Le Mille ed una Notti/Storia di Noreddin e della Bella Persiana

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Storia di Noreddin e della Bella Persiana
Storia dei principi Amgiad e Assad Lettera del califfo Aaron-al-Raschid al re di Balsora

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Noreddin nel Padiglione delle Pitture.               Disp. IX.

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NOTTE CCXXXVIII


Secondo la promessa, la sultana delle Indie, volgendo la parola a Schahriar, cominciò la seguente novella in questi sensi:

STORIA

DI NOREDDIN E DELLA BELLA PERSIANA.


— Sire, la città di Balsora fu per moltissimi anni la capitale d’un regno tributario dei califfi. Il re che lo governava al tempo del califfo Aaron-al-Raschid, chiamavasi Zineby, ed erano amendue cugini, figli di due fratelli. Zineby non aveva stimato opportuno di affidare l’amministrazione de’ propri stati ad un solo visir, ma aveane scelti due, Khacan e Sauy. [p. 21 modifica]

«Khacan era buono, cortese, liberale, e dilettavasi di contentare quelli che avevano da fare con lui in quanto dipendeva dal suo potere, senza recar pregiudizio alla giustizia, cui era obbligato di rendere. Non esisteva uomo alla corte di Balsora, nè nella città, nè in tutto il regno, che non lo rispettasse, e non divulgasse le lodi che meritava.

«D’altro carattere era Sauy: sempre stizzoso, ributtava egualmente tutti, senza distinzione di ceto o di qualità. lnoltre, ben lontano dal farsi un merito per le grandi ricchezze che possedeva, era avaro al punto di negare a sè medesimo le cose più necessarie. Niuno poteva soffrirlo, e non erasi mai udito parlare di lui se non in male. E ciò che rendevalo più odioso, era la grande avversione che professava per Khacan, e che, interpretando in male tutto il bene fatto da quel degno ministro, non cessava di porlo in cattivo aspetto presso al re.

«Un giorno, dopo il consiglio, che il re di Balsora dilettavasi a conversare coi due suoi visiri e parecchi altri membri del consiglio, il discorso cadde sulle schiave che si comprano, e che fra di noi tengonsi all’incirca nel medesimo grado delle donne che si prendono in legittimo matrimonio. Pretendevano taluni che bastasse che una schiava comprata fosse bella e vezzosa, per consolarsi delle donne, cui si era costretti a prendere per parentela o per interesse di famiglia, le quali non hanno sempre tutte le attrattive, nè le altre perfezioni del corpo in retaggio. Gli altri sostenevano, e Khacan era di questo parere, che la bellezza e tutte le qualità del corpo non fossero le sole cose che ricercar si dovessero in una schiava, ma bisognava venissero accompagnate da molto spirito, da savìezza, modestia, piacevolezza, e, se ciò era possibile, da alcune belle cognizioni. La ragione che ne adducevano, era, a loro dire, che nulla [p. 22 modifica]maggiormente convenisse a persone che abbiano grandi affari da amministrare, quanto di trovare, ritirandosi in privato, dopo aver trascorso tutto il giorno in sì penosa occupazione, una compagna la cui conversazione fosse egualmente utile, amena e divertente. Poichè alla fine, soggiungevano, e’ non è allontanarsi dai bruti l’avere una schiava soltanto per vederla, e soddisfare una passione che abbiamo con essa comune.

«Il re si pose dalla parte degli ultimi, e lo fece conoscere, comandando a Khacan di comprargli una schiava che fosse perfetta in beltà, possedesse tutte le belle qualità che si erano dette, e sopra ogni altra cosa, fosse molto dotta.

«Sauy, geloso dell’onore dal re impartito a Khacan, ed il quale era stato del parere contrario: — Sire,» si fece a dirgli, «sarà ben difficile trovare una schiava sì compita come vostra maestà la richiede. Se la si trova, cosa che stento a credere, ella l’avrà a buon patto, se non le costerà più di diecimila pezze d’oro. — Sauy,» rispose il principe, «probabilmente voi trovate che la somma sia troppo grossa: può esserlo per voi, ma non già per me.» E nello stesso tempo ordinò al gran tesoriere, che trovavasi presente, di mandare a Khacan le diecimila pezze d’oro.

«Quando questi fu di ritorno a casa, fece chiamare tutti i sensali, che ingerivansi della vendita di donne e fanciulle schiave, ed incaricolli, che appena avessero trovata una schiava quale egli lor la dipinse, venissero a dargliene avviso. I sensali, tanto per compiacere il visir Khacan, quanto pel loro interesse particolare, gli promisero di far il possibile onde scoprirne una, com’egli la desiderava. Non passava giorno che non gliene conducessero qualcheduna, ma egli vi trovava sempre difetti.

«Un giorno, di buon mattino, mentre Khacan stava per recarsi al palazzo del re, presentossi alla staffa [p. 23 modifica]del suo cavallo un sensale ad annunciargli con grande premura, che un mercadante di Persia, giunto il giorno precedente assai tardi, aveva da vendere una schiava di finita bellezza, superiore a tutte quelle che mai avesse vedute. — Riguardo al suo spirito ed alle di lei cognizioni,» soggiunse, «il mercadante la garantisce che può tener fronte a quanti begli spiriti e dotti si trovino al mondo. —

«Khacan, lieto di quella notizia, che facevagli sperare d’aver modo di far bene la sua corte, gli disse di condurgli la schiava al ritorno dal real palazzo, e continuò la sua strada.

«Il sensale non mancò di trovarsi dal visir all’ora concertata; e Khacan trovò la schiava tanto bella ed assai al di là d’ogni aspettativa, che le diè fin d’allora il nome di Bella Persiana. Siccome aveva moltissimo spirito, ed era dottissima, presto conobbe, dal colloquio avuto con lei, che cercherebbe indarno un’altra schiava, la quale giungesse a superarla in alcuna delle qualità che il re desiderava. Domandò quindi al sensale qual prezzo ne volesse il mercante di Persia.

«— Signore,» rispose il sensale, «è un uomo di poche parole; e protesta che non può darla, ultima parola, a meno di diecimila pezze d’oro. E mi ha giurato, che senza contare le sue cure, le pene, ed il tempo impiegato per educarla, egli ha speso per lei all’incirca la medesima somma, tanto in maestri per gli esercizi del corpo, onde istruirla e formarne lo spirito, quanto in abiti e mantenimento. Siccome l’aveva giudicata degna d’un re fin da quando la comprò dalla prima infanzia, non ha nulla risparmiato di quanto contribuir poteva a farla giungere a sì alto grado. Suona ogni sorta d’istrumenti, canta, balla, scrive meglio degli scrivani più abili; fa versi, e non v’ha libro che non abbia letto. Non si è mai sentito che una schiava sapesse tante cose quante ne sa questa. —

[p. 24 modifica]«Il visir Khacan, il quale conosceva il merito della Bella Persiana molto meglio del mediatore, che non ne parlava se non dietro quanto gliene aveva detto lo stesso proprietario, non volle differir ulteriormente il contratto; e mandò tosto da uno de’ suoi a cercar il mercante, nel luogo che il sensale gl’indicò doversi trovare.

«Giunto il mercante di Persia: — Non è per me ch’io voglio comprare la vostra schiava,» disse il visir Khacan, «ma bensì pel re; bisogna dunque che la cediate a miglior prezzo di quello che le avete posto.

«— Illustre visir,» rispose l’altro, «sarebbe per me grande onore facendone un presente a sua maestà, se un mercante com’io potesse farne di tal valore. Non dimando in verità se non il danaro sborsato per educarla e renderla qual è. Quello che posso dire e che sua maestà avrà fatto un acquisto, di cui si troverà contentissima. —

«Il visir Khacan non volle mercanteggiare; e fatta contare al mercante la somma, questi prima di andarsene: — Signore,» disse al visir, «poichè la schiava è destinata al re, mi permetterete che abbia l’onore di dirvi esser dessa estremamente stanca del lungo viaggio che le feci fare per condurla fin qui. Quantunque sia un’impareggiabile bellezza, sarà nondimeno tutt’altra cosa, se la terrete presso di voi quindici soli giorni, e vi diate un po’ di cura di ben trattarla. Passato tal tempo, quando la presenterete al re, essa vi farà un onore ed un merito, de’ quali spero mi sarete grato. Vedete anche che il sole le ha un po’ guasto il colorito; ma quando sarà stata due o tre volte al bagno, e l’avrete fatta vestire nel modo che giudicherete meglio, la troverete tanto cangiata, che vi parrà infinitamente più bella. —

«Ascoltò Khacan il consiglio del mercante, e [p. 25 modifica]risolse approfittarne. Diede alla Bella Persiana un appartamento particolare, vicino a quello di sua moglie, pregandola di accoglierla alla sua mensa e riguardarla come una dama che apparteneva al re. La pregò pure di farle fare diversi abiti più magnifici che fosse possibile, e che le stèssero meglio. E prima di lasciare la Bella Persiana: — La vostra fortuna,» le disse, «non può essere maggiore di quella che vi ho procurata. Giudicatene voi medesima; io v’ho comperata pel re, e son persuaso ch’egli sarà molto più soddisfatto di possedervi, ch’io non lo sia d’aver adempiuto all’incarico da lui commessomi. Però mi piace avvertirvi, ch’io ho un figliuolo; il quale non manca di spirito, ma giovane, scherzoso ed intraprendente, e di guardarvene bene quando sia per avvicinarsi a voi.» Lo ringraziò la Bella Persiana dell’avvertimento, ed assicuratolo che ne approfitterebbe, si ritirò.»

L’alba interruppe il racconto di Scheherazade, la quale lo continuò di tal guisa la notte seguente:


NOTTE CCXXXIX


— Sire, Noreddin, così chiamavasi il figliuolo del visir Khacan, entrava liberamente nelle stanze della madre, colla quale era solito mangiare. Era di bell’aspetto, giovane, piacevole ed ardito; e siccome possedeva moltissimo spirito, ed esprimevasi con somma facilità, aveva un dono particolare di persuadere tutto ciò che voleva. Vide egli la Bella Persiana; e fin dal primo loro incontro, benchè sapesse che il padre l’aveva comprata pel re, e questi glielo avesse dichiarato in persona, non si fece [p. 26 modifica]perciò violenza alcuna per astenersi dall’amarla, ma si lasciò trascinare dalle sue attrattive, onde fu alla prima colpito; ed il colloquio ch’ebbe con lei, gli fece prendere la risoluzione di usare ogni sorta di mezzi per rapirla al re.

«Da parte sua, la Bella Persiana trovò Noreddin amabilissimo. — Il gran visir,» diceva fra sè, «mi fa davvero un grand’onore avendomi acquistata pel re di Balsora: ma mi stimerei invece felicissima, se si accontentasse di darmi soltanto a suo figliuolo. —

«Noreddin fu molto assiduo ad approfittare della libertà che aveva di vedere una bellezza, di cui era tanto invaghito, d’intertenersi, ridere e scherzare con lei, e mai non la lasciava finchè sua madre non ve lo costringesse. — Figliuolo,» gli diceva, «non istà bene che un giovane come voi rimanga sempre nell’appartamento delle donne. Andate, ritiratevi, e v’occupate a rendervi degno di succedere un giorno alla dignità del padre vostro. —

«Essendo scorso molto tempo dacchè la Bella Persiana non era stata al bagno, colpa il lungo viaggio fatto, cinque o sei giorni dopo che fu comprata, la moglie del visir Khacan ebbe cura di far riscaldare espressamente per lei quello, che il visir aveva in casa propria; e ve la mandò con parecchie sue schiave, raccomandando a queste di prestarle i medesimi servigi come a se medesima, e farle indossare, all’uscire dal bagno, un magnifico abito che già le aveva preparato, e del quale erasi presa tanta maggior sollecitudine, in quanto che voleva farsene un merito presso il marito, dimostrandogli quanto s’interessasse in tutto ciò che potesse piacergli.

