Il secolo che muore/Capitolo XVII

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Capitolo XVII

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Capitolo XVII.

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— Umanità, tu non vali la corda che t’impicchi; — noi abbiamo lasciato Fabrizio, il quale così bestemmiava contro gli uomini, come già Bruto un di maledisse per disperazione contro la virtù; pero, quantunque la procella rimescolasse l’anima del primo come quella del secondo, bisogna confessare che troppo erano diverse le cause, le quali avevano condotto ambedue al doloroso passo.

Fabrizio sortiva dalla natura talento, non ingegno; diiferentissime doti fra loro; pure anche col talento si fanno cose egregie, ma a patto che il cuore lo sovvenga a conseguire nobili aspirazioni. I diplomatici quasi tutti possiedono talento; non mi è occorso alcuno che abbia ingegno. [p. 104 modifica]

Gli onorati studi pertanto praticaronsi da Fabrizio, come una carta geografica, la quale gli avrebbe insegnata la strada per arrivare al tempio dove Dio è Mammone. L’eccessivo presumere di sè lo rese vano, ed è di angustia grande considerare quanto la vanità possa a piegare verso terra anime uscite di mano alla natura, divine per indole. La vanità, oltre a fecondarli, salda insieme i pessimi istinti. Il giovane, il quale arroga di aver messo il tetto, in breve vedrà demolito quel tanto ch’egli si aveva con lunga fatica fabbricato. Fin qui i nostri costumi, o pari in tutto, o diversi poco da quelli di Francia, ond’ella cadde in miserabili rovine, e a noi non è concesso risorgere. Piaccia a Dio che i concetti magnanimi e il sangue generoso non sieno stati sparsi invano; ma intanto ne sgomenta uno sfinimento mortale. Vedete se l’anima della massima parte della gioventù italiana non vi sembra adesso una spugna tuffata nelle turpitudini francesi. Da anni ben lunghi la Francia è fatta acquitrino di gente rotta ad ogni libito; colà furono assegnati nomi onesti alle infamie, eleganze alle oscenità, e perfino sembiante di amore patrio al tradimento; quivi troverai l’assassino che allieta gli ozi forzati del carcere scrivendo poesie con penna intinta nel sangue; — e il pudore mandato a scuola da pubbliche meretrici; banchieri i quali vissero a Corte, perchè non erano incatenati in [p. 105 modifica] galera: colà volteriani che vanno alla messa, atei papisti; repubblicani smanianti per una delle tre monarchie che li ha nerbati come servi della pena; da un lato delirano per la uguaglianza, dall’altro spasimano per la febbre di croci, siano pure quelle dello Sperone di oro, o dell’ordine Piano; amatori sviscerati della umanità, e al punto stesso credenti, che la natura li fornì di calcagno unicamente per pestare il collo dei loro fratelli di umanità. — Le lettere diventate bordello; poeti e prosatori, invece di darsi la mano a chiudere la tetra sentina, e a calatafarla, onde non se ne spanda il fetore, pretendono costringere le Muse a rimestarla, ed essi ci tuffano bocciuoli di canna, e per la Europa diffondono le laide bolle, che si attentano battezzare per libri: tutto costà sa di ebbro, sa di matto e di feroce ancora, ma il matto prevale. Le Muse, sdegnate, gli sguardi torcono e il passo dal paese imbastardito; per la quale cosa agli oratori colà sembra arringare, e cicalano; ai poeti immaginare sublimi fantasie, e gonfiano le gote; i guerrieri di Francia si crederebbe che sieno venuti in Italia a scuola da Lamarmora per imparare a perdere; i politici hanno appreso per ispirazione (dacchè maestri non no potevano avere) l’arte di convertire gli amici in inimici, e di stringere forte con le proprie mani le leghe potenti a cancellare da un punto all’altro la Francia dal novero delle nazioni. [p. 106 modifica]

Satura di queste mal’erbe (respingendo dagli occhi le lacrime e la passione dal cuore) miriamo un po’ adesso quale si mostri la massima parte delle generazioni che sono venute dopo di noi: odia più della morte la onorata parsimonia: agonizzante per la pecunia, che valga a spingerla nel mare magno della lussuria, dove rompono inevitabilmente salute e fama.

Solo che Maometto promettesse di trasportare in Italia il paradiso che riserva ai suoi devoti nell’altro mondo, anche a patto della circoncisione, la nostra gioventù si farebbe turca. Essa vorrebbe dare ad intendere di dividersi in cultrice della libertà e in cagnotta della tirannide; non le badate; da un canto la riarde astio di stomaco vuoto, dall’altro la travaglia flatuosità della indigestione dei rilievi cascati dalla mensa regia. Agguantatela, una dopo l’altra buttatela su la stadera: qual diversità riscontrate nel peso? Tutta temeraria, tutta insolente, tutta parimente corrotta: per ragioni ha vituperi, per dottrina obbrobri: calunniosa e maligna, simulatrice e dissimulatrice, impronta, temeraria; rôsa dalla invidia, non si potendo inalzare fino agli austeri cittadini, unico vanto d’Italia, si arrabatta ad abbassarli fino a lei:

E nequitosa li persegue, e fuga
Con schiamazzo infinito, e con suo testo
Di lordura macchiato e pian di ruga,
E lo irrequieto suo stridere infesto,

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Timidi e pochi amici aggiunge al vero
E al vivere civil sempre è molesto.1

Le voci distinte confonde in accordo quando si tratta d’inneggiare ghiottornie, lascivie e stravizi, onde s’imbestia la vita. Catoni quando non possono farla da Aristippi, cinici sempre. Leggete le scritture loro: dove la virilità dei concetti? dove il prudente discutere? dove il solerte investigare? Invece di sentenze, motti da taverna; sensi da far vergogna al bordello.

E pure il sentire generoso, gli studi sapienti, il forte operare e le parole sante, indispensabili alla conservazione delle repubbliche, appaiono necessarie alla impresa, piuttosto che umana, divina, di rigenerare un popolo e cavarlo dal sepolcro per riporlo in soglio.

E se così argomentasse la gioventù italiana, i versi eccelsi di Francesco Petrarca, che fino ad ora vagarono per la Italia cercando un luogo dove fermarsi, troverebbero sede nella fronte di lei:

Che puoi drizzar s’io falso non discerno
In stato questo popol doloroso
Quanto ti fia glorioso
Dir: gli altri l’aiutâr giovane e forte,
Questi in vecchiezza lo salvò da morte.

Peggio che ingiustizia sarebbe negare che molta, non tutta, di questa gioventù adoperò ferocemente [p. 108 modifica] lo mani, e le paia gran vanto avere rivendicato la Patria dalla insolenza francese: gl’italiani non si battono; ma oggimai chi dà retta ai francesi? Noi però dobbiamo avvertire che anco i gladiatori combattevano ferocemente: talora costretti, spesso volontari, per campare vita breve e infame consentivano a uccidere e ad essere uccisi, e morendo pigliavano atteggiamento scenico per libidine di plauso: tanto ai morenti, quanto ai superstiti cotesto rumore pareva gloria! Le armi solo sanguinose non approdano nè onorano; le sapienti sì, ma queste per noi italiani stanno sempre nei voti. Soldato fu Cesare, che militando dettava i Commentari; la mano stessa, che la mattina con la spada operava miracoli di valore, la sera con lo stilo li tramandava alla memoria dei posteri, sicchè noi oggi andiamo perplessi se egli meglio li effettuasse o li scrivesse; soldato Catone, che immoto negli ultimi pericoli si confortava leggendo il dialogo di Platone su la immortalità; soldato Bruto, vigilante la notte in mezzo ai campi meditando sui libri; soldati parecchi di quelli alunni di Napoleone I, i quali portavano nello zaino confasi con le cartacce classici greci e latini da volgarizzare e commentare, o piuttosto celebriamo soldati veri coloro che combattono per giusta causa con sapienza pari alla virtù.

In Marte bertone di Venere la gente ravvisa il [p. 109 modifica] soldato da osteria, solo lo salutano Dio quando lo accompagna Minerva.

Fabrizio dunque era vano e smanioso dei piaceri, e più delle apparenze del lusso: quanti lo soperchiavano di tutto cuore odiava; se accadeva che qualcheduno dei suoi amici lo rasentasse sfolgorante in cocchio trasportato da focosi cavalli, a voce alta gli mandava un saluto e a bassa aggiungeva: a rotta di collo! — Del suo fratello Omobono non sapeva darsi pace; sopra costui la Fortuna aveva versato e poi scosso il sacco, mentre su la sua faccia lo aveva sbatacchiato vuoto: frequentava luoghi appartati; aspreggiatore di se stesso; ogni giorno più corrivo all’ira e selvatico; per uscire di pena avrebbe dato l’anima al diavolo se gli fosse comparso davanti.

E il diavolo gli comparve davvero nella persona del presidente di una Corte di appello. Aveva nome Vinneri. I sette peccati mortali gli andaron fino a casa ad educarlo gratis; ma egli durante tutta la vita mise da parte quanto gli avanzava da quelli per fabbricarsene un ottavo, e giusto allora stava per rompere il salvadanaio; però dei sette, due gli avevano preso il sopravvento, ed erano la ghiottoneria e l’avarizia, impossessata di lui sotto la forma del demonio del gioco. Se avessero ragguagliato la sua ignoranza con la sua malignità, non ci saria scattato un dito; e tuttavia lo giudicavano [p. 110 modifica] dottissimo, però che egli ponesse a parere quello che non era la pazienza industre di cui la natura si mostra liberale alle creature peggio complessionate. Lento il passo, la sembianza grave — i bufali non ridono mai, — la favella tarda, come frequenti sopra le labbra di lui le parole: ci penseremo, esamineremo, gli è un caso momentoso; e vuoisi considerare ad trutinam, e via discorrendo: nel suo studio da per tutto libri, e di carte una catasta: però queste ciumierie a cui le guardava pel sottile palesavano la sua inane ed improvvida furberia, imperciocchè ti venisse fatto di scorgere improntata in varie guise la forma del gatto di casa sopra lo strato di polvere che vi era caduto. Strana condizione! Non lo amava persona, e tutti accoglievano volentieri costui: prima di salire i gradini davanti la porta del tribunale, egli soleva levare le ciglia in su per mirare da quale parte piegasse la banderuola per regolarsi; nè punto lo celava, al contrario soppiattone in ogni altra cosa, procedeva aperto in questa, affermando che il magistrato è appunto come il cane, latra e morde per chi gli butta il pane. La giustizia distributiva da lui s’intendeva a questo modo: fra il governo, che di presente teneva il mestolo in mano, e i privati, sempre torto ai privati; tra nobili e ignobili, i secondi sempre condannati nelle spese; fra ricchi e poveri, non si sentiva il cuore da innovare [p. 111 modifica] l’antico costume: all’osso dàgli addosso; alla marmaglia era giustizia la sorte, ed era la meglio trattata; il primo processo, che allungato il braccio gli capitava sotto, vinceva.

Tutti i governi lo avevano disprezzato, e tutti lo avevano blandito, perchè senza eccezione tutti lo avevano giudicato arnese eccellentissimo di servitù. Costui, per operare i voltafaccia a tempo, girando lieve e veloce su le calcagna come uscio sopra i ben unti arpioni, valeva un tesoro; e se le ritirate politiche fruttassero fama quanto le militari, Senofonte di petto a lui sarebbe stato un tamburo; per la quale cosa egli, sicuro di sè, presentava le insegne degli ordini cavallereschi dei governi caduti ai governi via via sorvegnenti, come il forestiero getta sopra li tavola del cambiatore la moneta affinchè gliela baratti, e i nuovi governi senza fiatare gliela permutavano, ed anche qualche cosa del loro ci aggiungevano. Il governo tramontante se lo vedeva scomparire da canto fra la pera e il formaggio, senza accorgersene, proprio a quel modo che il sonno inavvertito piglia l’uomo; il governo oriente se lo trovò davanti non sapendo donde fosse venuto; forse pensò gli fosse cascato dalle maniche; il Vinneri allora per salutarlo finì un sorriso che aveva incominciato per l’altro; appunto come il cardinale Zondadari a Siena ebbe a finire pei francesi il Te deum ch’egli aveva incominciato pei [p. 112 modifica] tedeschi. Se invece di sperperare al gioco il prezzo della giustizia venduta lo avesse custodito nello scrigno, e se le monete fossero stati galletti, non avrieno nella notte lasciato dormire lui nè tutta la contrada.

Ebbe moglie; un povero corpo composto di carne di seppia, bianco e senza sangue; una povera anima tenuta quindici anni in molle dentro una pila di acqua benedetta; la notte a letto, il giorno in chiesa; concepì di una figliuola per distrazione; la vide nascere senza gioia; la vide crescere senza amore; la beghineria l’aveva insugherita; tutto accadeva per volontà di Dio; quanto Dio ordinava tutto era bene; e quindi era mestieri rassegnarsi ai voleri di Dio; se a un povero diavolo ruzzolando le scale accadeva rompersi una gamba, la gamba rotta attestava il castigo del Signore, la rimasta sana il miracolo del Signore, ambedue la visita del Signore a cui vuol bene; le sue sostanze parafernali, che non furono poche, colarono a stille nella Chiesa pei buchi religiosi, che innumerevoli sanno praticare i preti; e i giorni suoi svaporarono in sudore di rosari; alfine disparve tacita, come la goccia dell’acqua santa grondò nella piletta dalle sue dita che ce l’avevano attinta.

Quando fu morta, il Vinneri essendosi accorto ch’ella aveva disperso i beni parafernali com’egli dato fondo ai dotali, esclamò amaramente: [p. 113 modifica]

— Ah! quel buono uomo del Franklin ha lasciato scritto che un vizio costa più di due figliuoli, e sarà; non però più di una moglie: devota la divorano i preti, mondana le crestaie; ed ora con questa figliuola in casa come si stilla?

Di fatti, se la madre non se n’era tolta cura, figurarsi se il padre! Egli aveva in pratica la regina di cuori mille volte più della figliuola. La madre, quando l’aveva menata a messa tutte le feste di precetto, a confessarsi ogni mese una volta, quattro a comunicarsi in capo all’anno, credeva aver fatto quanto Carlo in Francia; al padre sembrava avere superato la fatica del Cireneo, menandola nel carnevale al teatro un paio di volte.

La fanciulla venne mirabilmente leggiadra; di capello nero lustro e copioso, gli occhi pur neri luccicanti di voluttà, nei moti serpentina, facile al pianto, facile al riso; e piangente e ridente, leggiadrissima; ma piangente più, imperciocchè ridendo le labbra e i denti davano sembianza vera di gelsomini in mezzo ad un cerchio di ranuncoli, ma le lacrime moltiplicavano i raggi alle pupille: un secentista avrebbe cantato ch’ella piangeva brillanti: vestiva da pinzochera, e cotesta foggia cresceva la procacia della sua venustà: ti sarebbe parsa Venere immascherata da suora del Sacro Cuore di Gesù. La chiamavano Bianca, e la stupidità del notaio, che scrisse Alba per errorem sopra una [p. 114 modifica] pagina del suo protocollo pressochè tutta nera, applicata a lei sarebbe stata arguta definizione,2 imperciocchè casta di corpo veramente ella fosse, ma di spirito corrotta per modo che più non avrebbe potuto; insomma, ella era una botte di petrolio sotto a un forno, una polveriera accanto ad una fucina.

La madre, chiusa nella sua cameretta a recitare rosari, viveva sicura che la figliuola nel silenzio della propria meditasse sopra la Manna dell’anima del Padre Segneri, ovvero intorno il Panierino degli odoriferi fiori offerti al Sacro Cuore di Gesù del Padre Birma, e la indovinava perdio, ch’ella produceva la veglia alle ore più tarde della notte rivoltolandosi nella sozzura delle lettere lenone di Francia. So troppo bene che di laidezze non andarono immuni le letterature greca e latina, e ne anche pur troppo la italiana; ma non so di coteste o la eccessiva volgarità dei concetti, o la forma classica del dire, o la nudità repulsiva, o altre qualità che non importa discorrere, ci fanno conoscere subito come le siano un portato della immaginazione, anzichè un ritratto dei costumi attuali; onde avviene che per loro non si meni strage della [p. 115 modifica] onestà come dai Galeotti di Francia.3 Non indico nomi, non contrasto l’ingegno, ne la leggiadria del dettato; ma quanto più questi ammirabili, tanto maggiormente colpevoli di avere cagionato la decadenza delle virtù cittadine.

E’ pare che di siffatte disposizioni della figliuola Vinneri si fosse accorto, e almeno ne sospettasse, perchè seco stesso fermò levarsela ad ogni costo d’intorno; di vero, invece di avere per la morte della moglie ricuperata intera la sua libertà, si trovò ad averla perduta, sentendo la necessità di vigilare con diligenza la fanciulla; già s’intende non per amore a lei, nè per istudio di onestà, bensì in virtù di questo ragionamento: poichè dote io non le posso assegnare, mi tocca ingegnarmi a pescarle un marito al brumeggio della bellezza e della buona reputazione: maritata che sia, io me ne lavo le mani; chi la cavalca la selli.... — Insomma, il credito della figliuola gli stava a cuore, come a cui torna di mezza notte a casa preme che il moccolo gli duri acceso per le scale fino alla porta.

Rapito alle geniali abitudini del giuoco, il presidente Vinneri si rendeva a casa sul calare del giorno, e quivi, avvoltolata la persona nella vesta da camera, i piedi nelle pantofole e il capo coperto dal berretto di cotone — elmo dei mariti militanti — [p. 116 modifica] almanaccava col cervello per creare o per chiappare eventi capaci di porgergli il destro per mandare al diavolo l’unica e dilettissima figliuola; l’interesse non rifiniva mai di spronare la immaginazione, la quale pigliava a correre di carriera pei vasti campi della speranza; invano, perchè tutta sudata se ne tornasse sempre alle mosse senza mai avere vinto il palio; fuori dei quattrini non gli sovvenivano chiodi capaci di conficcare un marito in croce.

— Maledetto abbaco! — Fu udito spesso taroccare con seco; invece di venerabile, io mi aspetto vedere un giorno o l’altro esposto sotto la residenza l’abbaco; nel ciborio porranno a custodire l’abbaco, e la eucarestia da ora in avanti sarà amministrata a tutti i fedeli con un cavurrino da due franchi. O tre e quattro volte beati padri circassi! A voi una bella figliuola rende più di un podere in Chianti. Io non so se la donna nascendo portasse via una costola all’uomo, fatto sta che la figliuola quando si marita ne porta via sei a suo padre. Colà, in quelle terre felici, a un bisogno si vende la figliuola, e se ne fa quattrini senza che alcuno vi suoni le tabelle dietro. All’inferno i filosofi! E’ fu in grazia loro, che invece di estendere le facoltà del padre di famiglia fino a vendere i figliuoli bianchi, gli hanno tolta quella di mettere all’asta i neri. Gente irrequieta, brontolona, fastidiosa, la quale odia il tondo [p. 117 modifica] perchè non è quadro, e se diventasse quadro arrangolerebbe a restituirlo tondo.

Così dopo avere vagellato un pezzo, uggito fino alla morte, messo da parte il presidenziale decoro, chiamava la serva, e per ammazzare il tempo si adattava a giocare a briscola con lei.

Mentre però egli stava per buttarsi via come disperato, ecco la fortuna parargli davanti il fatto suo. Certo di, mentre scende le scale umide e melmose del pretorio, gli accade di mettere un piede in fallo e dislogarselo ad un tratto; le avrebbe ruzzolate fino all’ultimo scalino, se per sorte, trovandosi li presso Fabrizio, con mani pronte non lo agguantava tenendolo su ritto; poi con lo aiuto di altri lo mise in carrozza, volendo ad ogni patto accompagnarlo a casa, dove presolo in quattro lo adagiarono sopra il letto. Chiamato il cerusico, dopo tastata la parte, giudica non grave il caso, trattarsi di semplice lussazione guaribile di leggeri: intanto non si muova l’infermo; rinnovino al collo del piede fomente diacce di acqua saturnina; ripasserà più tardi per vedere se ci fosse caso di applicare le mignatte; e a rivederci.

Fabrizio, nel prendere commiato dal presidente, chiese licenza di tornare a informarsi della sua salute, e questi prontamente:

— Caro avvocato, se io le dicessi sarà per sua grazia, direi poco e male, ella mi farà proprio una [p. 118 modifica] carità fiorita, perchè chi sa per quanto tempo mi toccherà a starmene fitto nel letto: intanto le rinnuovo le proteste della mia riconoscenza; e tu, Bianca, rammenta che se questo egregio giovane non era forte, a questa ora tu non avevi più padre.

La figliuola, che aveva capito la ragia per aria, cavatosi un candido fazzoletto di tasca se lo accostò agli occhi per asciugarsi una presunta lacrima, e alle parole paterne, come corda armonizza con corda, aggimise:

— Dio gliene renda merito, signore... signore?

— Fabrizio ai suoi comandi.

— Signor Fabrizio; e se potessi sperare che le mie preghiere valessero qualche cosa presso di lei, io vorrei supplicarla a favorirci più spesso che può.

Poffar del mondo! Non ci era mestieri di tanto, però che voi abbiate a sapere come i giovani nel tastare il piede infermo del presidente si fossero toccate le mani; e nel chinarsi a esaminarlo i capelli loro insieme si confondessero. Ora è provato che i capelli sieno potentissimi conduttori di elettricismo due cotanti meno dei labbri, ma due cotanti più dei fili di zinco; ed eransi altresì ricambiati parecchi sguardi a punto interrogativo, e non so nemmeno io quanti sorrisi reziari.4 Breve. Uno [p. 119 modifica] aveva votato contro l’altro tutto il turcasso delle quadrella di Amore.

Il Vinneri, il quale, comecchè talvolta bestemmiasse per lo spasim.0, pure non cessava di tenere un occhio al gatto e l’altro alla padella, fra se ebbe a dire:

— E’ pare che la girandola pigli fuoco.

Fabrizio, com’è da credersi, tenne la parola, forse più spesso che non conveniva, ma padre e figliuola fecero finta di non se ne accorgere. Fra le tante, una volta, trovandosi solo a canto il letto del Vinneri, questi prese la mano al giovane, e strettagliela amorevolmente gli disse:

— Caro Fabrizio, le cure affettuose che vi date per me mi famio sentire più amara la infelicità di essere privo di figliuoli, ma poichè a ragione vi amo e tengo in luogo di figlio, non posso tacervi alcune considerazioni, che mi sono venute in mente pensando ai casi vostri. Perchè, ditemi, avete cessato di frequentare i tribunali? Perchè dopo la prima arringa, che vi fruttò tanto onore, vi siete ammutito? Donde questa deplorabile accidia a cui vi siete abbandonato? Non me lo nascondete, apritevi a me come a padre....

Ed anco qui sarebbe stato sufficiente stimolo di molto minore, perchè Fabrizio stranamente commosso prese a vomitare vituperii su i giurati a bocca di barile; il presidente lo lasciava dire, quando [p. 120 modifica] poi lo vide sboglientito, chiappata la palla al balzo riprese:

— O che siate benedetto, chi mai vi ha consigliato a sciupare il vostro ingegno in isteriche fatiche? Crimen non dat panem, dichiara pure l’antico proverbio del fôro. Furti pernici, omicidi anatre, falsi accegge, avvelenamenti fagiani, non toccano a voi: per voi sono i furti storni, accusati gheppi, insomma da rompercisi i denti a masticarli; e poi, o come si fa a confondersi co’ giurati? Questi bottegai si sono impancati a recitare da giudici in onta alla legittima magistratura. Figuratevi! Per costume vecchio essi non usano mai dare agli avventori la libbra di dodici once con le proprie; ora, parvi possibile che vogliano smettere il vizio con le bilance della giustizia? Gente capace a scambiare Puffendorfio con un’isola, Catilina con una benemerita; a scrivere Francesco coll’acca, la Italia col g; gente incapace a fare un o con la canna. Dove siete ito, Dio vi perdoni, a sciorinare eloquenza e dottrina? Tanto voleva dare la crema con la vainiglia ai bufali. Con costoro non si sa mai il punto di coltura; se per caso hai pestato su i calli al presidente dei giurati, impiccati, il tuo cliente è sicuro di sentirsi arrandellata tra capo e collo una sentenza capitale senza circostanze attenuanti; — se non offristi il braccio alla sua moglie quando usciva di chiesa, o non facesti ballare la figliuola al [p. 121 modifica] festino, se fuggisti traverso una maglia dalla rezzola che ti gettarono addosso per pescarti marito, guai a te, annegati; arringando davanti a loro tu farai condannare in galera a vita la stessa innocenza. All’opposto, se il difensore va ai versi al giurato, che importa che dieci testimoni concordi attestino de visu? Che importa perfino che l’accusato confessi avere ucciso un uomo? Che se i cerusichi fiscali riferiscano averlo sparato? I giurati a muso duro sono fantini da sentenziare che non è vero nulla, che il morto non è morto in virtù della parola cabalistica: non consta. Come! Noi altri, che fino da piccini andammo a scuola per imparare a rendere giustizia, su dieci volte sbagliamo nove; ed essi presumono avere la scienza infusa? Eh! via, ognuno faccia il suo mestiere; tractent fabrilia fabri; non confondiamo le carte da tarocchi con quelle da bambara, nè la manteca co’ tartufi; i giudici sieno giudici, i sacerdoti sacerdoti, cuochi i cuochi, i nobili nobili: in conclusione, il mondo rimanga diviso in classi, in ceti, in professioni, in condizioni, e stati, arti e mestieri, e se io comandassi lo vorrei distinto in colori come usano lassù nella China. Bel gusto, in fede di Dio, stillarci ad ammannire un pranzo di cinque o sei serviti, per farne poi lui buglione prima di metterci a tavola! Tale nei suoi pincipii e nei suoi effetti tu proverai circum circa la diavoleria, della [p. 122 modifica]

Uguaglianza fra gli uomini: così predicano il giurato figliuolo della libertà; per me non glie l’ho visto fare, ma sarà; in questo caso però bisogna dire, ch’egli è uno di quei figliuoli che gli spartani buttavano nel baratro. Da ogni parte sento bociare: rendete i diritti a cui spettano. To’! o chi si oppone? noi altri giudici non ci siamo a posta per questo? Se la plebe campagnuola usurpò il legnatico o il pascolo sul feudo del padrone, non glie lo facciamo rendere di rincorsa? Il possidente creditore di pigioni, il banchiere di pagherò, ricorrono al nostro ministero invano? Non mandiamo illico et immediate i bravi uscieri a gravare i mobili dello inquilino moroso? Non v’impiombiamo il vostro fallito in prigione? Che cosa è mai questo rendere al popolo i suoi diritti? Forse ai monelli la facoltà di tirarmi le sassate? Ai bottegai di assolvermi parricidi, repubblicani, giornalisti, barattieri ed altra simile risma di gente, a cui in buona coscienza potremmo senza tanti processi legare un sasso al collo e scaraventarla nel Naviglio? Voi, Fabrizio, se un mal genio non vi tirava pei capelli, avreste brillato fra i vostri pari; invece di poggiare in su, voi forviaste, e siete andato in giù; di cui la colpa se invece di trovare l’azzurro del cielo v’imbatteste nel nero di fumo dell’inferno.... Tutto questo il presidente Vinneri spifferò di un fiato; se non lo fermava un nodo di tosse, chi sa [p. 123 modifica] dove sarebbe riuscito; tacque per bere e per asciugarsi il sudore.

