nasconde appena sotto un primo velo delle vesti; le quali son formate di una specie di palla senza maniche, trattenuta con fermagli su i due omeri, stretta da un cingolo alla vita e scendente sino a metà delle cosce, e di una lunga stola3, pure priva di maniche, scendente sino ai piedi. Di questi manca il destro, che si staccava dal marmo in tutto rilievo.

Non occorrerebbe maggior disamina della figura, imperocchè il disegno ne mostra in modo chiaro le varie parti; ma, a meglio richiamarvi sopra l’attenzione degli intelligenti, non posso dispensarmi dal farne notare tutte le bellezze. Si osservi, innanzi tutto, la giusta inclinazione di tutto il corpo rispetto alla verticale e l’inflessione proporzionata dell’alta parte del corpo rispetto all’inferiore, il distacco delle due cosce, l’elegante rialzamento della gamba destra, la tensione non forzata, ma libera dell’altra, la elegante posa del braccio sinistro. In questo atteggiamento della persona apparisce naturale che essa si libri a volo. Non v’ha alcuna durezza nelle movenze, nessun contrasto di linea nelle varie membra. Stupende son poi le proporzioni del corpo, che gli svolazzi e i ripiegamenti delle vesti con valente maestria lasciano intendere appieno. Nè meno naturali questi svolazzi e ripiegamenti, che mentre danno risalto alle forme, ne seguono l’impulso in proporzione della lunghezza e del posto. Peccato che il viso, che doveva essere bellissimo, si raffiguri poco per le [p. 62 modifica]sofferte avarie. Ma non per tanto dal profilo s’intuisce tutta la bellezza scultoria della testa dall’elegante acconciatura dei capelli, uniti in nodo artistico all’occipite, e cinti di corona di alloro. Devesi convenire che nell’insieme e nei particolari questa figura tiene molto dell’eleganza greca.

Ai piedi della descritta Vittoria vi è un puttino in rilievo intero, raffigurante la primavera, espressa col simbolo dei fiori, che porta in un vaso fra la mano e il sinistro braccio. È quasi tutto ignudo, e appena sull’omero destro lascia scorgere gli svolazzi di tenue veste, che gli passa per di sotto il braccio nel lato medesimo e si distende per di dietro la persona, sino ad uscire di nuovo nel lato manco. Ha il piè destro disteso innanzi come chi inceda sopra un rilievo del marmo che rappresenta un campo, su cui notasi un serpe svolgentesi dalle sue spire. Questo è anche un simbolo della primavera in cui la natura si ridesta dal torpore iemale. Al putto mancano la mano destra e la parte superiore del volto distrutti dal tempo.

Nel secondo timpano, che è quello a destra dell’osservatore sulla stessa facciata interna (Tav. XI), è scolpita un’altra Vittoria, portante la corona trionfale di alloro, che era assegnata ai grandi guerrieri dopo segnalate vittorie4, per indicare il premio che segue l’azione. Le manca l’asta cui era infissa la corona; e la doveva avere, sia per l’euritmia dell’altra figura, sia perchè la sua mano destra non arriva a toccar la corona. È mancante pure di ambo le mani; come della corona manca quella porzione che presso la serraglia si staccava in alto rilievo dal marmo. Questa figura è pressochè simile alla precedente e di eguale pregio artistico, laonde intendasi qui ripetuto, parola a parola, tutto ciò che feci notare a riguardo dell’altra.

Appiè della Vittoria si vede scolpito un secondo putto, perfettamente ignudo, recante tra la sinistra mano e il braccio un vaso con delle spighe. Ha la destra mancante. Esso incede sopra un campo di grano, le cui spighe con gli steli vedonsi scolpite ai suoi piedi fra la colonna e l’archivolto del fornice. È evidente che questo putto rappresenti l’estate.

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Nel terzo timpano (Tav. XII), che è quello a sinistra di chi guarda, sulla facciata esterna, è scolpita una figura muliebre giacente, con la testa appoggiantesi alla mano sinistra, e col gomito premente un otre o altro utensile, da cui scaturisce acqua. Porta nella destra un oggetto che ben non si ravvisa più che dinoti; ma che probabilmente è un ramo di pianta lacustre. Ha le chiome discinte in due bande, che escono di sotto ad una specie di panno annodato sul fronte e scendono sugli omeri. È denudata sino al pube, donde, sino ai piè, è ricoperta di un drappo, che lascia mostrare soltanto il piede sinistro. Un panneggiamento forma un primo svolazzo presso la serraglia, indi, passando per di sotto il gomito, va ad ondeggiare riccamente per di dietro la testa, donde scende a ripassare per di sotto l’avambraccio destro, e finalmente si dispiega in un terzo svolazzo (oggi interrotto per la rottura del marmo) che termina sin presso il capitello. Sul fondo sono scolpite alcune piante lacustri nei tre spazii lasciati liberi dal corpo e dalle vesti; di sotto la figura appariscono le onde. Meno che per le due piccole cennate avarie, questa figura è quasi intatta, massime nel volto, che si conserva inalterato.

È indubitato che questa rappresenti un fiume, ma nè il Reno, come vorrebbe Rossi5, per indicare la Dacia, nè l’Eufrate, come riporta Isernia6, il quale scambia in questo caso la figura muliebre con l’altra virile del quarto timpano. Più probabilmente questa figura di donna fu messa a rappresentare la fiumana Sargezia, sotto cui Decebalo aveva nascosi i tesori della Dacia, che furono scoperti dalie legioni romane guidate da Traiano7.

Sifilino8 così narra il fatto: «Thesauri Decebali quanquam in Sargetia flumine, non procul a regia eius repositi erant, inventi sunt. Decebalus enim flumine opera captivorum averso, perfossoque alveo, magnam vim argenti aurique, tum preciosissimas quasque res atque delicatissimas, quae conservari poterant, eo congesserat, iisque rebus magnis lapidibus [p. 66 modifica]aggeribusque tectis, flumen pristino alveo restituerat. Praeterea vestes, et alia quae sunt eiusdem generis, abdiderat in speluncas per eosdem servos, eosque peracto negocio iusserat occidi, ne, quod actum erat, patefaceret. Sed Bicilis, socius et familiaris Decebali, cui res erat cognita, captus, hos thesauros indicavit.»

Sapendosi che allora, più che oggi, i bottini militari erano in cima ad ogni pensiero di vittoria, questo fu di certo un grande avvenimento, che colmò Traiano e il di lui esercito di somma allegrezza. Esso, pertanto, non poteva sfuggire all’autore del nostro monumento. Ne avremo una prova migliore nello splendido corteggio trionfale Dacico del fregio della trabeazione.

Se non si voglia accettare questa ipotesi, devesi ammettere che rappresenti il Reno per dinotare la Germania, non mai la Dacia per cui scorreva invece il Danubio. S’inganna Rossi. E allora perchè esprimerlo sotto sembianze muliebri?

Nell’angolo inferiore del timpano vi è il solito puttino, che questa volta rappresenta l’autunno, come indicano l’uva e le altre frutta che reca nella mano sinistra. La destra, che era libera, è rotta. Un mantello gli è annodato sull’omero destro, e scende per di dietro, lasciando allo scoperto tutto il lato destro, e sul sinistro ricoprendo la spalla, il braccio e l'avambraccio, da cui pende con naturalissime pieghe.

Nel quarto timpano, che sta pure sulla facciata esterna (Tav. XIII), vi è una figura, virile con barba intera, in atteggiamento in tutto simile alla precedente, e con la medesima copertura sul capo. Le stesse piante lacustri vi si vedono sul fondo e le stesse onde. È l’immagine di un altro fiume, che Rossi opina sia l’Eufrate a esprimere la conquista dell’Armenia, non rifiutando però interamente l’opinione di coloro che vi scorgono il Danubio per attestare le guerre Germaniche; ma dovrebbesi dire Daciche, giacchè, come ho osservato di sopra, per la Dacia scorreva questo fiume. Sebbene io avessi rilevato dal Bellori9 che in due quadri tondi dell’arco di Costantino tanto il Danubio che l’Eufrate sieno rappresentati da figura virile con barba, pur tuttavia devo [p. 67 modifica] [p. 69 modifica]ritenere che nel timpano di cui ci stiamo occupando sia espresso piuttosto il primo dei due fiumi, giacchè il nostro monumento si riferisce alle azioni di Traiano nella Dacia, oltre a quelle nella Germania.

Ai suoi piedi si vede il quarto putto a raffigurare l’inverno, espresso dalle vesti che lo ricoprono interamente, meno che il volto. Nella sinistra mano porta un animale volatile, a significare che nel verno il pollame e la cacciagione abbondano.

Belle del pari che le vittorie son questi due simulacri di fiumi e nell’insieme e nei particolari, fra cui è degno questo, che mentre la figura virile appoggia il viso alla palma della mano, quella muliebre, con mossa più delicata, adatta al sesso, appoggia appena il fronte mollemente alle medie dita.

Serraglie dell’arcata — Fu accennato che queste son due, a metà dei due archivolti del fornice, l’una dalla faccia interna e l’altra da quella esterna, e ne fu data una descrizione per quanto riguarda la parte architettonica. Fu detto che sulla foglia d’acanto che sorge di sotto la mensola in ambedue poggia una figura muliebre in piedi. Rossi10 opina che la prima rappresenti la Fortuna Reduce, desumendolo da una moneta in gran bronzo da lui posseduta, nel cui rovescio vi è una simile figura con la scritta Fortunae Reduci; e la seconda rappresenti la Fede dell’Augusta consorte di Traiano, Plotina, che ne divise le gioie e i dolori, in pace e in guerra, avendosi da una medaglia di lei nel diritto la scritta Plutina Aug. Imp. Traiani, e nel rovescio l’altra Fides Aug. Sono due belle e dotte interpretazioni dell’eruditissimo autore, che, se anche non vere, meritano tutta la maggiore considerazione.

Isernia11 mette fuori pure che rappresentino la città di Roma e l’Eternità.

Sul serio non si può impegnare una discussione sul riguardo, imperocchè, sventuratamente, sono entrambe le figure mutilate della testa e delle braccia, per cui lor mancano gli attributi che ne dovevano attestare il carattere e il soggetto. [p. 70 modifica]

Dissi al paragrafo 3° che Canina riporta integrato con suo concepimento l’Arco di Benevento. Ora egli dà il disegno restaurato di una delle serraglie, riproducendovi una delle figure con l’elmo in testa, con una palla nella mano sinistra e con una lunga lancia astata nella destra. Se fosse questa la fedele reintegrazione, dovrebbesi convenire che quella figura rappresenti Roma, così solita raffigurarsi, rivolta sulla serraglia esterna alle gloriose imprese del Principe lontano, e sulla serraglia interna intesa ad attenderlo e a riceverlo festante. Questa mia ipotesi si confronterebbe con quelle della città di Roma di Isernia e della Fortuna Reduce di Rossi, tralasciando le altre due dell’Augusta Plotina e dell’Eternità, che sembrano meno sicure.