«All’uscire dal bagno, la Bella Persiana, mille volte più vezzosa che parsa non fosse a Khacan quando l’ebbe comprata, venne a mostrarsi alla moglie del visir, che durò fatica a riconoscerla. La Bella [p. 27 modifica]Persiana le baciò con grazia la mano, e le disse: — Signora, non so come mi troviate coll’abito che vi prendeste il disturbo di regalarmi. Le vostre donne, le quali assicurano che mi va così bene da non conoscermi più, sono probabilmente tante adulatrici: me ne rimetto dunque a voi. Se tuttavia dicessero la verità, sarebbe a voi, o signora, ch’io avrei tutta l’obbligazione del vantaggio che mi reca.

«— Figliuola,» rispose la moglie del visir con gioia, «non dovete prendere per adulazione quello che le mie donne vi dissero: me ne intendo più di loro, e senza parlar dell’abito, che vi sta a maraviglia, voi riportate dal bagno una leggiadria tanto superiore a ciò ch’eravate prima, da non riconoscervi neppur io medesima: se credessi che il bagno fosse ancor buono, andrei anch’io a prenderne la mia parte, essendo ormai in età che richiede di farne spesso uso. — Signora,» rispose la Bella Persiana, «non so come corrispondere alle gentilezze che mi usate senza averle meritate. Quanto al bagno, esso è ammirabile, e se avete idea di andarvi, non c’è tempo da perdere. Le vostre donne possono dirvi la medesima cosa. —

«Considerando la moglie del visir che da parecchi giorni non era stata al bagno, volle approfittare dell’occasione, ed esternatolo alle sue donne, queste si furono in breve provviste di tutte le cose necessarie. La Bella Persiana si ritirò nelle proprie stanze, e la moglie del visir, prima di recarsi al bagno, incaricò due piccole schiave di restare presso di lei, con ordine di non lasciar entrare Noreddin, se mai capitasse.

«Mentre la moglie del visir Khacan stava al bagno, e la Bella Persiana era sola, Noreddin giunse appunto in quella, e non trovando la madre nel suo appartamento, andò alle stanze della Bella Persiana, ove [p. 28 modifica]vedute nell’anticamera le due piccole schiave, chiese loro dove fosse la madre; quelle risposero essere andata al bagno. — E la Bella Persiana,» ripigliò Noreddin, «vi è andata anch’essa? — Ne è tornata,» risposero le ragazze, «ed è nella sua camera; ma noi abbiamo ordine dalla signora vostra madre di non lasciarvi entrare. —

«La stanza della Bella Persiana non era chiusa se non da una portiera. Noreddin si avanzò per entrare, e le due schiave gli si posero davanti per impedirnelo; ma egli le prese entrambe per un braccio, le cacciò fuor dell’anticamera, e chiuse la porta. Corsero esse al bagno, mandando alte grida, ed annunciarono alla padrona, piangendo, come Noreddin fosse, loro malgrado, entrato nella camera della Bella Persiana, e le avesse scacciare.

«La notizia di tanto ardire cagionò alla buona dama sensibilissima mortificazione, talchè interrotto il bagno, si mise a vestirsi con somma sollecitudine, ma prima che avesse finito e fosse giunta alla stanza della Bella Persiana, Noreddin n’era già uscito, ed aveva presa la fuga.

«Rimase la Bella Persiana estremamente maravigliata, vedendo entrare la moglie del visir tutta in pianto e disperata. — Signora,» le disse, «oserei io chiedervi d’onde nasca la vostra afflizione? Qual disgrazia vi è accaduta al bagno per avervi costretta ad uscirne sì presto?

«— Come!» sclamò la moglie del visir; «mi fate questa domanda con tanta tranquillità, dopo che Noreddin, mio figlio, è entrato nella vostra stanza, rimanendo solo con voi? Poteva accaderci sciagura maggiore, a lui ed a me?

«— Di grazia, signora,» rispose la Bella Persiana, «quale sciagura può esservi per voi e per Noreddin in ciò ch’egli ha fatto? — Come!» replicò la [p. 29 modifica]moglie del visir; «mio marito non v’ha detto d’avervi comprata pel re? e non v’ha egli avvertita di badare che Noreddin non vi si accostasse?

«— Non l’ho dimenticato,» ripigliò di nuovo la Bella Persiana; «ma Noreddin è venuto a dirmi che il visir suo padre cangiò sentimento, e che invece di riservarmi pel re, come prima avevano avuta intenzione, gli ha fatto un dono della mia persona. Gli credetti, o signora; e schiava qual sono, avvezza alle leggi della schiavitù dalla mia più tenera infanzia, ben vedete che non ho potuto, nè dovuto oppormi a’ suoi voleri. Aggiungerò inoltre d’averlo fatto con tanto minor ripugnanza, in quanto che aveva concepito per lui una forte inclinazione, stante la libertà che abbiamo avuto di vederci. Perdo senza dolore la speranza d’appartenere al re, e mi stimerei fortunatissima di passare tutta la mia vita con Noreddin. —

«A simile discorso della Bella Persiana: — Volesse Iddio,» disse la moglie del visir, «che quanto mi dite fosse vero; ne avrei infinita gioia! Ma, credetemi: Noreddin è un impostore: egli v’ha ingannata, e non è possibile che suo padre gli abbia fatto il dono ch’ei vi disse. Quale sventura, e quanto disgraziata son io! E quanto più lo sarà suo padre per le amare conseguenze che ne deve temere, e che abbiamo a temerne con lui! I miei pianti e le mie preghiere non saranno capaci di placarlo, nè di ottenerne il perdono. Suo padre lo sacrificherà al giusto di lui risentimento, quando sarà informato della violenza che v’ha fatta.» Terminando tali parole, si mise a piangere dirottamente; e le sue schiave, le quali non temevano meno di lei per la vita di Noreddin, ne seguirono l’esempio.

«Pochi momenti dopo giunse intanto il visir Khacan, e non è a dire qual ne fosse la maraviglia [p. 30 modifica]vedendo la moglie e le schiave tutte in lagrime, e tristissima la Bella Persiana. Ne chiese la cagione, ed invece di rispondere, la moglie e le schiave aumentarono le grida ed i pianti. Tal silenzio lo sorprese viemaggiormente, e voltosi alla moglie: — Voglio assolutamente,» le disse, «mi sia spiegato perchè piangete tanto, e mi diciate la verità. —

«Non potè la desolata donna dispensarsi dal soddisfare il marito. — Promettetemi dunque, o signore,» gli rispose, «che non ve la piglierete con me per quanto sono a dirvi: vi assicuro prima che non ci ho nessuna colpa.» E senza aspettarne la risposta: — Mentr’io era colle mie donne al bagno,» proseguì, «è venuto vostro figlio, ed approfittò di questo sciagurato momento per dar ad intendere alla Bella Persiana che voi non volevate darla al re, facendone invece un dono a lui; non vi dirò cosa fece dopo una tanto insigne falsità, e lo lascio giudicare da voi medesimo. Ecco il motivo della mia afflizione per amor vostro e per l’amore di lui, pel quale non oso implorare la vostra clemenza. —

«È impossibile esprimere con parole il cordoglio del visir Khacan, quand’ebbe udito il racconto dell’insolenza di suo figliuolo Noreddin. — Ah!» sclamò egli, battendosi crudelmente il petto, mordendosi le mani e strappandosi la barba, «è dunque così, figlio sciaurato, figlio indegno di veder la luce del sole, che getti tuo padre nel precipizio, dal più alto grado della sua prosperità, e che lo perdi perdendo te stesso con lui? Il re non si contenterà del tuo sangue, nè del mio, per vendicarsi di tanto oltraggio che tocca la sua stessa persona. —

«La moglie tentò di consolarlo. — Non vi affliggete,» disse; «raduneremo facilmente diecimila pezze d’oro con una parte delle mie gioie; e ne comprerete un’altra schiava, che sarà più bella e degna del re.

[p. 31 modifica]«— Eh, credete voi,» rispose il visir, «che io sia capace di affliggermi tanto per la perdita di diecimila pezze d’oro? Qui non si tratta di questo, e neppure della perdita di tutti i miei beni, di cui sarei eziandio poco commosso. Si tratta di quella del mio onore, che m’è più prezioso di tutti i beni del mondo. — Mi sembra tuttavia,» ripigliò la dama, «che quanto si può riparare col danaro, non sia poi di tanta conseguenza.

«— E che!» replicò il visir; «ma non sapete che Sauy è mio capitale nemico? Credete voi che non appena colui avrà saputa la faccenda, non corra tosto a trionfare di me presso al re? ««Vostra maestà,» gli dirà egli, «non parla che dell’affetto e dello zelo di Khacan pel suo servigio; egli però ha fatto vedere ora quanto sia poco degno di tale considerazione. Ha ricevuto diecimila pezze d’oro per comprarle una schiava: infatti ha adempito a sì onorevole incarico, e mai alcuno vide schiava più bella; ma invece di condurla a vostra maestà, giudicò meglio di farne un dono a suo figlio. — Figliuolo,» gli ha detto, «prendete questa schiava, essa è vostra: la meritate meglio del re.» Suo figliuolo,» proseguirà egli colla sua consueta malizia, «se l’è presa, e si diverte ogni giorno con lei. La cosa sta come ho l’onore di asserire, e vostra maestà può accertarsene da per se medesima.»» Non vedete,» soggiunse il visir, «che per tale discorso le guardie del re possono venire ad ogni momento ad invadere la mia casa e levarne la schiava? Aggiungetevi tutte le altre inevitabili disgrazie che ne deriveranno.

«— Signore,» rispose la dama a quel discorso del consorte, «confesso che la malignità di Sauy è grandissima, e ch’egli è capace di dare alla cosa il malizioso aspetto che avete detto, se ne avesse la minima cognizione. Ma chi può mai sapere, ned egli [p. 32 modifica]nè chiunque altro, ciò che accade nell’interno della vostra casa? Quand’anche lo si sospettasse, ed il re ve ne parlasse, non potete dire che, dopo aver esaminata bene la schiava, non la trovaste sì degna di sua maestà, come v’era sembrato a prima vista? che il mercante v’ha ingannato; ch’essa per verità è d’una beltà impareggiabile; ma che troppo è mancante di quello spirito e di quell’abilità cui tanto vi avevano vantata? Il re vi crederà sulla parola; e Sauy avrà la confusione di non essere riuscito nel suo pernicioso disegno, al par delle tante altre volte che ha tentato di precipitarvi. Rassicuratevi dunque, e se mi volete credere, mandate a cercar i sensali, dite loro che non siete contento della Bella Persiana, ed incaricateli di trovarvi un’altra schiava. —

«Siccome quel consiglio parve ragionevolissimo al visir, Khacan calmò un poco l’animo, e prese la risoluzione di seguirlo; ma nulla scemò della sua collera contro il figlio Noreddin.

— Ma, signore,» disse Scheherazade, «sorge l’aurora, e vostra maestà deve andare ad occuparsi degli affari del suo impero; domani, se me lo permette, le racconterò il seguito di questa storia.»

Il sultano alzossi, e la notte seguente Scheherazade ripigliò la parola in codesti termini:


NOTTE CCXL


— Sire, Noreddin non comparve per tutto il giorno, e non osò nemmeno ricoverarsi presso alcuno dei giovani di sua età, cui frequentava di solito, nel timore che suo padre non ve lo facesse cercare. Andò fuor della città, e si nascose in un giardino ove non era mai stato e non v’era conosciuto; non ne tornò che assai tardi, [p. 33 modifica] quando ben sapeva che il padre sarebbe già ritirato, e si fece aprire dalle donne di sua madre, che lo introdussero senza rumore. Uscì la mattina seguente prima che il visir fosse alzato, e fu per un mese intiero costretto a prendere le medesime precauzioni, con sensibilissima mortificazione. In fatti, le donne non lo lusingavano, dichiarandogli francamente che suo padre persisteva nella medesima collera, e protestava di ammazzarlo, se gli si presentasse davanti.