Fabrizio sostenne codesto rovescio di acqua sudicia a capo chino, sentendosi ora avvampare dalle caldane ed ora gelare dai sudori freddi; poi, temendo che costui saltasse su a squadrargli una seconda di cambio, disse:

— La reverenza che io le devo grandissima non mi concede, signor presidente, di venire in disputa con lei. Per natura e per istudio io professo diverse dottrine: i miei convincimenti mi portano a secondare le aspirazioni della gioventù italiana, le quali, se ci sconfortano talora con qualche disinganno, ci consolarono sempre per la loro magnanimità....

Coteste parole fecero nel presidente l’effetto di una bottiglia di birra stappata sotto le froge del barbero; diede un balzo e proruppe:

Vanitas vanitatum et omnia vanitas, praeter francesconem5 m’insegnò un dì certo dotto e sentito magistrato toscano. Che significano esse le aspirazioni della gioventù? Le aspirazioni dell’uomo giovane e dell’uomo vecchio tendono sempre al medesimo scopo, e in ogni tempo e in qualunque paese, E voi per lo appunto avete ribadito e andate tutto giorno ribadendo con i vostri arzigogoli il chiodo [p. 124 modifica] fitto da madre natura nei nostri cuori; valga il vero: voi vi affaticate a demolire Dio, e volete l’anima morta col corpo: bene sta, ma chi ha fede nella vita futura potrà (non potendone fare a meno) accomodarsi alle miserie della vita presente; ma se al cessare del fiato si spengono i moccoli, voi mi costringete a crescere da questa parte quanto mi fate perdere dall’altra, a riportare nella casa di qua le suppellettili che aveva mandato ad arredare la casa di là. Vero è che per sollievo mi lasciate la fama; ma fatto ch’io sia fatto terra, a che mi approda la fama? Per significare cosa inane sogliamo dire: gli fa come l’incenso ai morti; ora la fama è meno dello incenso, perchè la è vento senza odore; e ora soffia di qua, ed ora di là, conforme le frulla.6 Le aspirazioni delle creature viventi consistono nel condurre la vita con meno dolori e con più gioie che sarà possibile: varie le vie che mettono a questa [p. 125 modifica] patria comune, chi piglia la più breve, chi la più lunga, chi va per la strada maestra, chi per tragetti; la differenza sta nel metodo: se ci fosse dato potere giudicare per l’affetto, non per l’effetto, tale leviamo a cielo che condanneremmo a dieci anni di galera, e viceversa. Siamo alle solite: fine della vita è godere; la cottura e la salsa non fanno vivanda, sono arti del cuoco. Belle, in fede di Dio, le aspirazioni magnanime della gioventù italiana! Ogni dì vediamo qualche repubblicone dei vostri dare il tuffo nella monarchia, a mo’ dei gabbiani nel mare per buscarvi una sardina; almeno i gabbiani, agguantato il pesce, ripigliano il volo in su, mentre i vostri repubblicani nel dare il tuffo perdono l’ale. Che montano tante smorfie? Fate addirittura come noi, non fosse altro avrete il merito della sincerità. Io, professandomi servitore umilissimo della monarchia sabauda dall’a fino alla zeta, mi scappuccio a tutto l’alfabeto monarchico costituzionale, quantunque in una cosa mi muova la stizza, e mi basterebbe il cuore per dirgliela in faccia; ella ficcando sempre gli occhi nel buio della parte sinistra arriva a scoprire qualche bagliore, che crede torcia, ed è un lume a mano; allora mette in opera ogni suo studio per farlo suo, ma nel moverlo le si spegne, ed ella s’impuzza di moccolaia.....

Fabrizio, sentendosi vicino a dare nei lumi, giudicò opportuno levarsi, e tolto con viso acerbo [p. 126 modifica] commiato usci dalla stanza; allora il presidente si percosse della palma la fronte, e non disse, ma pensò come Tiberio quando sentì che Camuleio si era sottratto con la morte spontanea alla condanna: Ah! me evasit, mi è scappato! Se non che Bianca, sentendosi la principale interessata, affincliè ciò non succedesse, gli corse dietro per rammendare, se l’era possibile, lo strappo; Fabrizio tutto sconvolto non pose mente a cui lo seguitava rischiarandogli il cammino; giunto all’uscio di casa lo aperse, e giù difilato a furia per le scale; ma sul punto di tirare su il saliscendi della porta di strada, ecco una voce soave e piena di amore domandargli:

— E ti basta il cuore di lasciarmi così? E che cosa ti ho fatto, Fabrizio?

Come vedete, l’amore aveva progredito con passi lunghi, si sarebbe detto che fosse montato su i trampoli. Fabrizio, nel volgere il capo, vide cascare dagli occhi della Bianca due lacrime, che l’Amore si saria affrettato a suggere con un bacio, per donarle a Venere madre, ond’ella ne arricchisse lo scrigno delle sue gioie più care. Ed ora, che importa che io vi riferisca quali fossero le parole che i due amanti scorrucciati ricambiaronsi sopra la soglia di casa? Voi lo sapete, come entra Amore di mezzo, i negoziati non menano a lungo; basta per ultimatum un sorriso; per ultimatissimum un bacio. [p. 127 modifica]

Quando Bianca tornò in camera al padre si pose a piè del letto levando il dito, quasi per ammonirlo, ma l’altro non la lasciò nè manco cominciare:

— Sta’ zitta, egli disse, io non so più mezze le messe; e sì che mi era accaduto più volte, che per cuocere troppo presto la torta i’ l’ho bruciata. Ho fatto come i bimbi quando tirano su un castello di carte, i quali nel metterci a vanvera il tetto rovinano ogni cosa.... ma veniamo al grano.... ritorna?

— Se ne discorre nè meno! rispose la fanciulla con tale un gesto di superba sicurezza, che non gli legherebbe le scarpe quello di Napoleone, quando, buttato all’aria il cannocchiale, esclamava: — La vittoria è mia!

— Va’, tu meriti una statua equestre, — ed aggruppate le dita il presidente colse sopra le proprio labbra un bacio e glie lo gittò.

Di fatti, dopo due sere Fabrizio rivolò a tiro di ale al dolce nido, dove si trattò senz’altro lungaggini di nozze. Cari miei, con fanciulle sparvierate, e babbi lesti, l’Amore, voglia o non voglia, è mestieri che entrato subito in barca agguanti il timone, e sciolte le vele al vento drizzi la prua alle rive del Sacramento, che non è quello di California, bensì dal santissimo matrimonio.

Io non dirò, che forse non direi il vero, che tra [p. 128 modifica] Fabrizio e il Vinneri la cosa andasse tra galeotto e marinaro, certo è però che entrambi fecero il conto senza l’oste; imperciocchè il socero, avendo tastato il futuro genero sul modo di rizzare su casa, questi gli spiattellò trovarsi corto a quattrini, non volere toglierne in presto dal fratello, e non potere acconsentire che per lui i genitori menomassero la sostanza domestica: avrebbe sopperito co’ quattrini della dote. Eccoci al Rubicone. La Bianca lì presente sentì darsi un tuffo al sangue; il presidente cominciò con un: Caro mio — nel suono della più dolce melodia, che mai posero natura od arte sopra labbri mortali; — proseguì, stringendo le mani del genero nelle sue mani di socero, quasi in due manette candite; — chiamò con tutte le potenze dell’anima due lacrime su gli occhi, ma queste fecero orecchi di mercante e non ci vollero andare, — e dopo siffatti esordi gli sparò lì a brucia pelo che la dote della Bianca, di natura eterea, siccome lei, erasi svaporata nell’universo.

Durante cotesto colloquio parve a Bianca essere stata confìtta a domicilio coatto in cima all’Ecla, che è un vulcano in Islanda sopra un monte coperto di neve sempiterna, perchè con vicenda assidua ella trapassava dal ribrezzo alle caldane; nèe anco San Lorenzo si sentì rosolito dai carboni ardenti come Fabrizio dagli sguardi della cara fanciulla innamorata, finchè ei si tacque. Ora dunque [p. 129 modifica] qualsivoglia fanciulla, vaga di nozze, copiosa di affetti e corta a quattrini, immagini l’abisso, l’oceano, la immensità delle contentezze nelle quali sprofondava il cuore della Bianca quando Fabrizio, dopo stato alquanto su di sè, rispose risoluto:

— Non importa, provvederò in altra maniera; con la dote o senza, la mia Bianca mi sarà cara del pari.

Più avvisato della figliuola, il padre, ora che seppe il genero quasi vergente alla inopia', mentre fin lì lo aveva incalzato a mezzo ferro per farlo restare su la botta, eccolo schermirsi con le parate e dire: che alle cose, le quali si fanno una volta sola, bisogna pensarci due. Pareva lo facesse per amore, ma non ci pensava nè manco per ombra; egli voleva chiarirsi prima come Fabrizio avrebbe rizzato su casa, e come mantenuta; non voleva mica trovarsi ad avere giuocato di noccioli; maritando la figlia desiderava ricuperare la libertà perduta durante il periodo del tempo matrimoniale, però poneva per condizione sine qua non delle nozze moglie e casa; secondariamente suo scopo finale risparmiare i danari pel mantenimento della figlia, per goderseli a carte o a tavola; che se un giorno gli si fosse rovesciata con marito e figliuoli a casa... misericordia! Ci si sarebbe appuntato il cavicchio sul ginocchio. Io non so, nè mi curo saperlo, comerno Fabrizio ne uscisse; fatto sta ch’egli fornì di arredi assai sufficienti la casa e lo studio, dove mise [p. 130 modifica] libri in abbondanza, perchè gli avvocati senza libri somigliano agli speziali senza barattoli.

Il presidente, nel contemplare tutte queste cose agli occhi suoi dilette, andava in fregola dalla contentezza, e si stropicciava soddisfatto le mani, appunto come il Cavour in procinto di applicare un nuovo balzello al buon popolo italiano: ma accadendo dei desiderii nella guisa che avviene con le ciliege, il presidente pensò che bella cosa era stata maritare la figliuola senza dote, divina sarebbe potere cavare costrutto dal genero, onde certo giorno chiamatolo a parte così gli favellò:

— Da’ retta, Fabrizio, tu da quel bravo giovane che sei hai lavorato a mettere su lucerna, a empirla di olio e ad attaccarla al palco, adesso però bisogna pensare ad accenderla; domani fa’ di essere verso mezzo giorno al tuo studio; verrà a trovarti un signorone, cui un mio amico mi prega provvedere di valoroso avvocato, non so per quale causa; mi scrive ch’è negozio grosso e grasso da starci su ritto il forchettone. Gua’; io non ci metto su nè sal nè olio; ingegnati; aiutati che Dio ti aiuta; non istare a cercare il nodo nel giunco; questo posso dirti e ti dico, che se la furfanteria può menare talora alla galera, la fisicosa puntualità conduce sempre all’ospedale.

Così il socero dabbene al genero futuro; però immaginate lo sconcerto di quello, quando la sera [p. 131 modifica] dopo al suo ansioso interrogativo: — Ebbene, a che ne siamo?

Sentì rispondersi:

— A meno che a niente; non v’è da cavarne costrutto.

— Perchè mai?

— Perchè la è causa che non si può sostenere.

— Non è mica questa ragione onde tu non l’avessi a patrocinare: la capacità dell’avvocato si misura appunto dal contrasto che incontra a sgararla: per la piana qualunque brenna è buona; ma orsù, miriamo un po’ perchè a te pare non poterla sostenere.

— O ecco, la è chiara come l’acqua; e’ sembra, a dircela qui a quattr’occhi, che il raccomandato del vostro amico, in tempo che non rimonta allo assedio di Troia, fosse solito tagliarsi le ugna dei piedi senza levarsi le scarpe.... c’intendiamo? Ricco di miseria e nemico mortale di povertà, scarso d’ingegno e pure provvisto di girandole, e fornito di una fronte da venire a paragone con le navi corazzate. Costui chiese al governo la concessione di scavare una miniera di ferro, esaurita da tempo remoto, ed anco in epoca a noi più vicina esercitata da altri senza profitto; tuttavia il governo gliela negò, perchè povero in canna; se avesse messo innanzi persone idonee a sopperire alle spese, avrebbe considerato il da farsi; allora e’ prese a darsi moto dintorno per [p. 132 modifica] formare una società, e ne venne a capo: butta in terra seme di grullo, e raccoglierai azionisti di società. Allora, tornato a sollecitare il governo, questo dichiarava accordare la concessione a lui, ma in nome e per conto della società. Inoltre fu stabilito per patto, che un numero strabocchevole di azioni di godimento fossero la sua mercede per la procurata concessione, e queste azioni gratuite partecipassero agli utili desiderati alla stregua delle altre azioni paganti, defalcate però tutte le spese; e così fa sempre praticato di amore e d’accordo dal principio della società fino ad oggi. Adesso costui, di punto in bianco, pretende che gli utili non solo nel faturo, ma nel tempo passato altresì, si devano repartire quanto a lui senza defalco di spese. Gli ho dimostrato come gli stieno contro niente meno che la legge, perchè il socio non è tenuto a rimettere fuori quello che ha riscosso a titolo di utili, il patto e la consuetudine, suprema interprete delle convenzioni dubbie, e le nostre sonano chiare; per ultimo il premio eccessivo, imperciocchè al proprietario delle miniere da esplorarsi è bazza se largiscano un cinque per cento sul prodotto netto.... E ora che ne dite, signor socero, non vi pare ella una causa spallata?

— Ed egli che ti ha detto?

— Egli? Ha fatto una risatina, ha dato una scrollatina di spalle, e senza punto commuoversi mi ha [p. 133 modifica] parlato così: ci pensi meglio; giovedì a questa medesima ora tornerò qui a riverirla....

— Caro mio, ringrazia la tua stella, egli ebbe giudizio per te; in generale gli uomini si arrotano invano, durante la intera loro vita, a tirare la fortuna a se con le tanaglie, e tu quando viene a visitarti spontanea la pigli a calci! Ta sei troppo giovane per giudicare su due piedi; la ragione delle cose non è una mosca, che si pigli a volo; tutte le faccende umane si presentano sotto forma di matasse arruifate, e ci vuole il diavolo a trovarne il bandolo. Di là dal codice, caro mio, vi ha un visibilio di ragioni, le quali, come le stelle di terza e di quarta grandezza, senza il telescopio non si possono scorgere. Quel tagliare i nodi di un picchio con la spada è mossa da soldato sagato, non da soldato togato.

— Ma voi, signor socero, che pur siete magistrato, e dei buoni, dovete confessare che le mie ragioni non ammettono replica....

— Eh! eh! Io sono magistrato non avvocato, e quindi per necessità bisogna che il mio parere dissenta da quello degli avvocati... Come no? O non mi venite sempre in due davanti; uno per sostenere il diritto e l’altro il rovescio? Ora, se dessi ragione a tutti e due, o come farei a giudicare? D’altronde, acqua in bocca, perchè senz’altro mi toccherà a dire la mia su la questione. Tuttavia io non dubito a confortarti di assumerne la difesa, perchè, come ho [p. 134 modifica] detto, la fronte prima delle cose spesso ingauna, e lo ha scritto anche Fedro, perchè essendo i giudizi vari quanto i cervelli, tu presumeresti di te oltre il dovere perfidiando nella tua opinione come unica vera, perchè se vorrai assumere la difesa delle cause, dove la ragione comparisca chiara come due e due fanno quattro, non ci era mestieri che ti mandassero a studio; per ultimo il tuo podere è il tribunale, dove se ti riprometti seminare sempre ragioni tu ci raccoglierai grilli cantaioli... e tu... tu hai bisogno di provvedere alle spese di casa tua.

Il pane, più spesso che non si vorrebbe, mentre fa vivere il corpo ammazza la coscienza. Fabrizio ci pensò su, e conchiuse col difendere la causa. Il futuro socero presiedeva il tribunale, ma furbo da tenere le volpi in convitto, affidò la relazione del piato ad un grullo di cui il pendolo pensante non si metteva in moto se uno di fuori non gli ci dava una ditata. Ora, sebbene Fabrizio avesse, in meno di due mesi, con la velocità delle comete, corsa quasi tutta la curva della perdizione, pure ebbe a stupire non poco quando il socero dabbene certa sera, ridottosi con lui dentro allo studio, così gli favellò:

— Senti, Fabrizio, ma tieni in te, in Camera di consiglio abbiamo deciso in massima darti ragione. Dunque l’arrosto è nello spiedo. Ora il dotto consigliere commesso a presentare la relazione e lo schema dei considerandi, come uomo avvezzo alla cucina [p. 135 modifica] antica, non conosce quei guazzetti di argomenti alla francese, dove siete tanto esperti voi altri giovanotti, e per ciò vorrebbe tu gli mettessi come in compendio le tue difese, ed in forma deliberativa; a te facile la fatica, ed è utile che la sentenza venga fuori insaccata bene e stretta forte; dunque va’ a casa, beviti un paio di tazze di Moka mescolato di San Domingo, se vuoi sentire cosa degna, e stanotte apparecchiami un lavorino da pari tuo; prima di consegnarlo al consigliere, lo rivedrò io, ma vado sicuro trovarlo al suo giusto punto di cottura.... — e qui datogli di un buffetto sul mento, tutto allegro lo licenziò.

Dopo pochi monitìnti il Vinneri proruppe impetuoso fuori dello studio, ed ebbe a dare del capo dentro Bianca e Fabrizio, i quali se ne stavano sempre tubando a mo’ di colombi nell’anticamera:

— Sei qui? Mi era scordato del meglio; senti.... e presolo pel braccio lo ricondusse nello studio, dove lo ammoni: — Bada, per quanto vuoi bene al tuo Cristo, non dire al tuo cliente come le cose stanno, anzi mostrati turbato, dagli ad intendere che fra noi ci è un contrasto terribile, che consultammo due volte, e l’ultima per tre ore senza conchiusione di nulla.... tu.... giusto! avere vegliato la intera notte per dettare una memoria diretta a ribattere le argomentazioni avversarie e raddrizzare certe storture sorte nella mente dei giudici..... et [p. 136 modifica] in primis et ante omnia fatti pagare; se si schermisce dicendo non avere danaro, cavagli di sotto pagherò da negoziarsi in piazza. Confida piuttosto che non ti riescano ventosi i ceci che grati i clienti: gli antichi dottori ci hanno lasciato per memoria come gli avvocati, finchè la causa dura, si venerano come angioli, decisa ch’ella sia, si aborrono come demoni usciti fuori dall’inferno del conto.

— Lasciatevi servire.

Fabrizio vegliò tutta notte, scrisse, stracciò, rifece: l’orgoglio in contrasto con l’interesse sfrigolava7 come olio quando l’arriva il fuoco: di tratto in tratto gli pareva che un dito gli apparisse sopra la carta e gli mostrasse lo scritto, mentre una voce gli ronzava dentro: questa è limatura del tuo cuore e del tuo cervello fatta per le tue mani.

Nonostante uscì un lavoro avviticchiato di cavilli da mettersi per giaco addosso al sofisma, onde la ragione non rinvenisse la via di ferirlo; perchè quantunque le gretole facciano allo ingegno umano quello che il limone fa spremuto dentro un bicchiere di latte, pure egli spiega potenza nel male [p. 137 modifica] come nel bene: vede strambo, ma vede: mena a casaccio, ma turba sempre e scombussola. Però ottimamente operò Catone facendo licenziare da Roma Carneade, s’è vero ch’egli un giorno per pompa di sufficienza levasse a cielo la giustizia, e in un altro ne dicesse corna.8 Vero è bene che Demostene, per esercitarsi, componeva due arringhe pro e contro il medesimo argomento, e si leggono nelle sue opere. Come stimiamo fortunatissimo quel soldato, che combattendo sovente nelle prime schiere il nemico non rimase mai ferito, così vuolsi giudicare virtuosissimo l’avvocato il quale, voltolandosi fra tante sozzure, non si contamina; e di questi siffatti ve ne ha, ma rari, come gl’Ippogrifì, che l’Ariosto assicura venire dai monti Rifei.9 Qaando la istituzione dell’avvocatura o fia del tutto abolita, o di molto emendata, e in ogni modo respinta dai Parlamenti, vorrà dire che la lancetta celeste nel barometro della pubblica morale volge al tempo bello.

Fabrizio pose per fondamento della sentenza: la miniera messa in società non essere pugno chiuso, all’opposto apertissimo come quella che fu ab antiquo esercitata dai cartaginesi, dai romani, e forse [p. 138 modifica] chi sa? dai pelasgi o dai focesi: rimasta in asso per la difficoltà di rompere il quarzo con picconi di ferro, ora in virtù delle polveri fulminanti ne era tornato agevole, non menochè profittevole, il lavoro: ciò messo in sodo, passava a dimostrare i contratti aversi a giudicare non per quello che paiono, bensì per quello che sono, dietro razionale e giuridica ricerca; quindi, esaminato sottilmente il contratto in quistione, conoscersi chiaro che presentava in un punto i caratteri di locazione e conduzione di affitto, di livello e di enfiteusi. Ora dal canone, dal livello, dal fitto, si detraggono forse dal conduttore le spese che egli commette per cavare frutto dal podere o dalla miniera? No certo: di natura pari il compenso pattuito nel caso; e tanto più. doversi giudicare così, quanto che se avvertiamo alla sua pochezza al dirimpetto dei tesori largiti dal proprietario della miniera, non si sa come non abbia intentata l’azione della lesione enormissima. Di faccia al governo enfiteuta il concessionario; di faccia a lui enfiteuti gli azionisti. Non fare amarezza al concetto, se le patenti regie specificavano che la concessione si dava a Gaspero Gasperi (il cliente di Fabrizio si chiamava così) come rappresentante della società, imperciocchè resulti a luce meridiana la società essere accessoria e il Gasperi il principale; quindi non egli la mano della società per pigliare, bensì la società la mano per pigliare [p. 139 modifica] e portare a lui. La società teneva le veci della scarsa forza utile a mettere in moto la macchina; la macchina poi spettava in assoluta proprietà al Gasperi. E continuava con un viperaio di sofismi su questo gusto.

Fabrizio vinse la causa, e se ne fece un gran dire: prima nella curia, poi nella città. Pretesto pei curiali allo sbottonare indefesso e crudele l’amore per la giustizia; ma figurarsi: alle brutte passioni agitanti cotesto anime male si mesceva quella nobilissima come il fiore di arancio nell’olio di ricino per farlo ingozzare senza stomaco; insomma più che tutto li struggeva la invidia, che il vento tirava in fil di ruota nelle vele a Fabrizio, e da per ogni lato diluviargli addosso grassi negozi, mentre essi anfanavano per non parere, ma in somma pescavano pel proconsolo; portavano lo stuzzicadenti in bocca per dare ad intendere che avevano pranzato, ma erano digiuni. Sottile da principio, secondochè usa, più strepitosa inseguito, violentissima all’ultimo prese a rimuginare una voce, che Fabrizio fosse giunto a spuntarla inducendo il Gasperi a dare l’ingoffo al Vinneri di ventimila lire.

Cotesta voce, quanto a Fabrizio, era calunnia pretta, imperciocchè ben egli si trovasse pur troppo su l’orlo, ma dentro al pozzo non ci fosse anche cascato: rispetto agli altri due bisogna [p. 140 modifica] confessare che il Gasperi, con impudenza tetra, non menochè stupida, lo andava dicendo a cui lo voleva e a cui non lo voleva sapere; mentre il Vinneri, torcendo il volto, chiusi gli occhi e le mani levate al cielo, esclamava: Orrore!

Un vecchio succhiello di cancelleria, più tristo dei tre assi, il quale pel continuo esercizio non aveva preso la ruggine, conoscendo di lunga mano i suoi polli, mormorò la sentenza che Esopo assicura avere profferito la scimmia fra la volpe e il lupo;10 la voce passò, ma come l’acqua del fiume, che un poco di deposito lascia sempre.