Riportandoci un momento alla Tav. VII, si osservino la metà del fronte di una serraglia e il suo laterale. Quanta maestrìa, quanta eleganza e bellezza vi si notano, che, meglio della mia penna, manifestano all’occhio dell’artista i disegni citati. Di più si osservi che la ornamentazione a squame del fronte interno delle dette serraglie, al modo delle corazze romane, esprime eziandio il carattere trionfale del nostro monumento; e che da questo devesi rilevare che anche nei più modesti particolari gli Architetti antichi rispettavano il carattere del monumento o dell’edifizio; mentre oggi, per contrario, così facilmente si scambia una decorazione per un’altra, secondo il proprio talento.

Queste serraglie, come quelle dell’Arco di Tito, sono tra i più splendidi esempii dell’architettura romana e di un tipo affatto originale, spiccatamente romano. Esse, una ai capitelli a foglia d’ulivo, ribadiscono sempre più che l’artista romano non fu poi addirittura pedissequo del greco, e, quando volle, seppe affermarsi romanamente12.

Primo quadro grande (sulla facciata interna, il più basso a sinistra dell’osservatore) Tav. XIV.

Questo quadro contiene nove figure ed un fondo architettonico. Occupiamoci innanzi tutto delle prime.

Esse sono disposte in tre piani, tre per ciascuno. In mezzo, [p. 71 modifica]

Tav. XIV.

[p. 73 modifica]nel più alto rilievo, vedesi un personaggio avvolto in maestosa toga e con alti calzari ai piedi, volgente le spalle alla cantonata e la faccia verso il fornice. Benchè il lato destro del suo capo sia stato preso di mira dal più vandalico bersaglio di spietati monelli, pur tuttavia ne restan tali tracce sul lato sinistro, da far discernere che abbia avuto folta e crespa barba, lungo crine cinto di corona di alloro. Manca dell’avambraccio destro, l’unico che gli restava libero, imperocchè tutto il sinistro braccio ha nascosto dietro l’altro personaggio che gli è accanto. Ei poggia il corpo sul sinistro piè, sollevando il destro in atto di muovere incontro all’altra figura che gli vien di fronte, sul margine del quadro. Dal posto principale che egli occupa, dalla disposizione degli altri personaggi e dall’essere questi rivolti quasi tutti a lui, argomentasi subito che ei sia come il protagonista del quadro. Ma è egli Traiano? Mi dispiace che il dotto Rossi13 abbia qui presa una cantonata. Egli non ignorava che Traiano non portò mai barba, come non la portarono i suoi predecessori14, nè lunga chioma; che, se fu robusto ed alto della persona e maturo di età quando fu assunto all’impero15, non ebbe però sembianza virilmente erculea come la dimostra il nostro personaggio. Traiano (lo vedremo negli altri quadri) ha aspetto maestoso, testa venerabile, volto che impone rispetto, capelli corti ed ubbidienti sin sul fronte, volto raso, mansueto, che lo fanno ben distinguere da lungi16.

E allora chi è egli mai? Un magistrato o un sacerdote? Piuttosto il primo. Una figura affatto simigliante alla sua io scorgo pure nel quadro del sacrifizio, sotto il fornice, come vedremo a suo luogo.

Nello stesso pianò del precedente personaggio, alle di lui spalle, vedesi scolpita un’altra figura togata, la quale con la destra sostiene un lembo della toga e con la sinistra un’asta lunga, alla cui cima, ornata di nastri svolazzanti, sta la corona centumvirale di foglie di alloro. Questa figura porta in testa una corona turrita. Benchè sia molto logora per le ingiurie del tempo e degli [p. 74 modifica]uomini, che ne han portato via buona parte del destro lato della testa, pur, da quanto ne avanza, apparisce essere una figura muliebre.

Rossi17 vola in astrazioni poetiche per riguardo a questa figura, che nientedimeno battezza con gran disinvoltura per una matrona, anzi addirittura per Plotina, l’augusta consorte di Traiano, e (quel che più monta) sotto le sembianze di Cibele! Ora egli non avrebbe sì male applicata tanta copia di erudizione in questo punto, se avesse posto mente che la sudetta figura non ha la stola, ma la toga, nè più e nè meno come quella del precedente personaggio descritto; che l’asta centumvirale è portata da lei, non dal vicino personaggio a sinistra, in bassorilievo, che egli battezza per un littore. Vedo sempre più riconfermato il mio criterio che lo studio dei monumenti va fatto sopra i monumenti, non sulle false incisioni. Rossi non sarebbe caduto in sì grossolani errori (e non son pochi), se avesse scritto tenendo dinanzi il nostro Arco.

Io, invece, pur facendo tesoro di tutta l’erudizione di lui18, opino che questa figura personifichi l’amministrazione della giustizia civile, come diciamo noi, tale divisandola la toga, la corona turrita sul capo e l’asta centumvirale, che era proprio dei giudizii dei centumviri19.

La terza figura del maggior rilievo, sul margine interno del quadro, ha nudi tutto il petto e il braccio destro; porta sull’omero sinistro una veste che in abbondanti pieghe gli scende sull’avambraccio sinistro, donde ne pendono varii avvolgimenti, e, di più, gli circonda il rimanente del corpo dalle anche in giù, sin sopra i ricchi coturni, ornati sul lembo esterno superiore di teste di leone e nel rimanente di fiorami. Ha copiosa chioma cinta di un serto di alloro. Il suo volto poco o nulla più si ravvisa. Con la mano sinistra regge una cornucopia riccamente ornata, con entro varie frutta e spighe. Manca della mano destra, ma appare rivolgersi alla figura di mezzo.

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Questo personaggio simbolico è messo a rappresentare l’abbondanza, o più probabilmente l’annona. E Rossi vuole scorgervi a forza Marciana, sorella di Traiano, mentre quel personaggio ha più l’aspetto virile che muliebre.

Fra mezzo ad essa ed al sacerdote o magistrato vedesi scolpito un altro uomo togato, che con la destra sostiene sul petto un lembo della toga, come a volta usiam noi con i nostri mantelli. È tutto intento verso la principale figura del quadro. In esso Rossi vuole vedere Giulio Sesto Africano, collega di Traiano nel consolato, e da questi amato oltre ogni credere; ma con quale fondamento si può accettare tale ipotesi?

Egli è certo che tanto questa figura che le altre cinque sui minori piani rappresentino magistrati o dignitarii, perchè l’indica il loro vestire togato; ma riesce difficile, se non impossibile, congetturare quali personaggi storici rappresentino.

Ho detto che veston tutti la toga i personaggi di questo quadro. Essa era la veste che i romani ponevan di sopra la tunica, e li faceva distinguere affatto dagli altri popoli; onde Virgilio li appella gentem togatam nel verso

Romanos rerum dominos, gentemque togatam.20

Consisteva in una veste di forma rotonda, una specie del nostro mantello, e la si portava in due modi, a seconda la importanza delle persone: o con un largo aggruppamento di pieghe, detto dalteum, intorno alla vita, ed un altro, balteus, scendente dalla sinistra spalla e rovesciantesi al di sopra del primo in guisa da formare una specie di nodo che si diceva umbo, mentre il rimanente covriva in maestose pieghe le spalle e il resto del corpo sin quasi ai piedi; o con un sol gruppo di pieghe, detto sinus scendenti dalla sinistra spalla, passanti per di sopra il petto e ripiegantisi infine per di sotto il braccio destro, per indi ricadere sui piedi in artistici avvolgimenti21. La prima maniera era usata dai più distinti personaggi, la seconda da quelli di minor grado22. [p. 76 modifica]

Di fatti nel quadro presente il personaggio di mezzo e quello che rappresenta la giustizia, alle sue spalle, portano la toga con dalteum, balteus ed umbo, mentre il personaggio che resta tra il primo e la figura con la cornucopia la porta col semplice sinus, ciò che indica il suo minor grado. Così vedremo negli altri quadri che Traiano porta la toga sempre alla prima foggia, e gli altri tutti alla seconda.

Occupiamoci ora del fondo architettonico. Esso è costituito da quattro colonne in basso-rilievo con capitelli corintii, reggenti una trabeazione in alto-rilievo, nel cui fregio sono scolpiti istrumenti e utensili simbolici dei sacrifizii, come a dire vasi, patere, coltelli, teste di ariete, e via via. Fra le due colonne di mezzo scorgesi una porta, che dalle fasce chiodate apparisce rappresentare una porta di bronzo. Una delle due imposte, quella a sinistra dell’osservatore, è alquanto dischiusa, ma non come vuole Rossi che il prossimo personaggio sia per varcarne la soglia, mentre nel fatto le rivolge addirittura le spalle.

Dal modo come è scolpito, questo fondo architettonico evidentemente apparisce essere un pezzo di una maggior fuga di colonne e cornice; per la qual cosa figura siccome parte di maggior monumento, il quale non entrava tutto nel quadro.

Rossi dice che «la scena è aperta nel fondo di una gran piazza, in cui si vede accennato un maestoso tempio o basilica23;» e poi più appresso24 afferma essere la prospettiva del foro Ulpio. Quì, come poco prima e in seguito, egli dice molte cose discordanti ed erronee. Cerchiamo, per conseguenza, di metter le cose a posto.

Pria d’ogni altro, non è a confondere il foro con la basilica e il tempio, le quali son tre cose distinte. Il primo conteneva i tempii e le basiliche, che qualche volta erano isolate, altra fiata unite o accoste ai primi. Poi tra la basilica e il tempio correva moltissimo divario, e per l’uso diverso cui erano destinati e per la parte organica. Nella prima si amministrava la giustizia e si trattava dei pubblici negozii25, mentre il secondo era dedicato esclusivamente al culto degli Dei. [p. 77 modifica]

Per riguardo all’organizzazione poi differivano di gran lunga; imperciocchè la basilica non aveva alcun porticato esternamente, ma lo aveva nell’interno per sostegno della copertura, per la ragione che doveva servire a contenere e riparare i magistrati ed il pubblico raccoltivi per il disbrigo degli affari; laddove il tempio aveva il portico al di fuori, se non tutto in giro, almen sul dinanzi della facciata anteriore26, ivi raccogliendosi solo il popolo, ivi solo praticandosi i sacrifizii, essendo l’interno riservato soltanto ai sacerdoti.