«La moglie di quel ministro sapeva dalle sue donne che Noreddin tornava ogni giorno; ma non osava prendersi l’ardire di pregar il marito di perdonargli. Vi si determinò finalmente. — Signore,» gli disse un giorno, «non ho osato finora prendermi la libertà di parlarvi di vostro figlio. Vi supplico permettermi di chiedervi cosa intendiate fare di lui. Un figlio non può essere più colpevole verso suo padre, quanto Noreddin lo è verso di voi. Egli vi ha privato d’un grande onore e della soddisfazione di presentare al re una schiava sì compita com’è la Bella Persiana, lo confesso; ma infine, qual è la vostra intenzione? Volete assolutamente perderlo? Invece del male, cui più non bisogna pensare, ve ne attirereste un altro molto maggiore, al quale forse non pensate. Non temete che il mondo, sempre maligno, cercando di sapere perchè vostro figlio stia da voi lontano, non indovini il vero motivo che tanto v’importa di tener celato? Se ciò accadesse, sareste caduto appunto nella disgrazia, cui avete sì grande interesso di evitare.

«— Moglie,» le rispose il visir, «il vostro ragionamento è pieno di buon senso; ma non so risolvermi a perdonare a Noreddin, se non l’abbia prima castigato come merita. — Egli sarà castigato abbastanza,» ripigliò la dama, «allorchè avrete fatto ciò che mi viene in pensiero. Vostro figlio entra qui ogni notte, quando voi vi siete ritirato; dorme qua, [p. 34 modifica] e n’esce prima che vi alziate. Aspettatelo stasera finchè arrivi, e fingete di volerlo uccidere; io giungerò in suo soccorso, e facendogli osservare che gli donate a mia sola istanza la vita, lo obbligherete a prendere in moglie la Bella Persiana alle condizioni che vi piaceranno. Ei l’ama, e so che la Bella Persiana non lo vede di mal occhio. —

«Volle Khacan seguire anche questo consiglio; e così, prima che si aprisse a Noreddin, quando il giovine giunse all’ora consueta, si celò dietro la porta; ed appena gli fu aperto, gli si gettò addosso e se lo mise sotto i piedi. Noreddin volse la testa, e riconobbe il padre, con un pugnale in mano, in procinto di togliergli la vita.

«Sopraggiunse in quel momento la madre di Noreddin, e trattenendo il braccio al visir: — Che fate, o signore?» sclamò essa. — Lasciatemi,» ripigliò il visir, «lasciatemi uccidere questo figlio indegno. — Ah signore!» tornò a dire la madre, «uccidete me piuttosto; non permetterò mai che vi bagniate le mani nel vostro proprio sangue!» Approfittò Noreddin dell’istante. — Padre mio,» gridò egli colle lagrime agli occhi, «imploro la vostra clemenza e misericordia; accordatemi il perdono, che vi domando in nome di Colui dal quale voi l’attendete il giorno che tutti noi gli compariremo dinanzi. —

«Khacan si lasciò strappare di mano il pugnale, e Noreddin se gli buttò ai piedi, baciandoglieli per dimostrargli quanto si pentisse d’averlo offeso. — Noreddin,» gli diss’egli, «ringraziate vostra madre; vi perdono a suo riguardo. Voglio pur anche concedervi la Bella Persiana, ma colla condizione di promettermi con giuramento che non la risguarderete come schiava, ma quale vostra moglie, cioè che non la venderete, ed anzi che mai non la ripudierete. Siccome è saggia, ed ha spirito e buona condotta [p. 35 modifica] infinitamente più di voi, son certo ch’essa modererà quei trasporti di gioventù che sono capaci di rovinarvi. —

«Non avrebbe Noreddin osato sperare di essere trattato con tanta indulgenza. Ringraziò il padre con tutta la riconoscenza immaginabile, e gli fece di buonissimo cuore il giuramento che desiderava. Furono entrambi contentissimi, la Bella Persiana e lui, ed il visir rimase soddisfatto della loro buona unione.

«Il visir Khacan non aspettò che il re gli parlasse dell’incarico datogli; prendevasi gran cura di discorrerne spesso con lui, e manifestargli le difficoltà che egli trovava ad adempirlo a soddisfazione di sua maestà; seppe in fine trattar la faccenda con tanta destrezza, che insensibilmente ei non vi pensò più. Sauy nondimeno aveva traspirato qualche cosa dell’accaduto; ma Khacan era sì innanzi nel favore del re, che non arrischiò di parlarne.

«Era già più d’un anno che quella dilicata avventura riusciva più felicemente, che quel ministro non avesselo dapprima creduto, allorchè, andato al bagno, un affare urgente lo costrinse ad uscirne tutto riscaldato; l’aria, che era un po’ fredda, lo colpì, e gli produsse una flussione di petto che l’obbligò a mettersi a letto con una febbre ardente. Crebbe il male, talchè avvistosi di non essere lontano dall’ultimo momento della sua vita, tenne a Noreddin, che non lo abbandonava mai, questo discorso: — Figliuolo,» gli disse, «ignoro se io abbia fatto il buon uso che doveva delle grandi ricchezze concessemi da Dio; voi vedete che esse a nulla mi servono per iscampar dalla morte. La sola cosa che, morendo, vi domando, si è, che vi ricordiate della promessa fatta riguardo alla Bella Persiana. Muoio contento nella fiducia che non la dimenticherete. —

«Tali furono le ultime parole proferite dal visir Khacan, il quale spirò pochi momenti dopo, lasciando [p. 36 modifica] in lutto inesprimibile la casa, la corte e la città. Il re lo pianse come un ministro saggio, zelante e fedele, e tutta la città siccome un protettore e benefattore. Non eransi mai più veduti sì onorevoli funerali in Balsora. I visiri, gli amici, e generalmente tutti i grandi di corte sollecitaronsi a portarne il feretro sulle spalle, gli uni dopo gli altri, fino al luogo della sepoltura; e dai più ricchi fino ai più poveri della città, tutti: ve lo accompagnarono piangendo.

«Diede Noreddin tutti i segni della grande afflizione che la perdita fatta doveagli cagionare, e rimase in casa gran pezzo senza vedere alcuno. Un giorno finalmente permise che si lasciasse entrare un suo intimo amico, il quale, procurando di consolarlo, e vedutolo disposto a dargli ascolto, gli disse, che dopo aver reso alla memoria del padre tutto ciò che gli dovea, e soddisfatto pienamente a quanto, la convenienza domandava, era tempo che ricomparisse nel mondo, vedesse gli amici, e sostenesse il grado che la nascita ed il suo merito avevangli acquistato. — Noi peccheremmo,» soggiunse, «contro le leggi della natura e anche contro le leggi civili, se quando son morti i nostri padri non rendessimo loro tutti i doveri che la tenerezza esige da noi, e saremmo ritenuti come insensibili. Ma dacchè vi abbiamo soddisfatto, e che non ce ne può esser fatto rimprovero, siamo obbligati a riprendere il medesimo ordine di prima, e vivere nel mondo nelle solite abitudini. Asciugate dunque le lacrime, e ripigliate quell’aria d’allegria che ha mai sempre ispirato la gioia ovunque vi trovavate. —

«Ragionevolissimo era il consiglio dell’amico; e Noreddin avrebbe evitati tutti i guai che gli accaddero, se lo avesse seguito con tutta la regolarità che richiedeva. Si lasciò persuadere senza difficoltà, trattò anche a pranzo l’amico, e quando volle andarsene, [p. 37 modifica] lo pregò di tornare il giorno dopo, e condurre tre o quattro dei comuni amici. A poco a poco formò una brigata di dieci persone all’incirca della sua età, e passava il tempo con essi in feste ed allegrie continue. Anzi non v’era giorno, in cui non li rimandasse ciascheduno con qualche regalo.

«Talora, per far maggior piacere a’ suoi amici, Noreddin faceva venire la Bella Persiana: ella aveva la compiacenza di obbedire, ma non approvava quella prodigalità eccessiva, e gliene esternava liberamente 1l suo sentimento. — Non dubito,» dicevagli essa, «che il visir vostro padre non v’abbia lasciato molte ricchezze; però, per quanto grandi possano essere, non vi dispiaccia che una schiava vi rammenti, che ne vedrete in breve il fine, se continuate a condurre simil genere di vita. Si può trattare qualche volta gli amici, e divertirsi con loro, ma farne uso giornaliero, è un correre sull’ampia via dell’ultima miseria. Pel vostro onore e la vostra riputazione, fareste molto meglio a seguire le orme del defunto vostro padre, e mettervi in grado di pervenire alle alte cariche che gli acquistarono tanta gloria. —

«Noreddin ascoltò la Bella Persiana ridendo, e quand’ebbe finito: — Mia bella,» cominciò a dirle continuando a ridere, «lasciamo questi discorsi, e non pensiamo che a stare allegri. Il fu mio padre mi ha sempre tenuto in grande strettezza; ora mi piace godere di quella libertà per la quale tanto sospirai prima della sua morte. Avrò sempre tempo di ridurmi alla vita regolata onde mi parlate; un uomo della mia età deve prima darsi il diletto di gustare i piaceri della gioventù.»

Il giorno cominciava ad indorare l’appartamento del sultano, e Scheherazade cessò di parlare. Schahriar prendeva troppo diletto alla storia di Noreddin, per non permettere alla sultana di narrarne la [p. 38 modifica] continuazione; lo che ella fece, la notte seguente, in questi sensi:


NOTTE CCXLI


— Sire, ciò che contribuì viemaggiormente a mettere in disordine gli affari di Noreddin fu, che non voleva udire parlar di conti col maggiordomo. Lo rimandava ogni qual volta si presentava col suo libro, e: — Va, va,» gli diceva, «mi fido di te; abbi solamente cura di farmi far sempre buona tavola.

«— Voi siete il padrone, signore,» rispondeva il maggiordomo. «Vorrete non ostante permettermi di rammentarvi il proverbio, che chi spende molto e non fa conti, si trova alla fine ridotto alla mendicità senza accorgersene. Voi non vi contentate dell’enorme spesa della vostra tavola, ma regalate inoltre a piene mani. I vostri tesori non possono bastare, quand’anche fossero alti come montagne. — Va, va, ti dico,» gli ripeteva Noreddin, «non ho bisogno delle tue lezioni: continua a farmi mangiar bene, e non metterti in angustia pel resto. —

«Gli amici di Noreddin intanto erano assiduissimi alla sua tavola, e non mancavano all’occasione di approfittare della sua prodigalità. Lo adulavano, lo lodavano, e portavano a cielo la menoma delle sue più indifferenti azioni; non dimenticavano soprattutto di esaltare tutto ciò che gli apparteneva, e vi trovavano il loro conto. — Signore,» gli diceva l’uno, «passai l’altro giorno per la terra che avete nel tal sito; non ho veduto finora nulla di più magnifico, nè meglio ammobigliato della casa, ed il giardino annesso è un paradiso di delizie. — Sono lieto che vi piaccia,» rispondeva Noreddin; «portatemi penna, [p. 39 modifica] carta e calamaio, e che non ne senta più parlare: è vostra, ve la dono.» Altri non avevangli appena vantata qualcuna delle case, de’ bagni e de’ pubblici alberghi per forastieri, che appartenevangli e gli rendevano molto, ch’egli ne faceva loro subito donazione. Invano, la Bella Persiana rinfacciavagli il danno che ne avrebbe: invece di ascoltarla, continuava a prodigalizzare alla prima occasione quanto gli rimaneva.