Fabrizio però, ch’era scolaro della pezza donde si tagliano i professori, mise in pratica la lezione insegnatagli dal socero puntualmente, e a vero dire non rinvenne nel Gasperi resistenza, all’opposto maravigliosa arrendevolezza, dacchè questi, uomo da bosco e da riviera, sapeva di avanzo come per corseggiare con profitto sul mare della giustizia bisogni spartire le prede con gli avvocati; egli aveva sottoscritto i pagherò con lo intendimento di non buttare fuori ne manco le spese, e ci era riuscito; e poi aveva fatto a dire: o vinco, e non è caro, o perdo, ed anche il caro giovane ci perde la cappella e il benefizio: a questo non aveva pensato il caro [p. 141 modifica] giovane, perchè non abbastanza pratico, e poi anche le civette impaniano.

Il Gasperi vinse, e poichè, rifrustate tutte le vie del bindolo, non trovandoci modo di sgattaiolare, fece il galantuomo, e pagò, onde Fabrizio con questi ed altri guadagni assicurato, avvertiti appena per cerimonia i parenti, aveva contratto il matrimonio con la Bianca Vinneri, e messolo sotto la doppia custodia della legge divina ed umana; una volta si credeva che ne bastasse una, e lo conservava addetto, e inodore, meno la tara di uso, già s’intende; oggi al contrario ripongono il matrimonio in due casse, come i cadaveri, onde non ammorbi, ma le più volte non basta.

Fabrizio non apparteneva alla specie dei cauti, i quali attendono agli umori del popolo, ed a seconda di quelli si governano; superba indole e pugnace, si compiaceva per lo contrario bravarli: la prosperità inebria più dell’acquavite assai; e poi il continuo struggimento della moglie accanto gli aveva proprio messo il cotone dentro gli orecchi: costei, buttata giù buffa, ormai si palesava qual’era; la chiesa frequentava sempre, perchè femminuccia pinzochera, ma ci andava come al teatro, sfarzosa di vesti; non già per vedere, ma per essere veduta; non per adorare, bensì per essere adorata: due febbri perpetue la tenevano accesa; la febbre dei diamanti e la febbre dei cavalli: a quella dei [p. 142 modifica] diamanti aveva rimediato alla meglio, mettendone a canto a due falsi uno buono; quanto all’altra dei cavalli non sapeva che pesci pigliare; difatti, ti riesce comparire in corso con un cavallo di carne ed un cavallo di legno? Il mio regno, il mio regno per un cavallo! E se questo fu lecito gridare al re Riccardo III per un cavallo solo, o che cosa non si ha da concedere alla donna che prometta per due?

Ma se a Fabrizio teneva calafatate le orecchie col cotone l’amore, al Vinneri le dilatava il sospetto; e in verità ne udiva delle bigie e delle nere; ne gli giovava farsi piccino, rimpiattarsi e sparire, che il pubblico maligno aveva indovinato il gioco: il presidente, egli mormorava, si astiene da pigliar parte nel collegio giudicante le cause difese dal genero, ma sotto sotto fa fuoco nell’orcio, e le cose vanno sempre per la china: cotesti non sono giudizi, bensì grassazioni commesse a mano armata di carta bollata sul pubblico tribunale; o come va che il genero Fabrizio abbia sempre ragione, e chi piatisce con esso lui sempre e poi sempre torto? Sopra lui solo piovve lo Spirito Santo? Il capitano forse per tempo non interrotto potrà vincere in grazia della virtù e della fortuna sua, ma l’avvocato, senza che il diavolo ci ficchi la coda, sempre non la potrà spuntare.

E la caldaia, bolli bolli, già manda all’aria i sonagli, già la schiuma in pelle in pelle all’estremo [p. 143 modifica]dell’orlo minacciava traboccare: alla chetichella almanaccarono volgere petizioni al ministro; non bastando, alla Camera; scarse da prima le firme sotto le petizioni, e tirate con le tanaglie, ora venivano giù una dietro l’altra come le ciliege: però se in questo tramestio fosse tutta invidia, veruno poteva saperlo meglio del Vinneri, a cui la coscienza, come fa lo stomaco per indigestione di fortumi, arcoreggiava: di fatti, date le spese al suo cervello, capi che bisognava portarci rimedio piuttosto oggi che domani, onde chiesta ed ottenuta subito udienza dal presidente del Consiglio dei ministri, il quale in quel momento reggeva nientemeno che tre ministeri, dopo ricambiatesi dall’una parte e dall’altra accoglienze affettuosissime, imperciocchè da molto tempo costoro si conoscessero ed avessero imparato a stimarsi come meritavano, il Vinneri parlò:

— Eccellenza, io vengo a proporle un affare di oro, un acquisto proprio co’ fiocchi, da crescere la reputazione al governo, e per conseguenza a lei che tanto saggiamente lo dirige.

— O sentiamo, via, che cosa ci porta di bello, — rispose il ministro dandosi una fregatina alle mani.

— Ecco; ha ella sentito mai, eccellenza, tenere proposito del mio genero Fabrizio Onesti?

— Mi pare...

— Giovane di eloquenza smagliante, di studi pro[p. 144 modifica] fondi, in brevissimo tempo salito in fama di avvocato principe.

— Ebbene?

— Mi ci sono messo d’intorno, mosso dallo zelo pel governo della E. V., e dai dai, io l’ho frollato, persuadendolo a portare al suo servizio negli uffici così giudiziari, come politici, ed anche amministrativi la sua molta capacità: ond’io la conforto a non lasciarsi scappare di mano questa starna; ch’io so che in qualunque maniera me l’accomodi, o arrosto o in salsa, la proverà una delizia.

— Per amore di Dio, signor presidente, non me lo conduca davanti, perchè, veda, dopo le informazioni che me ne ha dato, il suo genero corre rischio ch’io me lo mangi vivo vivo.

Risero ambedue, ma di un riso di qualità diversa; di subito però il ministro rimettendosi al serio, soggiunse:

— Io non credo niente a questo magnifico acquisto: il suo signor genero ha proceduto sempre ostile alla monarchia in modo scandaloso; anche ieri ostentava sensi esaltati di repubblica... e credo anco un tantino di comunismo; egli capo di tutte le combriccole, egli promotore di comizi popoleschi... non mancano neppure prove ch’egli abbia fatto parte di una congiura contro la sicurezza dello Stato... [p. 145 modifica] — Questo è il bello... si affrettò ad interrompere il presidente, il quale non potè astenersi da pensare: Poveri noi, se invece di conoscerlo sì poco da parergli non conoscerlo, lo avesse conosciuto a fondo! Combattere i nemici co’ soldati che abbiamo fatto disertare dalle loro bandiere: noi altri ripetiamo in curia il dettato non sunt sumenda arma e domu rei, ma quando lo possiamo fare, ci sembra andare a nozze.

— Non sempre, massime quando i disertori sono giovani, spesso tornano ai primi amori, li sperimentiamo presuntuosi, indisciplinati e specsso soggetti a pentimento: in ciò non siamo sicuri nè anche dei vecchi, perchè consideri, signor presidente, anche Giuda rese i danari e s’impiccò.

— Da quel fatto in poi corrono milleottocento e non so quanti anni; il mondo ha camminato, e di coteste corbellerie non se ne commette più; ne V. E., così sapiente nelle arti governative, vorrà negarmi che il tirare a sè i soldati dal partito avverso non ci getti lo sgomento; lo scredita fuori di misura, uno piglia sospetto dell’altro, la paura entra in tutti i cuori, sicchè, quando pure non approdasse per le forze che porta, ci tornerebbe sempre utilissimo per le forze che gli leva.

— Ci è del vero nel suo discorso... non nego che ci sia del vero.

— E poi io l’accerto che mio genero non è pasta [p. 146 modifica] da farne salmi penitenziali, i suoi vecchi amici si sono alienati da lui, lo hanno ferito nello amor proprio, gli levarono i pezzi da dosso, sicchè a quest’ora ha segnato sopra il suo libro verde un grosso ma grosso debito a carico di loro, che gli ha da premere di farsi pagare; — e noi, che gli stiamo al canto, procureremo ch’ei lo riscuota senz’altri amminnicoli.

— Sicuro... sicuro, se la vendetta mettesse le sue legna sul fuoco sotto la pentola, questa in un attimo spiccherebbe il bollore.

— Dunque aut aut, concludiamo o non concludiamo?

— Sentiamo via, e che cosa pretenderebbe il suo signor genero?

— Ecco, una procura regia presso la Corte di appello le parrebbe troppo?

— Enorme! Ma che ha dato a rimettere le doghe al suo cervello... il suo signor genero? Di punto in bianco una regia procura! Che scatenio nel fôro! Che uragano nei giornali! Sopra quanti bisognerebbe passare, calpestandoli come boie panattere!

— Via... via, eccellenza, da quando in qua queste paure di affogare in un bicchiere di acqua? Bene altre sublimi audacie ci ha educato ad ammirare il suo felice ingegno; qui basta fare un po’ di vuoto, e il cavicchio ci entra quasi da sè. O che vuole, eccellenza, essere da meno del rosticciere di [p. 147 modifica] Londra?11 Costui con un taglio di carne di due libbre era riuscito ad agguantare un magnifico arrosto di quaranta, e a lei non basterà l’animo di trovarmi un posto pei mio genero? Riscattarmi un’anima? Mettersi al fianco una lancia spezzata tagliente e sicura?

— Ma io non sono mica il ministro di grazia e di giustizia, ed ella è al caso di saperlo meglio di ogni altro... e adesso che fa? perchè si volta addietro?

— Ecco, eccellenza, ho creduto ch’ella volgesse la parola a qualcheduno che mi stesse dopo le spalle... ma via, Conte, che ho fatto mai per demeritare la sua stima; ma che le sembra che tra noi sacerdoti abbiano corso simili tattere? O che non sappiamo tutti ch’ella fa qui la pioggia e il cielo sereno?

— S’ingannano tutti; ed io in coscienza... in onore, posso giurarvi...

— Eccellenza, lasciamo ogni cosa al suo posto, non diamo incomodo a nessuno...

— Orsù, senta, un posto di sostituto posso ripromettermi ottenere pel suo genero.... più no....

— È poco... [p. 148 modifica]

— In coscienza...

— E dai con la coscienza! Non sarebbe forse un dente che le dolga, poichè ci batte tanto spesso con la lingua?

— Presidente, per ora le basti; mi lasci vedere quello che saprà fare; solo che trovi nel giovane un terzo di quello che mi assicurò V. S., viva tranquillo, la sua fortuna è fatta.

— Ne parlerò a Fabrizio... non dissimulo che sperava V. E. più generosa meco.

— Ed io m’ingegnerò col ministro di grazia e giustizia... però non taccio, che l’avrei creduto più ragionevole.

— Più ragionevole! Ma veniamo al finocchio... come con lo stipendio di sostituto può mantenersi con decoro una famiglia?

— Quando — e qui il ministro toccò coll’indice una cassetta sopra la quale si leggeva scritto: fondi segreti — quando si sa e si vuole rendere servizi utili, la paga si aumenta a beneplacito.

— Oh! scusi, eccellenza, me n’era dimenticato.

— Presidente, la sua conversazione è piacevole quanto istruttiva, ma le noie dell’uffizio mi costringono senz’altro a dirle addio.

— A rivederci, eccellenza.

Appena costui fu uscito dalla stanza, il ministro [p. 149 modifica] esclamò: Ecco una colonna a cui si appoggia la salute della società! Ecco una delle àncore alle quali si affida la sicurezza dello Stato! Certo cotesti uomini meriterebbero essere gettati dove si calano le àncore, all’opposto li paghiamo, fìngiamo rispettarli, onde altri li rispetti... Se un ciarlatano comparisce su la fiera, via di rincorsa; e che fa egli, il povero ciarlatano? Vende zucca per balsamo, mentre costui ministra veleno invece di giustizia... provate a mutare se vi riesce... e se tu provassi! Mi guardi Dio da siffatte tentazioni! Smovendo un mattone mi rovinerebbe sul capo tutta la volta; e sia, ma la volta così sconquassata per quanto starà ferma al posto? Che importa a me? Quando sarò morto caschi il mondo... La razza umana non vale la corda che la impicchi!

Anche Fabrizio, lo ricordate? aveva esclamato così dopo la difesa di Felicina.

Al fine delle sue parole, un nodo di tosse colse il ministro così impetuosa, che nello sforzo gli saltò fuori delle gengive la rastrelliera dei denti finti che vi stava raccomandata. In questa appunto ecco aprirsi la porta ed entrare in fretta il ministro di grazia e di giustizia: era già presso al presidente, quando questi con cenno e con voce lo fermò gridando:

— Non venite oltre... non vi movete... o mi rovinate...

— Io? che novità sono queste? [p. 150 modifica]

— Non sono novità, ma cose vecchie; o non vedete che se fate un passo di più mi stritolate i denti che mi sono caduti per terra, ed io, come sapete, tengo il portafogli delle finanze: ora, un mistro di finanza senza cuore ed anche senza cervello può darsi, senza, denti no; sarebbe un padre senza... oh! a proposito...

E qui espose al collega il suo bisogno; e colui nato e cresciuto giunco in terra palustre, si piegò subito alle voglie del suo piuttosto padrone che compagno nell’ufficio, e gli venne dichiarando partitamente chi avrebbe messo da lato con la debita pensione, e chi scarrucolato da un paese all’altro per fare largo a Fabrizio.

Mentr’egli favellava, il presidente del Consiglio, presa così per trastullo una penna, si mette a calcolare: lire seimila aggravio allo Stato per la pensione, lire ottomila per traslatamento di sei sostituti, non contando altri disagi e spese, e tutto questo per tenermi bene edificato il Vinneri! Il Vinneri! lui, se non fossi ministro, non mi gioverei pigliare con le molle per buttarlo sul concio. Il Vinneri! che se dimani ci trovasse il suo conto, mi darebbe di un calcio nei reni alla traditora, quando anche mi trovasse in capo di una scala... Così vuole questa delizia del governo costituzionale... Però, non creda già di mangiarmele a ufo... gli darò bene io ossi duri a rodere... e dall’altra parte è spediente che [p. 151 modifica] gl’impiegati stieno sempre corti a quattrini; le punte dei piedi della miseria ne urtino continuamente i calcagni, allora si maneggiano meglio, li troviamo più pieghevoli... più disciplinati. I contribuenti brontolano: brontolino, purchè paghino... e poi essi hanno meno cervello dei passerotti: quello che assorbo io con la tromba delle imposte, o lo Stato non rende a loro in forma di pioggia? E gli operai? Oh! questi sì che meriterebbero la frusta quando mi lacerano a cagione, dicono essi, delle improvvide spese... fare e disfare non è tutto un lavorare? E se facessi sempre bene non lavorerebbero meno? Avanti... avanti, e voghi la galera.

E qui, rinnovata la solita fregatina alle mani, attese ad altri affari.

— Caro Fabrizio, diceva il Vinneri stringendo in ambo le sue mani la destra del genero, questa fu per me la più bella giornata della vita.

— Me ne rallegro con voi, e potrei...?

— Anzi, sono io che ti prego di starmi a sentire, e mi corre l’obbligo informartene, perchè si tratta proprio di te.

— Di me?

— Appunto: stamane per faccende di ufficio ebbi una conferenza col presidente del Consiglio dei [p. 152 modifica] ministri: dopo aver dato sesto ai nostri affari, egli mi ha chiesto nuove di te.

— Di me? Proprio di me?

— Già, e me ne ha parlato in termini eminentemente lusinghieri: io, che ti sono babbo, vedi, non avrei detto meglio, e così, passando dal lesso all’arrosto, ha deplorato che il tuo bellissimo ingegno si strugga nell’avvocare volgari cause private, oggi segno di fastidiose importunità, domani buttato là nel dimenticatoio, sempre traballante sopra un terreno che ti vacilla sotto: vita di avvocato vita di giocatore di pallone, di fantino di circo equestre, di funambolo; levante stentato, mezzogiorno pomposo, tramonto in soffitta, quando va bene; se no allo spedale. Codesto non è il suo posto; egli dovrebbe prendere parte nel governo, dove per poco la fortuna lo assistesse non potrebbe mancare di giungere a grado sublime.

— Il signor ministro ha detto proprio così?

— Così proprio; io non ti ci metto su sale nè pepe... se io fossi nei tuoi piedi, senza gingillarmi tufferei il cappone che la Provvidenza mi manda dentro la pentola a bollire.

— Eh! non lo nego: la proposta potrebbe forse convenirmi, se non fossero i principii politici da me professati fin qui, i quali mi attraversano la via; il meno che me ne verrebbe sarebbe sentirmi tacciato di carnaccia venduta. [p. 153 modifica]

— Si vende cervello di montone, rispose il presidente facendo spallucce, non il tuo; quando tu metti la tua capacità al servizio del governo, e questi ti paga, non è vendita, ma baratto di uffici; dove tu, almeno sul principio, scapiteresti un tanto. Quale è mai il fine di coloro che si atteggiano a oppositori del governo? Quello di partecipare agli uffici; adesso, siccome coloro che li occupano e ci stanno bene tengono chiusa la porta di strada, e li escludono dalla scala maestra, gli altri appoggiano ai muri esterni una scala da pagliaio e si arrabattano a entrarci per le finestre. Sai tu che ti ho a dire? Si compra la roba che vale: su i banchi dei pollaioli io non ci ho visto avanzare altro che le galline morte di pipita. Specchiati nella Camera dei deputati; a dar retta alle lingue maligne, tutti sono venduti, o da vendersi, e pure insieme al monarca ed al Senato ella forma la prima magistratura del regno.

— Ci penserò; e caso mai mi risolvessi, vi ha detto il ministro a quale impiego mi destinerebbe?

— Per ora basterebbe bucare; ma, appena dentro, va’ sicuro tu saliresti glorioso al cielo come il fumo dell’arrosto.

— Ma pure...

— Ecco, ti servo. Di primo acchito sostituto procuratore regio alla Corte di appello... Eh! che ne dici? Ti pare piccolo slancio? [p. 154 modifica]

Fabrizio, che si aspettava, secondo le persuasioni della sua vanità, almeno la presidenza della Corte di cassazione, con faccia scorrubbiata rispose secco: — Rifiuto.

— E perchè rifiuti? Sentiamo, via, le ragioni: forse la proposta ti riesce sotto il dente tigliosa? ovvero al gusto stantia?

— Ma voi, caro socero, dovreste sapere meglio di me come il sostituto del regio procuratore venga sempre commesso a sostenere le accuse contro gli imputati; ed io, che fin qui sostenni il nobile ufficio della difesa, mutati a un tratto studi ed instituto di vita, dovrò farmi accusatore... incettatore di vittime alla mensa della giustizia...?

— Quanto a questo poi, l’ufficio di liberare la società dai furfanti giudico nobile per lo meno come quello di scarmanarsi per tanti pezzi da galera; nè il banco della giustizia si ha da chiamare mensa, bensì ara; nè tu provvederesti, ma riceveresti le vittime consacrate all’altare; spetta ai giudici la parte di sacerdoti.

— No... non è così... provvisionieri della forca i regi procuratori: gl’impiccatori un po’ per uno: il giudice e il boia...

— Ubbie! proprio ubbie!... con voi altri non si vince nà s’impatta; o non avete sostenuto voi, e meritamente, le accuse presso i popoli liberi onoratissime quanto le difese e più, come quelle che [p. 155 modifica] chiedono maggior prova di coraggio ed espongono a maggiori pericoli? Cicerone informi, e la sua testa recisa, e la sua lingua sforacchiata. Da’ retta a me, non rompere paglia con la fortuna. Considera la immensa soddisfazione di vederti a un tratto mutare scena davanti. Coloro che prima ti squadravano a squarcia sacco, fingendo di non riconoscerti, eccoli tutti umili venire a metterti il prezzemolino al naso; adesso tu li farai aspettare ore ed ore nella tua anticamera come l’ultimo dei tuoi servitori... ecco venuta la tua volta di fingere di non li riconoscere, anzi di neppure vederli... se ti capitassero sotto — e non può mancare che qualcheduno di loro, o dei loro aderenti, non ti ci capiti — io ti raccomando di pigliarti la voluttà di stringerli così per vezzo un zinzino per la gola...

— Ah! proruppe dal cuore Fabrizio, toccato sul debole, se non fosse Dio che mi tenesse le sue sante mani in capo... a quest’ora!...

— Lascia Dio a casa sua, che qui non ci ha che fare; di’ che ti tiene la tua superbia o piuttosto la tua sterile vanità.

— Sarà come volete; ma tanto è, una ripugnanza invincibile mi respinge indietro... e poi adesso mi casca nella mente un’altra considerazione: alle gravi spese di casa come potrei sopperire io? La bella e cara Bianca, da noi unicamente diletta, a modo di farfalla che folleggia da fiore a fiore, [p. 156 modifica] s’inebria volando di piacere in piacere... ella forma tutta la mia felicità... il mio orgoglio... il mio tutto; ditemi, socero, mi somministrerete voi il danaro che mi mancherà?

Non così pronte si ritirano foglia di vergognosa, o corna di lumaca al tocco altrui, come di subito si chiuse il Vinneri a cotesta mazzata, ma poi riaprendosi a poco a poco incominciò a dire:

— Quando la dovesse andare a cotesto modo sarrebbe sempre una cosa passeggera; non si mettono gli ortolani al buio, perchè ingrassati facciano poi nobilissima mostra sopra le mense signorili? Lo stesso, alla più trista, avverrebbe di voi; ma voi non correrete neanche questo pericolo, perchè... perchè il ministro non fa penuriare di danari i magistrati zelanti, che spendono in solerti ricerche dirette a prevenire i delitti comuni, e più i politici.

— E qual profitto mi viene dai danari che spendo per cause inerenti al mio uffizio?

— O te beato eletto al regno dei cieli! Possibile che tu sia così povero di spirito da non comprendere che il ministro, quando vuol provvedere di danaro i suoi beniamini, trova sempre qualche onorato pretesto, onde questi possano darsi ad intendere che non lo mangiano a ufo.

— Io questo so, che quando accetti il mandato di adoperare il danaro altrui per un fine prescritto, se te lo intaschi commetti furto. [p. 157 modifica]

— Ecco le solite ubbie: di’ su, quando il sarto o il calzolaio ti porta il conto, lo paghi tale e quale, oppure ci fai la tara?

— Io ci faccio la tara.

— D’incanto. Ora, se fai la tara per te, di certo la farai per gli altri, e questa tara ti potrai legittimamente appropriare, perchè da un lato corrisponde ad una tua industria e dall’altro ad una liberalità di animo riconoscente per parte delle persone che impieghi. Aggiungi che in moltissimi uffici, dove per ragione d’impiego l’uomo è costretto, oltre il lavoro ordinario, a prestare opera straordinaria, si ricompensa sempre con supplemento di onorario: di simile natura giusto è il tuo: veruno ti obbliga a vegliare tutta notte, onde altri dorma tranquillo, nè a mettere a repentaglio la tua pelle perchè non isforacchino l’altrui; dunque parmi di tutta equità che ti abbiano a pagare le vacazioni come ad ogni altro impiegato quando lo mandano in gita. La differenza consiste in questo, che agli altri il ministro dispensa il danaro da sè, per te lo rimette nella tua discrezione.

— Andrà tutto bene, ma rifiuto recisamente, conchiuse Fabrizio abbottonandosi l’ultimo bottone del soprabito e facendo atto di andarsene; senonchè il Vinneri, agguantatolo per la mano, lo tirò giù di forza dicendo:

— Non ti licenzio ancora; compiaciti sedere per [p. 158 modifica] altri cinque minuti, e ti chiarirò meglio la cosa. Fabrizio, parliamo aperto, ora che siamo a quattro occhi: sai tu chi ti ha procurato tante liti a patrocinare? Io. Sai tu chi te le ha fatte vincere? Io; adoperando coperti accorgimenti; e molle segrete di cui non importa discorrere. Tamen anche le arti della più astuta accortezza all’ultimo si fanno scorgere, perchè dal frutto indovinano il seme. Adesso sai tu a che ne siamo? Te lo dirò io. I tuoi colleghi hanno fatto ricapitare al ministro di grazia e giustizia un lungo memoriale, dove punto per punto si specificano le cause da te avvocate, le ragioni dedotte nelle tue scritture, i motivi delle sentenze, e si prova come senza scandoloso favore tu non potevi vincere in onta al diritto espresso ed alla pratica di giudicare. Infatti, io lo confesso, il troppo amore per te e per la cara Bianca mi ha tolto il lume dagli occhi. Ma ci ha di peggio: i deputati della opposizione minacciano di farne un richiamo in Parlamento, studiosi di dare il gambetto ai ministri; di ciò fu ammonito segretamente il ministro da parecchi esploratori che mantiene nel campo nemico...

Fabrizio si coperse la faccia senza profferire parola; il Vinneri dopo breve silenzio continuò:

— E con bellissimo garbo mi faceva avvertito ch’egli intendeva risolutamente antivenire cotesta botta traditora, non potendo nè volendo esporre a [p. 159 modifica] cimento le fortune della monarchia e il credito delle istituzioni costituzionali...

— E il suo portafogli...

— E il suo portafogli, questo ci va sottinteso: per ciò mi proponeva due partiti, entrambi accettabili; lasciandomi la facoltà di eleggere: i quali erano trasferirmi alla presidenza di altra Corte in forma onorifica per me, ovvero, accettata la mia renunzia.... capisci bene, la mia renunzia inviarmi alla Corte dei conti per liquidare la mia pensione...