Premesso tutto ciò, il sito dove sono i nostri personaggi non è una piazza, ma l’interno di una basilica; le colonne della quale sono state scolpite sì prossime ai personaggi, in veduta grande e appena in numero di quattro, per la ragione che la poca distanza tra esse e quelli non permetteva che sì breve prospettiva. Se, come opinò Rossi, quel prospetto architettonico fosse esistito nel fondo di una gran piazza, per legge di prospettiva sarebbe stato abbracciato dall’occhio tutto intero, e l’artista l’avrebbe tutto scolpito nel suo quadro. Invece ve ne dovette raffigurar tanta parte quanta per legge di prospettiva vi si conteneva.

Quello sfondo architettonico rappresenta con molta verosimiglianza l’interno della basilica Ulpia, la quale, secondo dissi27, fu una delle maggiori opere fatte innalzare da Traiano su i disegni del suo celebre Architetto Apollodoro; lo dimostra pure l’ordine corintio dei capitelli. Oggi se ne ammirano gli avanzi maestosi dissepolti nel foro Traiano intorno alla celebre colonna coclide. Essa è la prova più splendida che quel Principe amò il pregio artistico delle sue opere più che il numero e la mole. Onde Plinio nel panegirico gli fa vanto di esser parco nell’edificare nuove fabbriche, ma diligente, di non aver fatto scuoter le case e traballare i tempii pel passaggio di immani sassi28, ma pur di avere innalzato splendidi circhi, templi, portici, e in sì breve tempo da far credere piuttosto ad un restauro di esistenti che alla costruzione di nuovi di sana pianta. [p. 78 modifica]

Alla basilica qualche volta s’innestava il tempio, come praticò Vitruvio, il quale alla basilica di Fano innestò il pronao del tempio di Augusto29. E nel foro Ulpio vi era un superbo tempio in onore di Traiano30. Per la qual cosa si potrebbe pure congetturare che quelle quattro colonne e quella porta di bronzo rappresentino il pronao di questo tempio.

Ma, a parte tutto ciò, puossi ritenere con molta probabilità che l’azione si svolge nell’interno della basilica Ulpia. Questa opera, fra le più celebri di quelle erette sotto sì illustre Principe, doveva necessariamente affacciarsi alla mente dell’artista, il quale, per tanto, volle eternarla nel nostro monumento.

Ma l’azione del quadro non è intesa a rappresentare la dedicazione di questa basilica, siccome opinano Rossi e Isernia31, imperocchè vi manca qualsiasi simbolo o particolare che avrebbe dovuto accompagnare questa cerimonia; sì bene è intesa, a parer mio, a compendiare l’amministrazione civile di Traiano, nella quale in prima riga entrano la giustizia e l’annona. A queste due cose portò egli somma cura, come si apprende dagli storici e dal panegirico di Plinio Secondo.

È ozioso rilevare tutti gli altri errori in cui cade Rossi per rispetto a questo quadro, errori che spiacevolmente fan contrasto con tanta copia di erudizione.

Ed ora passiamo a considerare la parte artistica.

Il lettore non si lasci guidare da quel certo sentimento di ripugnanza che assale ogni osservatore alla vista di un quadro mutilato. Egli, invece, cerchi di reintegrare innanzi tutto nella sua immaginazione questo quadro, di completarlo in ogni suo particolare; indi ne esamini l’insieme ed i particolari. Per l’insieme egli noti la saggia disposizione dei personaggi per rispetto ai tre piani in cui sono scolpiti, le relative posizioni, il maestevole intreccio, la grandiosità dello stile; per riguardo ai particolari noti la somma espressione di ciascun personaggio, le loro squisite proporzioni, il panneggiamento grandioso delle toghe.

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Tav. XV.

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Non so comprendere perchè Selvatico dica che questi quadri degl’intercolunni sieno di qualche pregio, e li designi inferiori per merito a quelli dell’attico, quasi che nel nostro monumento si potesse ravvisare il portato di varii stili e di differenti epoche dell’arte. Donde egli abbia tratto questo giudizio non so, ma è giuocoforza convenire sempre più che la critica delle opere d’arte va scritta su di esse direttamente.

Puossi pienamente affermare che questo quadro, meno nei particolari delle pieghe ed avvolgimenti delle vesti, meno nei volti, affatto iconici, nello insieme spiri un’aura di stile greco.

Secondo quadro grande (il più basso sulla facciata interna, a destra dell’osservatore) Tav. XV.

Questo quadro rappresenta l’ingresso in Roma di Traiano, reduce dalla Germania nell’anno 99 dell’era volgare, nella primavera di quell’anno istesso che fu proclamato Padre della Patria32, dopo la seconda salutazione imperatoria avvenuta in Germania. Per chi l’ignorasse, gli eserciti romani ebbero costume di salutare o acclamare Imperatore quel capitano che si era distinto moltissimo in una segnalata azione di guerra; e non una ma più volte concedevan questa alta onorificenza alla stessa persona, donde l’origine che questa dal numero delle salutazioni si appellasse Imp. II. III. IV. ecc.33 All’epoca della dedicazione del nostro monumento già Traiano era stato salutato Imperatore per la settima volta.

Egli venne in Roma chiamato istantemente dai cittadini, cedendo alla carità di Patria, e con tale modestia che gli altri Principi non avevan mai tenuta in simili rincontri: «Iam te civium desideria revocabant, amoremque castrorum superabat caritas patriae: iter inde placidum ac modestum, ut piane a pace redeuntis34.

La commozione del Senato e del popolo di Roma qual ne dovette essere grande, se la descrizione che ce ne ha lasciata Plinio nel panegirico commove ancor noi! «Ac primum, qui dies ille, quo exspectatus desideratusque urbem ingressus es! Iam hoc [p. 82 modifica]ipsum, quod ingressus es, quam mirum laetumque! Nam priores invehi et importari solebant non dico quadrijugo curru, et albentibus equis, sed humeris hominum, quod arrogantius erat35.» Ma Traiano preferì di entrare a piedi, sopravvanzando il popolo soltanto con la sua vantaggiosa statura. Vecchi, fanciulli, uomini e donne, fin con i loro pargoletti lattanti, facevan ressa sul di lui passaggio, lasciandogli appena lo spazio di poter procedere innanzi a stento, o pure gremivano i tetti cadenti sotto il grave peso!

Questo ingresso così maestoso e commovente volle l’artista tramandare ai posteri col suo scalpello, ritraendo il momento in cui l’Imperatore, prossimo alle mura di Roma, sta per entrarvi.

Sulla sinistra di chi guarda è scolpita una porta, della quale sono visibili il pilastro sinistro con base attica, la cornice all’imposta, e l’archivolto sagomato con riquadro mistilineo superiormente. Era la porta Flumentana a capo della via Flaminia, la quale era la via trionfale36? I due primi personaggi sono in atto di varcarne la soglia. Innanzi a tutti, nel primo piano, vengono fuori Traiano, sulla destra dell’osservatore, ed un altro personaggio sulla sinistra, ambo togati, con la distinzione però che feci nella descrizione del primo quadro37, che, cioè, il Principe porta la toga con balteus, dalteum ed umbo, ed il secondo col semplice sinus.

L’osservazione a fare qui, da valere per tutti gli altri quadri ove è raffigurato Traiano, si è che questi è scolpito sempre verso l’estremo esterno del quadro col viso rivolto al fornice e le spalle alle cantonate. Serva di guida per discernerlo meglio in ogni quadro.

Alle loro spalle, in altri tre piani, sono scolpiti dodici littori, quanti era uso averne un console al seguito38, coi fasci di verghe, nel cui mezzo una scure. I primi sono formati di più verghe cilindriche, lunghissime, unite in fascio e trattenute da un nastro che le avvolge ad elica e a cercine. Una di esse è segnata sempre uscir dal fascio verso la punta superiore, dove è un ciuffo di foglie [p. 83 modifica]di alloro; donde il nome di fasci laureati, i quali spettavano a chi era stato salutato Imperatore39. Al fascio è ligato il manico di una scure, la cui lama ornata corrisponde sempre in piano all’altezza del petto. In questa incisione non si scorgono bene nè i fasci, nè le scuri, perchè un po’ maltrattate le figure, ma vedansi nella tavola XVII quelli che porta il personaggio che sta sul margine destro rispetto all’osservatore. Per la legge Valeria fu tolta la scure dai fasci nello interno di Roma, ma si continuò a portarla nelle provincie e in guerra40.

Quindi malamente Rossi distingue in questo quadro i personaggi del seguito in Palatini, Littori, Soldati e Stipatori da un lato, e dall’altro il gruppo della Deputazione Romana. In comprova si osservi che vestono tutti e dodici ad una foggia, cioè colla tunica di sotto e con una sopravveste frangiata, chlamys, che si era usi portare in occasione di guerra, di viaggio o di caccia, e si fermava sulla spalla destra o sulla sinistra o sul petto (come è scolpita nei nostri bassorilievi) con una maglia o fibbia, fibula dei latini41. Quelli dunque sono i dodici littori e con i fasci laureati, essendo Traiano nel medesimo tempo Console e Imperatore.

Si fermi il lettore sul personaggio che sta per varcare la soglia, accosto all’uomo togato, perchè avremo occasione di notarlo anche altrove somigliantissimo di volto. Questi che va innanzi a tutti, presso il Principe e il prossimo personaggio importante, potrebbe essere il primus lictor42.

Dissi che i due personaggi (non tre come vuole Rossi) che vengono innanzi col più alto rilievo del quadro sono entrambi togati; di essi quello a destra dell’osservatore rappresenta Traiano con la mano destra distesa verso l’altro, il quale pure col gesto della mano destra lo invita ad entrare nell’alma Roma, ove il popolo e il Senato ansiosi l’attendono. I loro gesti spiegano in modo chiaro l’argomento che si svolge. L’azione drammatica vi è così viva che apparisce di una realtà palpabile. È questa la maggior caratteristica del bassorilievo romano. [p. 84 modifica]

Rossi, che malamente vi scorge due figure togate, oltre quella dell’Imperadore, crede che esse sieno quelle dei consoli di quell’anno Senecione e Palma; ora, limitati ad un solo, il lettore scelga fra essi, ove ve ne sia alcuno rappresentato. Ma, quale esso sia, egli è certo un personaggio importante.

Un’osservazione speciale su questo quadro si è che l’artista, per dar risalto alle figure che son messe in quattro piani, e per trovarsi con l’aggiustamento del vivo della facciata nell’intercolunnio, ha fatto ricorso al partito di sgusciare il marmo al di sopra delle teste dei personaggi; il che produce un effetto ottico favorevole, per via delle ombre proiettate in quell’incavo, come di uno sfondo di prospettiva.