«Noreddin, in una parola, altro non fece per tutto un intiero anno, che darsi buon tempo, e divertirsi, scialacquando gl’immensi beni che i suoi predecessori ed il buon visir, suo padre, avevano ammassati o conservati con tante cure e fatiche. L’anno era appena trascorso, quando un giorno si udì bussare alla porta della sala in cui sedeva a mensa. Aveva egli rimandato i suoi schiavi, e vi si era chiuso cogli amici per istarsene in maggior libertà.

«Volle un amico di Noreddin alzarsi; ma questi lo prevenne, ed andò ad aprire in persona. Era il suo maggiordomo, ed il giovane, per ascoltare cosa volesse, avanzossi alquanto fuor della sala, e ne socchiuse la porta.

«L’amico che aveva voluto alzarsi, vedendo il maggiordomo, curioso di sapere che cosa avesse da dire a Noreddin, andò a porsi fra la portiera e la porta, ed udì il maggiordomo tenere questo discorso. — Signore,» disse al padrone, «domando mille perdoni se vengo ad interrompervi in mezzo ai vostri piaceri; ma ciò che devo comunicarvi è, a quanto mi sembra, di tale importanza, che non ho creduto potermi dispensare dal prendere siffatta libertà. Ho testè finiti gli ultimi miei conti, e trovai che quanto avea da molto tempo preveduto, e del quale vi avvertii più volte, è finalmente accaduto; cioè, o signore, che non ho più uno spicciolo di tutte le somme che mi avete date per fare [p. 40 modifica] le vostre spese. Gli altri fondi che mi assegnaste, sono anch’essi esauriti; ed i vostri fittaiuoli e quelli che vi devono censi, m’hanno fatto vedere sì chiaramente aver voi trasmesso ad altrui quanto essi tenevano di vostra pertinenza, che non posso più nulla esigere da loro sotto il vostro nome. Ecco i miei conti; esaminateli, e se desiderate ch’io continui a prestarvi i miei servigi, assegnatemi altri fondi, o permettete di ritirarmi....» Rimase Noreddin tanto stupefatto a quel discorso, che non seppe rispondere parola.

«L’amico che stava in ascolto ed aveva tutto in teso, rientrò subito, e partecipò agli altri convitati il discorso udito. — Sta in voi,» continuò poscia, «il profittare dell’avviso; quanto a me vi dichiaro che oggi è l’ultimo giorno che mi vedrete in casa di Noreddin. — Se così è,» risposero quelli, «non abbiamo più nulla da fare in casa sua, ed al par di voi, non ci rivedrà dunque ulteriormente. —

«Noreddin tornò in quel momento, e per quanto bel viso facesse per procurar di rimettere i suoi convitati in allegria, non potè però dissimulare tanto bene ch’essi non si avvedessero ottimamente della verità da loro in quel punto intesa. Erasi appena acco modato al suo posto, quando uno degli amici si alzò, e gli disse: — Signore, mi duole assai di non potervi tener compagnia più a lungo: vi supplico di permettermi che me ne vada. — Qual affare vi astringe mai a lasciarci così presto?» rispose Noreddin. — Signore,» ripigliò l’altro, «mia moglie ha oggi partorito; non ignorate che la presenza d’un marito in simile occasione è sempre necessaria. —

«E fatta una gran riverenza, partì. Poco dopo, un secondo si ritirò con un altro pretesto. I restanti fecero l’un dopo l’altro la medesima cosa, finchè non rimase più uno solo dei dieci amici che sin allora avevano tenuta sì buona compagnia al giovane prodigo.

[p. 41 modifica] «Nulla sospettò Noreddin della risoluzione da’ suoi amici presa di non più vederlo. Andò all’appartamento della Bella Persiana, e s’intertenne soltanto con lei della dichiarazione fattagli dal suo maggiordomo, dimostrandosi sinceramente pentito del disordine, in cui trovavansi i suoi affari.

«— Signore,» gli disse la Bella Persiana, «permettetemi di dirvi che non voleste dar ascolto se non al vostro proprio sentimento: ora vedete cosa v’è accaduto. Io non m’ingannava quando vi prediceva la triste fine, alla quale vi dovevate attendere. Quello che più mi dà pensiero si è, che voi non vedete tutto ciò ch’essa ha di doloroso. Quando io voleva dirvene il mio parere: «Divertiamoci,» mi rispondevate, «e profittiamo del buon tempo che ne offre la fortuna, mentre ci si mostra favorevole; forse non sarà sempre di sì buon umore.» Ma io non aveva torto di rispondervi, d’essere noi medesimi i fabbri della nostra buona fortuna con una savia condotta. Non avete voluto ascoltarmi, ed io fui costretta a lasciarvi fare mio malgrado.

«— Confesso,» rispose Noreddin, «che feci male a non aver seguito i suggerimenti veramente salutari che mi davate colla vostra ammirabile saggezza; ma se ho consumati tutti i miei beni, voi non considerate che fecilo con una mano di eletti amici, cui da lungo tempo conosco. Sono onesti e pieni di gratitudine, e son certo che non mi abbandoneranno. — Signore,» replicò la Bella Persona, «se non avete altra risorsa che la gratitudine dei vostri amici, credetemi, mal fondata è la vostra speranza, e me lo direte in seguito.

«— Vezzosa Persiana,» soggiunse Noreddin, «ho miglior opinione di voi dei soccorsi che mi presteranno. Voglio andarli a trovare tutti domani, prima che s’incomodino à venire secondo il loro solito, e [p. 42 modifica] mi vedrete tornare con una buona somma di danaro di cui mi avranno tutti assieme soccorso. Cangerò vita, come ho già risoluto, e cercherò utilizzare questo danaro trafficandolo. —

«Non mancò Noreddin di andare alla domane dai suoi dieci amici, i quali dimoravano in una medesima contrada; bussò alla prima porta che gli si presentò, dove stava uno dei più ricchi. Venne una schiava, e prima di aprire chiese chi battesse. — Dite al vostro padrone,» rispose il giovine, «che è Noreddin, il figliuolo del fu visir Khacan.» La schiava aprì, lo introdusse nella sala, ed entrò nella stanza dove stava il padrone, ad annunziare che Noreddin veniva a fargli visita. — Noreddin!» sclamò il padrone con accento di sprezzo, ed a voce alta sì che questi l’intese con suo grande stupore. «Va a dirgli che non ci sono, e tutte le volte ch’egli torna, rispondigli la medesima cosa.» Tornò la schiava, e diede per risposta a Noreddin, di aver creduto che il suo padrone fosse in casa, ma ch’erasi ingannata.

«Il giovine uscì pieno di confusione. — Ah perfido, uomo pessimo!» sclamò. «Ieri mi protestava che io non aveva miglior amico di lui, ed oggi mi tratta sì indegnamente!» Andò a bussare alla porta d’un altro amico, e questi gli fece dire la medesima cosa del primo. Ebbe la stessa risposta dal terzo, e così dagli altri fino al decimo, sebbene tutti si trovassero in casa.

«Fu allora che Noreddin rientrò davvero in sè, e riconobbe l’irreparabile fallo commesso, fondando troppo facilmente le proprie speranze sull’assiduità di quei falsi amici a rimaner attaccati alla sua persona, e sulle loro proteste d’amicizia in tutto il tempo ch’erasi trovato in condizione di trattarli lautamente, e colmarli di largizioni e benefizi. — Ben è vero,» disse fra sè, colle lagrime agli occhi, «che un uomo [p. 43 modifica] felice com’io era, somiglia ad una pianta carica di frutti: finchè ve ne sono sulla pianta, non si cessa dallo stargli intorno e coglierli; quando non vi sono più frutti, tutti se ne allontanano, e lo si lascia solo.» Si frenò finchè fu per via, ma rientrato in casa, si abbandonò tutto intiero alla sua afflizione, e andò a dimostrarla alla Bella Persiana.

«Appena questa vide comparire il giovane afflitto, dubitò subito che non avesse trovato presso gli amici il soccorso che se ne aspettava. — Or bene, signore,» gli disse, «siete convinto adesso della verità di quanto io vi aveva predetto? — Ah, mia cara,» sclamò egli, «me lo avevate predetto pur troppo. Neppur uno mi ha voluto riconoscere, nè vedermi, nè parlarmi! Non avrei mai creduto dover essere sì crudelmente trattato da persone che mi devono tante obbligazioni, e per le quali mi sono rovinato da per me! Non so più contenermi, e temo di commettere qualche indegna azione nello stato deplorabile e nella disperazione, in cui mi trovo, se voi non mi assistete coi saggi vostri consigli. — Signore,» rispose la Bella Persiana, «non veggo altro rimedio alla vostra disgrazia fuor di quello di vendere gli schiavi e le mobilie, e sussistere con ciò che ne ricaverete finchè il cielo vi mostri qualche altra via per trarvi dalla miseria.»

Scheherazade s’accorse, in quel punto, di non poter più continuare il racconto; ma col permesso del sultano, ella lo ripigliò di tal guisa la notte seguente: [p. 44 modifica]

NOTTE CCXLII


— Sire, il rimedio parve estremamente duro a Noreddin; ma che cosa avrebbe potuto fare nella posizione in cui si trovava? Vendè primieramente gli schiavi, bocche allora inutili, che gli avrebbero cagionata una spesa molto superiore a quella ch’egli avrebbe potuto sostenere. Visse alcun tempo col denaro che ne ricavò, e quando venne a mancargli, fece portare i mobili sulla pubblica piazza, ove furono venduti molto al di sotto del giusto loro valore, benchè ve ne fossero di preziosissimi, che avevano costato somme immense. Ciò gli diede modo di sussistere per assai tempo; ma finalmente mancò anche questo soccorso, e non restandogli più altro da far danaro, ne espresse il sommo suo dolore alla Bella Persiana.

«Noreddin non si aspettava la risposta che gli diede quella saggia donna. — Signore,» gli disse, «io sono vostra schiava, e sapete che il fu visir vostro padre mi ha comprata per diecimila pezze d’oro. So bene che da quel tempo ho scemato di valore; ma sono pur persuasa di poter essere ancora venduta per una somma che non ne sarà troppo lontana. Credetemi, non differite a condurmi al mercato e vendermi; col denaro ricavato, che sarà molto, andrete a far il mercante in qualche città ove non siate conosciuto; e con ciò avrete trovato il mezzo di vivere, se non in grande opulenza, almeno in guisa di rendervi felice e contento.

«— Ah, cara e bella Persiana!» sclamò Noreddin; «è mai possibile che abbiate potuto concepire tal pensiero? Vi ho io dati sì pochi segni dell’amor mio, che mi dobbiate credere capace di questa [p. 45 modifica] indegna viltà? E potrei farlo senza rendermi spergiuro, dopo il giuramento da me fatto al fu mio padre di non vendervi mai? Morrei piuttosto che contravvenirvi, e separarmi da voi che amo, non dico altrettanto, ma più di me medesimo. Facendomi una proposizione tanto irragionevole, voi mi fate conoscere che non mi amate quant’io vi amo.