Qui successe una seconda pausa, e poi riprese:

— Se consideri attentamente, conoscerai come l’un partito e l’altro torni del pari esiziale al tuo interesse; se scelgo la traslocazione, mi metteranno al collo la croce di grande ufficiale di qualche ordine del regno, come il sasso al collo del cane che vuoisi affogare, e mi butteranno in Arno, o nel Serchio, o nella Polcevera; se risegno l’ufficio, eccomi diventato inutile più di uno scaldaletto a mezzo luglio: io non ti posso più aiutare; non difenderti allorchè tutti ti piglieranno a bersaglio dei loro strali avvelenati dalla vendetta nel fiele della invidia: i miei stessi colleghi, sta’ certo, per ricattare la reputazione di servili verso di me, si sbracceranno a mostrarsi una volta e mezzo più servili al mio successore, il quale aspettati addirittura nemico. I clienti diserteranno dal tuo studio: ed a ragione, l’interesse te li diede, l’interesse te li toglie; [p. 160 modifica] la calamita tira altrove; e tu che presenterai allora in società? Un fiasco bevuto, una festa fatta, un barbero scoppiato nel correre il palio... e non metto in conto il motteggio maligno, le trafitture, e più acerbo di ogni altra cosa il filo di rasoio del compatimento... datemi la corda, un maglio su la testa, di una scure sul collo, mettetemi nella botte spuntonata di Attilio Regolo, dentro il sacco dei parricidi, ma risparmiatemi, oh! per amore di Dio o del diavolo, l’arsenico del compatimento... Ora, dirimpetto a codesto stato da far venire il mal dei denti ai cani, poni una carica onpratissima con promessa di sollecita promozione e l’insegna da cavaliere, insegna che ogni fedele democratico si fa caso di coscienza di sprezzare lontana e di agguantare vicina con tutte e due le mani, per tenere come l’antico colosso di Rodi la gamba destra sopra un plinto e la sinistra su di un altro, intantochè la navi gli passavano di sotto. Io te l’ho già detto e te lo torno a dire: queste faccende le sono come i denti, dolgono nel nascere, ma poi ci si mastica (veramente il proverbio non parla di denti, bensì di altra cosa, che al presidente non giovava rammentare, nè a Fabrizio udire).

— Ecco, esclamò doloroso Fabrizio, mi tocca a entrare nella magistratura come un dannato nello inferno! [p. 161 modifica]

— Ubbie! Da quando in qua si è sentito dire, che il diavalo dia ai dannati seimila lire di pensione all’anno, oltre quello che fa la penna, e la croce per giunta? — Bazzica i santi il diavolo?

— No.... sono questi che consegnano la loro anima nelle mani al diavolo.

Il Vinneri avendo fatto con molta arguzia notare come l’uscita di Fabrizio dal ruolo degli avvocati gli era stato un togliere il dente alla vipera, riuscì a mantenersi nell’ufficio, dove non procedendo diritto (che simile facoltà non si confaceva alla sua complessione), bensì dando un colpo al cerchio ed un altro alla botte, potè barcamenarsi.

Troppo più duro stato ammanniva la fortuna a Fabrizio. Tutti gli si rovesciarono contro, così buoni come tristi; i buoni, per pietà dello strazio che loro pareva venisse fatto della morale pubblica da esempi tanto abominevoli; i tristi, perchè il pane quotidiano che implorano recitando il paternostro sia l’avvilimento altrui, non già che nella vilezza universale si stimino di più, bensì perchè si disprezzino meno. Calunnia è pei buoni mal comune mezzo gaudio; che i furfanti al male altrui sentano ricrearsi vero è pur troppo; vive una gente nel mondo, la quale reputa i dieci comandamenti insulti fatti alla sua libertà di coscienza, e quelli che li osservano aguzzini inviati per angustiarla. Il misero uomo beveva l’obbrobrio nell’aria; gli [p. 162 modifica] aperti oltraggi amari, non meno acerbi gli altri velati da parole freddamente urbane: non passa giorno che gli antichi colleghi, approfittandosi della licenziosa libertà della toga, non gli menassero manrovesci in faccia, sicchè ormai pareva non vi dovesse rimanere più luogo ad altri sfregi; tutto lo irritava, tutto pungevalo; perfino gli atomi che lo fasciavano gli parea che il pungessero. I vecchi amici, se da lontano lo scorgevano, svoltato il canto gli sparivano, dinanzi; se mai se lo trovano addosso da non poterlo scansare, ecco fingevano ripulirsi il petto da qualche pagliuzza, ovvero portavano la mano sugli occhi, quasi gli ci fosse entrato un bruscolo; infiniti i pretesti e atrocemente ingegnosi per non salutarlo, per iscansarlo e per fìngere di non accorgersi della sua presenza in un luogo. Ora la canatteria dei giornalisti gli si avventa dietro latrante e mordente; pare un cignale corso in caccia; certo egli le sanne mostrava tinte di sangue, qualche cane traendo guai casca sventrato intorno a lui, ma rossi eziandio erano i denti dei cani, ed a taluni pendevano dalla bocca i brindelli della sua carne. Ne aveva perso il sonno e l’appetito; parlava da sè, o rispondeva come se taluno lo chiamasse fuori del mondo: indizio di follia che si avvicina; si guardava fisso davanti, quasi persona gli desse soggezione, ovvero teneva gli occhi bramosi a terra, imperciocchè egli ormai non tirasse più le [p. 163 modifica] sue ispirazioni dal cielo, ma sì dalla polvere: e la congiuntiva degli occhi non gli comparisca più bianca, al contrario iniettata di sangue, e in parte tinta in color fosco, pari a quello della fuliggine: sopra la fronte immoto il pallore della morte e del peccato.

Fabrizio sperpera ogni dì il suo ingegno nella persecuzione di volgari delitti commessi da gente volgare: nè anco lo strepito dei trivi lo assorda, nè manco il polverio che si leva dalle pubbliche strade lo accieca: si spossa a portare fimo come ogni altro più vile giumento; e il guaio non rimane qui, che le angustie della domestica economia, le quali da prima lo punzecchiavano a mo’ di mignatte, adesso lo mordono come mastini: danaro da spendere nella polizia preventiva non gliene offrivano, e a chiederne non si attentava; e ad ogni modo non avrebbe saputo a cui rivolgersi per averne. Ma il bisogno, implacabile boa costrictor, stringendo ogni giorno più forte, deliberò conferirne con la dilettissima Bianca.

Non lo avesse mai fatto, che la dilettissima Bianca, sentendosi minacciata a scemare servidorame, soffiò, miagolò peggio di gatta spaventata: avvampante in volto, impetuosa nelle parole e nei gesti, giurava non potere fame a meno nè manco di uno. che si ha da licenziare la cameriera? E allora chi mi pettina, chi mi veste, chi mi lava, chi mi stira, chi [p. 164 modifica] cuce? e via via. Accommiateremo il cuoco? Peggio... chi va al mercato pel vivere, chi cucina, chi mette in tavola... e quando viene gente a pranzo come rimedieremo? La donna di mezzo? Chi spazza, chi acconcia le camere, chi rifà i letti, chi dà il bucato, chi lo riceve? E alle lucerne pensi tu, Fabrizio? A lustrare le scarpe, a spazzolare i panni ci pensi tu, Fabrizio? A portarti la mattina, quando ti svegli, il caffè nero al letto ci pensi da te, Fabrizio? Misericordia! non ha tante parole un leggio quante n’ebbe la Bianca in cotesta occasione; le cateratte della loquacità donnesca si apersero diluviando. Fabrizio, non avendo l’arca per ripararcisi dentro, tacque e scappò.

La necessità più forte di lui schiuse le gavigne alla Bianca, la quale bel bello si trovò ridotta a tenersi dintorno una serva sola: però l’assottigliare la uscita non bastava, occorreva crescere la entrata, e per questo non ci si trovava ripiego: e poi finchè si scarniva il necessario per la famiglia fino all’osso, la donna, quantunque con afflitto animo, ci si adattava; ma a toccare le spese di lusso, o come le si sogliono chiamare di comparsa, guai! Piuttosto morasi di stento in casa, ma il superfluo lascisi stare.

Se considerate tutte queste cose, vi figurerete quale inferno fu quello quando Fabrizio, lasciandosi cascare su di un seggiolone con le braccia abbandonate, significò alla moglie non avanzargli in tasca [p. 165 modifica] più tanto da tirarsi innanzi quel giorno: essere forza mettere la mano su qualche diamante per campare.

Io, lo confesso addirittura, mi trovo corto a colori ed a similitudini per descrivere le disperazioni di Bianca; nè mica finte, all’opposto verissime e lacrimevoli; empi il cielo di strida dolorose; si strappò i capelli, corse per la casa come frenetica; per furore non pianse; solo dagli occhi stralunati sprizzava faville; cascò in deliquio, violentissime convulsioni la sorpresero, in breve ora gli affetti isterici la ridussero a mal partito, tantochè Fabrizio, il quale l’amava teneramente, ne senti compassione e paura, onde, racconsolatala come meglio gli venne fatto, uscì di casa recandosi difilato presso un cristiano circonciso, o ebreo battezzato, sua conoscenza vecchia, per impegnare l’orologio, quantunque a lui per le necessità del suo ufficio fosse indispensabile più del pane.

Scarso sollievo; stilla di rugiada su la pelle di un dannato; pochi giorni dopo, patite tre o quattro strappatelle, fa mestieri cedere ad uno squasso maestro della fortuna... Ma che Agar, madre infelice, quando, abbandonato il figliuolo Ismaele sotto una palma, se ne va lontano a piangere per non vederselo morire su gli occhi! Due cotanti più angoscioso lo spasimo della Bianca nel vedersi staccare dal seno un diamante: dopo averlo co’ più cari nomi [p. 166 modifica] chiamato, e con i più acerbi rinfacci garrito della sua ingratitudine, serrò gli occhi e si pose a letto chiusa in un tetro silenzio.

Talora pensava Fabrizio fra sè: chi mai lo avrebbe sospettato! Esclamazione dei tre quarti dei mariti dopo un mese o due di matrimonio, e questo perchè la natura dipinge la passione a buon fresco, e la educazione poi la ritocca a secco: i ritocchi a secco col tempo cascano, ma la pittura a buon fresco rimane. Prima di portarla non si può sapere se farà male la scarpa, e finchè le non si daranno le mogli a prova io non ci vedo verso di evitare simile pericolo.12

Già eravamo presso a finire la moneta ricavata dalla vendita del diamante, e Fabrizio, rifuggendo dal rinnovare le parti dell’ebreo Shylok,13 quantunque a malincuore, si fece a trovare il socero, il quale da un pezzo in qua visitava la figliuola di rado e sempre più breve; questi lo accolse con visibile imbarazzo: avesse potuto svignarsela! Ma poichè altra via non gli si parava dinanzi, eccetto la cappa della stufa, voltata faccia alla fortuna con la consueta inverecondia, tra le altre queste cose favellò al suo genero:

— Caro mio, tu lo sai, dalla mia paga in fuori [p. 167 modifica] io non possiedo in questo mondo un becco di quattrino; nell’altro non credo averci fatto troppi avanzi. Però io non te lo tacqui; tu non potresti dire onestamente che ti abbia posto di mezzo: ci dovevi pensare prima di metterti in mare; senza biscotto non si naviga, nè tu eri un pargolo da ignorare come stia la cuffia a Crezia, e assai praticasti la Bianca per prendere di lei conoscenza intera: questo ti ho voluto dire per rammentarti che io non ti piantai dinanzi il dilemma: o mangiare questa minestra o saltare questa finestra, non già perchè valga a levare un ragnatelo da un buco. — Mettiamo dunque in sodo, ch’io non posso sovvenirti in nulla; — e non lo devo: non mi fare bocchi, Fabrizio, che io te lo provo. — Con l’onorario di presidente e trovandomi solo, su per giù alla meglio me la sgabello da pari mio: ora figurati ch’io te ne dessi un terzo; che ne avverrebbe? Patirei io, non solleverei te: scomparirei io e non compariresti tu; e poichè uno di noi altri due deve stare allo stecchetto, io, dal mio punto di vista, ho ragione a volere che ci stii tu; e ciò con tanto maggior fondamento, in quanto che dipenda proprio da te volerci stare, perchè pretenderesti che le beccacce ti volassero intorno alla mensa belle e arrostite coi crostini sotto l’ale e la salsa in un cestino nel becco!

Ah! tu presumi che ti vengano a profferire fino [p. 168 modifica] a casa il danaro? Alla rana, che non chiese, non fu data la coda.

— Ma io non sono uso a chiedere. Ho creduto convertirmi in magistrato, non già in accattone per limosinare alla porta dei conventi dei frati una pentola di minestra.

— Qui non ci entra minestra, bensì raccogliere moneta, che basti per provvedere alla pubblica sicurezza ed al pranzo intero di magistrato rispettabile...

— E posto che io mi piegassi a chiedere, ma dove avrei a volgere le mie domande?

— Di questo dovresti informarti tu, ma per me credo con molti la via retta più corta, e per ciò difilato al presidente del Consiglio dei ministri.

— E s’ei non mi dà udienza?

— Le sono cotesto pituite di malinconia; S. E. ascolta tutti per essere di natura urbanissimo, e poi per debito d’ufficio, massime quando si tratta di ufficiali preposti alla sicurezza pubblica.

— Caso mai mi ammettesse al suo cospetto, e che potrei dirgli io? Io mi consumo correndo dietro a furti, ingiurie, ferimenti, omicidi e via discorrendo, tanto da parere un gatto che si sbizzarrisce a ruzzolare trucioli. Non mi è capitato mai un delitto di spolvero; mi tocca stare terra terra come la porcellana; ed io non mi posso mica stampare una causa celebre da mandare sottosopra gli uomini e i giornalisti..... [p. 169 modifica]

— E chi ti para?

— Come! Che avete detto?

— Io? Dico quello che mi hanno insegnato le sacre carte: pulsate et aperietur vobis; chi cerca trova. La tua promozione e la insegna di cavaliere mi furono promesse; però a patto che dovessero servire di compenso a qualche segnalato servizio da te reso al governo, e fino ad ora la fortuna non ti ha fatto gli occhi dolci; ma, caro mio, buona cura vince sventura: perchè non ti sei tenuto bene edificato il ministro? Perchè non t’insinuasti fra i suoi familiari? Bisognava tu t’industriassi a entrare in grazia a taluno di casa sua; noi principii non bisogna stare sul doge; innanzi di celebrare le messe si servono: tale, ricordati, entrò in palazzo per la gattaiola, che poi all’uscirne non gli bastò gli aprissero le porte a due battenti... ma adesso, lo vedo anch’io, mi sembra tardi... siamo con le spalle al muro... tanto è, mi proverò a toccarne di nuovo al ministro... ma anche tu, vedi, avresti a fare una cosa... dovresti... mandare... anche a nome mio... a sollecitare... il ministro... la Bianca.

— La... Bianca?

— Sicuro, o che ci trovi tu di sperpetua? Forse non ci vanno tutto giorno a frotte le principali gentildonne del regno?

— La Bianca!

— Già, caro mio, la è cosa vecchia, che quando [p. 170 modifica] ci si mette di mezzo una donna si ottiene presto e bene. Considera questo, anche la nostra religione cattolica ci persuade ricorrere alla intercessione della Madonna, perchè Dio ci faccia la grazia. La donna, o sia madre, o figlia, o sposa, ascoltasi benignamente sempre e da tutti, i cortesi perchè si sentono commossi, gli zotici soggiogati: anche quando non si voglia o non si possa concedere la cosa domandata, è difficile che la donna si trovi messa alla porta con maniere inurbane: insomma, la donna esercita soave e nonpertanto irresistibile violenza sopra l’animo dell’uomo o con la bellezza, o con la favella, o con la pietà... Vedi... il cuore mi presagisce che se mandi la Bianca a perorare la tua causa presso S. E., tu riuscirai di certo.

— E voi ci avreste mandato la vostra moglie?

— Io? Ma sicuro, quante volte mi è occorso ho mandato la moglie ai ministri, e anche a S. M. il nostro augusto padrone, e me ne trovai sempre bene.

— E non vi sorse nell’animo...?

— Che mai?

— Il sospetto... capite... vorrei che voi m’intendeste.

Ohibò! Né manco per sogno. In primis mi rendeva tetragono ai colpi del sospetto la inestimabile stima professata da me a quella santissima donna, che fu la tua socera, e poi la moralità a prova di bomba dei personaggi cui ella si faceva a [p. 171 modifica] sollecitare nell’interesso della famiglia. Se avessi mai potuto concepire un sospetto sopra di lei, sai tu quando avrei sospettato? Allorchè si andava a confessare.

— Ma le dicerie della gente maligna non vi mettevano in pensiero?

— Chi mal pensa, male abbia: per abbaiare di cani non si eclissa la luna. A te bastino per quiete dell’animo la rettitudine delle tue intenzioni e il conoscimento della dignitosa coscienza e netta della tua consorte.

— Per me ce ne sarebbero di avanzo; il male è che non bastano agli altri: noi pur troppo viviamo incastrati nel mondo, e se sarebbe viltà condannarci a fare a modo suo, nè anco possiamo avere la prosunzione di fare in tutto a modo nostro; specchiatevi in Cesare, che non sofferse neppure tenersi attorno la moglie sospettata.

— Caro mio, tu hai da sapere che cotesti esempi antichi sono come i pesci, i quali non si mangiano senza prima levarci le lische. Cesare potè gettare polvere da gonzi negli occhi ai Quiriti, nei nostri dì ai vecchi criminalisti non avrebbe potuto: egli prima afferma Pompeia innocente di adulterio con Clodio, e poi la repudia. Tu hai a convenire che simile contegno, se gatta non ci covasse sotto, non avrebbe capo nè coda. To’! prima la proscioglie da ogni colpa propria, e dopo la punisce per la colpa [p. 172 modifica] altrui; intendi che Cesare sapeva di avanzo che cosa aveva bollito in pentola, ma aborrendo tirarsi addosso la nomea di minotauro, argomento perpetuo di trafittura, comecchè immeritata, volle donare a Pompeia la prova legale della sua onestà rispetto al pubblico; tra lui e lei la prova legale non bastava per levare di mezzo la prova reale; quindi scappò fuori col gingillo che hai detto per rimandarla a casa. Il popolo, il quale nei grandi ammira di più quello che intende meno, pianse al logogrifo; noi altri posteri, che spesso non ereditiamo i beni degli antenati, e la imbecillità loro ereditiamo sempre, lo abbiamo a volta nostra applaudito; ma tu, caro mio, vivi sicuro che Cesare, anche innanzi di passare in Brettagna, sapeva di essere stato in Cornovaglia. Ed ora, che adempiendo al debito io ti ho avvertito, tu fa’ quello che giudichi più vantaggioso per te; dal canto mio non mancherò sovvenirti come posso; ed ora lasciami in pace, che mi aspettano a pranzo dal conte Seigatti, il quale è in procinto di essere promosso senatore; e tu sai che un desinare riscaldato è delitto di lesa cucina.

Fabrizio, ritornato a casa, si mostrava più balordo del solito: sopraggiunta la notte, alla moglie chiedente se andavano al teatro rispose aggrondato: no; se a veglia: no; se a fare due passi: no, no, con sempre crescente cupezza; allora la Bianca si spogliò cheta cheta e si mise a dormire. [p. 173 modifica] Fabrizio rimase levato a passeggiare per la stanza da letto.

Vittore Ugo nei Miserabili ha scritto di certa procella sotto un cranio, che a diritto viene stimata mirabile cosa; ora, anco sotto il cranio di Fabrizio turbinava una fiera tempesta: io non la descriverò, imperciocchè porre il piede dove altri lascia l’orma non mi garbò mai e non mi garba: chi va dietro altrui non gli va mai innanzi, così Michelangelo Bonarroti lasciò per ricordo a me e a tutti quelli che ne vogliono approfittare: pertanto io, sentendomi pure incapace di precedere in niente nessuno, ad ogni modo desidero camminare con le mie gambe. Devo però avvertire che la conchiusione di Fabrizio mise capo a termine del tutto diverso da quello del Valjean; imperciocchè questi si risolvesse a magnanima azione, mentre Fabrizio si decise a partito in apparenza onesto, ma nel suo cuore sentito abietto; già incomincia a contentarsi che le sue azioni di faccia a sè e ad altrui paiano non sieno quello che dovrebbono essere. Ma la Francia è il paese dei miracoli; colà i galeotti solo (in grazia dei romanzieri, i quali ne spediscono loro le patenti) godono il privilegio di compire le belle imprese; in Italia la galera è galera; qui il ladro non avviene mai che sostenga la parte di Agamennone, mentre persone stimate dabbene troppo più spesso che non vorremmo commettono lamentabili bruttezze. [p. 174 modifica]

Fabrizio, presentita la Bianca se avrebbe provato repugnanza di presentarsi a S. E. il presidente del Consiglio dei ministri, per sollecitarlo allo adempimento delle promesse fatte in pro suo, sentì rispondersi da lei: magari! che non avrebbe fatto per avvantaggiare il suo caro marito e se? veramente nel fôro della coscienza, come accade sempre, la sintassi procedeva in ordine inverso, che il sè veniva prima ed il marito dopo; alla quale diversità, d’altronde di poco rilievo, vanno ordinariamente soggetti gli umani pensieri nel viaggio che fanno dal cervello alla lingua.

Dunque ella andò.

Il ministro, un po’ per iattanza, difetto che sta agli ingegni petulanti come i nei alla bellezza procace, e un po’ per le moltissime faccende che lo assediavano, soleva dare udienza dalle ore dieci di notte fino alle tre, alle quattro, e talvolta fino alle sei del mattino; nella libidine di lode costui si riprometteva che la gente udendo della sua prodigiosa solerzia dovesse esclamare: Atlante, sostenitore su le sue spalle il mondo, è redivivo; Briareo centimano, figliuolo del Cielo e della Terra, dall’olimpo ha trasferito il suo domicilio nel ministero dello interno!

Non avendo la Bianca riputato spediente chiedere udienza particolare, si mise in combutta con gli altri attendenti. Gli uscieri però, obbedendo al comando [p. 175 modifica] dei superiori, costumavano introdurre prima le donne, poi gli uomini, per la qual cosa se la Bianca non entrò per la prima, nemmeno fu l’ultima ad essere introdotta; messa dentro, si rinvenne circondata da tenebre, onde su quel subito pensò: i ministri sarebbero per sorte come i gatti, che vedono al buio? Ma ciò accadeva per essere vastissima la stanza e il ministro se ne stesse seduto davanti una immensa tavola nell’angolo opposto diagonalmente a quello ove si apriva la porta donde la donna era entrata, ed egli per giunta si riparasse dietro un grande paravento, per amore degli sbocchi di aria che irrompevano continui nella stanza da cinque porte, le quali senza posa aprivansi e chiudevansi: aggiungi che la lampada incappellata non ispandeva lume oltre una zona di poco più larga della tavola. La Bianca, confusa dal tempo, dal luogo e dal buio inaspettato, peritandosi a un tratto di comparire davanti a personaggio tanto spinto allo empireo dall’interesse di pochi e dalla pecoraggine di molti, si fermò, nè prese animo a muoversi finche una voce squillante di piacevol suono le ordinava:

— Avanti!

La Bianca, essendosi sentita rimettere il cuore in corpo dalla benignità di cotesta voce, si fece innanzi graziosa e leggera...

Signora, o che la mi permetterebbe ch’io in due tocchi la informassi del come si presentò vestita la [p. 176 modifica] Bianca a S. E. il ministro? Veda, con uno schizzo mi sbrigo. Che la Bianca fosse una leggiadra femmina già io gliel’ho detto; forse più leggiadra che bella, ed anche questo, panni non averglielo taciuto, sicchè fermi al chiodo del come aparve vestita: mi sembra vederla..... oh! senta. Portava un cappellino di velluto nero guarnito di una piuma nera cadente da un lato; la fodera di raso colore bianco-perla inquadrava (se avessi descritto il marito era più proprio il vocabolo incorniciava, parlando della moglie mi sembra stia meglio inquadrare) la sua magnifica capellatura, donde scaturiva il gambo di una rosa con alquante fogliuzze dintorno, la quale pareva si arrampicasse lungo la parete di raso bianco; la rosa era artificiale, s’intende, ma bisogna dire che non se ne sarebbe accorta la stessa natura, tanto compariva eccellentemente fatta. La venusta donna, a rendere più compito l’inganno, l’aveva intinta leggermente nell’essenza di rosa. Se o busto, o imbottitura, o faldetta avessero emendato in lei qualche vizio del seno, o dei fianchi, per me non glielo posso dire; fatto sta che Diana cacciatrice non gli avria desiderati più belli, tanto fasciati dalla casacca di velluto nero cotesti della Bianca apparivano divini; non portava cintura, nè altro ornamento di sorta, eccetto due bottoni di diamanti agli orecchi ed uno spillo pure di diamante, che teneva appuntato un nastro intorno al collarino di [p. 177 modifica] punto di Malines: la gonnella di grossa stoffa di seta marezzata colore smeraldo; le mani brevissime e snelle coperte di guanti bianco-grigi pari alla fodera del cappello.

Il ministro con gli occhi fitti nel buio vedeva avanzarsi una figura, che di attimo in attimo rivelava maggiore avvenenza; e quando sul volto e la persona di lei, entrata nella zona luminosa, la lampada diede in pieno il suo splendore, egli rimase estatico a contemplarla.