Questo quadro, come il precedente che abbiamo esaminato, per essere troppo basso e più a tiro dei monelli, fu molto danneggiato. Nessuna delle figure conserva più le mani; i volti sono deformati, massime quelli di Traiano e dell’altro togato. Non per tanto, però, puossi ancora ravvisarvi, oltre la stupenda maestria dell’azione viva, già rilevata, il partito ricco delle pieghe e degli avvolgimenti delle vesti, le proporzioni e le naturali inflessioni del corpo, le spontanee movenze. Nessun artificio, nessuna esagerazione si scorge sia nello insieme che nei particolari d’ogni figura. Tutto ciò seduce l’occhio dello intelligente.

Terzo quadro grande (il secondo sulla facciata interna, a sinistra dell’osservatore, al di sopra dell’imposta del fornice) Tav. XVI.

Una delle maggiori glorie civili di Traiano si fu quella di aver resa la giustizia accessibile a tutti; e anche nelle cause in cui fosse interessato il fisco la garenzia più ampia fu data al più modesto cittadino43. Agitandosi in quel tempo una delicata e difficile quistione intorno ai codicilli del testamento di certo Giulio Tirone, che in parte eran ritenuti veri, in parte falsi, i di costui eredi avevan pregato Traiano, quando era ancor nella Dacia, di trattar personalmente questo affare, essendo accusati delle falsità Sempronio Senecione, cavaliere Romano, ed Euritmo, procuratore e liberto dell’Imperadore. Tornato Traiano, e villeggiando a [p. 85 modifica]

Tav. XVI.

[p. 87 modifica]Centocelle, dove in quel torno di tempo si costruiva il famoso porto omonimo, egli che aveva costume di avvicendare gli ozii con le cure di governo, non mancava di amministrarvi giustizia. Vi chiamò a consiglio anche il diletto amico Plino Secondo44 per trattarvi, fra le altre cause, questa di Tirone.

In tale frattempo alcuni degli eredi, per rispetto di Euritmo, che credevano protetto dal Principe, avevan ritirata l’accusa; ma Traiano se ne adirò e vi si oppose, stimando che il sospetto sarebbe rimasto su di sè, non meno che sul liberto. Degli eredi allora rimaser due soli, i quali chiesero doversi trattar la causa con l’intervento di tutti, altrimenti essi pure si sarebbero ritirati. Se non che Traiano, accusandoli di calunnia, li obbligò a giustificarsi separatamente sulle ragioni del non trattarla.

Questo che, fra i tanti, fu segnalato atto di indipendente giustizia resa da questo immortale Principe, onde Plinio ne fece particolare menzione nella sua lettera citata all’amico Corneliano, l’artista pensò di tramandare sotto forme sensibili ai posteri nei marmi del nostro munumento.

L’azione di questo quadro si svolge in tre piani nel seguente modo. Tre figure sono nel più rilevato piano; delle quali quella a sinistra dell’osservatore con la solita toga, con dalteum, balteus ed umbo, che ho già descritta, parlando del primo quadro, e con i coturni ricamati e fregiati, rappresenta Traiano, con la destra, che manca, protesa verso gli altri due togati, e con un rotolo di carte nella sinistra, al cui anulare ha un anello. Le altre due figure rappresentano i due eredi, di cui si è fatto cenno. Essi han pure la toga, ma col semplice sinus, i piedi calceati, la sinistra mano intesa a reggere un lembo della toga e la destra distesa verso il Principe, in atto di chi espone le sue ragioni. Queste due figure sono più basse delle altre, non per le ragioni svolte da Rossi, ma per lasciare meglio scorgere il personaggio e l’insegna che è loro alle spalle, partito che vedremo adottato pure nell’altro quadro alla tavola XVII.

Di questi due eredi quello in mezzo al quadro è presentato da una donna, la quale, premendogli la destra mano sul petto e [p. 88 modifica]rivolgendo la faccia a Traiano, è in espressivo atto di raccomandarlo al magnanimo Principe. Essa ha sul capo un diadema turrito, forato sul fronte, sopra di copiose chiome, una veste che le scende sino al piede, stretta alla vita e trattenuta sull’omero destro da una fibula, lasciando denudati il collo e tutto il destro braccio al quale porta un bracciale. Rossi vuol vedere in essa Marciana, ma io, a dire il vero, propendo più per Plotina, giacchè e la sua posizione nel secondo piano, anzi che nel terzo, e la sua veste più lunga, più seria, dell’altra figura muliebre, che le è alle spalle, e la corona più regale che ha sul capo, e l’atto della clemente intercessione presso il Principe più si convengono a lei come sovrana; la sua voce maggiore influenza che quella di Marciana doveva esercitare sull’animo di lui, per quanto egli le avesse amate di pari affetto45.

Alle spalle di lei, nel terzo piano vi è l’altra figura muliebre, cinta pure di corona, la quale però, a differenza di quella dell’altra, non è turrita, ma liscia sul convesso del cercine, ondulata sull’orlo superiore, e più alta sul fronte che di dietro. Ella porta una veste corta sino ai ginocchi, stretta da un cingolo alla vita, e rovesciata verso le anche; ha le gambe sin sopra il ginocchio denudate; ai piedi porta alti coturni allacciati e fregiati; sulle spalle sostiene una elegante faretra. È rivolta pure a Traiano. Questa figura, la quale è in evidente abito di Diana, io opino sia Marciana, non Plotina, per tutte le ragioni svolte di sopra. Essa ha la mano destra alzata, che si scorge di sopra la testa di Traiano, con il pollice e l’indice dischiusi e le altre dita serrate; non già, come dice Rossi, che vi tenga una piccola e leggiera lancia. Forse con tale atto allude ai due eredi, dei quali par che patrocinasse la causa, ravvisandosi che ella è rivolta e intenta tutta al Principe.

Di dietro alla figura di Traiano sono tre altre, una nel secondo piano e due nel terzo, tutte e tre armate dei fasci delle verghe e vestite di tunica e di chlamys affibbiata, al solito, sul petto. Sono evidentemente tre littori. Isernia vede Plinio in una quarta figura che non esiste alle spalle di Traiano; e lo stesso Rossi [p. 89 modifica]

Tav. XVII.

[p. 91 modifica]vorrebbe ritener per Plinio quella immediatamente dopo Traiano, mentre quel distinto uomo avrebbe dovuto essere raffigurato sotto più nobili vesti, con la toga, e non avrebbe dovuto portare i fasci laureati delle verghe. Lo stesso Rossi gli fa portare una lancia che non ha.

Nell’angolo destro del quadro (sempre rispetto all’osservatore), nel terzo piano vi è un ultimo personaggio togato, che dai capelli e dalla corta barba riccia Rossi stima essere Adriano. Ma io non ve lo raffiguro, imperciocchè questo Principe era più elegante della persona, di volto più gentile, meno virile. Le sue sembianze le noteremo stupende e vive nelle tavole XVIII e XXVI. Piuttosto, se Plinio prese parte in questa causa, come egli ci ha tramandato, non potrebbe quella esser la sua figura? Questo personaggio, come Marciana, ha la mano destra alzata con il pollice e l’indice dischiusi, e con la sinistra regge una lancia con lunga asta.

Dinanzi a lui, e in atto di leccar la mano di uno dei due eredi, è un cane, in una posa che mentre è naturalissima, esprime il doppio concetto che quelli son due estranei, che i cani sogliono d’ordinario annusare quando entrano in casa altrui, e che si è in campagna.

Tra l’uomo dalla barba e Plotina vedesi scolpita una specie di insegna o labaro con l’asta infissa a terra e con cinque aquilotti sull’asticciuola orizzontale. Sembra che la rappresentazione di questo quadro sia manifesta, imperocchè Marciana in abito di Diana, il personaggio armato di lancia, il cane accennano che si è in campagna, a Centocelle, dove Traiano trovava il suo maggior diletto nella caccia; e i due togati che vengono presentati a Traiano e le altre particolarità descritte fanno veder chiaro che si tratti della causa degli eredi di Tirone.

Sono degni di considerazione in questo quadro la espressione sicura d’ogni personaggio, il giudizioso loro intreccio, le corrette linee, il profilo elegante delle due matrone, la squisitezza del braccio e della mano destra di Plotina, quella del ginocchio e della gamba sinistra di Marciana, la naturalezza del cane. Composizione, disegno ed esecuzione accurata vi si accordano mirabilmente. [p. 92 modifica]

Quarto quadro grande (sulla facciata interna, nell’intercolunnio, a destra dell’osservatore, in corrispondenza del precedente) Tav. XVII.

Questo quadro è il meno interpretato da Rossi, come vedremo, e quello, per conseguenza, che ha richiesto il maggiore studio. Egli, di fatti, lo battezza per l’adozione di Traiano da parte di Nerva; vedremo che è tutta una chimera. Ma, pria di tutto, fa mestieri descrivere il quadro.

Dodici figure lo compongono, distribuite in tre piani. Nel primo, sulla destra, cioè verso la cantonata, emerge maestosa la figura di Traiano, più maestosa ancora che nel quadro precedente, per la più favorevole posizione della persona, la quale, presentando tutto il dinanzi del corpo e il sinistro lato scoverti, lascia scorgere meglio la grandiosità della toga. Quivi l’artista ha lavorato di genio, porgendoci uno dei più splendidi esempii di ricco panneggiamento, con giochi di pieghe e risvolti per quanto complessi e difficili, altrettanto naturalissimi. L’artista ci ha dato un capolavoro d’arte e la prova più sicura che quest’abito doveva imporre rispetto nella sua grandiosità ai vinti46. In pari tempo da questa figura di Traiano apparisce tutta la maestà della sua persona quale gli storici ce l’han descritta47.

Egli è in atto di stender la destra al prossimo personaggio che gli si fa incontro nel mezzo del quadro, nel primo piano. Questi è pure togato, ma con la toga men grandiosa, cioè della seconda maniera48, e stende la mano diritta al Principe. Sventuratamente tutti e due i personaggi hanno rotta la man destra, e non può scorgersi il meglio dell’azione.

Alle spalle del precedente sono due altri personaggi, togati al modo stesso, ma l’uno nel primo, l’altro nel secondo piano. I due più prossimi a Traiano hanno viso più giovanile, col mento coverto appena di tenue barba; mentre il terzo, sul margine estremo del quadro, nel primo piano, ha volto più maturo e barba più appariscente. [p. 93 modifica]

Questi tre personaggi sono più bassi di tutti gli altri che sono scolpiti nel lato destro, per lasciare scorgere le figure dei numi che si vedon sull’alto delle loro teste. Dato il sistema del bassorilievo romano, della rappresentazione in più piani, non fa meraviglia che l’artista abbia dovuto far ricorso a siffatto espediente per lasciare scorgere le figure posteriori dei numi.