«— Signore,» ripigliò la Bella Persiana, «sono convinta che mi amiate quanto dite; e Dio sa se la passione che sento per voi sia inferiore alla vostra, e quanta ripugnanza abbia provato a farvi la proposta, che vi sdegna tanto contro di me. Per confutare la ragione che mi portate, vi rammenterò soltanto che la necessità non ha legge. Io vi amo ad un segno, d’essere impossibile che voi m’amiate di più; e posso assicurarvi che non cesserò mai dall’amarvi egualmente, a qualunque padrone possa io appartenere. Anzi non avrò mai maggior piacere quanto di riunirmi a voi, subitochè i vostri affari vi permettano di riscattarmi, com’io spero. Ecco intanto, lo confesso, una necessità ben crudele per entrambi; ma infine, io non so vedere altro mezzo per trarci amendue dalla miseria. —

«Noreddin, che conosceva benissimo la verità di quanto dicevagli la Bella Persiana, e che non aveva altro ripiego per evitare una povertà ignominiosa, fu costretto a prendere il partito da lei proposto. La condusse pertanto al mercato, ove vendevansi le schiave, con un dispiacere che non si saprebbe esprimere; e voltosi ad un sensale chiamato Hadgi Hassan: — Amico,» gli disse, «ecco una schiava che vorrei vendere; vedi, ti prego, il prezzo che se ne potrà ricavare. —

«Hadgi Hassan fece entrare Noreddin e la Bella Persiana in una camera, dove appena questa si ebbe tolto il velo che le nascondeva il volto: — Signore,» [p. 46 modifica] disse il sensale al giovane con maraviglia, «m’inganno io forse? Non è questa la schiava che il fu visir vostro padre comprò per diecimila pezze d’oro?» Noreddin lo assicurò ch’era la medesima; e Hadgi Hassan, fattogli sperare di ricavarne una grossa somma, gli promise di adoperare tutta la propria arte per venderla al più alto prezzo possibile.

«Usciti Noreddin ed Hadgi Hassan dalla camera, questi vi chiuse la Bella Persiana, ed andò poscia a cercar i mercadanti; ma essendo tutti occupati a comprare schiave greche, africane, tartare ed altre, fu costretto ad attendere che avessero fatto i loro acquisti. Quand’ebbero finito, e che si furono quasi tutti adunati: — Miei buoni signori,» disse loro con un’allegrezza che apparivagli sul volto e ne’ gesti, «tutto ciò ch’è tondo non è nocciuola; tutto ciò ch’è lungo non è fico; tutto ciò ch’è rosso non è carne, e tutte le uova non sono fresche. Voglio dirvi che avete ben veduto e comprato schiave di tutte le sorta nel corso della vostra vita; ma non ne avete mai veduta una sola che possa stare in confronto di quella che vi annuncio. È la perla delle schiave; venite, seguitemi, che ve la faccia vedere. Voglio mi diciate voi medesimi a qual prezzo la debba mettere alla prima. —

«I mercanti seguirono Hadgi Hassan, e questi avendo aperta la porta della camera dove stava la Bella Persiana, essi la contemplarono con sorpresa, e tutti ad una voce convennero che non si potesse metterla alla prima a prezzo minore di quattromila pezze d’oro. Uscirono dalla stanza, ed Hadgi Hassan, ch’era uscito con essi, dopo aver chiusa la porta, gridò ad alta voce senza allontanarsi: — A quattromila pezze d’oro la schiava persiana.

«Nessuno de’ mercanti avea ancor parlato, e stavano consultando fra loro sull’aumento che vi dovevano mettere, quando comparve il visir Sauy. Siccome aveva [p. 47 modifica] veduto Noreddin sulla piazza: — Probabilmente,» disse fra sè, «Noreddin fa ancor danaro di qualche mobile (sapendo egli che ne aveva venduti), ed è venuto a comprare una schiava.» S’inoltra, e Hadgi Hassan grida una seconda volta: — A quattro mila pezze d’oro la schiava persiana.

«Quell’alto prezzo fece giudicare a Sauy che la schiava dovess’essere d’una speciale bellezza, e subito gli venne gran voglia di vederla. Spinto dunque il cavallo direttamente verso Hadgi Hassan, ch’era circondato dai mercanti: — Apri la porta,» gli disse, «e lasciami vedere la schiava.» Non era uso di far vedere una schiava ad alcun particolare, dopo che i mercanti l’avevano veduta e la contrattavano. Ma essi non ebbero ardire di far valere i propri diritti contro l’autorità del visir; ed Hadgi Hassan non potè esimersi dall’aprir la porta e far segno alla Bella Persiana d’avvicinarsi, affinchè Sauy potesse vederla senza scendere da cavallo.

«Rimase il visir altamente maravigliato quando vide una schiava di sì straordinaria bellezza, e siccome aveva già avuto da fare col sensale, di cui ignoto non eragli il nome: — Hadgi Hassan,» gli disse, «non è per quattromila pezze d’oro che tu la gridi? — Sì, signore,» rispose il sensale, «i mercanti che qui vedete hanno convenuto, pochi momenti sono, ch’io la dovessi gridare a tal prezzo. Aspetto che ne offrano di più, all’incanto ed all’ultima parola. — Io darò la somma,» ripigliò Sauy, «se nessuno aumenta.» Guardò poscia i mercanti con occhio dinotante com’egli pretendesse che non avessero ad accrescerne il prezzo. Era egli sì terribile a tutti, che coloro guardaronsi bene dall’aprir bocca, nemmeno per lagnarsi perchè attentasse ai loro diritti.

«Quando il visir Sauy ebbe aspettato qualche tempo, visto che nessun mercadante cresceva il [p. 48 modifica] prezzo: — Ebbene, che cosa aspetti?» disse ad Hadgi Hassan. «Va a trovare il venditore, e conchiudi con lui il contratto per quattromila pezze d’oro, o sappimi dire cosa intenda fare.» Non eragli ancor noto che la schiava appartenesse a Noreddin.

«Hadgi Hassan, che aveva chiusa la porta della stanza, andò ad abboccarsi col giovane. — Signore,» gli disse, «mi duole assai di venirvi ad annunciare una cattiva notizia: la vostra schiava sta per essere venduta per nulla. — Per qual ragione?» chiese Noreddin. — Signore,» ripigliò Hadgi Hassan, «la cosa aveva preso alla prima un ottimo aspetto, poichè i mercatanti, veduta ch’ebbero la vostra schiava, m’incaricarono, senza troppe smorfie, di gridarla a quattromila pezze d’oro. L’ho infatti gridata a tal prezzo, ma tosto comparve il visir Sauy, e la sua presenza chiuse la bocca ai mercanti, ch’io vedeva già disposti a farla salire almeno al medesimo prezzo che costò al fu visir vostro padre: Sauy non vuol darne se non le quattromila pezzo d’oro, ed è ben mio malgrado che vengo a portarvi una parola sì irragionevole. La schiava è vostra, ma io non vi consiglierò mai a rilasciarla a tal prezzo. Voi lo conoscete, o signore, e tutti lo conoscono con voi; oltrechè la schiava vale infinitamente di più, è colui malvagio abbastanza da immaginare qualche mezzo di non isborsarvi il danaro.

«— Hadgi Hassan,» rispose Noreddin, «ti sono obbligato, del tuo consiglio; non temere ch’io soffra che la mia schiava sia venduta al nemico della mia casa. Ho gran bisogno di danaro; ma preferirei morire nell’ultima miseria, che permettere gli fosse abbandonata. Una sola cosa ti domando: siccome sai tutti gli usi e tutti i rigiri, dimmi soltanto cosa debbo fare per impedirlo?

«— Signore,» soggiunse il sensale, «non v’ha [p. 49 modifica] nulla di più facile. Fingete d’essere andato in collera colla vostra schiava e d’aver giurato di condurla al mercato; ma che non avevate intenzione di venderla, e che quanto faceste, non fu se non per adempire al vostro giuramento. Ciò soddisferà tutti, e Sauy non potrà dirvi nulla. Venite dunque, e mentre io la presenterò al visir, come per vostro consenso, e che il contratto fosse stabilito, riprendetela, dandole qualche percossa, e riconducetevela a casa. — Ti ringrazio,» disse Noreddin; «e vedrai come seguirò il tuo consiglio. —

«Hadgi Hassan tornò alla stanza, aprì la porta, entrò, e dopo aver avvertita la Bella Persiana, in due parole, a non turbarsi di ciò che stava per accadere, la prese pel braccio e la condusse al visir Sauy, che stava sempre dinanzi alla porta. — Signore,» gli disse, presentandogliela, «ecco la schiava; è vostra, prendetela. —

«Non avava il sensale finite queste parole, che Noreddin erasi già impossessato della Bella Persiana; la trasse a lui, e dandole uno schiaffo: — Venite qua, impertinente,» le disse a voce abbastanza alta per essere inteso da tutti, «e torniamo a casa. Il pessimo vostro umore mi aveva ben costretto a far giuramento di condurvi al mercato, ma non di vendervi. Io ho ancora bisogno di voi, e sarà sempre tempo di venirne a questi estremi, quando non mi resterà più null’altro. —

«Montò il visir Sauy in grandissima collera per l’azione di Noreddin, e: — Miserabile libertino,» sclamò egli, «vorresti tu darmi ad intendere che ti rimanga qualche altra cosa da vendere oltre alla tua schiava?» Ciò dicendo, spinse direttamente il cavallo contro di lui per togliergli la schiava. Ma Noreddin, punto al vivo dell’affronto che il visir gli faceva, lasciò la Bella Persiana, e dettole di aspettarlo, [p. 50 modifica] gettossi alla briglia del cavallo, e fecelo arretrare di tre o quattro passi. — Brutto barbone,» disse allora al visir, «ti caverei l’anima sul momento, se non mi trattenessi in considerazione di tutta la gente che qui vedi —

«Siccome Sauy non era amato da alcuno, ma per lo contrario tutti l’odiavano, non vi fu uno solo degli astanti, che non godesse al vedere che Noreddin l’avesse alquanto mortificato. Attestarongli pertanto coi cenni il loro contento, e gli fecero comprendere che poteva vendicarsi come volesse, giacchè nessuno s’immischierebbe nella loro contesa.

«Volle Sauy fare uno sforzo per obbligare l’altro a lasciar la briglia del cavallo; ma Noreddin, ch’era un giovine forte e valente, incoraggiato dalla benevolenza degli spettatori, lo trascinò giù da cavallo in mezzo al rigagnolo, gli diè mille percosse, e misegli a sangue la testa contro il selciato. Dieci schiavi, che accompagnavano Sauy, volevano sguainare la sciabola e gettarsi su Noreddin; ma i mercatanti si posero in mezzo per impedirlo. — Che cosa pretendereste fare?» dissero ad essi. «Non vedete, che se l’uno è visir, l’altro è figliuolo di visir? Lasciateli finire l’alterco fra loro. Forse si raccomoderanno fra brevi giorni; e se aveste ucciso Noreddin, credete che il vostro padrone, per quanto sia potente, possa garantirvi dalla giustizia?» Noreddin si stancò finalmente di battere il visir; lo lasciò in mezzo al rivo, riprese la Bella Persiana, e tornò a casa in mezzo alle acclamazioni del popolo, che lo lodava dell’azione eseguita.»

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NOTTE CCXLIII


— Sire,» proseguì la sultana, «Sauy, affranto dai colpi, si rialzò, coll’aiuto della sua gente, benchè con grande stento, e fu nell’ultima mortificazione vedendosi tutto lordo di fango e di sangue. Si appoggiò alle spalle di due schiavi, e in tale stato recossi direttamente al palazzo, alla vista di tutti, con tanta maggior confusione perchè niuno lo compiangeva. Quando fu sotto l’appartamento del re, si mise a gridare, implorando la sua giustizia in compassionevole modo; il re se lo fece venire davanti, ed appena comparso, gli domandò chi l’avesse maltrattato e posto nella miseranda guisa in cui lo vedeva. — Sire,» sclamò Sauy, «basta soltanto essere in favore di vostra maestà, ed aver qualche parte ne’ sacri suoi consigli, per venir trattato nel modo indegno, in cui mi scorge. — Lasciamo questi discorsi,» riprese il re; «ditemi solamente come sta la cosa, e chi sia l’offensore. Saprò ben io farlo pentire, se ha torto.