Ed ella, signora mia, sarà bene che avverta, il ministro, quantunque due o tre denti finti avesse in bocca, e degli anni fra il tocco e non tocco verso i cinquanta, essere stato piacevolissimo uomo, lindo, attillato e di modi urbani quando se ne ricordava: con l’amore egli non aveva avuto mai baruffe; al primo assalto dava le mani vinte, a patto però che non lo incatenasse; ed ora con le parole di messer Francesco Petrarca, quel solenne maestro di amore, avrebbe potuto dire:

Io ardo quanto son men verde legno.


Come per ordinario avviene, la Bianca si trovò imbarazzata dello imbarazzo del ministro; si guardavano, tacevano, si riguardavano ancora, e non sapevano come rompere il diaccio; la stupidità aveva fatto loro nodo alla gola; nè so come la sarebbe ita a finire, se non avesse balenato un sorriso sopra [p. 178 modifica] le labbra di ambedue: per lui cotesto sorriso fece le parti di Mercurio; per lei quelle d’Iride: quegli messaggero di Giove, questa di Giunone: sciolto il gelo, le parole vennero giù anco troppe; la donna dritta come filo di spada al suo scopo, ch’era la promozione del marito e la croce dei soliti santi per giunta: il ministro si difendeva alternando uno scambietto a destra ed ora a sinistra, da mettere la disperazione addosso al più svelto toreador che siasi trovato a repentaglio co’ tori meglio maliziati dell’Andalusia: accenna di sotto, vibra di sopra, batte finte, diritte, striscioni, manrovesci, fendenti, insomma tutte le industrie della scherma pose in gioco la donna (e bada ch’era tutto talento naturale non perfezionato dall’arte), sicchè il ministro, messo alle strette, soffiava come se avesse salite mezze le scale che avevano a condurlo in paradiso; alla fine, facendo uno sforzo, con accento risentito le disse:

— Mia signora, ho promesso promuovere il suo signor marito, ed anche ottenergli dalla liberalità del re nostro signore e padrone la croce dei santi Maurizio e Lazzaro, e non mi disdico; solo le piaccia ricordare ch’io ci apposi la condizione necessaria ch’egli rendesse prima al governo qualche servizio segnalato, il quale mi fornisse motivo plausibile per chiedere alla Corona siffatta liberalità, per non chiamarla parzialità; altrimenti, che cosa [p. 179 modifica] potrei io dire al re? Come giustificarmi di faccia all’opposizione?

— E che cosa è questa opposizione, che sembra darle noia?

— Ecco, nel Parlamento intervengono sempre due signore, una attempata e pingue come avvezza a non lasciarsi patire; l’altra più giovane e mingherlina perchè esposta a digiuni non comandati; la prima fa il mestiere di dire sempre ; la seconda al contrario quello di dire sempre no.

— Ho capito, una specie di suocera e nuora; ho indovinato?

— Giusto, così a un dipresso com’ella dice.

— Non le si dà retta e si tira innanzi pel nostro cammino.

Circum circa è quello che vorrei fare sempre io, ma qualche volta non riesce, e qui sta il guaio dei governi costituzionali; ma, per tornare al nostro proposito, il servizio che posi per patto alla promozione del suo signor marito egli potrebbe renderlo, ed io lo so... veruno lo sa meglio di me; e conoscendolo in facoltà di farlo, dalla sua renitenza arguisco il mal volere. Un partito, mia signora, o piuttosto una setta quanto debole di numero, altrettanto potente di scelleraggiae e di audacia, cospira a mettere sottosopra l’ordine sociale e rovesciare la monarchia: importa spengere il male nei suoi primordi: ora, il suo signor [p. 180 modifica] marito conosce questi colpevoli conati quanto me... più di me... altro non dico; questo gli riferisca... adempia il debito suo, ed io non mancherò al mio.

La Bianca capiva, e non capiva, ma uscendo a cotesto mo’ dal ministro, le sembrava tornarsene a casa con le mosche in mano, onde insisteva per cavargli di sotto qualche cosa di attuale, di effettivo, sicchè nell’ardore della perorazione piegò alquanto il fianco su la tavola, e abbandonato il busto sopra il braccio destro, con la mano si fece a puntellare il volto, di cui gli occhi brillavano di lacrime e i labbri raggiavano di sorrisi: un giorno di primavera.

Mi rincresce proprio che qui la similitudine del rospo e del cardellino non c’incastri, perchè ne anco con le tanaglie si potrebbe paragonare la Bianca con un rospo, molto meno il ministro a un cardellino, e tuttavia questi sentivasi attratto irreparabilmente verso di quella; ma egli, facendo uno sforzo supremo e appuntellate le mani ai braccioli del seggiolone, si alzò di scatto, e porta con bel garbo la destra alla Bianca, così le andava susurrando negli orecchi:

— Mia signora, ella è troppo bella, nè io abbastanza vecchio perchè la sua prolungata dimora qua dentro non dia luogo a commenti ingiuriosi alle persone che qui fuori aspettano impazienti: a me preme troppo la sua reputazione, mia bella [p. 181 modifica] signora, per patire che ciò avvenga... mi conceda pertanto il piacere di accompagnarla... e così dicendo si accostava bel bello verso la porta.

La mano di lei aperta e nuda posava sopra la mano aperta e nuda di lui, ricambiandosi fiumane terribili di fluido elettrico; i globuli del sangue al ministro pareva che gli corressero il palio a campanile dentro le arterie verso il cuore; per la quale cosa costui, da quel sagace diplomatico che egli era, per lasciare l’addentellato a nuovi avvenimenti, intantochè l’accompagnava, lasciò cadere, come monete in terra per tentare altri a raccattarle, queste parole:

— Dove mai... se per avventura (locuzione piemontese proprio del Piemonte) si desse il caso.... se ella reputasse spediente... di suo interesse... avere un’altra... qualche altra conferenza meco... ella adesso conosce a prova come il luogo meno adatto per trattare meco di affari sia per lo appunto il ministero...

Al che la Bianca rispose prontissima:

— O chi para, solo che piaccia a lei, vederci altrove?

E questo la donna disse con tanta ingenuità e suono naturale di voce, che il ministro ci rimase preso, onde per non indurla in sospetto egli si trattenne da stringerle la mano, anzi con accento un po’ burbero aggiunse: [p. 182 modifica]182 IL SECOLO CHE MUORE

— Ebbene, vedremo... ella tenga in sé... occorrendo... sarà avvisata fino a casa.

Si separarono, e la Bianca scendendo le scale mulinava nel segreto dell’animo questi pensieri: — come sono baggiani questi uomini che la trinciano a talentoni: o per le corna, o per le orecchie, o per la coda, noi altre donne li agguantiamo sempre quando ci piace. Credono menare e sono menati, come dice Mefistofele del dottor Fausto.

Di fatti certo dì, per mezzo di discreto messaggero, ella ebbe avviso, il ministro aspettarla nel proprio palazzo; l’ora assegnata giusto quella in cui Fabrizio correva come gatto dietro ai trucioli, a perseguitare volgari facinorosi; in capo alla via una carrozza chiusa l’attendeva; entrerebbe in palazzo non già per la porta maestra, sibbene per la porticina, che si apriva su di un vicolo. — Ella intese e andò.

Andò, e da quel giorno in poi i diamanti da lei venduti furono ricattati; nè questo solo, ma ai diamanti di stras, che per penuria di moneta ella aveva tenuti fin lì mescolati co’ buoni, ne surrogò altrettanti per purezza di acqua mirabili. Il marito poi non si accorgeva di niente, come quello che inesperto di siffatte novelle non sapesse distinguere i brillanti dai culi di bicchiere.

Fabrizio, per le insistenze della moglie, e per le pittime del socero, aveva messo il cervello a [p. 183 modifica] partito in traccia del modo di soddisfare ai desideri! del ministro; pensandoci su comprese come gli sarebbe tornato facile ad un punto e difficile: anche per lui tutto stava nell’allungare la gamba e saltare il fosso (che la similitudine del passo del Rubicone è troppo pomposa) alla maniera del Menabrea, e la sua coscienza errava di su e di giù a guisa di aoima lungo le rive dell’Acheronte, che non si trovi l’obolo in tasca per pagare il navalestro infernale; provava la sensazione dello arrostito vivo a lento fuoco; forse sarebbe morto col picchiotto della porta del delitto in mano, sempre incerto di battere per farsi aprire, ma un punto solo fu quello che lo vinse.

Ai quotidiani vituperi discorsi, scritti e stampati co’ quali lo perseguitavano gli antichi compagni, se ne accrebbe un altro, che veramente colmò la misura: pubblicarono un foglio a guisa di avviso di asta, mediante il quale si fìngeva dare ragguaglio dell’esito dello incanto a cui erano state esposte persone diffamate, fra le quali il presidente Vinneri, il sostituto procuratore regio Fabrizio e la Bianca moglie di lui: mediante cotesto foglio informavasi il pubblico che il Vinneri, come roba di presa, era stato comprato per un sacco di ossa; di Fabrizio essere andato deserto lo incanto, perchè il governo lo voleva acquistare col ribasso del venti per cento sul prezzo di stima; la Bianca liberata a S. E. il [p. 184 modifica] presidente del Consiglio dei ministri con la riserva dei vizi redibitori.

Il mordace libello destò nei maligni, vale a dire in sette ottavi dei cittadini, risa inestinguibili; per due o tre giorni la marea crebbe, poi cadde, dove caddero sempre vizi e virtù, eroi e furfanti — nell’oblio. — Però lo ingiuriato non dimentica nulla; segna la ingiuria con una tacca nel cuore e lo pone in custodia alla vendetta.

Quantunque ognuno dei tre presi di mira dal libello famoso dovesse rifuggire da tenere proposito di cotesta brutta avventura, pure riuscì loro impossibile tacerne del tutto. Il Vinneri ogni discorso circa cotesto argomento finiva stendendo l’indice sul piano del tavolino, come se intendesse ficcarcelo a forza, e con una maniera di squittì© ripeteva

— Adagio, veh! a modino, ma senza pietà.

La Bianca, al contrario, avvampava, le braccia menava in giro smaniosa come ale di molino a vento, trasaliva convulsa minacciando nientemeno che gettarsi dalla finestra se il marito non la vendicava: — Venti... venti giovani animosi, se fosse rimasta fanciulla, a quest’ora si sarieno presentati a vendicare la sua fama: non avere unita la sua sorte a quella di un uomo per trovarsi impunemente insultata; — però Fabrizio, buio, volgeva nell’anima cupi pensieri; andava a se stesso dicendo:

[p. 185 modifica]

— Potrà il mio socero accusare di calunnia chi lo vitupera carnaccia venduta? E non è forse vero che io mi vendei, e che ora sto per rivendermi? E Bianca... non è ella figlia di suo padre... e moglie mia?...

E levava gli occhi infellonito sopra la donna amata, ma questa presentava la bellissima sembianza così umilmente pura, così baldanzosa di santa fierezza, che un angiolo ci si sarebbe posato sopra prima di spiccare il volo verso casa, cioè al cielo.

Non vengano fuori a magnificarmi l’acqua di Felsina, ne il 'Cold Cream degl’inglesi, e nè manco i produits de la société hygiénique de Paris... perchè a levare ogni rossore dal viso, e fare in modo che non ci compaia più, non ci è quanto l’acqua benedetta che faccia la mano di Dio, e la Bianca ci si lavava due volte il giorno almeno. Dove il diavolo fece pasqua fu quando Fabrizio, ventilate le probabilità della innocenza e della colpa di sua moglie, conchiuse:

— Se l’oltraggio è falso, merita vendetta una volta sola; se vero, due; perchè nel primo caso si tratta di esaltare la innocenza, nel secondo seppellire la vergogna, e me danneggia più la infamia, che non avvantaggi l’onore: mi vendicherò! — Queste parole parvero il tonfo che fa la lapide lasciata andare nello incastro del sepolcro; — di vero [p. 186 modifica] Fabrizio con quello parole chiuso la bocca dello avello della sua coscienza, recitandovi sopra: requiescat in pace.

Adesso, pel buono intendimento del racconto, ci occorre ricordare come i veri e primi fattori della restaurazione italica, avendo sperimentato truci non meno che implacati persecutori tutti i pricipi così domestici come forestieri, non escluso, anzi capitale fra essi, quello che dai cortigiani si suole ora chiamare magnanimo, si dedicassero interi al culto della repubblica. Allorchè poi la prepotenza dei casi costrinse Carlo Alberto, per interesse di regno, a zelare la salute della nostra patria, non gli bastando a tanta mole le armi regie, accolse, lusingando, le forze rivoluzionarie, per avventura male atte ad assettare gli Stati, a vìncere tirannidi potentissime; e queste subito e lealmente si strinsero a lui, o perchè più della libertà amassero la patria, o perchè supponessero invano affaticarsi per la libertà se prima non si fondava la patria, o perchè sbagliassero. Condotte a felice compimento le guerre patrie, molto per fortuna e un poco per virtù di popolo, quali lo ingegno e le opere dei repubblicani? Vari i concetti. Taluno avrebbe aderito alla monarchia, nella fiducia che s’ella si mostrò inferiore alla sua fama su i campi di battaglia, si sarebbe fatta perdonare la sua sconcezza in guerra procedendo laudabilmente negli studi di pace. Altri [p. 187 modifica] più severi vollero mettersi da parte, come quelli che andando convinti la monarchia non potere vivere se non di sangue della libertà, pure aborrivano, per compiacere ai propri concetti, mettere a subbuglio l’ordine pubblico; così la monarchia non avversata avrebbe potuto fare le sue prove seguendo il corso delle vicende umane. Colpa o fortuna (ma si reputò colpa) in breve parve la prova fatta; la monarchia giudicata; opera perniciosa patirla; peggio aiutarla. Ecco, affermarono i repubblicani, per maligna virtù della monarchia la Italia annega dentro un pantano- di viltà due cotanti più funesta delle vecchie e molteplici tirannidi: di libertà non parliamo, e nè di senno amministrativo, e di virtù militare, nè di tutto quello onde un popolo fiorisce in casa e sale in fama fuori, e conchiusero rispetto alla monarchia a mo’ di Catone Seniore in odio a Cartagine: Monarchia delenda est. Però, ripigliando le armi contro la monarchia, i repubblicani non si son o trovati d’accordo sul modo di combatterla non ci cadde screzio, ma nè anche vi ha concerto: vecchi taluni, molti i giovani, e ogni dì crescenti. I primi, secondochè la esperienza li persuade, assai si ripromettono dal tempo, che matura i frutti della repubblica tanto al sole della libertà, quanto col fracidume dei regali strami; gli altri scalpitano impazienti, di nulla si fidano che non sia taglio di spada e di niente si compiacciono se non sia scerpato di [p. 188 modifica] stianto: quelli più che nelle armi pongono speranza nello intelletto; questi più che nello intelletto nelle armi: i primi operano a cielo aperto con la parola e con gli scritti, e come alla Musa chiesero un giorno la patria, e l’ebbero, così adesso implorano libertà dalla scienza e dalla virtù, dannando agli dei infernali la miseria e l’errore; gli altri non respingendo simili partiti, esito più sicuro si aspettano e meno tardo dall’opera delle mani: quindi, ragni indomati, eccoli a rinnovare la fiera tela delle cospirazioni; armi apparecchiano e munizioni; provvedono danaro; si visitano nelle tenebre, con le speranze si esaltano, con le minacce e con le pene, se occorre, paventano; niente li atterrisce, perchè il pericolo contiene in sè qualche cosa d’inebbriante; e il martirio esaltando gli spiriti novera a migliaia gli eroi; di nulla patiscono difetto, perchè reputano gloria levarsi il pane dalla bocca per darlo alla libertà: niente li trattiene, perchè per loro il coltello è materia al sacramento di morire combattendo la tirannide: si danno, per così dire, scambievolmente la disciplina con due flagelli del pari laceranti, comecchè uno composto di odio e l’altro di amore. Le astrattezze di costoro, che appaiono a primo aspetto più che divine, dove avvenga che trovino ostacolo diventeranno meno che umane; non aborrita la insidia; santificato il tradimento; tutte le sètte così; e Roma, perpetua setta, non tuffò il pugnale nell’acqua santa? [p. 189 modifica]

Mel diè il gran Sisto, e il benedisse pria.


(Tiustizia, urlano, giustizia a modo del tremendo Dio degli ebrei; e vuol dire sterminio: a terra dunque i monumenti testimoni di vecchie e nuove tirannidi; dilaghiamo sopra le città maledette una alluvione di fuoco: o che Dio ed i re hanno soli il privilegio d’incendiare Sodoma, Gomorra e Mosca? Anche il popolo ha fame di fiamme come di pane, e non ruba a veruno l’arnese per accenderle.

Di parecchie delle più scapigliate sètte torbidissimo socio era stato Fabrizio; capo non già, che i capi delle congiure ai giorni nostri sono pochi, e non compariscono; quei che si mettono, o lasciano che si mettano innanzi, e’ sono materassi e balle di lana, che gli antichi ponevano penzolone intorno alle rocche per ammortire la veemenza delle palle balestrate dalle bombarde nemiche; e d’altra parte la setta è la tenia di qualunque governo, che lo roderà irrimediabilmente se non arrivi a estirparne il capo, e forse non gli gioverà nè manco questo, perchè il talento di opposizione sia parte inerente alla natura umana, e le cause dell’opporsi non mancheranno mai.

Chi conosce Fabrizio ormai sa se costui nella sua superba presunzione fosse uomo da accomodarsi sincero alla disciplina che vuole gli uomini tutti uguali ed in tutto; costui si buttava in terra come i Titani per cavarne forza a primeggiare su gli altri. [p. 190 modifica]

Avverto che ho scritto Titani così per dire, imperciocchè i cospiratori volgari più che ad altro si rassomigliano ai formicolai, dai quali, ove tu li scompigli con la punta del piede, vedrai uscire frotte di formiche spaventate; però come le formiche presto si rassembrano, e rimessi dalla paura minacciano; quando si accorgono che veruno li bada, allora profetano; persuasi poi che la stirpe dei profeti finì con Malachia, salgono in bigoncia del diario settimanale (respiro corto della democrazia) e quindi maledicono come il papa maledice; chi butta loro un tozzo e chi una sassata; per ultimo sgonfi dopo avere sognato dittature, ministeri e tribunizi troni, e repubblicane lussurie, vanno a finire ricevitori del dazio consumo; taluno guardia di pubblica sicurezza o deputato.

I veri capi potenti d’ingegno, di virtù e di tenacità, subodorati gli spiriti cupidi e soperchiatori di Fabrizio, avevano praticato con lui il vecchio insegnamento: loda il matto e fallo correre; sicchè egli ormai persuaso essere l’anima della congiura, e senza di lui non potersi far nulla, non si dava più posa; egli visitatore notturno, egli arringatore ruinoso; superlativo sempre nei consigli, nelle parole, e nei gesti; egli inesausto scrittore di proclami incendiari, viaggiatore, arrolatore, collettore e propugnatore dei partiti più disperati; e mentre il povero uomo se reputava maestro di cappella, [p. 191 modifica] in somma lo annoveravano fra i secondi violini appena.

Un’altra cosa avverto, ed è la strana facilità con la quale parecchi cospiratori, anche dei principali, a mo’ di esempio il Mazzini, si commettano alla fede altrui; si comprende come ciò derivi da quella stessa necessità che sforza il marinaro ad esporsi alle tempeste; nè fin qui, ch’io sappia, fondaronsi compagnie di sicurtà per le congiure, come pei sinistri della navigazione: al genio del male è pur mestieri pagare la gabella; basta che le radiche restino; i ribelli sono e si chiamano legione.

Fabrizio pertanto nell’arduo mestiere del cospiratore si era scelto un fratello di arme, un altro sè stesso: pieno del sentimento della propria infallibilità, non chiese informazioni, ed avvertito che il nuovo amico Sotero viveva insieme col padre, speziale di Corte, che con devozione pari aveva ministrato cristei a tutti i reali di Savoia, e però stimavasi universalmente fedelissimo servitore della monarchia, egli giudicò avere trovato proprio il fatto suo, cioè uomo e luogo sicuri per depositare le carte del conventicole; come di vero egli gli consegnò, perchè nella paterna casa costui li conservasse, tutti i documenti di propria mano stesi o ricevuti da altri, relativi a quanto a suo intuito era stato operato.

Innanzi di dare principio al perverso disegno [p. 192 modifica] concepito nella sua mente, Fabrizio pensò alla necessità suprema di ricuperare cotesti fogli; quindi di notte tempo avuti a sè un giudice istruttore e parecchi giandarmi, ordinava loro che in quella medesima notte eseguissero alla chetichella diligentissima perquisizione in casa Sotero; non omettessero stanza nè stambugino, nè per opposizione alcuna si arrestassero; ed essendosi accorto che il giudice d’istruzione esitasse, come quegli a cui pareva, e non lo tacque, che la cosa non procedesse a termine di legge, Fabrizio gli disse:

— La non si confonda, così siamo intesi con chi fa la legge, ed io piglio tutto sopra di me; solo raccomando discretezza.

Come venne loro ordinato, il giudice istruttore e i giandarmi eseguirono con garbo bellissimo e precauzioni infinite, onde i casigliani non si accorgessero dell’accidente. Rovistarono, rimuginarono fino a farsi colare il sudore dentro le scarpe, ma non rinvennero nulla. All’ultimo, dopo quattro e più ore di ricerche inutili, presero, per non parere, un fascio di carte come venivano venivano, e il giudice piegato il capo all’orecchio di Sotero gli sussurrò:

— Sono dolente...

— Ho inteso, rispose Sotero, le hanno dato l’incarico di menarmi in prigione? — E rideva, perchè hassi da avvertire che costui, fino dal principio della perquisizione, non aveva smesso di ridere, [p. 193 modifica] non per braveria, o per beffe, bensì proprio di cuore, sicchè il giudice istruttore n’era rimasto più di una volta sconcertato.

— La è cosa da nulla, sa, viviamo in certi tempi, che questo benedetto governo ha paura di tutto, e questi benedetti giovani, bisogna pur dirlo, non cessano un momento di metterlo in orgasmo.

— Capisco, una bagattella da andarmene all’ergastolo a vita: articolo 156 del codice penale. Non è vero, compare? — E così favellando percoteva familiarmente la spalla del giudice. — Pazienza! Ebbene, dov’è il mandato di cattura?

— Eh! essendoci io stesso, che sono giudice, non parve necessario il mandato.

— Che diavolo dice mai, signor giudice! gli articoli 188 e 192 del codice di procedura penale gli ella messi nel dimenticatoio?

— Ma senta, non si tratta mica di condurlo in carcere per un fatto preciso che le venga imputato, bensì per un certo tal quale riscontro che preme all’autorità superiore.

— E qual’è di grazia questa autorità superiore?

— La discretezza, signor mio, capisce bene... non mi permette...

— Io capisco che il nome dell’autorità che ordina la cattura dev’essere espresso sul mandato; dov’ella non me lo dichiari, protesto non venire.

— Via, non faccia da cattivo... stia bonino... tanto [p. 194 modifica] con lei si può parlare — e a voce sommessa bisbigliò il nome di Fabrizio.

Allora si che le risa rinnovaronsi più strepitose che mai, e quando Sotero l’ebbe alquanto quietate riprese:

— Non occorre altro... andiamo. Babbo: a rivederci domani... forse prima che faccia giorno... ad ogni modo non mi aspetti a colazione... andrò al caffè.

A piè dell’uscio li aspettava una carrozza, dove il giudice con perfetta compitezza invitò Sotero a salire, dopo entrarono i due giandarmi, ultimo il giudice.

— E adesso in prigione! esclamò Sotero appena adagiatosi in carrozza; ma il giudice, che si sentiva addosso lo sgomento per la singolare baldanza dell’arrestato, subito di ripicchio:

— Ma noe... ma noe... semplice arresto, non equivochiamo.

— Eh! tra carcerato in arresto e arrestato in carcere mi pare non ci possa cadere equivoco. Ma ciò non monta: stanotte a V. S. non garberà interrogarmi, perchè vedo che casca dal sonno, ed io non canzono; dunque dormiamo; domani a quale ora V. S. giudica essere in comodo d’interrogarmi?

— Secondo i casi... perchè, capisce... noi altri...

— Non ci è casi che tengano, ho bisogno saperlo per assestare gravi interessi. Se ella vorrà di tanto [p. 195 modifica] essermi cortese, io le prometto cucirmi la bocca sopra le irregolarità della perquisizione e dello arresto, dove posso trovare materia da farlo cacciare dieci volte almeno dallo impiego...

— Oh! che dice mai? esclamò il giudice atterrito; e Sotero rincalzando:

— Dunque, cortesia per cortesia.

— Ebbene, tra le dieci e le undici le garberebbe?

— Sia come vuole, la prigione è fatta apposta per aspettare, ed io non ho fretta...

— Siamo intesi, tra le dieci e le undici?

— Sì, signore.

Se l’arrestato non era, al malcapitato giudice non riesciva assicurare la sua presa in prigione, imperciocchè il direttore delle carceri si rifiutasse ricisamente a riceverlo, non gli parendo che la cosa procedesse in regola; per levare il vino dal fiasco intervenne Sotero, il quale assicurò il direttore non sospettasse di guai; egli stesso pregarlo a dargli ospitalità per cotesto scorcio di notte, perchè il suo ritorno in cotesta ora a casa avrebbe dato disturbo, ed egli non reggersi in piedi.

— Come così è, rimanga servito — e lo condusse in una celletta bella e apparecchiata, perchè i direttori delle carceri usino tenere allestite le prigioni come i becchini le fosse; tanto da un punto all’altro non può mancare chi le riempia. Fu calcolato che delle creature umane ne muoia per tutto il mondo [p. 196 modifica] una per minuto secondo, vorrei sapere a ragguaglio di tempo quante ne vadano in prigione.