Fra Traiano e il primo dei tre descritti personaggi spicca nel secondo piano la figura di un littore, che ha moltissima somiglianza con quella del primus lictor descritto nel quadro XV49; soltanto che nel quadro presente è meglio conservato, e quindi lo si distingue assai più. Ha una fisonomia molto marcata, con ricce fedine; i capelli egualmente ricci, ondulati, terminanti come una corona o cresta sul fronte, al modo stesso che si osserva nella citata figura del quadro XV. Egli porta di sopra la medesima chlamys frangiata stretta da fibula sul petto, e di sotto la medesima tunica sino a covrire il ginocchio. Con la sinistra mano sostiene il fascio solito delle verghe. Questa figura è bellamente scolpita sia nell’insieme che nei particolari; e in comprova notisi la perfezione del volto, iconico nella più vera espressione, la notomia perfetta della gamba destra e del relativo ginocchio, la viva azione drammatica. È una figura che par si mova, tanta è la vita che spira dal suo insieme e dai suoi particolari.

Non par dubbio che l’artista volle raffigurare sotto tali spoglie in ambo i quadri un personaggio storico.

Così pure è degno di considerazione il littore che è alle spalle del Principe sul lembo del quadro per la stupenda precisione delle linee del volto, d’un verismo, che ha tutti i caratteri d’un vero ritratto. La incisione non lo fa scorgere più chiaro per ragione delle ombre; ma è di una bellezza e conservazione singolari.

Altri tre littori scorgonsi appena di profilo nel minor rilievo del marmo, e di essi non val conto occuparsi di proposito.

Per contrario, meritano il maggiore studio ed esame le tre figure di numi sul fondo del quadro, dal lato sinistro dell’osservatore. Tutte e tre poggiano su una specie di roccia, che si [p. 94 modifica]ravvisa distintamente scolpita sul lembo sinistro del quadro e per di sotto le vesti dei tre personaggi togati che son di rincontro a Traiano dallo stesso lato sinistro.

Quella di mezzo rappresenta Ercole in piedi, tutto nudo. Sull’omero sinistro ha la pelle del leone Nemeo, che gli cade per di sopra il braccio sinistro, la cui mano è rotta. Con la destra sosteneva la nodosa clava, ora spezzata una colla mano stessa. Gli cinge il crine un serto di quercia. Ha folta, corta e irsuta barba, robusto corpo, ampio torace, come conviensi a tal nume: Pingitur ergo tanquam vir robustus, clavam dextra manu gerens, et indutus exuvias leonis, quem interfecerat, Nemeaei50. Del resto è così comune la sua figura per tante statue sue e medaglie e monete con la sua effigie, che non val proprio affannarsi per raffigurarlo nel personaggio in esame.

Alla sinistra di Ercole ergesi un altro nume, nudo dalla cintola in su, con drappo che gli scende dall’omero sinistro e gli avvolge la parte inferiore del corpo dall’ombelico in giù. Tiene il braccio destro levato in alto in guisa da toccarsi con la mano il capo, che ha cinto di un serto di alloro. Le sue sembianze molto giovanili e delicate, i capelli annodati alla foggia muliebre lo fanno apparire per una Venere. E di aspetto muliebre appariva anche al Rossi, il quale poi si studia di dimostrare che sia invece Apollo. Occorre soffermarci un tantino. Egli è vero che Apollo fu rappresentato quasi sempre sotto aspetto giovanile e con crine disciolto, onde ebbe a dire Tibullo51:

Solis aeterna est Phaebo Bacchoque inventa:
Nam decet intonsus crinis utriumque Deum;

egli è vero che in molte statue e medaglie si vede Apollo con chioma lunga e disciolta; egli è vero che Montfauçon52 mi [p. 95 modifica]fornisce l’esempio di un Apollo del museo del cardinale Ottoboni rappresentato con simile chioma e con la identica posa della mano destra sul capo; ma non è men vero però che in questa stessa statua e in altre apparisca almeno uno dei simboli di questo nume. Lo stesso Montfauçon53 asserisce: Il n’y a pas un seul de ces symboles qui ne se trouve dans quelque monument. E manca appunto alla figura che stiamo esaminando ogni attributo di Apollo. E poi, se questo nume crinitus pingitur, et ob promissos capillos dicitur intonsus54, non puossene inferire che addirittura il crine di Apollo debba scambiarsi con quello delle donne.

La figura che vado esaminando ha addirittura l’acconciatura muliebre, con le trecce ritorte ed annodate, laonde non può sembrar dubbio che non sia quella di una donna.

Il cennato Montfauçon55 nel discorrere di Apollo se afferma che sovente notasi l’effigie di questo nume con la man sulla testa, non nega per tanto che anche per Bacco si riscontra tal fiata lo stesso; e nel dimandarsi che possa significar quest’atto del posar una mano sul capo, opina che esso nei monumenti romani sia il simbolo o della sicurezza ottenuta o della sicurezza dimandata. Ed aggiunge ancora: Securitas personifiée par les romains etoit fort souvent exprimée par une femme qui porte la main sur la tête: ou la voit ainsi sur plusieurs medailles des empereurs.

Io insisto sulla mancanza di qualsiasi attributo di Apollo nella figura che stiamo esaminando, giacchè non mi sembra che l’artista avrebbe dimenticato così leggermente di scolpirvi uno degli attributi proprii di questo nume, mentre nell’effigie degli iddii che vedremo in altri quadri di questo monumento egli non li ha omessi affatto.

Da ultime mi decido ancora più a pensare che questa figura sia di donna e non di uomo, scorgendo che le altre due hanno il pube scoverto, ed Ercole con verismo abbastanza spiccato, e questa l’ha coverto dal drappo che le scende dall’omero sinistro, per una tal quale pudicizia muliebre. E pure quasi tutte le statue [p. 96 modifica]ed immagini di Apollo ce lo mostrano nudo affatto, a cominciare dall’Apollo di Belvedere.

Il serto di lauro alla chioma della nostra figura potrebbe significare che essa sia una Venere vincitrice, tanto comune nelle monete e nelle antiche medaglie56.

E se pure questa figura non rappresenta Venere, può ritenersi, sulla opinione del Montfauçon, che sia quella simbolica della sicurtà ottenuta.

Nè minori difficoltà presenta l’altra figura che è scolpita alla destra di Ercole, sul lembo estremo del quadro. Essa è distesa sul masso di roccia che descrissi di sopra, col corpo nudo dalla cintola in su, e con drappo che le involge le cosce, per quanto apparisce nel breve intervallo tra le teste dei due ultimi personaggi togati. Si appoggia sul gomito destro alla roccia che le fa da cuscino. Ha il petto e le braccia molto virili, come ben si scorge dalla incisione istessa; ha il crine intonso, folto; e scorgesi che abbia avuto anche un serto, probabilmente di alloro, giacchè il tempo l’ha danneggiato alquanto. È imberbe affatto. Attorto al braccio destro, sotto di cui esce un lembo del drappo, ha un grosso serpe, di cui stringe la testa con la mano; e con la sinistra, ora rotta per il distacco dei pezzi di marmo, reggeva un’ancora, una vera e precisa ancora, che Rossi dice non saper cosa sia, perchè non fece osservazione al monumento direttamente. Ma io ho esaminato la figura del quadro proprio dappresso, e mi son convinto che è un’ancora, tal quale è figurata in molti monumenti e medaglie romani, e come si scorge sovente sul rovescio dell’asse romano57.

Per una conoscenza molto imperfetta di questa figura del nostro monumento Rossi asserisce, sull’autorità del Montfauçon, che sia quella di Giove Axur, perciò imberbe; e di fatti quest’autore58 cita degli esempii di Giove imberbe. Ma io, senza entrare in una disquisizione molto intricata, che non sarebbe della mia [p. 97 modifica]competenza, fo soltanto osservare che nei quadri che andremo in seguito ad esaminare la figura di Giove è meravigliosamente scolpita, e che non saprei trovar ragione sufficiente perchè l’artista avrebbe dovuto in questo quadro cambiar rappresentazione al nume massimo.

Io opino che se Rossi avesse meglio osservato il nostro monumento nel suo essere, ed avesse scorto l’ancora e la mancanza dell’aquila, dello scettro o asta della di lui divinità e dei fulmini, (i quali attributi tutti mancano non per la vetustà del marmo che li abbia corrosi, come egli asserisce, ma perchè mai non si sognò l’artista di scolpirveli) avrebbe anch’egli diversamente stimato.

Io penso che piuttosto questa figura simboleggi Apollo. E mi conforta in tal pensiero la capigliatura abbondante e intonsa, propria di lui, il serpe, simbolo della salute e della medicina, non discompagnato sovente da lui59, a cominciare dall’Apollo di Belvedere. Oltre a ciò fuvvi Apollo Pizio, detto così non tanto dal serpente pitone che uccise, quanto da una espressione greca che dinota interrogazione votiva e vaticinio, essendo stato ritenuto egli il primo che abbia dati i responsi60. È a canoscer pure che il serpe si trova eziandio con la figura di Mitra, che non era altro che il sole dei Persiani61.

Resta a spiegar il simbolo dell’ancora. Apollo venne anche appellato Delio dall’isola di Delo, ove egli nacque62, e l’ancora potrebbe esprimere la stabilità di quell’isola, insieme a quella dell’impero romano63, significando l’ancora stabilità e fermezza64.

Ma, sia Apollo, sia una figura simbolica, egli non par proprio possibile che questa rappresenti Giove, come vorrebbe darci a credere Rossi.

Ed egli partiva, credo io, da un preconcetto, dalla [p. 98 modifica]supposizione che questo quadro rappresentasse l’adozione di Traiano da parte di Nerva, la quale avvenne appunto innanzi il pulvinare di Giove65: ante pulvinar Iovis Optimi Maximi adoptio peracta est. Ma, a meno che l’artista non avesse voluto commettere un anacronismo, egli è da ricordare che l’adozione avveniva essendo Nerva in Roma e Traiano in Germania66, tanto che di proprio pugno l’adottante scrisse all’adottato lontano: Telis Nerva tuis lachrymas ulciscere nostras. E poi, se questo fatto avvenne in Roma, mentre Traiano, il protagonista, rattrovavasi in Germania, sarebbe stato meglio raffigurarlo sulla facciata esterna, dove vedremo in altro quadro espresso l’annuncio che fu recato di questo avvenimento e dell’esaltazione all’impero.

Ma l’ipotesi dell’adozione non regge neppure per la ragione che nel quadro in esame manca totalmente la figura di Nerva, con la quale Rossi scambia con inesorabile leggerezza nientedimeno che l’altra del primus lictor, lungamente da me descritto di sopra.

Allo stesso modo non fa bisogno che io mi dilunghi a rilevare e a combattere tutte le altre inesattezze del precitato autore, in quanto che esse emergono dal confronto della mia con la sua descrizione del quadro.