«— Sire,» disse allora Sauy, raccontando la cosa tutta a suo vantaggio, «io era andato al mercato delle schiave per comprare una cuoca di cui ho bisogno; giunto sulla piazza, trovai che si metteva all’incanto una schiava per quattromila pezze d’oro. Me la feci condurre, ed è la più bella che siasi veduta o che si possa mai vedere. Non l’ebbi appena considerata con estrema soddisfazione, che domandai a chi appartenesse, e seppi che Noreddin, figliuolo del fu visir Khacan, voleva venderla. Vostra maestà si ricorderà, o sire, di aver fatto dare a quel visir, due o tre anni sono, diecimila pezze d’oro, incaricandolo di acquistare per tal somma una schiava. Ei l’aveva [p. 52 modifica] impiegata a comprar questa, ma invece di condurla a vostra maestà, non ve ne giudicò degno, e la donò a suo figliuolo. Dopo la morte del padre, il figlio bevve, mangiò e scialacquò il patrimonio, e non gli rimase che questa schiava, cui infine risolse di vendere, e che infatti si vendeva a suo nome. L’ho fatto venire, e senza parlargli della prevaricazione, o piuttosto della perfidia di suo padre verso vostra maestà: «-«Noreddin,» gli dissi colla maggior civiltà del mondo, «i mercatanti, come sento, hanno messa la vostra schiava all’incanto per quattro mila pezze d’oro. Non dubito che a gara l’un dell’altro non la facciano salire ad un prezzo molto maggiore; credetemi, datela a me per le quattromila pezze d’oro, ed io la compro per donarla al re nostro signore e padrone, al quale ne farò per voi la corte. Ciò vi gioverà infinitamente più di quello che dar ve ne possano i mercanti.»-» Invece di rispondere, rendendomi cortesia per cortesia, l’insolente mi guatò con fierezza. «-«Brutto vecchiaccio,» mi disse, «darei la schiava ad un Ebreo per nulla, piuttosto che venderla a te. — Ma, Noreddin,» ripigliai io, senza riscaldarmi, benchè ne avessi grande motivo, «voi non considerate, parlando così, che ingiuriate il re, il quale innalzò vostro padre a ciò ch’egli era, come innalzò anche me a quello che sono.»-» Tale rimostranza, invece di raddolcirlo, non fece che vie più irritarlo; mi si è subito scagliato addosso come un furioso, senza veruna considerazione per la mia età, ed ancor meno per la dignità mia; mi gettò giù da cavallo, e mi battè a tutta possa fin che gli piacque, mettendomi nel miserando stato in cui mi vede. Supplico la maestà vostra a voler considerare, essere pe’ suoi interessi ch’io soffro sì sanguinoso affronto. —

«Terminando tali parole, chinò la testa, e si volse [p. 53 modifica] da parte per lasciar iscorrere le lagrime in abbondanza.

«Il re, ingannato e sdegnato contro Noreddin da quel discorso pieno di artificio, lasciò trasparire sul volto i segni d’una grandissima collera; si rivolse al capitano delle guardie, che gli stava vicino, e gli disse: — Prendete quaranta uomini della mia guardia, e saccheggiata che avrete la casa di Noreddin, e dato ordine di atterrarla, conducetemelo colla sua schiava. —

«Il capitano delle guardie non era ancor fuori dall’appartamento del re, che un usciere della camera, il quale udì dare quegli ordini, erasi già affrettato a precederlo. Chiamavasi costui Sangiar, ed era stato altre volte schiavo del visir Khacan, il quale avevalo introdotto nella casa del re, dov’erasi avanzato per gradi.

«Sangiar, pieno di gratitudine per l’antico suo padrone, e di zelo per Noreddin, avendolo veduto nascere, e conoscendo da molto tempo l’odio di Sauy contro la casa di Khacan, non aveva potuto udire l’ordine crudele senza fremere. — L’azione di Noreddin,» pensò fra sè, «non può essere tanto rea come l’ha raccontata Sauy; egli ha provocato contro il misero giovane lo sdegno del re, e questi sta per far morire l’infelice senza dargli tempo di giustificarsi. «In tale angustia, si affrettò con tanta sollecitudine, che giunse abbastanza in tempo per avvertirlo di ciò ch’era allora accaduto davanti al re, e dargli agio di salvarsi colla Bella Persiana. Bussò alla porta in modo che obbligò il giovane, il quale già da lunga pozza non avea più servi, di venire egli stesso ad aprire senza indugio. — Mio caro signore,» gli disse Sangiar, «non v’ha più sicurezza per voi in Balsora; partite, e salvatevi senza perder tempo.

[p. 54 modifica] «— E perchè mai?» ripigliò Noreddin. «Che cosa c’è che m’astringa a partire? — Fuggite, vi dico,» rispose Sangiar, «e conducete con voi la vostra schiava. In due parole, Sauy ha fatto intendere al re, nel modo che volle, la rissa accaduta fra voi e lui; ed il capitano delle guardie è già sulle mosse per venire, con quaranta soldati, ad impossessarsi di voi e della schiava. Prendete queste quaranta pezze d’oro per aiutarvi a cercar un asilo: ve ne darei di più se ne avessi indosso. Scusatemi se non mi trattengo maggiormente; vi lascio mio malgrado pel vostro bene e pel mio, stante l’interesse d’entrambi che il capitano non mi vegga.» Non diè Sangiar tempo a Noreddin di ringraziarlo, e partì.

«Il giovane andò ad avvertire la Bella Persiana della necessità, in cui trovavansi ambedue di allontanarsi sull’istante; non fece essa che gettarsi in testa il velo, ed uscirono di casa; ebbero poi la fortuna di uscire dalla città non solo senza che nessuno si accorgesse della loro fuga, ma eziandio di giungere alla foce dell’Eufrate, non molto lontana, ed imbarcarsi sopra un bastimento in procinto di salpare.

«Infatti, nel momento che arrivarono, il capitano stava sul cassero in mezzo ai passeggeri. — Figliuoli,» domandava egli, «siete qui tutti? Qualcuno di voi ha forse ancora da fare, o si è dimenticato di qualche cosa in città?» Ognuno rispose che c’erano tutti, e poteva far vela quando gli piacesse. Appena imbarcato, Noreddin chiese dove il bastimento andasse, e fu assai lieto sentendo che dirigevasi a Bagdad. Il capitano fece levar l’àncora, sciolse le vele, e la nave si allontanò da Balsora con vento favorevolissimo.

«Ecco intanto cosa avvenne a Balsora mentre Noreddin fuggiva dalla collera del re colla Bella Persiana.

«Il capitano delle guardie, giunto alla casa del [p. 55 modifica] giovane, bussò alla porta, e vedendo che niuno veniva ad aprirgli, la fece gettar giù, e tosto i suoi soldati vi entrarono in folla: frugarono per tutti gli angoli, ma non trovarono nè Noreddin, nè la sua schiava. Il capitano fece domandare e domandò egli medesimo ai vicini se non li avessero veduti. Quando anche li avessero visti, siccome non c’era alcuno che non amasse Noreddin, nessuno avrebbe parlato per dir cosa che potesse nuocergli; mentre si saccheggiava e spianavasi la casa, egli andò a portarne la nuova al re, il quale: — Che si cerchino in qualunque sito possano essere,» disse; «voglio averli. —

«Il capitano delle guardie andò a fare altre perquisizioni, ed il re congedò il visir Sauy con onore. — Andate,» gli disse, «tornate a casa vostra, e non vi mettete in pena pel castigo di Noreddin; vi vendicherò io medesimo della sua insolenza. —

«Per non tralasciar alcun mezzo di ritrovarli, il re fe’ ancora proclamare per la città, dai pubblici banditori, che darebbe mille pezze d’oro a chi gli conducesse Noreddin e la schiava, e farebbe punire severissimamente chiunque li tenesse nascosti; ma per quanta premura si dèsse, e per qualunque diligente indagine facesse fare, non gli fu possibile averne novella, ed il visir Sauy non ebbe altra consolazione fuorchè di vedere il re prendere le sue parti.

«Noreddin e la Bella Persiana avanzavano intanto, e facevano la loro via con tutta la possibile felicità. Approdarono finalmente a Bagdad, e quando il capitano, lieto di aver finito il suo viaggio, ebbe scorta la città: — Figliuoli,» sclamò parlando ai passeggeri, «rallegratevi; eccola, questa grande e maravigliosa metropoli, dove avvi un concorso generale e perpetuo da tutte le parti del mondo. Vi troverete una moltitudine di popolo innumerevole, e non vi soffrirete il freddo insopportabile dell’inverno, nè i calori [p. 56 modifica] eccessivi dell’estate; vi godrete d’una primavera perpetua, co’ suoi fiori e coi frutti deliziosi dell’autunno. —

«Quando il bastimento ebbe dato fondo un po’ al di sotto della città, i passeggeri sbarcarono, recandosi ognuno al luogo in cui dovevano alloggiare. Noreddin diede cinque pezze d’oro pel suo passaggio, e sbarcò anch’egli colla Bella Persiana; ma non essendo mai stato a Bagdad, non sapeva dove andare. Camminarono qualche tempo lungo i giardini che fiancheggiavano il Tigri, e ne costeggiarono uno ch’era cinto d’un lungo e bel muro; giunti in fondo, svoltarono in un’ampia via ben selciata, ove scorsero la porta del giardino, con una superba fontana vicino.»

I chiarori dell’alba, che facevansi vedere nell’appartamento del sultano, interruppero Scheherazade, la quale ripigliò così il racconto la notte seguente:


NOTTE CCXLIV


— Sire, la porta, ch’era assai magnifica, stava chiusa, ma aveva un vestibolo aperto, nel quale vedovasi un sofà per parte. — Ecco un sito comodissimo,» disse Noreddin alla Bella Persiana; «la notte si avvicina, ed abbiamo già mangiato prima di sbarcare; sarei del parere di passar qui la notte, e domattina avremo il tempo di cercarci alloggio. Che cosa ne dite? — Sapete, o signore,» rispose la Bella Persiana, «ch’io non voglio se non la vostra volontà; non andiamo più innanzi, se così bramate.» Bevvero un sorso alla fontana, e saliti sur uno de’ sofà, ivi s’intertennero per qualche tempo. Il sonno finalmente ne aggravò le palpebre, e si addormentarono al grato mormorio dell’onda. [p. 57 modifica] «Apparteneva il giardino al califfo, ed eravi nel mezzo un gran padiglione, chiamato il Padiglione delle Pitture, a cagione che il principale suo ornamento consisteva in dipinti alla persiana, eseguiti da vari pittori della Persia, fatti venire espressamente dal califfo. L’ampio e superbo salone che quel padiglione formava, era rischiarato da ottanta finestre, con un lampadario per ciascheduna, e gli ottanta lampadari non si accendevano se non quando vi veniva il califfo a passar la sera, e fosse il tempo tranquillo tanto da non spirare un solo soffio d’aria. Formavano allora una bellissima illuminazione, che vedevasi assai da lontano nella campagna da quel lato, e da gran parte della città.

«La custodia del giardino era affidata ad un solo vecchio officiale, molto avanzato in età, chiamato Sceich Ibrahim, il quale occupava quel posto, dove messo lo aveva il califfo medesimo in ricompensa de’ di lui servigi, raccomandandogli bene di non lasciar entrare ogni sorta di persone, e specialmente di non permettere che sedessero e si fermassero sui due sofà che stavano alla porta al di fuori, affinchè fossero sempre puliti, e di castigare quelli che vi potesse, trovare.