La mattina di poi Sotero, prima delle sette, fece chiamare il direttore, e coll’aria spigliata di persona usa di favellare con sottoposti gli disse:

— Signor direttore, voglia avere la compiacenza di procurarmi quanto occorre per iscrivere una lettera.

Ebbe il necessario: scrisse la lettera, la sigillò e poi sporgendola al direttore incominciava:

— Ella farà in guisa... — Ma il direttore interrompendo rispose:

— Io non posso acconsentire che di qui escano lettere senza il visto dei giudici istruttori...

— Anzi, Sotero prosegue senza neppure badarlo, mi occorre ch’ella si pigli il disturbo di portare da se questa lettera e attenderne la risposta. Come V. S. può vedere, io la dirigo a S. E. il presidente del Consiglio dei ministri; lo troverà senz’altro nel suo palazzo, dove ella non indugi ad andare; prenda questa carta e la dia al servitore perchè la passi al signor presidente, e vedrà che non la faranno attendere.

Anche in cotesta occasione si trovò vero il proverbio che il mondo è fatto di cui se lo piglia; il direttore a sua posta rimase soggiogato, e sì che burbero uomo era, e se sopra di lui premeva una legione di uomini che lo costringevano ad obbedire. [p. 197 modifica] troppo maggiore egli ne calcava un’altra sotto di se, che sforzava a obbedirgli: umilissimo si prestò ai comandi di Sotero, e tolta la lettera si affrettò portarla al suo destino: avendo per curiosità gettato lo sguardo su la cartolina, lesse scritto: da parte di, e poi stampato: Sotero 5.; per la quale cosa strettosi nelle spalle, mulinava fra se: o costui è pazzo, o qui l’oste ha sotto il gatto.

Di vero accadde al direttore giusto quello che gli aveva presagito Sotero.

Il giudice istruttore il giorno appresso, puntuale meno per la parola data che per la curiosità di vedere la fine della strana avventura, alle dieci e pochi minuti si presentava alle prigioni, dove il suo stupore crebbe trovando Sotero seduto davanti una mensa fornita alla grande, che faceva colazione, il quale, scorto appena il giudice, lo invitò gentilmente a tenergli compagnia, e siccome questi si scusava, egli insistendo diceva:

— Andiamo via, io la consiglio a fare buona provvista di forze, dacchè ella avrà a sostenere meco lunga battaglia e faticosa; intanto ordini al signor cancelliere di allestire carta, penne e calamaio, insomma tutto l’armamentario necessario alla operazione.

Il giudice non abbocca, sicchè Sotero continua sempre in tono dileggiatore, per la qual cosa il giudice stava fra due, se dovesse senza cerimonie [p. 198 modifica] astringerlo all’interrogatorio, ovvero pigliare la lepre col carro; giunto al caffè, Sotero, sempre gentile, ne profferiva una tazza al giudice aggiungendo:

— - Oh! una tazza di caffè non si rifiuta mai: per lui si mantengono gli spiriti vivaci; dicono che i veneziani ne fanno grande uso appunto per non cascare addormentati nelle lagune; — e in così dire lo mesceva al giudice male repugnante.

Intanto il cancelliere, avendo compito il debito suo, si baloccava con la penna fra le dita, impaziente come un barbero al canapo. Sul più bello, e mentre Sotero forbitosi la bocca diceva al giudice: — Eccomi da lei — entra nella stanza il direttore, e con atteggiamento del devoto, il quale riverisca il santissimo Sacramento, accostasi a Sotero, che con aria da protettore gli dice:

— Ben levato, direttore, che abbiamo di nuovo?

— Signore... signore... scusi... perchè io non vorrei mancare al rispetto dovuto a V. S... ella è cavaliere?

— Potrebbe darsi... ma non me ne rammento... ad ogni modo tiri innanzi, che cavaliere o no, non fa caso.

— Ebbene, abbiamo che V. S. è libera, liberissima di andarsene quando le pare e le piace; anzi le dichiaro che qui dentro io non lo potrei più tenere; se vuole favorire nel mio appartamento io me lo recherò a grazia superiore alle mie speranze. [p. 199 modifica]

— Bene... bene... grazie... me ne approfitterò per un’altra volta.

— La si accomodi, ma si ricordi di avere in me un mnilissimo servitore.

— Alla occasione ce ne rammenteremo.

Il giudice stava a bocca aperta, non sapendo in qual mondo si fosse; ma riavutosi dal primo sbigottimento, lo istinto sbirresco del male captus, bene detentus14 prese il disopra alla prudenza, onde levatosi con viso acerbo esclamò:

— Come può essere questo? Badi, signor direttore, a quello che fa! Lei corre rischio, nientemeno, di perdere l’impiego.

— Caro avvocato, pensi ella ai casi suoi, che per dare retta a lei ho corso pericolo di trovarmi sul lastrico: favorisca di qua...

E condottolo nello scrittoio, aggiunse.

— Veda, io mi sono salvato per miracolo — e così dicendo gli pose sotto al naso uno scritto breve, il quale sonava così:

«Illustrissimo sig. cav. direttore,

Per ordine superiore e per servizio di Stato, metta immediatamente in libertà il signor Sotero B. senza trattenersi a cosa in contrario.

Il Presidente del consiglio dei ministri N...»

Il povero giudice allora, trasecolato e atterrito, interroga il direttore: [p. 200 modifica]

— E chi diavolo è costui che pare tanto potente? Forse un principe?

— Più.

— Un cavaliere della Santissima Annunziata?

— Troppo più.

— Un figlio bastardo di...?

— Più ancora, più ancora: lo vuole sapere?

— Magari.

— Glielo dirò, ma buci — e in così dire si pose l’indice lungo la bocca e il naso — egli è una spia.

Rientrarono, e Sotero ordinò al direttore mandasse per una carrozza, la quale venuta, il direttore e il giudice si fecero debito di accompagnarlo sprofondandosi in inchini. Il cancelliere poi mantenne la sua dignità sapendo che i premi non orano per lui, e guai non ne temeva,

. . . . che il folgore non cade
Su basso pian, ma su l’eccelse cime;

onde con la compostezza medesima con la quale aveva disposto i suoi arnesi, li rimise dentro per adoperarli in pro di qualche altro più fortunato di Sotero. Arrivato Sotero allo sportello della carrozza, stesa la mano al direttore, lo ringrazia della cortese ospitalità, accertandolo ne avrebbe conservata buona memoria.

Qui si trasse innanzi il giudice, il quale belando gli si raccomanda a non tenere rancore contro di lui; pensasse al suo stato di subiezione, sempre e [p. 201 modifica] poi sempre costretto, anche contro la sua volontà come contro coscienza, ed in ispreto della legge ad obbedire.... ah! se non fossero cinque figliuoli e la moglie che gli stanno alla vita, quattro più che i serpenti a Laocoonte; ma ormai ci sono... mi raccomando in visceribus; — ci contentiamo non ci faccia male; metto me, i cinque figliuoli al suo servizio.

— Io non la tengo in parola, sarebbero troppi. La si calmi, non sono vendicativo io; nè so vedere in che ella mi abbia offeso: sappia che approvo e lodo gli impiegati zelanti, i quali senza tante invenie obbediscono agli ordini dei superiori quali essi sieno; — anzi, in prova di perfetta amicizia, si compiaccia salire in carrozza col signor cancelliere, che vo’ procurarmi l’onore di accompagnarla. In carrozza ha condotto me, in carrozza permetta che io conduca lei.

— Ma le pare! Adesso mi corre il debito andarmene difilato a informare di quanto accadde il signor sostituto del regio procuratore.

— Tanto meglio, che io pure mi dirigo costà, e pel suo medesimo motivo.

— Come così è, andiamo.

Sotero persuase facilmente il giudice a lasciarlo discorrere con Fabrizio prima di lui, che con quattro parole avrebbe dato recapito ad ogni cosa, risparmiandogli forse parecchie mortificazioni; per [p. 202 modifica] ciò, mentre se ne stavano dinanzi la porta del regio sostituto, Sotero, girata all’improvviso la maniglia, penetrò nella camera di Fabrizio senza che l’usciere lo annunziasse. Fabrizio, crucciato ad un punto e spaurito, afferra i braccioli della sedia e si leva su a scatto; senonchè Sotero gli si pone ridente a sedere di faccia, dicendogli:

— Non ti disturbare; rimanti assettato, che io vengo ad informarti di faccende meritevoli di tutta la tua attenzione. Nel cammino nel quale ti sei messo, caro Fabrizio, è mestieri maggiore cautela di quella che hai mostrato fin qui; altrimenti tu farai il viaggio dei gamberi. Tu hai mandato stanotte ad arrestarmi fustibus et gladiis, ed hai commesso tre solenni scappucci; non t’inquietare, stai attento, Fabrizio, e’ sarà per tuo bene; primo scappuccio; d’ora in avanti, quando procederai ad arresti di persone prevenute del delitto che mulini apporre a me, bisogna tu gitti la rete in tondo e ne faccia tutta una giacchiata, altrimenti i colombi ti scapperanno...

— Sotero, io non sono qua...

— Ed io, Fabrizio, sono qua per istruirti; dunque stai zitto e attento; scappuccio secondo, tu mi hai fatto arrestare senza mandato: per questa volta non ci è danno, ma non ti ci avvezzare. Signore! abbiamo tanti mezzi di fare tutto quello che ci piace in buona regola, che la è proprio da collegiale [p. 203 modifica] spencolarsi senza pro. Nei paesi liberi come il nostro la illegalità tu t’hai a figurare che è un grimaldello, il quale ti apre le dieci e le venti serrature ma all’ultimo ne incontri una dove ce lo rompi dentro con tuo danno e discredito della magistratura. E tu a quest’ora avresti a sapere che le brutte e le bruttissime cose ai superiori piacciono a patto che tornino utili e non mettano il campo a rumore; ripeto, con me non ci è danno, ma tu non lo sapevi; però l’esito non discolpa la tua sconsideratezza. Terzo scappuccio: prima di arrestarmi hai tu cercato di conoscere ch’io sia, e se poteva io fare più male a te che tu a me, e se avrebbe giovato meglio al tuo assunto ch’io stessi in prigione, ovvero fossi libero?

— E in che tu puoi nuocere, in che giovare? Chi sei? Che sospetti?

— Io non sospetto; per debito di ufficio, a cui adempio troppo meglio che tu al tuo, io sono al giorno del processo che stai fabbricando, però aspettava da un punto all’altro di essere chiamato da te per metterci d’accordo...

— Debito di ufficio! Ma tu chi sei? Chi sei?

— Io sono, rispose Sotero con certa aria solenne, studiando inverniciare di onestà la sua ribalderia, io sono un fedelissimo suddito del re nostro signore e padrone; figlio di un padre che ha servito sempre con devozione i suoi sovrani, uno che fu [p. 204 modifica] alprincipi, che Dio feliciti, in parte per compenso dei servizi resi dai sucu maggiori e in parte per incoraggiamento a renderne dei nuovi... quindi io, Fabrizio, posso vantarmi di avere fatto sempre il mio dovere; il soldato difende il sovrano dai nemici esterni; noi lo difendiamo dagl’interni... in apparenza diverso e col consenso dei superiori, in sostanza sempre lo stesso... non ho mutato mai... capisci; non ho mutato mai.

— E le carte che io ti consegnava! esclamò Fabrizio, picchiandosi forte della palma aperta la fronte.

— Io le consegnai religiosamente nelle mani del ministro dello interno; quelle che venivano da te egli ritenne; le altre, sempre di commissione superiore, affidai a quell’energumeno di Zaccaria Recanati, che la trincia da Giuda Maccabeo della repubblica, vuole annegare tutto il genere umano nel Mar Rosso; non gli basta il petrolio, invoca un diluvio di fuoco come a Gomorra, sicchè per le sue sgangheratezze è cascato in uggia anche ai compagni... a lui preme principalmente schiacciare la testa... non già perchè il più pericoloso, ma si più chiassoso.

E qui avendo notato la faccia disfatta di Fabrizio e lo abbattimento che si era impadronito di lui, per dargli coraggio riprese:

— E ora che costernazione ti piglia? Se il [p. 205 modifica]

io mi ti offerisco disposto a dartene due), ciò ti dichiara espresso che delle tue carte non fa caso, nè te le mette a carico: per me giudico che a quest’ora ei le abbia distrutte: anche in questo io mi ti proffero per aiutarti, e sta’ sicuro che quando ti dirò io: poni il piede qua, tu non affonderai nelle fitte. Per ora addio. Se mi vorrai, manda per me di notte come di giorno, e risparmia giandarmi, che io appartengo alla specie degli agguantatori e non all’altra degli agguantati. Qui fuori aspetta il giudice istruttore, quasi basito dalla paura di perdere l’impiego: rimettigli il cuore in corpo; però negli affari che ti premono non ti valere di lui: di denti non manca, ma per tuo governo sappi che non è can mastino abbastanza, e poi svagella dalla miseria... e addio.

A Fabrizio usci di mente il giudice; costui coi pugni chiusi e le braccia tese, lo sguardo fiso, immobile in tutta la persona, stette lunga ora: pareva una sfinge di granito: quello che lo molestasse potrebbe forse argomentarsi da queste parole, ruggite piuttostochè discorse, le quali posero fine alla sua distrazione:

Ait latro ad latronem; il ladro sta bene coll’assassino.

Ercole al bivio: se non che delle due vie che occorrevano dinanzi a lui, una menava alla virtù e l’altra alla perdizione; mentre entrambe quelle che [p. 206 modifica] si paravano davanti a Fabrizio condncevano alla perdizione; ma l’una diritta e senza intoppi fino allo inferno, l’altra prima di arrivare allo inferno incontrava per via un baratro dove si sarebbero inabissate la fama e la fortuna sue, e da questa aborriva; ond’è che, sedendo a mensa con la moglie, poichè rimase lunga pezza a tavola, all’improvviso ruppe il silenzio dicendo:

— Sai tu, Bianca, che cosa ci è di nuovo?

— Che mai? domanda la donna rimescolata.

— E’ ci è che io non posso più, come ti aveva promesso, vendicarti, e con te l’onor mio.

— E perchè? rincalza la moglie con batticuore crescente.

— Domandalo al presidente del Consiglio dei ministri, tuo amico.

La Bianca per poco non cadde tramortita, tuttavia agguantandosi con femminile protervia alla dissimulazione, ultima tavola dei naufragi femminili, ella continua:

— O com’entra qui S. E.?

— Oh! egli ci entra più che io non vorrei... più di quello che io possa patire.... ci entra per modo ch’egli mi chiude ogni via alla vendetta... egli diventa complice dell’onta che mi fanno.

— Ahimè! ahimè! mi sento morire.

— Non morire ancora, che non ho finito; non morire, Bianca, che tu, vedi, potresti rimediare a tutto, [p. 207 modifica]

— Io? E come potrei? Basta... prescrivi il tempo e il modo; mi proverai quale più mi vuoi, ancella o moglie... se mancherò perdonami... l’avvilimento in cui cademmo... la debolezza del sesso mi hanno offascata la mente.

— Svegliati, che adesso ci ha mestieri della tua sagacia: è necessario che tu ritorni subito dal signor presidente.

— Io? Il presidente? E perchè? disse la donna con voce strangolata; e Fabrizio pigliando lei che tremava come vetta, le zufolò dentro gli orecchi:

— Il ministro possiede carte di mio, le quali, sebbene scritte in altri tempi, pure mi chiarirebbero reo della medesima colpa per cui intendo mettere accusa addosso ai nemici del trono che ci oltraggiarono; se non me le rende, io mi perito a saltare il fosso; troppo grossa posta ci metterei su... io voglio dunque che tu vada a conferirne con lui, e gli faccia intendere che senza cotesti fogli io non tiro innanzi il negozio.

A coteste parole il volto di Bianca apparve come il buio di una notte infernale a un tratto illuminato da un fuoco vermiglio del Bengala, imperciocchè ella diventasse rossa in grazia del sangue che le rifluì sopra le guancie scolorate: con la sicurezza le tornò la petulanza, onde quasi acerba esclamò:

— Vedere il presidente io? Io tornarci? Ma che lo pensi? Lo pretendi davvero? [p. 208 modifica]

— E che ci ha egli di male?

— Ma la mia reputazione, non ti pare che verrebbe a soffrirne?

— E ora ch’è questa reputazione tua? La reputazione della moglie come ogni altra cosa di lei spetta al marito. La moglie può... anzi deve sempre andare dove il suo marito le comanda... obbedire sempre. Questa tua esitanza, vedi, Bianca, mi offende nel più vivo dell’anima... e non onora nè anche te; mi pare che tu stimi la tua virtù uno di cotesti edifizi che stanno ritti perchè nessuno li tentenna.

— Ma che diavolo vai tu fantasticando con quel tuo cervello fatto a scacchi; nè io te offendo, nè faccio torto a me: tu m’insegni che di male lingue non ci fu mai penuria nel mondo, e suona antico come bello il proverbio che dice: «una stilla di inchiostro basta a macchiare, ed una libbra di sapone non basta a lavarla.» È vero che la fama della moglie appartiene al marito, ma è vero altresì che spetta principalmente alla moglie averne cura e custodirla.

— Ecco, voi altre donne sempre così; se non ci va di mezzo il comodo vostro, vi nascono più dubbi che pulci, ma se ci entra uno scrupolo del vostro interesse, allora non ritegno, non riguardo; giù buffa; e allora vi accorgete di essere cascate nell’acquatrino quando vi sentite il fango fino alla [p. 209 modifica] gola. Rammenta che io mi sono fìtto in questo ginepraio per vendicare te, tuo padre ed anche me: ricordati che io ci vo di male gambe, e solo che voi accenniate di lasciarmi sopra le secche di Barberia, io butto a monte ogni cosa; qui adesso si fa del resto, — o palle o santo... — E poi, ripreso fiato, con suono che teneva del rimbrotto e del lamento, continua più infervorito che mai: — fin qui io credei che tu avessi sposato, o Bianca, non solo le mie gioie, ma i miei dolori altresì, sovvenuto a portare la mia croce nel mondo, a uscire di angustie, ad ammannirci uno splendido avvenire, a ritornare in fiore, a rimettere su casa alla grande, con vettura, diamanti, palco al teatro, veglie...

— Eh! via, smetti una volta da predicare, che non siamo in quaresima; calmati, marito mio, e vivi tranquillo, che lo aiuto della tua moglie non ti verrà mai meno. Or fa’ di stendere un bocconcino d’istanza, affinchè S. E. voglia usarmi la cortesia di ricevermi in udienza particolare, perchè, vedi, presentarmi in combutta con la moltitudine mi uggisce fino alla morte; se la cosa urge, tu chiedila per domani a mezzogiorno, bene intesi, al palazzo del ministero; tu stesso la porterai quando ti rendi all’ufficio alla solita ora. Da parte mia fo conto levarmi per tempo e andarmi a confessare; se la beata Vergine mi ispira, anche a comunicarmi, affinchè Dio mi faccia [p. 210 modifica] la grazia di ottenere dal ministro tutto ciò che il tuo cuore desidera...

Credo che si abbracciassero e baciassero; io ebbi ad uscire, e non mi trattenni tanto in casa loro da verificarlo, però metto su pegno che l’andò a finire proprio nel vero modo che vi ho detto.

— Che miracolo è questo! Venirmi qui improvvisa in camera alla sette di mattina, esclamò il signor conte di ***, presidente del Consiglio dei ministri, nel vedersi cascare nella stanza da letto la Bianca, quasi bomba briccolata in fortezza nemica.

— Ah! ah! Libertino, tu hai paura di essere colto all’improvviso...?

— Magari ti pigliasse spesso il capriccio di venirmi a sorprendere, tu ti chiariresti della sincerità delle mie parole; ho dato fondo all’àncora, e non mi muovo più.

Dio lo voglia; intanto sappi che io non venni qui per miracolo, bensì per comandamento espresso del mio signore e marito.

— Bada, Bianca, abbi prudenza, non fare a fidanza con questi ferri, che tu ti ci potresti scottare.

— E’ non è per amore della mia, ma della tua [p. 211 modifica] putazione, che mi dici questo: di me non temo, anzi ti avviso che oggi... a mezzogiorno... verrò alla libera per parlarti al tuo ministero...

— Non farlo...

— Anzi lo farò e con licenza dei superiori come un libro stampato a Venezia; ora, via, ascoltami. Mio marito afferma che tu possiedi molto carte di suo; già s’intende, quando non era stato convertito per tua intercessione. Cotesto carte, egli aggiunge, caso mai venissero un giorno o l’altro a scoprirsi, sarei un uomo morto; ad ogni modo lo trattengono da proseguire franco nella faccenda che tu sai: dunque cercale queste benedette carte e portale teco al palazzo, dove me le renderai, per cavare di pena quella povera anima di mio marito.

— Io l’ho per inteso: a mezzogiorno ti aspetto; e adesso levati il cappello e vieni qua a fare colazione con me.

— No, grazie, non posso trattenermi, bisogna che mi vada a confessare; ho già bell’avvertito il confessore, il quale chi sa quanto tarocca non mi vedendo comparire: addio, addio, ricordati dei nostri amori.

— E tu ricordati, che come questa fu la prima, così non sia l’ultima sorpresa che mi fai.

Io, scrittore, a questo punto ebbi ad uscire dalla camera, e però non potei trattenermi a verificarlo, [p. 212 modifica] ma scommetto con Asmodeo15 un fiasco di vino, che si abbracciarono e baciarono.

Dopo ciò Bianca, tutta lieta, tutta vezzi e saltabelli, andò a dare una capata in chiesa; donde avuta la rannata della confessione e la sciacquata nella Eucarestia, uscì propriamente bianca di bucato.

Appena la Bianca fu uscita dal ministro, questi chiamò il servo discreto introduttore delle persone abituato a entrare per la porta di dietro, e così gli disse:

— Giorgio!

— Comandi, eccellenza.

— Perchè contro i miei ordini mi hai fatto entrare in camera cotesta signora senza avvisarmi?

— Mi parve che la signora riuscirebbe gradita a V. E. anche senza avvisi; molto più che io la sapeva solo.

— E da che hai argomentato che la signora mi sarebbe tornata gradita, quantunque mi fosse entrata in camera anche senza avviso? [p. 213 modifica]

— Oh! quanto a questo poi, eccellenza.

— Di’ pur su, Giorgio, parla franco.

— Ecco, perchè quando cotesta signora viene a trovarla, mi pare che il suo sembiante faccia pasqua di rose.

— Ah! dunque tu mi osservi il viso? E da questo tu tiri a indovinare lo stato dell’animo mio?

— Il viso e qualche altra cosa, e non tiro mica a indovinare, ma leggo proprio espresso quando la fortuna le dà la regina di cuori, ovvero il fante di picche.

— Giorgio, quanti ne abbiamo del mese oggi?

— Eccellenza, quattordici.

— E il tuo salario tira, mi pare, quaranta lire il mese?

— Giusto, più le mance, tavola e livrea.

— Giorgio, eccoti quaranta lire, e tienti per avvisato che, da questo giorno in poi, tu non istai più al mio servizio: stasera fa’ che io non ti trovi in casa.

— Dio! Dio! Che ho commesso di male? Povero me, sono rovinato!

— Giorgio, prendi qua questi due biglietti di banca; insieme fanno mille lire; esse ti basteranno per le spese prima di trovarti un nuovo servizio; io medesimo procurerò allogarti altrove; ma con me non puoi stare assolutamente.

— Dopo tonti anni, ahimè! [p. 214 modifica]214 IL SECOLO CHE MUORE

— Tutte le cose nostre hanno lor fine, Giorgio, e quanto più invecchiano, e più si avvicinano alla morte; e tu pure morirai, Giorgio, e morirò anch’ io.

— Potessi almeno sapere in che ho mancato!

— Non è per difetto, Giorgio, che io ti congedo, bensì per eccesso; i servi dei ministri non devono adoperare altro che le orecchie per udire e obbedire

evita come la morìa servo che osserva e fante che argomenta; quando sarai ministro, Giorgio, imparerai la saviezza di questo consiglio: ora vattene.

Mutata di vesti, più smagliante della mattina, gloriosa e pomposa, al tocco del mezzodì la Bianca si presenta all’anticamera del ministro, il quale avevo di già avvertito l’usciere che, dove si presentasse, quantunque non fosse giornata di udienza, lo avvertisse. Questi come il ministro ordinò fece, e S. E. si mosse ad accoglierla fino sopra la soglia, dove le disse con voce alta, sicchè potessero sentire tutti:

— Non ho saputo resistere, mia signora, al timore di comparire presso la S. V. poco cortese: passi pure a informarmi di quanto le occorre da questo officio; solo sono costretto a pregarla di [p. 215 modifica] spedirsi, perchè fra mezz’ora si raduna il Consiglio dei ministri e S. M. lo presiede...

Entrò, chiuse la porta, e guardando la donna con lussuriosa compiacenza, le disse:

— Come sei bella!

— Fatti in là, sgarbato, non mi sgualcire il cappellino — e gli diè delle dita su i labbri, per temperare l’ardore dell’innamorato ministro. — Orsù, proseguiva poi, questi fogli me li hai portati? Dammeli, ch’io vada a liberare cotesta povera anima dal purgatorio.

Il volto del ministro si annuvolò e rispose brusco:

— Non li ho portati.

— che non li hai potuti trovare?

— Li ho trovati, ma non li ho portati.

— Dunque mi manchi di parola? Dunque di me non fai caso? Le proteste di stima, di devozione, di servitù, bugiarderie tutte?