Secondo il mio modesto giudizio questo quadro esprime uno degli atti più solenni compiuti in Roma dal Senato a favore dell’immortale Principe, dopo il di costui ritorno dalla Germania; o la partecipazione del titolo di Padre della Patria o dell’altro ancor più sublime di Ottimo, per cui tanta eloquenza dispiegò Plinio nel suo Panegirico67, sorreggendoci l’opinione di Muratori il quale ritiene che quest’ultimo titolo fu conferito prima della spedizione in Armenia, con tutto che Dione dica il contrario68.

Di vero, i tre personaggi togati qui non potrebbero essere che tre senatori, il primo dei quali doveva porgere al Principe qualche cosa, come un atto o decreto del Senato.

Al proposito notisi che la mano del Principe, dal moncherino che ne avanza, sembra più disposta a prender qualche cosa dalle [p. 99 modifica]altrui mani che a consegnarla, e l’aspetto dell’Imperatore più inteso a ringraziare dell’atto solenne, che si compie a suo riguardo.

La presenza delle tre deità avvalora la mia ipotesi. Ercole fu dio tutelare della famiglia Ulpia69; e poichè il suo nome in greco deriva da era (nome di Giunone) e cleo (gloria); quod nimirum, ipsius virtutem ac gloriam illustravit Iunonis odium et iniuria; tantoque gloriosius illustravit, quanto periculis illum maioribus obiecit, et pluribus, eius fortitudinem ac patientiam, laboribus exercuit70; e poichè sopra tutti i mortali egli eccelse, sembrò convenevole, anzi necessaria all’artista la presenza di tal semidio nel quadro per le prodigiose vittorie riportate da Traiano sopra i Germani e i Daci.

Così la figura di Venere vincitrice risponderebbe ad un concetto analogo, se non pure a quello della sicurtà ottenuta per aver debellato Decebalo, il principale nemico di Roma, e aver data saldezza all’impero. E l’ancora in mano ad Apollo esprimerebbe la stabilità ottenuta dall’impero stesso per opera di Traiano e mercè la sapienza e prudenza di costui espresse dal simbolo del serpe.

Il lettor che sia vago di meglio approfondire questa intricata quistione può trovar nelle ipotesi messe innanzi da me il sostrato dei suoi maggiori studii e della maggior competenza.

Pria di lasciar questo quadro, non posso trasandare di dire che le figure dei tre numi sono scolpite con la maggiore perfezione e il migliore stile. Son dolente che le piccole dimensioni della incisione e le ombre non ne possano far vedere meglio i particolari.

A questo punto sento pur l’obbligo di far menzione di alcune incisioni antiche del nostro Arco, fra cui parte di quelle di Teresa del Po, che dissi71 non aver potuto rinvenire. Devo alla gentilezza dell’erudito Sig. Vincenzo Colle De Vita e dei suoi figli l’averle potute osservare, conservandosi da essi, ma disparate72, insieme al manoscritto, pure incompleto, del fu [p. 100 modifica]Monsignor De Vita sulla spiega dei quadri del nostro grandioso monumento.

Queste incisioni lasciano molto a desiderare, massime dal lato della fedeltà. E quasi sempre i quadri sono stati incisi a rovescio. Mi recano sorpresa maggiore quelle di Teresa del Po, le quali portano scritto a piè: Teresa del Po, Accad. Romana scul.; perchè sono le meno rispondenti al vero. Se Ella fu quella valente artista73 che si dice, io non so comprendere la ragione di tante licenze, che tradiscono la verità.

In una delle sudette incisioni, che rappresenta l’ultimo quadro da noi esaminato, la figura di Apollo è rappresentata tener nella sinistra una lira, laddove vi è per contrario l’ancora.

Quinto quadro grande (dell’attico sulla facciata interna, a destra dell’osservatore) Tav. XVIII.

Come fondo alla scena di questo quadro sono scolpiti un tempio ed un Arco trionfale. Del primo appariscono due colonne con capitelli corintii sostenenti la trabeazione e il frontespizio che si vede tutto intero. Nel fregio sono scolpite insegne guerresche e di sacrifizii, e nel timpano i fulmini di Giove; fra le due colonne, immediatamente sotto la trabeazione, è scolpita una porta colle imposte di bronzo, come quelle che vedemmo nel quadro XIV. Questo edifizio rappresenta indubitatamente il tempio di Giove. A fianco di esso, sulla sinistra dell’osservatore, è scolpito un arco di trionfo, di cui scorgesi nella tavola un solo dei pilastri, il quale è scanellato, ed ha la cornice di imposta formata di astragalo, fregio e cimasa a guisa di capitello dorico. L’arco, che è ad un sol fornice, ha il suo archivolto modinato ed una cornice di coronamento; nei due timpani a fianco dell’archivolto porta scolpito due vittorie, delle quali quella verso il tempio soltanto si vede intera e porta il labaro o insegna imperiale, come la vediamo scolpita nel nostro Arco trionfale, mentre l’altra vittoria verso l’estremo del quadro è perita per la rottura del marmo. Rossi vorrebbe vedervi, ma con poco fondamento, piuttosto una porta della reggia, anzichè un arco trionfale. In fondo di esso è scolpita una parete a bugne, accennante ad altro edifizio.

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Tav. XVIII.

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Nove figure, ripartite in tre piani, entrano in azione. Delle tre che sono in maggior rilievo, la prima a destra dell’osservatore in maestosa toga col dalteum, il balteus e l’umbo come l’abbiamo osservata nei due ultimi quadri, è ad evidenza quella di Traiano. Ha la destra mano, che è rotta, distesa verso il primo degli altri due personaggi, i quali portan la toga col semplice sinus, hanno la man destra distesa verso l’Imperadore e nella sinistra tengono un rotolo. Sicuramente questi son due Senatori.

Nel secondo piano, alla destra di Traiano, è una figura di militare in veste eroica, cioè con maglia stretta al corpo, riccamente ornata sulla pancia, con un cordone che ne stacca il gonnellino, il quale nella parte superiore è adorno di due ordini di grosse squame semicircolari ornate, e nella maggior lunghezza di sotto ha delle bandelle strette con ricca frangia alle punte, sotto della quale apparisce appena una specie di camicia, che forse era quella che dicevano indusium o interula o subucula, se pure non era la tunica interior 74.

Al di sopra del descritto abito porta il paludamentum o mantello dei generali, aggruppato in ricche pieghe sul petto, fermato con una fibula sull’omero destro, e ricadente alle spalle sino ai polpacci delle gambe. Queste ha nude dal ginocchio ai calzari o coturni allacciati sul dinanzi. Questo suo abbigliamento risponde affatto a quello di molte statue di imperatori Romani75 e fu tolto ai greci. La sua testa, che è tra le meglio conservate, è quella di un giovane con corta barba e capelli crespi. È il fedele ritratto di Adriano, come ho potuto ricavare da alcune monete che conservo di lui. Egli fu il primo fra gli Imperadori romani che abbia portata la barba: Adrianus primus barbam nutrivit76.

Questa figura è di una bellezza molto significante, uno dei pezzi scultorii più pregevoli del nostro monumento; a cominciare dal volto che è di una espressione mirabile, fin nelle pieghe del corrugamento della fronte, dal collo che è scolpito con gran maestria senza alcuna durezza o sforzo di torsione, a finire ai ginocchi ed alle gambe, la cui notomia, i cui muscoli sono rilevati [p. 104 modifica]con molta arte. Proporzionatissimo ne è tutto il corpo, naturalissima la posa, come di chi inceda verso Traiano. Di questa figura, come di altre più importanti del monumento e di alcuni particolari di esso darò delle incisioni in maggiori dimensioni, allorchè le impalcature dei prossimi restauri mi permetteranno rilevare altri disegni e fotografie.

Da questa scultura apparisce viva la figura di questo Principe che fu bello di volto e di corpo, intelligentissimo, eruditissimo e quasi enciclopedico; che riunì virtù e vizii grandissimi, e si macchiò della uccisione del celebre Architetto Apollodoro, di quest’uomo che aveva dirette tante opere insigni sotto di lui e di Traiano. Ecco che dice di lui Sesto Aurelio Vittore77: «Hic Graecis litteris impensius eruditus, a plerisque Graeculus appellatus est. Atheniensium studio, moresque ausit non sermone tantum, sed et caeteris disciplinis, canendi, psallendi, medendique scientia, musicus, geometra, pictor, fictor ex aere vel marmore proxime Polyclentos et Euphranoras». Ma più d’ogni altro si dilettava di architettura, e per gelosia di quest’arte dicesi abbia fatto morire Apollodoro.

A destra di Adriano, nello stesso piano è una figura muliebre, che esce di sotto l’arco. In testa ha la corona turrita come la figura della giustizia nel XIV quadro, e come suole portarla Cibele; e sotto di quella porta altra corona di alloro. Lucano, nella Farsalia dice: Turritaque premens frontem matrona corona. Ha le ricche chiome annodate sulla nuca, con un ciuffo che le scende sciolto sull’omero destro. Porta una lunga veste regale, forse la palla, con strascico, stretta alla cintura e con la manica riccamente pieghettata e annodata con bottoncini sulla parte esterna. Essa, all’abbigliamento ed alla fisonomia, si rivela di alto legnaggio, ma non puossi decidere se sia Plotina, moglie di Traiano, o Sabina, pronipote di questi e moglie di Adriano.

Ella poggia la man destra sulla spalla di quest’ultimo; e quest’atto molto familiare farebbe piuttosto inclinare a credere si tratti della seconda. Però non devesi omettere che Plotina nutrì grande amore per Adriano, il quale a lei dovette la successione all’impero78. [p. 105 modifica]

Alle di lei spalle in bassorilievo sono scolpiti due personaggi di giovanile aspetto, dei quali appariscono soltanto le teste. Altre due figure di littori, con i soliti fasci di verghe laureati e la scure sono scolpite alle spalle. Di quella verso il mezzo, fra le teste di Traiano e di Adriano, apparisce una sola gamba con ricca calzatura; e in essa Rossi vede il Prefetto del Pretorio Saburano. Ma, o questi o altri, egli è certo che debba rappresentare qualche cosa di più che un ordinario littore, volendo aver riguardo alla sua ricca calzatura, la quale non è portata da nessun altro dei littori scolpiti nei varii quadri del monumento.