«Un affare aveva quel dì obbligato il custode ad uscire, e non era ancor tornato; finalmente fu di ritorno, e alla poca luce del tramonto s’avvide subito che due persone dormivano sur uno de’ sofà, ambedue colla testa coperta da un fazzoletto per difendersi dalle zanzare. — Buono,» disse Sceich Ibrahim fra sè, «ecco gente che contravviene agli ordini del califfo; or ora insegnerò loro il rispetto che gli è dovuto.» Aprì la porta senza far rumore; e poco dopo tornò con una grossa canna in mano, e le maniche rimbeccate, e già stava per batterli con tutta forza, quando si trattenne. — Sceich Ibrahim,» disse fra sè, [p. 58 modifica] tu stai per batterli, e non consideri che sono forse stranieri, i quali non sanno dove alloggiare, ed ignorano i voleri del califfo: è meglio che tu sappia prima chi essi siano.» Sollevò il fazzoletto, che copriva loro la testa, con precauzione, e maravigliò al sommo vedendo un giovane sì ben fatto ed una donna tanto bella. Svegliò Noreddin, tirandolo pei piedi.

«Il dormiente alzò tosto la testa, e veduto un vecchio con lunga barba bianca a’ suoi piedi, si levò a sedere in ginocchio, e presagli la mano e baciandogliela: — Buon padre,» gli disse, «Dio vi conservi! bramate qualche cosa? — Figlio,» rispose Sceich Ibrahim, «chi siete voi? d’onde venite? — Siamo stranieri testè arrivati,» ripigliò Noreddin, «e volevamo passar qui la notte fino a domani. — Stareste male in questo luogo,» replicò il vecchio; «venite, entrate, vi darò da dormire più comodamente; e la vista del giardino, ch’è bellissimo, vi rallegrerà mentre avvi ancora un po’ di chiaro. — E questo giardino è vostro?» gli chiese Noreddin. — Oh sì, è mio davvero,» rispose il vecchio sorridendo; «è un’eredità che feci da mio padre. Entrate, vi dico, non vi spiacerà di vederlo. —

«Noreddin si alzò, attestando a Sceich Ibrahim quanto gli fosse grato della di lui cortesia, ed entrò nel giardino colla Bella Persiana. Il custode chiuse la porta, e camminando davanti a loro, li condusse in un luogo d’onde potevano abbracciare alla prima occhiata la disposizione, la grandezza e leggiadria del giardino.

«Noreddin aveva veduto giardini assai belli a Balsora, ma non ricordavasi d’averne trovati di paragonabili a questo; talchè, quando ebbelo ben considerato, e passeggiato per alcuni viali, si volse al custode che lo accompagnava, e gli chiese come si chiamasse. Rispostogli l’altro di chiamarsi Sceich Ibrahim: [p. 59 modifica] — Sceich Ibrahim,» gli disse, «bisogna confessare che questo è un giardino maraviglioso; Dio ve lo conservi a lungo! Non possiamo abbastanza ringraziarvi del favore che ci faceste di lasciarci vedere un luogo sì degno d’essere ammirato; è giusto di attestarvene la nostra riconoscenza in qualche modo. Prendete, eccovi due pezze d’oro; vi prego di farci provvedere qualche cosa da mangiare, affinchè possiamo stare allegri insieme. —

«Alla vista delle due pezze d’oro, il vecchio, il quale amava molto quel metallo, sorrise sotto la barba; le prese, e lasciando Noreddin e la Bella Persiana per andar ad eseguire la commissione ond’era stato incaricato, quando fu solo: — Ecco due buone persone,» disse fra sè con molta allegrezza; «mi sarei fatto un gran torto da me medesimo, se avessi avuto l’imprudenza di maltrattarli e scacciarli. Li tratterò da principi colla decima parte di questo denaro, ed il resto mi rimarrà pel disturbo. —

«Mentre Sceich Ibrahim andava a comprare da cena, tanto per lui come per gli ospiti, Noreddin e la Bella Persiana, passeggiando pel giardino, giunsero al padiglione delle pitture che ergevasi in mezzo. Fermaronsi prima a contemplarne l’ammirabile architettura, la grandezza, l’altezza; e fattone il giro, guardandolo da tutti i lati, salirono per una larga gradinata di marmo bianco alla porta del salone, ma la trovarono chiusa.

«Il giovane e la Bella Persiana stavano appunto scendendo quando il custode giunse carico di viveri. — Sceich Ibrahim,» gli disse Noreddin con istupore, «non ci avete detto che questo giardino era vostro? — È vero,» rispose il vecchio, «e torno a ripeterlo. Perchè mi fate simile domanda? — E questo superbo padiglione,» ripigliò Noreddin, «è vostro anch’esso?» Sceich Ibrahim non si attendeva a quella [p. 60 modifica] seconda domanda, e ne parve un po’ sconcertato. — Se dico che non è mio,» pensò fra sè, «mi domanderanno subito come possa essere che io sia padrone del giardino, e non lo sia del padiglione.» Ora, siccome aveva voluto fingere che il giardino fosse suo, finse la medesima cosa riguardo al padiglione. — Figliuolo,» rispose, «il padiglione non istà senza il giardino; entrambi mi appartengono. — Se così è,» tornò allora a dire il giovane, «e se vi degnate di averci per vostri ospiti stanotte, fateci la grazia, ve ne supplico, di mostrarcene l’interno: a giudicarne dall’esteriore, debb’essere d’una magnificenza straordinaria. —

«Sarebbe stata un’inciviltà per Sceich Ibrahim di negare a Noreddin il piacere che gli domandava, dopo quanto aveva già fatto; e considerando inoltre che il califfo non avevalo mandato ad avvertire com’era solito, talchè pensava non verrebbe in quella sera, e poteva anche farvi mangiare i suoi ospiti e mangiarvi egli stesso con loro, depose i cibi portati sul primo gradino della scalea, e corso a prendere la chiave nel luogo ove dimorava, ne tornò in breve con un lume, ed aprì la porta...

«Noreddin e la Bella Persiana, entrati nel salone, lo trovarono sì sorprendente, che non potevano stancarsi d’ammirarne la bellezza e la ricchezza. Infatti, senza parlare delle pitture, i sofà erano magnifici; ed oltre ai lampadari appesi ad ogni finestra, scorgevansi ancora sulla parete, fra queste, un bracciale d’argento colla sua bugia; Noreddin non potè vedere tutti quegli oggetti senza ricordarsi dello splendore in cui aveva vissuto, e senza sospirare.

«Sceich Ibrahim intanto imbandì le vivande sopra un sofà, e quando tutto fu pronto, Noreddin, la Bella Persiana ed egli sedettero e mangiarono insieme. Quand’ebbero finito e lavate le mani, [p. 61 modifica] Noreddin aprì una finestra, e chiamando la Bella Persiana: - Avvicinatevi,» le disse, «ed ammirate con me la bella vista e la bellezza del giardino al chiaro della luna; non v’ha nulla di più delizioso.» Si avvicinò quella, e godettero insieme dello spettacolo, mentre Sceich Ibrahim levava la mensa.

«Quando il vecchio ebbe finito, e fu venuto a raggiungere i suoi ospiti, Noreddin gli domandò se non avesse qualche bevanda da favorirgli. — Che bevanda vorreste?» rispose Sceich Ibrahim. «Sorbetto? Ne ho di squisitissimo; ma ben sapete, figliuolo, che dopo cena non se ne beve.

«— Lo so,» ripigliò il giovane; «e non è sorbetto che vi domandiamo, ma un’altra bevanda; mi sorprende che non m’intendiate. — È dunque vino che cercate?» replicò Sceich Ibrahim. — Avete indovinato,» soggiunse Noreddin; «se ne avete, favoriteci di portarne una bottiglia. Sapete che si usa berne dopo cena, per passar il tempo finchè giunga l’ora di coricarsi.

«— Dio mi guardi dal tener vino in casa mia,» sclamò Sceich Ibrahim, «e nemmeno di avvicinarmi al luogo ove ce ne fosse! Un uomo parmio, che fece quattro volte il pellegrinaggio della Mecca, ha rinunciato al vino per tutto il tempo della sua vita.

«— Ma pure ci fareste un gran piacere procurandocene,» ripigliò Noreddin; «se non vi dispiace, ve ne insegnerò io il modo senza che entriate nella bettola, nè tocchiate al recipiente che lo contiene. — A tale condizione acconsento,» rispose Sceich Ibrahim; «ditemi soltanto cosa debbo fare.

«— Abbiamo veduto un asino legato all’ingresso del giardino,» disse allora Noreddin; «probabilmente è vostro, e dovete servivene al bisogno. Pigliate queste due altre pezze d’oro; prendete l’asino co’ panieri, ed andate alla bettola più vicina senza [p. 62 modifica] avvicinarvene se non quanto vi piacerà; date qualche cosa al primo che passerà, e pregatelo di andare coll’asino alla taverna, prendervi due brocche di vino che farà mettere nei due panieri, e ricondurvi l’asino, quando avrà pagato il vino col denaro che gli avrete dato. Non vi resta che a spingere innanzi la bestia fin qui, e ci prenderemo le brocche da per noi nei panieri. In tal modo, non farete nulla che abbia a cagionarvi la minima ripugnanza. —

«Le due altre pezze d’oro ricevute da Sceich Ibrahim fecero potente effetto sul di lui animo. — Ah, figliuol mio,» sclamò, quando Noreddin ebbe finito, «come la intendete bene! Senza di voi io non mi sarei mai immaginato un tal mezzo per farvi aver vino senza scrupolo.» Indi, li lasciò per andar ad eseguire la commissione, e se ne disimpegnò in breve; quando fu di ritorno, Noreddin discese, levò le brocche dalle ceste, e le portò nel salone.

«Il buon custode ricondusse l’asino al luogo d’onde lo aveva preso, e tornato: — Sceich Ibrahim,» gli disse Noreddin, «non sappiamo ringraziarvi abbastanza dell’incomodo che vi compiaceste prendervi; ma ci manca ancora qualche cosa. — E quale?» rispose Sceich Ibrahim; «che cosa posso ancor fare per servirvi? — Non abbiamo tazze,» soggiunse Noreddin, «ed un po’ di frutta ci accomoderebbe assai, se ne aveste. — Non avete che a parlare,» replicò il dabben uomo; «non vi mancherà nulla di quanto potrete desiderare. —

«Il vecchio discese, ed in poco tempo preparò loro una tavola coperta di belle porcellane piene di varie sorta di frutti, con tazze d’oro e d’argento a piacere; e chiesto loro se avessero bisogno d’altro, si ritirò senza voler restare, benchè essi ne lo pregassero con molte istanze.

«Noreddin e la Bella Persiana si misero a mensa, [p. 63 modifica] e cominciarono a bere ciascuno un sorso; trovato il vino eccellente: — Or bene, mia cara,» disse allora Noreddin alla Bella Persiana, «non siamo noi la gente più felice del mondo per ciò che il caso ci abbia condotti in un luogo sì ameno e delizioso? Stiamo allegri, e rimettiamoci dai patimenti del nostro viaggio. Può la mia felicità essere maggiore, avendo voi da una parte e la tazza dall’altra?» Bevettero molte altre volte, intertenendosi piacevolmente, e cantando ciascuno la sua canzone.

«Siccome entrambi avevano la voce assai gradevole, e specialmente la Bella Persiana, il loro canto attirò Sceich Ibrahim, il quale li ascoltò un buon pezzo dalla scalèa, senza mostrarsi, con grandissimo diletto. Si fece vedere alla fine, avanzando la testa entro la porta. — Coraggio, signore,» diss’egli a Noreddin, cui credeva già ubbriaco; «sono lieto di vedervi tanto allegro.

«— Ah, Sceich Ibrahim!» sclamò il giovane, a lui volgendosi; «che brav’uomo siete voi, e quanto vi siamo obbligati! Non osiamo pregarvi di berne un bicchiere, ma non lasciate per questo di entrare. Venite, avvicinatevi, e fateci almeno l’onore di tenerci compagnia. — Continuate, continuate,» riprese il custode, «io mi contento del piacere di udire le vostre belle canzoni!» E sì dicendo, scomparve.»