— Bianca, hai tu mai letto l’Ariosto?

— Io non leggo simili porcherie; me l’ha proibito il confessore.

— Me ne dispiace; tu dunque devi sapere come cotesto poeta racconti di certo mago, il quale possedeva uno scudo così sfolgoreggiante, che chi lo mirasse cascava in terra abbarbagliato: però ei non lo portava mica scoperto, bensì ravvolto di una fodera spessa, scoprendolo solo quando si trovava con le spalle al muro. [p. 216 modifica]

— E che ha da fare lo scudo coi fogli che ti chiedo?

— Fatti in qua, porgimi attenzione, e poi da’ spesa al tuo cervello: io non posso e non devo restituire questi fogli: io ho interesse quanto tuo marito a tenerli celati... ma per te e anco per me, dandosi il caso, e i casi sono tanti, possono giovarci come un morso da mettersi fra i denti al tuo marito... ora capisci, Bianca?

— Gua’! Gua’! Come sei furbo: io non ci aveva pensato: dunque che cosa ho da riportargli?

— Digli una bugia!

— Ma quale?

— Oh! mira un po’ che io ti abbia a mantenere anche a bugie.

— Io non ne so dire.

— E allora fattele prestare dal confessore.

— Ma simili faccende io non le dico al confessore.

— Orsù, dunque, gli dirai che io custodisco i suoi fogli dentro un cassone di ferro mescolati a molti altri; gli affari continui e crescenti non concedermi comodità di ricercarli per ora; mi ci bisogna qualche giorno di tempo; non istia a peritarsi per questo; vada franco; io ti do — ma bada bene — io do a te la parola di onore di renderti i fogli quando li avrò trovati, e tanto gli dovrebbe bastare.

E tanto riferi la Bianca a Fabrizio, che, fatta di [p. 217 modifica] necessità virtù, ebbe a contentarsi nel presagio che si sarebbero accomodati i basti per la strada. Ora, tiratesi sa le maniche della camicia fino alla spalla, si mise al travaglio di buona gana: Sotero di consiglio lo sovveniva e di opera. In una notte sola le guardie di polizia fecero la bella giacchiata di venti giovani sventati e di taluni vecchi, anche più storditi dei giovani, imperciocchè se vecchiaia partorisse sapienza, i ministri delle Corone si potrieno ricavare dai tavoloni stagionati di abete.

I giorni successivi agli arresti, ecco i giornalisti biacchi, che ingrassano nei pantani ministeriali, arrangolarsi ad insinuare nei cittadini la paura e la calunnia: per lodevole vigilanza dei magistrati egregi essersi scoperta la più atroce (questo diceva l'Opinione), la più sacrilega (quest’altro epiteto veniva dalla zecca della Perseveranza), la più sovversiva (scriveva la Nazione, che nell’arte della ipocrisia rappresenta il bimmolle) congiura che mai minacciasse fin qui di mandare sotto sopra il civile consorzio. Per ora gli arrestati oltre a cento, ma la solerte polizia correre su la traccia di altri congiurati, che si riprometteva scovare in giornata. Le corrispondenze e le altre moltissime carte d’importanza suprema trovate: le infinite ramificazioni nelle plebi; le armi, le munizioni, le bombe all’Orsini sequestrate; la maggior copia di queste tuttavia nascoste mettere il ribrezzo addosso ad ogni [p. 218 modifica] pacifico cittadino. Scopo più speciale, e confessato della congiura, guerra a morte alla possidenza e al capitale, morte a tutti quelli i quali pel fatto solo di avere proprietà erano ladri; dispersa la famiglia, perchè di petto a lei il bordello e il bagno paradisi terrestri; distrutti i commerci, a fondo le industrie; ne anco la sacra persona del re risparmiata; di questa eziandio (si rizzano al solo riferirlo per orrore i capelli) la strage meditata e ammannita, e si comprende appuntarsi in lei ogni conato parricida, a ragione convinti gli scellerati che, rimosso il tutore e il vindice, riusciva agevole far man bassa della innocente cittadinanza. Ma Dio, che vigila sopra i giorni dei principi, eccetera, non aveva sofferto, eccetera. Adesso gl’italiani confidano che giurati e magistrati faranno a gara di porre il freno ai perduti con salutare terrore: si rammenteranno come il medico pietoso fa le piaghe puzzolenti; alle idrofobie niente altro proviamo giovare, eccetto il cauterio, e cauterio sia; poi conchiudevano che la piena dello sdegno non concedeva loro la calma necessaria al pubblicista per giudicare di questa maniera enormezze; quindi chiudersi la bocca in osservanza al precetto che vieta di pregiudicare con giudizi anticipati la condizione di coloro che stanno sotto il giudice. Gaglioffe ipocrisie, e tuttavolta non meno truci che stupide.

Quello e gli altri di fu un andare e venire ratti [p. 219 modifica] ratti dei cittadini per la città, come le formiche ammusavansi, e quindi quegli pigliava a destra, questi a sinistra; chi riponeva le mercanzie in cantina, chi portava il vino in soffitta; chi seppelliva il danaro; i preti rimpiattarono i calici d’argento e levarono via i voti dalle immagini; passato il pericolo, quando li vollero rimettere al posto, sbagliarono strada, e invece di portarli alla Madonna li venderono all’orefice. Le donne accesero i lumicini a’ piedi ai santi; le finestre chiusero diligentemente, affinchè il cholera della rivoluzione non entrasse in casa; taluna calafatò finanche i buchi di chiave alla porta di casa; peccato dimenticasse la cappa del camino. Le scale dei prefetti e dei questori da quel di in poi non misero più erba per la frequenza di quelli che trepidando venivano per notizie. Le guardie nazionali, a scanso di cimenti, nascondevano i fucili in camera alle balie; nella gola del privato giù polvere e palle, con maraviglia del Dio Stercuzio, che di cotesto offerte non aveva visto mai. L’ebreo, sempre sospettoso, ammiccava carezzevole dell’occhio alla guardia di sicurezza, e le diceva: — Per vita mia, se come il nome, cara lei, avesse sesso femminile, la sposerei... in una parola, venivano a galla tutti i segni, coi quali la jpaura indica le imminenti perturbazioni civili.

Sotero, nel riferire allo amico Fabrizio tutti cotesti successi, aggiungeva: [p. 220 modifica]

— La girandola piglia, su, da bravo, ora bisogna macinare quando piove.

Ed era un confortare i cani all’erta, che Fabrizio si sentiva pur troppo disposto a correre senza mestieri perette; con la scorta di Sotero continuarono pertanto le perquisizioni e gl’imprigionamenti: ai conforti di lui tutto procede in perfettissima regola di legge, imperciocchè Sotero fosse di quelli che innanzi d’impiccare un uomo senza le forme legali avrebbe impiccato se: quantunque mal volentieri, consentì a Fabrizio che si valesse del giudice suo amico per istruire il processo, considerando che per ricuperare la grazia dei suoi superiori questa volta si sarebbe messo in quattro, e a patto che avesse preso da lui la imbeccata; e tu immagina se il nuovo Teseo con questa razza filo girava senza perdersi per gli andirivieni del laberinto.

Gli arrestati chiusi in carcere separata, dov’erano silenzio e tenebre come dentro al sepolcro; li funestavano la notte i passi pesanti delle guardie, la reciproca chiamata all’erta, la visita improvvisa delle prigioni e lo infame battere strusciando il ferro sopra le inferriate per tentare se fossero intere: lumi proibiti e i libri; più che tutto l’occorrente a scrivere: nè di fuori entrava, ne di dentro usciva notizia di sorte alcuna: i custodi muti quanto gli eunuchi negri del sultano: in balia interi allo sgomento e al tedio: e a diritto; perchè non potendo più (come si [p. 221 modifica] vorrebbe) adoperare i trovati materiali per costringere i detenuti alla confessione, bisogna pure stillarsi il cervello a cercare nuovi partiti morali e schermirsi con quelli. Si conobbe più tardi che tutto cotesto lusso di terrore era stato sprecato, perchè i querelati si confessarono liberamente repubblicani incurabili; la repubblica in cima dei loro pensieri, e questa con tutte le potenze dell’anima ed i sentimenti del corpo volere promovere: veruno scolpavasi, nè per giustificare sè aggravava altrui: e forse vivevano tali fra loro, che in confronto ai magni spiriti romani non avrebbero scapitato; la maggior parte però lo faceva per iattanza, la quale invano si arrabatta di passare agli occhi di chi se ne intende per valore: la virtù vera non si atteggia a gladiatore combattente, bensì si manifesta nel contegno di Socrate, che siede, e argomentando co’ suoi alunni si beve la cicuta. Non è la luce della filosofìa maestra d’incendi, questi insegna il fuoco delle ree passioni: chi le dice non le fa; come i fiumi strappano sempre là dove stimi gli argini più saldi, così, donde te lo aspetti meno, nei pubblici sconvolgimenti ti scappano fuori gli uomini di sangue. Quando le Furie agitano le fiaccole, scotono sopra la terra, senza avvertirlo, gocciole infiammate. Cotesti flagelli, come non sai donde sieno scappati, ignori del pari dove si rintanino. La storia dei Comunardi non ci è anco nota, quella della prima rivoluzione [p. 222 modifica] di Francia ci conta come il più immane fra i Settembrizzatori (infelice vanto di Francia generare nuovi mostri, e a questi apporre inusitati nomi) apparisse e sparisse senza lasciare traccia nè dello avvento, nè della partenza. Ma i giurati, che giudicano a taccio, tutte queste considerazioni non fanno e non le sanno fare; i difensori della legge, che le saprebbero fare, le reputano estranee, anzi contrarie allo istituto loro. Finchè Dio o il diavolo non ci rimedino, motto della loro impresa è il sub mittatur.

— O lo vedi se io ti ho portato Indie a casa? Il giudice istruttore ha già pronunziato la sua brava ordinanza: adesso tocca a te, mettitici con tutto lo impegno; evita più che puoi le avvocatesche sgangheratezze; sii sobrio, stringente come boa, tagliente come un rasoio: più tardi tonerai e fulminerai, ora da’ biada ai giudici, poca ma buona: fieno a forcate ai giurati.

Fabrizio possedeva ingegno di avanzo per ordire tela da lenzùoli funerari per coloro ch’egli incolpava; quanto a malignità si era scoperto a mo’ di pozzo inesauribile di petrolio dentro il suo cuore. Le prove, già lo dicemmo, abbondavano, ma Fabrizio seppe tanto artisticamente disporle, la locuzione curò in guisa, che apparve ad un punto [p. 223 modifica] stringata ed elegante: facili scendevano le induzioni; il nesso dei raziocini rinterzato per modo, ch’egli stette sul punto d’innamorarsi della sua fattura, come l’antico Pigmalione, dicono, ardesse per la statua che aveva scolpita.

Sotero stesso, parchissimo lodatore, ebbe ad esclamare:

— Bel lavoro! Me ne rallegro teco; un vero istrice, da tutti i lati punge: io non so come gli avvocati potranno levare dal collo dei loro clienti la corda che tu ci hai messa.

Per tutto il tribunale in breve si sparse il grido che le requisitorie del regio procuratore erano un bel lavoro; da un punto all’altro per le cantine, per le soffitte, nei sottoscala, per camere e stambugini l’eco si rimandava le parole: bel lavoro! bel lavoro! E chi non lo aveva letto era per l’appunto quegli che lo lodava di più.

L’estratto di questo capodopera fu notificato ai detenuti nelle forme prescritte dalla legge. Zaccaria Recanati, quando vide entrare l’usciere in carcere, imbiancò, tentennò come se temesse gli fosse venuto a leggere la sentenza di morte. Degli uscieri come dei fagiuoli ce ne ha di più specie; i secondi turchi, coll’occhio, bianchi e via, ma tutti ventosi; i primi bruschi, agrodolci, sdolcinati, ma tutti sinistri; il nostro sapeva di dolce, sicchè pensando alla posola che stava per affibbiare a cotesto [p. 224 modifica] disgraziato, nello scrivere l’atto della notificazione tremava; a Zaccaria presero a battere i denti; l’usciere più voleva affrettarsi e più s’intricava; alfine conchiuse il referto, e volendosi asciugare la fronte molle di sudore, senza badarci ci fece un rigo con la penna, e con la sua voce più benigna, proprio con quella delle feste, disse all’ebreo:

— La non si confonda, il diavolo non è mai tanto brutto come si dipinge — e se la svignò.

Partito l’usciere, Zaccaria si fece a leggere lo stampato, ma sì, e’ fu lo stesso come se si fosse posto a leggere il sole: vampe vorticose gli giravano dentro gli occhi; si gittò sul letto per avere tregua; peggio che mai, la stanza roteando andava capovolta; per non rotolare su la terra si aggrappò al materasso, morse le lenzuola, si attentò di levarsi, e giù stramazzoni per terra, senza balia di potersi rilevare in piedi; quivi stette, e tanto mandò dal suo corpo mirabile copia di sudore, che la forma ne rimase impressa sopra i mattoni, nella medesima maniera che una pia credenza predica la immagine del corpo di Gesù Cristo trovarsi improntata nella santa sindone, che per molti anni fu il gioiello di maggior valsente che si trovasse nel tesoro dei reali di Cipro, di Gerusalemme e di Sardegna.

Passato il primo parosismo della febbre paurosa, Zaccaria volle riprovarsi a leggere la requisitoria: [p. 225 modifica] gli pareva durare il supplizio della ruota, e se i colpi non gli spezzavano le ossa delle braccia e delle gambe, gli sfilacciavano il cuore e il cervello.

Fabrizio conciava tutti pel dì delle feste, ma il suo san Bastiano era stato proprio il povero Zaccaria; lui aveva messo a bersaglio dei suoi strali, su lui votato tutta la sua faretra. Arrivato in fondo con tale un tremendo palpito, che minacciava schiantargli le costole, Zaccaria legge domandarsi da Fabrizio, un dì giurato suo fratello, e nelle cospirazioni compagno, a suo danno l’applicazione degli articoli 153 e 531 del codice penale.

Ed ora cotesti articoli che importeranno mai? chiedeva a sè stesso Zaccaria; ma Zaccaria non sapeva che cosa rispondersi, e ciò perchè i difensori della legge, vergognando pronunziare spiattellatamente morte, ci vanno di scancio, citando l’articolo senza dichiararne il tenore: anche questa è ipocrisia; gl’inglesi ci chiamano un popolo in carnevale: ci avrebbero definito meglio modellatori in carnevale, perchè qui fra noi tutto è forme e gesso colato. — Adesso il tormentatore sbracia, per così dire, la febbre nel sangue di Zaccaria, e la inacerba con le smanie della incertezza: un diavolo a cavalcioni sopra la punta del naso gli stirava orribilmente i nervi degli occhi dopo averglieli dimenati ben bene con tanaglie infuocate; pativa il dolore dei denti in tutte le ossa, guaiva: oh! oh! e strettasi la fronte [p. 226 modifica] con le mani ne grondavano giù lacrime come acqua della spugna tratta fuori dal catino.

A sollievo del misero (a lui parve sollievo), ecco spalancarsi fragorosa la porta del carcere e comparire il custode a recargli il pasto. Il custode, un giorno carceriere addirittura, come la guardia di sicurezza sbirro: ipocrisia da aggiungersi al mucchio: il predicatore lasciò detto: vanitas vanitatum, et omnia vanitas; ai dì nostri con migliore fondamento direbbe: ipocrisia delle ipocrisie. Il custode dunque, fìngendo non accorgersi dello stato pietoso in cui vedeva ridotto Zaccaria, così prese a dirgli:

— Ecco qua una zuppina nelle regole, proprio da resuscitare un morto.

— Lasci, signor custode, lasci tutto sul tavolino, che mi sento ben altra voglia che quella di mangiare...

— Andiamo, via, la non si lasci arrugginire dalla malinconia; ha ella avvertito quanto le ha detto l’usciere? E sa, cotesta gente mangia la foglia per aria per sapere da che parte ha da tirare il vento.

— Vede, signor custode, se potesse... più del desinare avrei bisogno di un’altra cosa...

— Di che mai? Parli franco.

— Di un codice penale.... del regno sardo.... badi... 1859.

— Non so... non saprei... capisce... facciamo una cosa... ne parlerò col signor direttore... [p. 227 modifica]

— Scusi, signor custode, mi sembra, anzi so di certo che il direttore qui dentro non ci ha che fare; scusi una seconda volta, o in questo foglio non si citano a fine che io li conosca diversi articoli del codice penale? Ora, caro lei, se qui si citano questi articoli in numero, lei è per insegnarmi che io ho diritto di saperne la sostanza...

— E li cita davvero?

— Per la vita dei miei figliuoli, li cita, e poi guardi, si certifichi da se.

Il custode cavò di tasca gli occhiali e li lesse (dacchè si ha da sapere che il custode fosse un vecchio dragone dell’antico regno d’Italia, prima ridotto a can mastino a nome della gloria, ed ora a can da pagliaio in nome della sicurezza pubblica). Dopo avere letto e ponderato, conchiuse:

— Parrebbe anche a me; eccolo servito; e trattosi il codice di tasca lo porse a Zaccaria.

— Come! questi esclamò, in tasca, caro lei, porta il codice?

— Tre cose ho portato sempre addosso: la medaglia di san Venanzio per liberarmi dalle cascate basse, il codice per preservarmi dalle cascate alte e la cabala del Chiaravalle, onore e gloria di Milano, da non temere confronto con sant’Ambrogio nè con san Carlo: se non mi fossi un po’ istruito leggendo la cabala, sarei rimasto ignorante come quando abbandonai la vanga; ma, caro lei, così non [p. 228 modifica] troverà mai nulla... oh! non vede come le tremano le mani... lasci fare a me: ecco qua 143... se il condannato in contumacia...

— No, caro lei, 153.

E il custode, bagnandosi l’indice di saliva, sfoglia il libro mormorando: 147, 150... ecco 153, legga.

— Mi faccia questo piacere, legga lei... mi abbagliano gli occhi...

— Volentieri: l’attentato contro la sacra persona del re è punito come il parricidio. Misericordia! esclamò il custode, l’altro articolo leggeremo un’altra volta, e chiuso il libro, fece per andarsene; ma Zaccaria gli si avventò addosso come un gatto spaventato, gli strappò dalle mani il libro e corse in un batter d’occhio nell’angolo più lontano della prigione, dove trovato con mirabile prestezza l’articolo 513 lesse:

«I colpevoli dei crimini di parricidio, di venefizio, d’infanticidio e di assassinio sono puniti colla morte.

«Il condannato per parricidio sarà condotto al luogo del patibolo a piedi nudi e col capo coperto di un velo nero

Il povero Zaccaria lasciò cadersi di mano il libro, proruppe in ischianto ineffabile di dolore e sopra se stesso aggirandosi come paleo, battè sconciamente nel muro, e lunghesso quello strisciando il viso ci lasciò la pelle della guancia diritta; sul [p. 229 modifica] pavìmento si ruppe il ciglio destro e il naso. Il custode, non potendo sopportare lo strazio dell’urlo disperato, si turò ambo le orecchie con le mani e fuggiì via.

Però il custode sospettando sventura, e pauroso glie ne venisse danno, dopo breve ora tornò a visitare Zaccaria: non a lui solo, non a lui solo il proprio interesse fa capolino allo spirito con la maschera della pietà presa a nolo dalla ipocrisia. Lo rinvenne svenuto e impiastricciato di sangue; lo lavò, lo fasciò, lo pose sul letto — ma, bene intesi, tutto questo egli fece dopo avere raccolto da terra il codice, ripostolo in tasca e raccomandato a Zaccaria, appena rinvenne, che per quanto amore portava al suo Dio non rivelasse ad anima viva averlo avuto da lui, e l’altro borbottato la promessa vivesse sicuro, all’ultimo si dispose a uscire, non senza però avere frugato e rifrugato prima la cella con lo sguardo, per vedere se ci fosse rimasto oggetto capace a ferire, e gli parve di no: — io, per me, credo che i custodi potrebbero fare con gli occhi la barba e il contrappelo; — se ne andò difilato a ragguagliare il direttore di quanto gli parve spediente dirgli, e n’ebbe lode di vigilanza; e siccome poi questi gli domandava:

— Avete perlustrato bene che non sia rimasta in cella cosa con la quale il prigioniero possa attentare ai suoi giorni? [p. 230 modifica]

— Oh! quanto a questo poi la si lasci servire, lustrissimo.

— Mi fido in voi, perchè viviamo in tempi nei quali bisogna camminare fra le uova, sebbene non giovi andare a piede nè a cavallo: caso mai costui si uccidesse in carcere, apriti cielo! Dovevamo prevederlo e prevenire il carcerato; lo serbiamo vivo, e allora la nostra diventa carità pelosa, lo abbiamo custodito pel patibolo: basta, è nostro debito che lo incolpato non si sottragga alla pena; in virtù del suo misfatto egli è debitore dello esempio alla società.

— Così diceva anch’io, rispose il custode.

Calò la sera; e qual sera! Zaccaria a sedere sul letto, con le braccia abbandonate di qua e di là dallo strapunto, con gli occhi spalancati, fissava intentissimo il buio, il quale ad ora gli si rompeva in strisce di fuoco foggiate a forma dei numeri 153 e 531: così nelle notti tenebrose di estate sembra talora che batta le palpebre il baleno: cessata la fiumana delle vampe, ecco subentra un chiarore grigio periato, come luce che attraversi un cristallo opaco — la luce dell’ora in cui gli uomini menano a guastare l’uomo — agonia della notte che muore, vagito del giorno che nasce; così la notte non accuserà il giorno di avere rischiarato l’opera nefanda, nè il giorno incolperà la notte per non averlo nascosto dentro la sua tenebra; rei entrambi, o nessuno; [p. 231 modifica] unico malvagio l’uomo. Al basso di cotesta luce sinistra presero a sussultare forme indeterminate, quasi sonagli di acqua che bolla a scroscio dentro la caldaia, indi a poco presero sembianza definita e moto e affetto. Non a modo di sogno o per via di visione, bensì ad occhi aperti vide le porte del carcere spalancarsi e uscirne un paziente co’ piedi ignudi, vestito di lunga camicia bianca, il capo avvolto dentro un velo nero e le mani legate dietro la schiena: da un lato gli stanno i pietosi, dall’altro gli spietati; pietosi il rabbino Piperno, il direttore delle carceri e i custodi pietosi sempre di ufficio; in mancanza di meglio il condannato è costretto ad accettare per pietà l’ardente premura di cotesti signori di lavarsi le mani di lui; spietati sempre di ufficio il boia e il suo aiutante, il cancelliere, gli sbirri, se meglio ti garba le guardie di pubblica sicurezza; ma a dir vero in quel momento parve a Zaccaria fossero tutti sbirri; e la milizia, fanti e cavalieri, da che parte io l’ho da mettere? Per me altro non so, che questi fìgli della gloria, questi presidi della patria, che l’amico mio Mariano D’Ayala un dì incocciava a volere venerati come santi, o alla più trista come sacerdoti, adesso fanno il corteo delle truci nozze che il boia sta per celebrare fra l’uomo e la forca, e ringrazino Dio se per amore di risparmio non sono deputati a far tutto con le proprie mani, accompagnatura, macellamento, [p. 232 modifica] tura et reliqua. Comeccliè ci si vedesse appena, Zaccaria sbirciò gremite di gente le finestre e da un abbaino del tetto del palazzo della giustizia gli parve vedere, e vide certo, la sua moglie, il vecchio padre e i figliuoli con le mani rivolte verso il cielo: allora si sentì preso da un grande sdegno contro la moglie e il padre, e li sgridò a voce alta: togliete di costà i miei figliuoli; non sono gli occhi che contaminano l’anima con la vista delle opere scellerate? Scorse eziandio la gente spessa e stipata, quasi convenuta a mirabile spettacolo, scansarsi appena se spinta dall’urto dei cavalli o percossa da piattonate; chi commiserava al condannato e chi malediceva gli accompagnatori; altri alla rovescia; i più imprecavano a quello ed a questi; imperciocchè la razza umana si senta per natura proclive piuttosto a maledire che a benedire; tra la folla si aggiravano donne e fanciulli urlanti a squarciagola: «acquavite!» Sopra gli altri infesto un brutto servo di Dio, che aveva il viso bucherellato come un vaglio e gridava: «ti rideccolo il bruttino con le ciambelle uscite di forno ora!» In campo aperto ecco comparire la forca, disegnata in alto a modo di porta egiziana, per entrare di posta in paradiso: arnese ingenuo, signori miei, strumento semplice come hanno ad essere le macchine dai buoni ingegni immaginate e costruite; due travi su ritti a certa distanza, un altro in cima a traverso, in mezzo la [p. 233 modifica] sua brava carrucola con la sua brava corda, e lateralmente a questa due scale. Gli uomini non hanno conservato il nome dell’inventore della forca, e questo perchè sono una manica d’ingrati; ma ciò non toglie che con l’ara e l’aratro non componga l’ancora di salute dell’umano consorzio. Lo insegnò anche l’Asino scorticato, cui decretarono il nome di quinto evangelista: haec tria tantum... ara, aratriim et arbor patibidarius. Zaccaria vide salire il boia, il paziente e l’aiutante del boia su di una scala, su l’altra il rabbino per confortare il morituro, che, a dirla giusta, più che confortare altrui aveva mestieri di essere confortato; inoltre vide gittare alla traditora il laccio al collo del condannato e la spinta che in bello accordo gli diedero il boia e il suo coadiutore, e il boia... — qui mi tocca far punto prima di proseguire. Piantoni era il boia, uomo coscienzioso, timorato di Dio, cattolico a prova di olio babbo buono, figlio meglio, sposo poi un miracolo di tenerezza, artista della impiccatura, non sa perchè alla forca non facciano largo le Muse per accoglierla nel coro divino, unico e vero magistrato inamovibile del regno italiano, imperciocchè egli esordisse ad esercitare l’arte sua sul povero Ciro Menotti sotto Francesco IV duca di Modena, e la continui lodevolmente sotto il regno di Vittorio Emanuele II: quantunque quegli tiranno e questi re galantuomo; il Piantoni, quando tenne il suo [p. 234 modifica] colloquio coll’avvocato genovese, gli confessò pietosamente essere arrivato alla sua più grande fatica; sentirsi stracco, pure avrebbe servito lo Stato finchè gli bastassero le forze: soldato del dovere, anch’egli sentire l’obbligo di morire su la breccia... cioè sul collo ad un impiccato.16 Io al racconto di questi sensi magnanimi provo una commozione nelle viscere che mai l’uguale; e perchè non onorano il Piantoni con l’ordine del Merito? Se non lo danno a lui, o che ci sta a fare? Come da ora innanzi potrà sostenersi ordine del Merito se continua ad esseme privo il Piantoni? E bisognerebbe rimandarla alle calende greche, perchè leggiamo che il povero uomo non ne può più le cuoia, e di recente fu mestieri raccomandarsi a un manigoldo dozzinale, che costò un occhio e per giunta pretese lire cinquecento pel suo figliuolo sotto boia non contemplato nel contratto di nolo.17 Levo il punto e ripiglio il cammino: — e il boia dalla scala saltare come il giugarro a mezzo il trave, e quivi con la maestria nella quale il buon Piantoni si vanta e veramente si mostra professore, ecco applicargli un piede tra il collo e l’orecchio, e quivi pigiare forte di scancio, affinchè la lussazione delle vertebre si operi in un attimo, e così succeda, secondo l’autorevole giudizio del prelodato [p. 235 modifica] boia, la morte del condannato istantanea. Però ne anche il sotto boia sofferse che gli avessero a dire ch’ei si mangiava il pane a tradimento, al quale effetto dalla scala si calò a terra, e lì, attaccatosi ai piedi del paziente, ritrasse le sue gambe dondolandosi giusto a mo’ che i fanciulli costumano quando tirano le funi delle campane.