Rossi traduce l’azione che si svolge in questo quadro per l’ingresso di Traiano alla reggia nell’anno 99 dell’era volgare, allorchè questi tornò dalla Germania. Ma tale ipotesi non mi par giustificata. Se nel quadro XV abbiamo indubitatamente riscontrato l’ingresso di Traiano in Roma, non sembrami ben pensato che l’artista abbia voluto ripeter due scene del medesimo atto, l’una dinanzi la porta di Roma e l’altra in prossimità della reggia, dinanzi il tempio di Giove Capitolino. E v’ha di più. Per lo meno l’artista avrebbe dovuto mettere queste due scene l’una appresso l’altra immediatamente; mentre, al contrario, sono intermezzate dal quadro XVII. Nè questa è osservazione lieve, giacchè in seguito mostrerò che vi ha sempre una certa armonia, un certo ordine fra la disposizione dei quadri su ambo le facciate.

Tenendo presente la tav. 28 dell’atlante del Bellori,79 la quale si riferisce ad una delle più belle sculture dell’Arco di Costantino in Roma, ma tolte a quello di Traiano80, trovo moltissima analogia tra essa e il quadro presente del nostro monumento. Come nel quadro che stiamo esaminando, in quello dell’Arco di Costantino vi ha il tempio e l’arco di trionfo, l’uno a fianco dell’altro, soltanto che nel secondo il tempio ha quattro colonne corintie, in luogo di due. Ciò non vuol dir nulla, perchè in un bassorilievo riportato dal Montfauçon81 vedesi lo stesso tempio Capitolino a due colonne, come nell’arco di Benevento con la [p. 106 modifica]scritta nel fregio: Iovi Capitolino; e lo stesso autore attesta82 che ben di rado in simiglianti opere d’arte gli scultori hanno scolpite tutte le colonne dei tempii. Allo stesso modo notasi una certa diversità tra l’arco scolpito nel nostro e quello scolpito nel monumento di Costantino. Sono diversità di particolari, cui l’artista non si atteneva con molta fedeltà.

Però, nell’insieme, han questi due quadri molta analogia. Quello di Roma è designato per l’ingresso di Traiano in quella città dopo il primo trionfo Dacico; ed io inclino a credere che lo stesso possa pensarsi del nostro.

Si sa da Dione83 che Traiano, dopo avere per alcun tempo dimorato in Roma da quando vi era pervenuto come sovrano, si affrettò a muover guerra ai Daci: Traianus autem cum Romae aliquandiu commoratus esset, in Dacos cum exercitu proficiscitur. Ed aggiunge lo stesso autore che Traiano, sottomesso Decebalo, ritornò in Italia conducendo i legati di costui, per confermare la pace dinanzi al Senato, e che per questa vittoria si ebbe il trionfo e fu appellato Dacico. Le parole dello storico son queste: «His confectis rebus, Traianus in Italiam revertitur. Tum legati Decebali intromittuntur in Senatum, depositisque armis, iunctisque manibus more servorum, pauca supplices loquuntur: dein confirmata pace arma recipiunt. Eoque facto Traianus de Dacis triumphavit, et Dacicus cognominatus est.»

È da presumersi da un lato che l’artista non abbia potuto dimenticare questo fatto solenne tra i memorabili dell’illustre Principe, e dall’altro che, volendo seguire il crescendo delle vittorie Daciche, abbia divisato di raffigurare in questo quadro la prima vittoria Dacica, e di scolpire da indi nel fregio il maestoso trionfo delle più splendide vittorie della seconda guerra contro Decebalo.

Riconfermano maggiormente la mia ipotesi l’arco di trionfo e il tempio di Giove scolpiti nel quadro, non meno che la presenza dei Senatori.

E quanto io più penso a tale ipotesi mi si affaccia alla mente [p. 107 modifica]un altro particolare non men degno d’osservazione: abbiam visto che su questo lato destro della facciata interna del monumento si sovrappongono tre quadri, i quali successivamente esprimono l’ingresso di Traiano in Roma all’assunzione al trono, l’appellativo di Padre della Patria, il primo trionfo Dacico, cioè tre azioni che si riferiscono ai fatti militari di lui; e che sull’altro lato, il sinistro, si sovrappongono due quadri riguardanti l’amministrazione civile; e vedremo che il sesto quadro si riferisce a fatto della famiglia, e quindi neppur militare. Dunque l’artista ha avuto il preconcetto di rappresentare le azioni civili da un lato e le militari dall’altro.

Sesto quadro grande (dell’attico, sulla facciata interna, a sinistra dell’osservatore) Tav. XIX.

In questo quadro Rossi vede rappresentata l’apoteosi di Marciana, sorella di Traiano. Come fondamento alla sua ipotesi stanno varii fatti, principalissimo l’amore che l’imperatore nutrì per lei, e l’affetto che la strinse con Plotina, di lui moglie. Questo affetto ebbe a sostrato la squisita educazione e la eccelsa bontà d’animo delle due illustri donne, le quali doti Plinio tratteggia stupendamente nel suo panegirico a Traiano:84 Soror autem tua, ut se sororem esse meminit! ut in illa tua semplicitas, tua veritas, tuus candor agnoscitur! ut, si quis eam uxori tuae conferat, dubitare cogatur, utrum sit efficacius ad recte vivendum, bene institui, aut felicier nasci.

Per tanto amore che portava alla sorella Traiano intitolò da lei Marcianopoli una città della Misia. E che Marciana fu deificata dal fratello trovasene un documento nell’arco a Traiano in Ancona, dove leggesi scritto nell’attico, a fianco dell’iscrizione dedicatoria a Traiano, l’altra: Divae Marcianae Aug. Sorori Aug. Traiano aveva deificato pure suo padre adottivo Nerva.

Questo della deificazione, per uso tramandato ai Romani dai Greci85, era un atto che si compiva fra molte cerimonie solenni, sia per ragion politica sia per alta manifestazione dell’affetto verso gli augusti congiunti. Da prima fu riserbato soltanto agli imperatori, ma poi passò anche ad onorare i loro augusti congiunti e [p. 108 modifica]parenti86. Adriano deificò pure la zia Plotina, l’augusta moglie di Traiano, della quale il Montfauçon riporta una statua87 con la scritta Diva Plotina sul fronte del plinto.

Nel nostro bassorilievo non è raffigurato l’atto dell’apoteosi, cioè la funzione della consacrazione, come vorrebbe Rossi, che l’immagina a torto nel Campo Marzio, quando non v’ha nel quadro nessuno sfondo di prospettiva; ma sibbene l’apoteosi stessa, cioè l’assunzione all’Olimpo fra la compagnia degli Dei. La fantasia degli artisti o il volere degli imperatori faceva variare il modo di rappresentazione di quest’atto; per cui talvolta vedesi scolpito il sacrifizio deificatorio, tal’altra la immagine del deificato che vola agli empirei, e tal fiata, come nel nostro marmo presente, il divinizzato già pervenuto fra il consorzio dei celesti numi.

L’azione è svolta con sette figure, ripartite in due piani, tre nel più alto e quattro nel più basso. La prima a destra dell’osservatore, sotto le sembianze di Giunone, secondo Rossi sarebbe Marciana, in ricco e maestoso abbigliamento muliebre, più che negli altri quadri del monumento si possa scorgere. Un lembo della sopravveste le copre il capo, su cui posa pure una specie di piccolo diadema. Ella, rivolta con la testa verso la prossima figura, ha la destra mano ripiegata sul petto, come in atto di accennare a sè stessa, e la sinistra occupata a ritenere un’asta, di cui avanzano una porzione ch’ella ha stretta fra la mano e l’altra, sormontata da una pina, sull’alto del quadro.

La statua della Diva Plotina riferita di sopra e riportata dal Montfauçon è in atteggiamento presso che simile.

Esaminando molte incisioni di quest’autore, si trova molta simiglianza tra questa figura e quelle di Giunone e di Vesta, onde non sembrerebbe poter decidere quale delle due dee possa meglio raffigurare; tanto più che lo stesso autore88 asserisce che molto sovente esse si confondano e si stenti a distinguerle.

Un aspetto più che regale spira dal tutt’insieme di essa, da farla parer proprio compresa del momento e del luogo solenne. È una delle più bene intese figure del monumento per le giuste [p. 109 modifica]

Tav. XIX.

[p. 111 modifica]proporzioni, per la naturalezza della posa, per la stupenda maestria delle pieghe delle vesti, per la sorprendente espressione; in breve, per tecnica e per sentimento insieme.

Alla di lei destra è Giove, l’Ottimo Massimo del tempio Capitolino, quasi tutto nudo, e con una picciola veste, il pallio della divinità, che scendendogli dall’omero sinistro, e ripiegandoglisi intorno il fianco, gli pende sino a mezza gamba fra una perfetta struttura di pieghe, le quali lasciano trasparire le sottoposte curve del corpo, massime della coscia e del ginocchio destro. Denudati ha quasi tutto il torace, l’addome e il destro braccio; e in queste parti del suo corpo, scolpite con rara maestria, lascia ammirare delle forme fortemente virili. Folta e ricciuta ha la barba come i capelli, trattenuti quest’ultimi da un diadema formato da un semplice nastro ligato sull’occipite, come sovente trovasi in molte sue figure89.

È rivolto a Marciana, cui porge con la destra la folgore, sotto forma di un tizzo fiammeggiante ai due estremi90, quasi in atto di comunicarle lo spirito della Divinità, e nella sinistra sostiene un’asta lunga con pometto alla punta, affatto simile a quello rotto di Marciana. Ai piedi ha sandali ricamati, allacciati con nastro. Il padre degli Dei e degli uomini è raffigurato tal quale vien descritto91 e lo si riscontra più spesso negli antichi monumenti.

Nel tutt’insieme la figura di Giove in questo quadro è un capolavoro di arte scultoria.

Rossi ha voluto vedere rappresentata sotto queste sembianze lo stesso Traiano; ma non ci vuol molto per persuadersi che abbia affatto errato; imperocchè questo Principe nè nel nostro monumento, nè altrove è mai scolpito con la barba, che non portò mai, perchè ci dice Dione, come vedemmo92, che Adriano fu il primo degli imperatori Romani che se la lasciò crescere. E di fatti, svolgendo cronologicamente la serie dei ritratti degli [p. 112 modifica]Imperatori Romani, riscontrasi subito che Traiano e tutti i predecessori sono imberbi, Adriano e i suoi successori sono barbati.

Nello stesso piano delle due descritte figure è quella di Minerva, alla destra di Giove. Essa sulla copiosa chioma annodata al di dietro della testa porta un ricco elmo con visiera, sormontato da una sfinge quadrupede alata che regge un cartoccio o voluta crinite. Così riscontrasi sovente scolpito l’elmo di questa Dea93.

La sfinge alata sull’elmo è la Tebana, che rese l’oracolo a Edipo; e sull’elmo di Minerva è il simbolo della prudenza, necessaria nell’arte della guerra94.

Ha ricchissima e lunga veste (talare instita senza maniche) che le lascia al nudo le braccia; e sulla sinistra spalla un mantello o palla, che appena si scorge. Sul petto ha la corazza o lorica o egida a squame, propria di questa Dea, ornata di una treccia, fermata sulla spalla destra da una fibula, e passante per disotto la cinta che le stringe la veste, e poi ripiegantesi per disotto il fianco sinistro. Al di sopra delle mammelle ha un ricco fermaglio ornato con testa di Gorgone. Regge con la destra mano una lancia astata, e la sinistra ha ripiegata sul petto con graziosissima movenza. Nelle parti nude delle braccia e del volto e nelle grandiose pieghe delle vesti, non che in ogni minimo particolare, questa Minerva è un gioiello d’arte.

Alle spalle dei sudetti tre personaggi sono in un sol piano, altre quattro divinità, Ercole, Bacco, Cerere e Mercurio, ciascuno con i suoi attributi. Dell’Ercole con la pelle Nemea sulla spalla sinistra e la clava levata nella man destra, sono ammirabili la virile testa con riccia chioma e crespa barba e la coscia, il ginocchio e la gamba destra, sole parti visibili, d’una notomia stupenda, massime il ginocchio. In esso vuol vedere Rossi la figura di Adriano, così come in quella di Giove vuole scorgere Traiano; ma queste son due ipotesi che non rispondono affatto al vero. Tra la testa di Adriano esaminata nel quadro precedente e questa di Ercole vi ha tal differenza quanta ne può passare tra un [p. 113 modifica] giovane di venti anni e un uomo di cinquanta, senza che poi vi sia alcun tratto di rassomiglianza.

Bacco, di cui apparisce soltanto la testa giovanile imberbe tra quelle di Minerva e di Giove, ha il crine ornato d’una corona d’edera, con grappoli d’uva, e nella sinistra regge il tirso sormontato da una pina di foglie di lauro e ornato di nastri. Ai piedi ha alto coturno ornato.

Segue Cerere in ricca e lunga veste muliebre, con serto di spighe di grano e diadema sul capo, nella sinistra mano reggendo una face. La si ravvisa bene, leggendo la descrizione della sua immagine «statura procera, conspicua, maiestate venerabilis, spicea cidari cingente caput; … praeferens dextra facem accensam95»; soltanto vi ha di divario che ella reca qui la face nella sinistra mano. Quindi s’inganna Rossi che in lei vede una sacerdotessa intesa alla funzione dell’apoteosi.

In fine, ultimo vedesi Mercurio, dal petasus o cappello alato, dal ricco pallio che appena si scorge dietro il corpo di Minerva, e dal caduceo ofitico, simbolo di pace96, che regge con la sinistra. Mercurio aveva il compito di accompagnare le anime dei defunti all’Inferno ed ai Campi Elisi97; e qui sta a fare lo stesso ufficio, cioè a introdurre Marciana alla presenza di Giove.

Rossi afferma che questo quadro sorpassi tutti gli altri del nostro monumento per la sublimità del disegno e dell’effigiato; ma vedremo che, per quanto sia grandioso per inventiva, per composizione, per disegno e per esecuzione, questo non è neppure il primo del nostro celebre Arco.

Note

  1. Op. cit. capo X.
  2. Luigi Vaslet, Introduzione alla scienza delle antichità romane, Napoli MDCCCI, Dom. Sangiacomo, pag. 42. — Aula, Antiquitatem romanorum epitome, Neapoli MDCCLXXVIII, apud Vincentium Ursinum, parte prima, pag. 222.
  3. Vaslet, op. cit. pag. 111.
  4. Vaslet, op. cit. pag. 49. — Aula, op. cit. parte 1a pag. 240.
  5. Op. cit vol. I. num. 35.
  6. Op. cit. vol. I. pag. 367.
  7. Rossi e Isernia, luoghi ora citati.
  8. Compendio di Dione, nella vita di Traiano.
  9. Giov. Pietro Bellori, Veteres Arcus Augustorum etc........, Romae 1690, ad templum sanctae Mariae de Pace.
  10. Op. cit. vol. I. pag. XXXIV.
  11. Op. cit. vol. I. pag. 368.
  12. Melani, Decorazione e Industrie Artistiche (Manuali Hoepli) vol. I. pagina 103.
  13. Op. cit. numeri 1024 e 1025.
  14. Sifilino, Comp. di Dione, nella vita di Traiano.
  15. Plinio, Paneg. a Traiano, Cap. IV.
  16.  Idem Idem Idem
  17. Op. cit. Cap. XXXI, num. 1026.
  18. Op. cit. numeri 1021 e 1022.
  19. Aula, op. cit. parte Ia pag. 173, nota 64.
  20. Eneide— L. I. verso 286.
  21. Vaslet, op. cit. pag. 107.
  22. Chi è vago di approfondire tali cognizioni consulti Aula, op. cit. parte 2a pag. 2 e seq.
  23. Op. cit. num. 1015.
  24. Ivi.
  25. Aula; op. cit. parte 1a pag. 19.
  26. Quatremère de Quincy, op. cit. vol. I. pag. 210 — Vitruvio trad. del Viviani, cit. giunta 1. del libro V.
  27. Paragrafo 5.
  28. Panegirico a Traiano Capit. LI.
  29. Vitruvio lib. V. Cap. I.
  30. Durand, op. cit. vol. II. pag. 30.
  31. Luoghi ora citati.
  32. Rossi, op. cit. cap. V. e VI.— Plinio, paneg. cap. 20 e seg.— Muratori, Annali d’Italia, nella vita di Traiano.
  33. Aula, op. cit. parte 1a pag. 239.
  34. Plinio, Panegirico, cap. XX.
  35. Plinio, Panegirico, cap. XII.
  36. Vasi, op. cit. vol. I. pag. 14— Rossi op. cit numeri 187 e 191.
  37. Pag. 75.
  38. Vaslet, op. cit. pag. 19.— Aula, op. cit parte 1a pag. 113.
  39. Aula, op. e luogo ultim. cit.
  40. Vaslet, op. cit. pag. 19.— Aula, luogo ultimo citato.
  41. Vaslet, op. cit. pag. 110.
  42. Aula, op. cit. vol. 1° pag. 163.
  43. Plinio, paneg. cap. XXXVI o seguenti.
  44. Plinio, epist. XXXI. libro VI.
  45. Plinio, paneg. cap. LXXXIV.
  46. Plinio, paneg. capo LVI.
  47.  id. id. capo IV.
  48. Vedi a pag. 75 di quest’opera.
  49. Pag. 83 di quest’opera.
  50. Rituum qui olim apud romanos obtinuerunt succinta explicatio ad intelligentiam veterum auctorum facili methodo conscripta a G. H. Nieupoort, Neapoli MLCCXCI, pag. 231.
  51. Lib. 1. eleg. 4, v. 23.
  52. L’antiquité expliquée, a Paris, MDCCXIX, tom. 1., parte 1, tav. XLIX, fig. 4, e pag. 101.
  53. Alla pag. 100, parag. 1. del luogo citato.
  54. Romanum museum etc. opera et studio Michaelis Angeli Causei, Romae MDCCXLVI, tom. 1. pag. 7, tav. 8.
  55. Supplement au livre de l’antiquité expliquée, tom. 1. pag. 80 e seg.
  56. Paolo Pedrusi, i Cesari in argento, tom. 3. tav. XXI, fig. II. e opera cit. Romanum Museum Michaelis Angeli Causei, tom. I. tav. 40.
  57. Vedi: tav. C della 1. parte del vol. 1. dell’opera citata del Montfauçon, e tav. XLVIII, fig. 7 del 3. vol. del supplemento alla stessa opera.
  58. Luogo ultimo citato.
  59. Vedi: Montfauçon, op. cit. tom. 1. parte 1. tav. XLIX, fig. 2; id. id. tav. LII fig. 1; id. supplemento, tom. 1. tav. XXXI, fig. 4.
  60. P. Francesco Pomey, Pantheum mythicum, seu fabulosa deorum historia, ecc. Lugduni, MDCLIX, pag. 37.
  61. Montefauçon, op. cit. Tom I. pag. 370.
  62.  id. id. pag. 35.
  63. Museum Odescalchum, etc. Romae MDCCLI, tom. 1. pag. 3.
  64. Pedrusi, i Cesari in oro tom. 1. pag. 249.
  65. Plinio, paneg. cap. 8.
  66. Sifilino, compendio di Dione, nella vita di Traiano.
  67. Cap. LXXXVIII.
  68. Opere e luoghi citati.
  69. Raffaele Fabretti, della colonna Traiana, Roma MDCXC, pag. 172 e seg.
  70. Pantheum Mythicum, etc. op. cit. del P. Francesco Pomey, pag. 289.
  71. Paragr. 2. pag. 20.
  72. L’album che le contiene è intitolato: Arcus Traiano dedicatus Beneventi porta aurea dictus sculpturis et mole omnium facile princeps. Romae, MDCCXXXIX. Expensis Francisci de Ficoronis.
  73. Bernardo de Dominici, Vite dei Pittori, Scultori ed Architetti Napoletani, Napoli, tipog. Trani, 1844, tom. IV. pag. 310.
  74. Vaslet. op. cit. pag. 111.
  75. Montfauçon, op. cit. vol. IV, tav. II. pag. 19 e seg.
  76. Sifilino, Comp. di Dione, nella vita di Traiano.
  77. Sex. Aux. Victoris Epitome, Amsterodami, 1630, pag. 260.
  78. Muratori, Annali d’Italia, vita di Adriano; e Sifìlino, Comp. di Dione, nella vita dello stesso.
  79. Op. cit.
  80. Vedi quest’opera pag. 11.
  81. Op. cit. tom. IV. tav. XIII.
  82. Luogo ultimo citato pag. 28.
  83. Sifilino, op. cit. nella vita di Traiano.
  84. Capit. LXXXIV.
  85. Montfauçon, op. cit. vol. V. pag. 163.
  86. Vaslet, op. cit. pag. 120 e seg.
  87. Op. cit. vol. III. p. 1. tav. XVI. fig. 3.
  88. Tom. 1. pag. 55 e 60.
  89. Montfauçon, op. cit. tom. I, tav. IX, fig. 3; tav. X, fig. 4 e 6; tav. XI, fig. 14; tav. XII, fig. 10; tav. XV, fig. 1, e seg.
  90. Montfauçon, op. cit. tom. I. pag. 34.
  91. Pantheum Mythicum, etc. op. cit. pag. 11 e seg.
  92. Sifilino, compendio di Dione, nella vita di Traiano.
  93. Montfauçon, op. cit. tom. I, tav. LXXXI, fig 3.
  94.  idem op. cit. tom. II, pag. 315 e seg.
  95. Pomey, op. cit. pag. 178.
  96. Montfauçon, op. cit. tom. I, pag. 127
  97.  idem op. cit. tom. I, pag. 127.