Ite missa est: questo, per essere giusti, non disse il boia dall’alto della forca, ma lo lasciò capire calandosi giù dal suo altare: allora il corpo rimasto libero prese a giravoltare intorno intorno, come il fuso fa pendente dalla rocca; in cotesto moto gli cadde il velo dal capo, e Zaccaria nello impiccato riconobbe... chi mai? — Riconobbe se stesso. Allora gli s’insinuò nel capo una strana fantasia, e fu considerare s’egli era caso morire per fuggire la morte; gli parve di sì, e tanto da un punto all’altro si sprofondò in cotesta immaginazione, che avvenne a lui, come a quello il quale spendolandosi troppo dalla finestra non può tirarsi più dentro, ed è forza che vada a sfracellarsi il cranio su la strada. E tanto di subito s’impossessò questa fisima di lui, che come per miracolo liberato da ogni malore, si levò da giacere e si pose a brancolare al buio per rinvenire modo di mettere in esecuzione il suo proponimento: aveva sentito parlare di gente appiccatasi alle nottole d’imposte delle finestre, ovvero ai ferri delle inferriate, ma non gli occorse [p. 236 modifica] tovagliolo, nè asciugamano, nè fazzoletto, nè cintura, che tutte queste si era in bella maniera portate via il custode; tastò le pareti se mai gli venisse fatto d’imbattersi in un chiodo. Zaccaria trovò le pareti del carcere copiose di chiodi come la zucca di Eliseo profeta di capelli:18 provò a battere il cranio nel muro, ma egli ebbe a desistere perchè la spossatezza gli toglieva la forza da potersi ammazzare, l’angoscia soverchia che provava, in ultimo il sentirsi urlare con grida bestiali dalla stanza accanto: «Se vuoi crepare, crepa, ma piano, e lasciaci dormire ». E guai se avesse preso fumo il custode; la camiciola di forza non gli sarebbe mancata, nè la legatura sul letto. Strana cosa! la fortuna avversa gli chiudeva al morire ogni via, e intanto a lui cresceva del morire la sete; mentr’egli si travaglia in questo spasimo gli accade mettersi le mani nel corpetto e si sente incidere lievemente le dita.

Come mai poteva succedere questo? Oh! ecco; Zaccaria era ebreo, voi lo sapete, e sapete altresì quali vincoli di parentela sieno corsi sempre fra ebrei e quattrini; ora a Zaccaria un giorno venne [p. 237 modifica] in testa di raccogliere un medagliere di quante più potesse monete antiche e moderne; tra le altre gli venne fatto di acquistare una crazia, che gli parve cosa rara. La crazia, voi avete a sapere, è, o meglio fu certa moneta toscana composta di una lega di rame e argento; da un lato mostra san Giovan Battista in piedi, dall’altro le palle dei Medici: sottilissima di zecca, pel continuo stropiccio diventò così minuta da disgradarne le scaglie dei pesci. — Esultante nell’orgoglio della sua invenzione, Zaccaria si recò ai labbri la moneta come un dono mandatogli da Dio liberatore; tagliente pur troppo ell’era, ma ei non la. giudicando abbastanza l’affilò sul davanzale della finestra adoperandovi la saliva; quando l’ebbe ridotta proprio a rasoio si adagiò sul letto... e si recise la gola...

Mentre la vita dalle aperte vene gli fuggiva via, piuttostochè colla voce, col sangue che sgorgava gorgogliando, si raccomandò a Dio perchè riposasse l’anima sua nel seno di Abramo, non già al Dio dell’ occhio per occhio e del dente per dente, che visita nel suo fnrore la quarta e la quinta generazione di coloro che gli hanno voluto male, bensì a quello delle misericordie, supplicandolo che quel suo sangue scendesse come una benedizione sul capo della sua famiglia, non consentisse ch’egli ai figli suoi non trasmettesse altra eredità eccetto la sventura; li prosperasse; a modo ch’egli inviava [p. 238 modifica] un dì l’arcangiolo Raffaelle a sanare Tobia dalla cecità, ora spedisse quale è fra gli angioli suoi il più. pietoso a lenire il cuore del padre e della moglie; e i suoi persecutori giudicasse non secondo la sua giustizia, ma si secondo la sua misericordia. E il povero Zaccaria si addormentò contento nel seno di Abramo.

A me parve questo pietosissimo caso, e pur chi sa quanto gli daranno la baiata gli odierni materialisti; si servano; pure mi sia concesso domandare se Zaccaria sarebbe morto con quella pace, se persuaso che mota nacque, mota un po’ meglio organizzata visse, per morire poi mota come prima; e che veruno ente nell’universo intendeva le sue novissime preci; e che da nessun lato una stilla di consolazione sarebbe piovuta su i capi desolati dei carissimi suoi. Invece di rapire all’uomo i dolci sogni ond’egli muore in pace, industriatevi, o voi che sapete, a liberarlo dalle atroci realtà che lo fanno vivere trangosciato.

Da questa morte derivarono conseguenze tutte dannose ai malcapitati compagni di Zaccaria; la fine di lui appresero universalmente come prova della coscienza di colpa per se e per gli altri; Fabrizio sent+ darsi un picchio sul capo, per la quale cosa smarrì di un tratto la vista, dopo cinque giorni sei la ricuperò, ma inchiostro, carta, scritto e tutto insomma gli apparve colore di sangue più o [p. 239 modifica] meno vivido: consultato il medico, lo assicurò trattarsi di alterazione poco importante: pigliasse riposo, gli occhi lavasse con acqua e aceto; e caso mai non potesse astenersi dal lavoro, tenesse sul banco una catinella di acqua gelata, dove immergendo di frequente la spugna, con quella si rinfrescasse il capo; questo accidente, invece di ammansirlo, lo inasprì: ora poi ebbe arso davvero i cariaggi: e poichè di tornare indietro non ci era più verso, avanti a scavezzacollo. Il dibattimento ebbe luogo; gli accusati confermarono alla udienza quanto avevano dichiarato di già nel processo scritto: se predicarono repubblicani, della monarchia nemici implacabili, eterni, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, intenti co’ pensieri e colle opere ad abbatterla: ogni altra accusa respinsero sdegnosi: il manifesto donde Fabrizio s’ingegnò dedurre per via di sofismi la strage meditata del capo dello Stato assai facilmente mostrarono non prestarsi a simile concetto: ad ogni modo non essere fattura loro, il signor regio procuratore saperlo meglio di ogni altro; lo domandassero a lui.

Insistendo il presidente della Corte di assise, forse per segreto astio contro. Fabrizio, per saperne l’autore, assorsero tutti con l’indice appuntato contro l’accusatore gridando:

Lui lo sa, lui lo sa.

Fabrizio, per un istante smarrito, afferrò [p. 240 modifica] frettoloso un cartolare per coprirsene il viso, ma fu brezza sulla fiamma, riprese in breve balia, e mettendo le mani avanti esclamò:

— Chi ha usanza di questi luoghi conosce come il delitto pigli sempre per sua druda la sfrontatezza.

E cotesta fu una sfrontata provocazione. Perchè gli accusati non raccattarono il guanto e non lo lapidarono sotto un nugolo di vituperi? Arduo sempre conoscere le cause intime delle azioni umane; per me giudico li trattenesse il ribrezzo di far conoscere avere sofferto compagno ad impresa, ch’essi reputavano magnanima, uomo così abietto; nè a dissuadermi da simile pensiero giova punto sapere che non tutti in cotesta congiura sentissero altamente; anzi ci si annoverassero contaminati da non poche brutture parecchi, imperciocchè gli esempi sieno contagiosi così nel bene come nel male, e la vista della virtù abbarbagli di stupore anco i corrotti — quantunque per poco. La storia porge spesso testimonianza di fatti simili a questi; Tacito ne registra alcuni nel quindicesimo degli Annali, dove narra la congiura pisoniana contro Nerone. «Plauzio, egli scrive, fu il secondo a morire... arraffato, e dove si giustiziano gli schiavi ammazzato da Stazio tribuno, uno dei congiurati, non lo scoperse e non fiatò»; più oltre, con maggiore conformità al caso nostro: «non potettero più frodare [p. 241 modifica] la congiura ancora i soldati, stomacando quelli che avevano confessato vedersi da Fenio Rufo lor compagno esaminare. Minacciando egli e stringendo forte Scevino a dir su, Scevino ghignò dicendo: — ninno saperne più di lui. — E lo conforta a rendere il camhio a sì buon principe. Fenio non parlò e non tacque, così gli si rappallottarono le parole in bocca per lo spavento.» E poichè anche il servaggio ha i suoi eroi, il duca di Veccaro, confidente di Filippo IV di Spagna, anzichè riversare sul padrone la colpa ond’era accusato, elesse morire su i tormenti.19

Fabrizio non si mostrò nell’arringa sobrio come [p. 242 modifica] nella scrittura, si lasciò rubare la mano dall’abitudine della frondosa parlantina; nè gli avvocati difensori diversi da lui; — grondanti tutti di parole esagerate ed inani; ridevoli più del cane barbone che dopo il tuffo esca dal fiume e si scuota l’acqua sul greto; però tra la eloquenza dell’accusatore e quella del difensore un divario ci corre e grande: questa è unicamente ridicola, l’altra ridicola a un punto e orribile. — Nei gesti scomposti la croce dei santi Maurizio e Lazzaro (dacchè il ministro aveva giudicato bene crocifiggerlo per tenerlo fermo) gli saltava dal petto verso il viso e pareva si sforzasse ad allungarsi per dare di uno schiaffo in faccia al rinnegato; ma la morte di Zaccaria dispensò Fabrizio dalla parte di serva del boia, che va col paniere in mercato a fare la spesa per la forca: quanto a lavori forzati non si lasciò patire; i più a vita, meno di venti anni nessuno e nessuno assoluto.

Ai giudici borghesi, adesso ch’era levato di mezzo il caso di sentenziare a morte, pareva andare a nozze; i lavori forzati sono carabattole; perchè, rispetto a infamia, ormai è fuori di uso anco per chi la merita, figuriamoci se nei delitti politici, che domani saranno reputati gesti magnanimi, ed anche oggi a cento o dugento miglia dal luogo dove furono condannati — e rispetto a pena non mancano le raccomandazioni per alleviarla, e poi ci è la [p. 243 modifica] grazia, e poi e poi. — D’altronde, si trattasse di omicidi... ti dia la peste, si potrebbe correre! Ma di repubblicani che rompono i commerci, interrompono le industrie, buttano la rendita all’inferno, spingono l’aggio in paradiso... ob! allora taglia, che gli è rosso.

Io non mi so capacitare come taluno, osservando che i borghesi appaiono anzichenò corrivi nel giudicare i reati di sangue, mentre poi procedono indragati contro i ladri, i repubblicani, i demagoghi e gli altri tutti sovvertitori di questo mare morto che si chiama quiete, ne abbia fatto le maraviglie, perchè la ragione spiccia chiara come acqua di fontana; del micidiale non temono, perchè dopo le ventiquattro in casa a cena e a letto con la casta moglie, mentre i ladri vanno giusto in giro in cotesto ore ad insidiare le loro mercanzie indarno confidate a chiavistelli amici dell’ordine — e i cospiratori sono, si può dire, i primogeniti della notte.

San Sotero è il patrono dei borghesi, però che valga per lo appunto in lingua greca Conservatore, ed in Italia primo a pigliarlo fu Milico liberto, che tradì il suo benefattore Natale facendogli la spia nella congiura pisoniana contro Nerone,20 da cui lo eredarono i moderati, ora vili, ora feroci e infami sempre. Un giorno, dopo aver fatto i conti, [p. 244 modifica] trovandoci profitto, furono anch’essi perturbatori dell’ordine pubblico; e ciò accadde quando i conti contavano e tenevano le città ordinate a questo modo: un re che regna, una nobiltà che comanda, un popolo che serve; allora costoro predicarono la fratellanza con le plebi, sè uniti a queste salutarono popolo, e insieme puntando superarono i grandi e presero lo Stato. Qui finiva la fratellanza, e la plebe fu rimandata ai solchi e alle officine coll’onore di avere abbattuto i grandi e sostituito i borghesi; se mormarava scontenta, la saldarono a cannonate. Ora la plebe sta a casa con la commissione di lavorare e generare; il lavoro le comprano a mozza gamba in pace, in guerra accetteranno i figliuoli, onde si facciano ammazzare in difesa dei loro interessi per nulla.

La borghesia adesso sta di fronte alla plebe, come la nobilea un dì stava di faccia alla borghesia; la potestà regia, che prima notò co’ sugheri nobili, oggi nota co’ sugheri borghesi; qualche nobile arrembato mantiene sempre nei vivai di Corte, perchè i borghesi ne piglino gelosia e s’infervorino maggiormente nella servitù. Fermi tutti; l’era delle rivoluzioni è chiusa; uscendone, il ministro Farini se ne tirò dietro l’uscio. Non è solo Augusto re di Polonia sfrenato amatore di se stesso, che dai balconi aperti faceva bandire tutti i polacchi avere bevuto quando era brillo: tutti così; dei re si mena [p. 245 modifica] maggior chiasso perchè in vista più degli altri e perchè divorano per trentamila. I medici per curarli dalla bulima ci sarebbero, ma essi invece di guarirli si mettono a mangiare con loro.

I giudici borghesi, quando il fìsco insanisce nei bestiali furori, fanno pasqua, perocchè egli somministri loro comodità di acquistare fama di temperatezza pure menando bastonate da orbi; è gaudio da non potersi ridire quello di mandare la gente in galera col titolo di benefattori dell’umanità; alieni pertanto da squilibrarsi da levante e da ponente, messa l’anima a sedere su l’ago della bilancia della giustizia, aborrirono di assegnare a veruno accusato la libbra intera di pena richiesta dal fisco: — e poi, entrando nelle abitudini mercantili della più parte di loro, sottoporre a tara ogni fattura, scalarono moderatamente a tutti quattro, cinque, fino a sei anni di ergastolo; uno, per non parere, rimandarono assoluto: poi strepitosi e ridenti si rovesciarono giù per le scale, affrettandosi al pranzo. Taluno di loro, mentre passava, sorrise stupidamente ai condannati, pensando che avessero ad aver grata la sua sentenza come una fetta di panettone del Biffi; tal altro tornato a casa, e richiesto dalla casta moglie se avessero finito l’affare, rispose lepido: «anche questa è fatta, posso dire come quegli che mise in forno la moglie.» Insomma parve a tutti avere condotto a compimento [p. 246 modifica] tale una impresa, da aggiungersi in appendice ai Fasti consolari di Roma; e se non dissero come Orazio: exegi monumentum aere perennius, e’ fu perchè non sapevano di latino; sapendolo, forse non se ne sarebbero contentati.

Intanto che Fabrizio si disponeva a sua volta lasciare il tribunale, venne a lui persona fidata per avvisarlo giù fuori della porta accalcarsi una folla di popolo, che alle voci e ai gesti non lasciava presagire nulla di buono; allora Fabrizio fieramente commosso domanda se dei giandarmi ne fosse rimasto qualcuno nel tribunale, e rispostogli di sì, li chiamava ordinando lo mettessero in mezzo e lo accompagnassero a casa. Appena comparso in pubblico, da mille bocche uscì, come se si fossero dati la intesa, un grido solo: «Ecco Giuda!» Egli finse non sentire, e forse non udì, tanto pareva trasognato; ma di un tratto ecco prorompere fuori dalla turba una donna con gli occhi stravolti, scarmigliati i capelli, le braccia ignude, ognuna delle quali ricinge un fanciullo a mezza vita, gli si inginocchia davanti e gli ruzzola tra le gambe le creature urlando:

— Giuda! Il sangue del loro padre ti sia dato a bere nell’ora dell’agonia.

E i bimbi, levando le manine, tenevano bordone alla desolata stridendo.

— Maledetto! Maledetto! [p. 247 modifica]

Fabrizio, atteggiandosi a fuggire, brontola con voce incavernata:

— Giù i coltelli! Liberatemi dai coltelli! E voi, che fate qui? Così i regi giandarmi adempiono i loro doveri?

Il maresciallo, punto sul vivo dal rimprovero non meritato:

— Che colpa abbiamo noi se la paura le fa scambiare le braccia dei bimbi per coltelli?

— Mi hanno minacciato co’ coltelli.

— Tiri innanzi, non ci stia a badare.

~~ Mi hanno minacciato co’ coltelli.

— No, no, le furono parole.

— Oh! che dissero?

— Ai condannati non si concedono tre giorni di tempo per isfogarsi contro ai giudici?

— Sì, ma che dissero? Chi furono?

— Non franca la spesa informarcene.

— No, lo voglio sapere.

— Per obbedienza le dirò che essi imprecarono il sangue del loro padre fosse dato a bere a vostra signoria illustrissima nel punto di morte.

— E chi erano essi? Come entro io con loro?

— Eh! se lo può figurare, sono i figliuoli dello isdraelita Zaccaria...

Fabrizio non fiatò più; chinato il viso, lo tenne basso fino alla porta di casa sua: non prese cibo nò bevanda; si gettò vestito sul letto accusando [p. 248 modifica] un fiero dolore di capo. Dopo un angoscioso dare di volta prese ad appisolarsi, ma di corto saltò giù prorompendo in acutissimo strido. Accorsa la Bianca, lo interroga spaventata che cosa si senta; ed egli:

— Guardami qui! qui — e abbassava il capo per sottoporlo alla ispezione della moglie — ci devo avere laceri... buchi profondi.... morsi.... vestigi di sanna.

— Nè manco per sogno: hai il tuo capo ravviato per bene, secondo il solito; e quando te lo dico io ci puoi credere...

— E che non ho sentito il mio povero capo stritolarsi per un’ora e più sotto le mascelle del diavolo? Poi ei l’ha sputato in faccia a un dannato che gli bruciava di costa, dicendo: «Giuda, tu mi consumi il carbone a tradimento; scroccone di fama... lascia quel posto e da’ luogo al tuo maestro.» Ahi, la mia testa! Ahimè, il mio cervello!

— Calmati, Fabrizio mio, come fa buio ce ne andremo ai pater nostri in San Filippo, dove ti farò ungere il capo coll’olio della lampada di Maria dei sette dolori... vedrai... vedrai... ti farà la mano di Dio... ma rispondimi di proposito, che dianzi non sono riuscita bene a capire, è egli finito il magno processo?

— Il processo! Ah! il processo... sì, è finito. Adesso comincia il mio.



Note

  1. F. Pacchiani, da Prato.
  2. I notai, allorchè lasciano nei protocolli loro una pagina bianca, ci scrivono: bianca per errore; ora, certo notaio, avendo rovesciato il calamaio su di un foglio, scrisse nel cantuccio di quello rimasto bianco per caso: alba per errorem.
  3. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse.

    V. Commentatori a questo verso di Dante.

  4. Reziari erano gladiatori i quali portavano sotto lo scudo una rete, che gittavano sui mirmilloni per agguantarli. I mirmilloni su l’elmo avevano un pesce per cimiero.
  5. Vanità delle vanità, tutto è vanità, eccetto il francescone, moneta del valore di lire 5,60.
  6. A pochi è noto il seguente caso, come a molti tornerà grato saperlo. — Pio IX nel 1855 andò a fare un giro pei suoi Stati; giunto a Ravenna, volle naturalmente visitare il sepolcro del gran padre Alighieri; il popolo gli traeva dietro, in parte plaudendo e in parte imprecando: sciolto il voto, gli fu presentato un libro dove i pellegrini sogliono scrivere il proprio nome; il papa prese la penna e scrisse:

    Non è il mondan romore altro che un fiato
    Di vento, che or vien quinci e or vien quindi,
    E muta nome perchè muta lato.
     (P. 11).

    Non essendo allora dichiarato infallibile, qualche lucido intervallo di tratto in tratto lo chiappava.

  7. Strepito che manda l’olio o il grasso quando frigge; questa voce manca al dizionario della lingua. B. del Bene, Gap. in lode della Carbonata:

    Apollo——- piglia una padella
    E voi Muse un leggiadro contrappunto
    In su lo sfrigolar fate di quella.

  8. Questo fatto è riportato da Lattanzio, De divina iust. — In Plutarco non c’è, sebbene parli di Carneade tre volte nelle Vite parallele.
  9. Che dai monti Rifei vengon, ma rari,
    Molti dì là dagli agghiacciati mari,

  10. Li condannò ambedue. La volpe, perchè capace di chiedere la restituzione di quello che non aveva dato mai; il lupo, perchè furfante da negare avere ricevuto quello che aveva mangiato.
  11. Costui arrostiva carni per sè e per fuori, sicchè ogni giorno ne aveva copia di tutti i pesi: riusciva facilmente nel suo intento, surrogando l’arrosto di due libbre a quello di due e mezzo; quello di due e mezzo all’altro di tre, e così di seguito, finchè il pezzo più grosso gli cascava in mano per quello di due libbre.
  12. V. Storia di un Moscone, e come si dieno le mogli a prova in Corsica.
  13. V. Mercante di Venezia.
  14. S’è male preso è ben tenuto.
  15. Asmodeo è il diavolo dell’amore; alcuni però lo fanno il demonio dell’aritmetica, della geometria e delle matematiche in generale; che tutte queste belle cose fossero governate da un diavolo un dì si aveva per fandonia; solo da quando il Sella tenne il ministero delle finanze in Italia, si cominciò a dubitare che potesse essere verità.
  16. Vedi il libro del Carnefice dell’avv. Giacomo Borgonuovo.
  17. Vedi gazzette del giorno.
  18. Il profeta Eliseo era zuccone; andando in Betel, certi piccoli fanciulli lo uccellarono dicendo: calvo! calvo! Eliseo li maledisse, e due orse uscirono dal bosco e uccisero 42 fanciulli; dico quarantadue. — I Re, 2, c. 2. — Se Eliseo aveva la parrucca, questa strage non succedeva; di qui il lettore vorrà persuadersi della utilità delle parrucche.
  19. Questo caso è al tutto sconosciuto o poco manifesto: gioverà ricordarlo. Filippo IV di Spagna commette al duca di Veccaro scriva a sua sorella, moglie di Luigi XIV, si adoperi con ogni sua possa a indurre il marito a pacificarsi col cognato, ma lo faccia in modo che paia scrivere spontaneo, non già per comandamento del re, ed il cortigiano puntuale adempie il mandato; la lettera casca nelle mani del Consiglio di Spagna, i! quale appone accusa di tradimento al duca. Il re temendo per la sua propria salute non si oppone alla prigionia di lui, ed in segreto fa dirgli stia saldo, egli penserebbe in ogni modo a salvarlo: pertanto, messo il malcapitato al tormento, negò sempre la partecipazione del re, e tanto si spinse da un lato la sua caparbietà a negare, e dall’altro quella del Consiglio a tormentarlo, che all’ultimo morì in mezzo agli strazi. In questo mentre il re faceva esporre il Santissimo Sacramento, raccomandando al popolo di pregare Gesù secondo la sua intenzione, la quale, nota un dotto e pio ecclesiastico, era che il duca morisse su la tortura, perchè in cotesta maniera il re veniva a conseguire due beni: il primo, la sicurezza che il segreto non si sarebbe mai venuto a scoprire; il secondo, che la morte del duca lo avrebbe liberato dallo imbarazzo e dalla spesa di mostrargli la sua gratitudine.
  20. Tacito, Ann., loc. cit.