L’aurora cominciava a comparire, quando Scheherazade cessò dal racconto; e con licenza del sultano, ne rimandò la continuazione alla notte susseguente.

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NOTTE CCXLV


— Sire, la Bella Persiana si avvide che Sceich Ibrahim erasi fermato sullo scalone, e ne avvertì Noreddin. — Signore,» soggiunse quindi, «voi vedete ch’egli dimostra avversione pel vino; eppure non dispererei di obbligarlo a berne, se voleste eseguire quello che vi dirò. — E qual cosa?» chiese il giovane; «parlate, ed io farò il desiderio vostro. — Impegnatelo solo ad entrare e rimaner con noi,» diss’ella; «poco dopo, versate da bere e presentategli la tazza; se la rifiuta, bevete, e poscia fingete di dormire; io farò il resto. —

«Noreddin comprese l’intenzione della Bella Persiana, e chiamò il custode, il quale comparve sulla soglia; — Sceich Ibrahim,» gli disse, «noi siamo Vostri ospiti, e ci avete accolti nei modi più cortesi; vorreste rifiutarvi alla preghiera che vi facciamo di onorarci della vostra compagnia? Non vi domandiamo che beviate, ma soltanto dì farne il favore di starci accanto. —

«Il vecchio si lasciò persuadere: entrò, e sedè sull’orlo del sofà, il più vicino alla porta. — Là non istate bene, e non possiamo aver l’onore di vedervi,» disse allora Noreddin; «accostatevi, ve ne supplico, e sedete presso la signora, che ne sarà ben contenta. — Farò dunque ciò che vi piace,» disse Sceich Ibrahim. Si avvicinò, e sorridendo del piacere che stava per provare trovandosi accanto ad una sì vezzosa creatura, sedè a qualche distanza dalla Bella Persiana. Noreddin la pregò di cantare una canzone, per riguardo all’onore che Sceich Ibrahim [p. 65 modifica] loro faceva, ed essa ne cantò una che lo rapì in estasi.

«Quando la Bella Persiana ebbe finito di cantare, Noreddin empì una tazza di vino, e la presentò al vecchio. — Sceich Ibrahim,» gli disse, «bevete un sorso alla nostra salute, ve ne prego. — Signore,» rispose egli arretrando, come se la vista del vino avessegli fatto orrore, «vi supplico di scusarmi: ebbi già l’onore di dirvi che ho da gran tempo rinunciato al vino. — Poichè assolutamente non volete bere alla nostra salute,» disse Noreddin, «non vi dispiaccia almeno ch’io beva alla vostra. —

«Mentre il giovine beveva, la Bella Persiana tagliò la metà d’un pomo, e presentatala a Sceich Ibrahim: — Non avete voluto bere,» disse, «ma non credo abbiate la medesima difficoltà a gustare di questo pomo, ch’è proprio eccellente.» Non seppe il custode ricusarlo da una sì bella mano, e presolo con un inchino di testa, se lo mise in bocca. Gli disse essa intanto alcune dolci parolette, e Noreddin, abbandonatosi sul sofà, finse di dormire. Tosto la Bella Persiana si avanzò verso Sceich Ibrahim, e parlandogli sotto voce: — Lo vedete?» gli disse; «non fa altrimenti ogni qualvolta banchettiamo insieme; non ha appena bevuto un paio di bicchieri, che s’addormenta e mi lascia sola; ma spero bene che vorrete tenermi compagnia finchè egli dorme. —

«Prese la Bella Persiana una tazza, la empì di vino, e presentandola al custode: — Prendete,» gli disse, «e bevete alla mia salute; io ve ne renderò il contraccambio.» Fece Sceich Ibrahim grandi difficoltà, e la pregò caldamente di dispensarnelo; ma essa seppe incalzarlo tanto, che vinto dai suoi vezzi e dalle sue istanze, prese la tazza e la tracannò fino all’ultima stilla.

«Il buon vecchio amava di bere il suo sorsellino, [p. 66 modifica] ma vergognavasi di farlo davanti a persone che non conosceva. Andava alla bettola di nascosto come tanti altri, e non aveva prese le precauzioni da Noreddin insegnategli per recarsi a comprare il vino; ma era stato a prenderlo senza cerimonie da un tavernaio ov’era conosciutissimo; la notte avevagli servito di mantello, risparmiando così il denaro, cui avrebbe dovuto dare a quello che avesse incaricato di eseguire la commissione, secondo la lezione di Noreddin.

«Mentre Sceich Ibrahim, dopo aver bevuto, finiva di mangiare il pomo, la Bella Persiana gliene colmò un’altra tazza, ch’egli tracannò con minor difficoltà, e non ne fece poi alcuna alla terza. Stava bevendo in fine la quarta, allorchè Noreddin, cessando di far l’addormentato, si alzò a sedere, e prorompendo in grandi scrosci di risa: — Ah! ah! Sceich Ibrahim,» sclamò, «vi ci ho colto; mi avevate detto di aver rinunciato al vino, ma però non tralasciate di berne! —

«Il custode non si attendeva a quella sorpresa, talchè gliene salì il rossore alquanto al viso; questo però non gl’impedì dal terminar di bere, e quindi: — Signore,» disse ridendo, «se vi è peccato in ciò che feci, la colpa non deve ricaderne sopra di me, ma sulla signora: come non arrendersi a tante grazie! —

«La Bella Persiana, che se la intendeva con Noreddin, prese le parti del vecchio. — Sceich Ibrahim,» gli disse, «lasciatelo ciarlare, e non prendetevi soggezione: continuate a bere, e stiamo allegri.» Poco dopo, Noreddin si versò da bere, ed altrettanto fece poscia alla Bella Persiana; siccome il custode vide che non gliene versava, prese una tazza, e presentandogliela: — Ed io,» gli disse, «pretendereste che non bevessi al par di voi? —

«A tali parole, Noreddin e la Bella Persiana si [p. 67 modifica] misero a ridere di tutto cuore; il giovine gli empì la coppa, e continuarono a star allegri, a ridere e bere fin circa mezzanotte. Verso quel tempo, la Bella Persiana notò non essere la tavola rischiarata se non da una sola candela. — Sceich Ibrahim,» disse al buon vecchio, «non ci avete portato che una sola candela; eppure ecco qui tante belle lampade! Fateci, ve ne prego, il piacere di accenderle, onde possiamo vederci in viso. —

«Sceich Ibrahim usò della libertà che concede il vino quando se ne ha riscaldata la testa, e per non interrompere un discorso, col quale interteneva Noreddin: — Accendetele voi stessa,» disse alla bella schiava; «ciò conviene meglio ad una giovine come voi; ma badate di non accenderne se non cinque o sei, per un motivo che so io; ciò basterà.» La Bella Persiana si alzò, andò a prendere una bugia cui venne ad accendere alla candela che stava sulla tavola, ed accese tutti gli ottanta ceri senza badare a quello che Sceich Ibrahim le aveva detto.

«Alquanto tempo dopo, mentre il custode interteneva sur un argomento la Bella Persiana, Noreddin alla sua volta lo pregò di voler accendere alquanti lampadari. Senza badare che tutte le bugie erano già accese: — Bisogna,» rispose il vecchio, «che siate ben pigro, o che abbiate meno vigore di me, se non potete farlo da per voi. Andate, accendeteli, ma tre soli!» Invece di contentarsi a quel piccolo numero, li accese tutti, ed aprì le ottanta finestre, al che Sceich Ibrahim, tutto inteso a conversare colla Bella Persiana, non prestò veruna attenzione.

«Il califfo Aaron-al-Raschid allora non erasi ritirato, ma trovavasi in una sala del suo palazzo che sporgeva sul Tigri, e guardava dalla parte del giardino e del padiglione delle pitture. Avendo aperto per caso una finestra da quel lato, rimase sommamente [p. 68 modifica] sorpreso al vedere il padiglione tutto illuminato, tanto più che pel gran chiarore, credè alla prima che fosse scoppiato qualche incendio in città. Stava ancora con lui il gran visir Giafar, il quale aspettava il momento che il califfo si ritirasse per tornarsene a casa. Questi lo chiamò in grandissima collera. — Visir negligente,» gridò, «vien qua, accostati, guarda il padiglione delle pitture, e dimmi perchè sia illuminato a quest’ora quand’io non ci sono. —

«Tremò il gran visir a quella notizia, per tema che ciò non fosse vero, ed avvicinatosi, tremò viemaggiormente quand’ebbe veduta la verità di quanto il califfo avevagli detto. Bisognava tuttavia trovare un pretesto per calmarlo. — Commendatore dei credenti,» gli disse, «non posso dir altro su ciò a vostra maestà, se non che venuto Sceich Ibrahim, tre o quattro giorni sono, a presentarsi a me, mi manifestò d’aver intenzione di fare un’assemblea dei ministri della sua moschea per una certa cerimonia, che compiacevasi di celebrare sotto il felice regno di vostra maestà. Gli chiesi cosa desiderasse ch’io facessi per servirlo in simile occasione; ed egli mi supplicò di ottenere da vostra maestà che gli fosse permesso di tener l’assemblea e fare la cerimonia nel padiglione. Lo rimandai dicendogli che poteva farlo, e che non mancherei di parlarne a vostra maestà. Le chieggo perdono di averlo dimenticato. Sceich Ibrahim probabilmente,» continuò egli, «ha scelto questo giorno per la cerimonia, e convitando i ministri della sua moschea, volle senza dubbio dar loro il piacere di quella illuminazione.

«— Giafar,» ripigliò il califfo con un accento denotante di essere alquanto placato, «stando a quello che mi dici, tu hai commesso tre falli imperdonabili. Il primo, di aver permesso a Sceich Ibrahim di fare la sua cerimonia nel mio padiglione: un [p. 69 modifica] semplice custode non è un ufficiale di tal considerazione da meritare tanto onore; il secondo, di non avermene parlato; il terzo, di non aver penetrata la vera intenzione di quel dabben uomo. In fatti, io son persuaso che non ne abbia avuta altra fuorchè quella di vedere se ottener non potesse qualche gratificazione per aiutarlo a sostenere codesta spesa. Tu non ci hai pensato, ed io non gli dò torto se si vendica di non averla ottenuta, colla spesa maggiore di questa illuminazione. —

«Il gran visir Giafar, lieto che il califfo prendesse la cosa in quel verso, si addossò con piacere i falli rimproveratigli dal monarca, e confessò francamente di aver avuto torto a non dare a Sceich Ibrahim qualche pezza d’oro. — Poichè la cosa è così,» aggiunse il califfo sorridendo, «è giusto che tu sia castigato de’ tuoi errori, ma la punizione ne sarà lieve; e questa è che passerai il resto della notte, al par di me, con quella buona gente, cui sarò ben contento di vedere. Mentre vado a prendere un abito cittadinesco, corri a travestirti anche tu con Mesrur, e venite amendue meco.» Volle Giafar rappresentargli che era tardi, e che la compagnia sarebbesi ritirata prima ch’essi vi giungessero; ma egli rispose di volervi assolutamente andare. Siccome non eravi nulla di vero in ciò che il visir avevagli detto, trovossi questi alla disperazione per tale risoluzione; ma bisognava obbedire senza tante repliche.

— Sire,» disse Scheherazade, «il sole, che già irrora di luce l’appartamento, m’impedisce di seguitare la storia di Noreddin; se vostra maestà me lo permette, ne ripiglierò la continuazione la notte seguente.» Schahriar alzossi senza dir nulla, e la sultana, l’indomani, prosegui il racconto nei seguenti termini: [p. 70 modifica]

NOTTE CCXLVI


— Sire, il califfo uscì dunque dal palazzo, travestito da borghigiano, col gran visir Giafar e Mesrur, capo degli eunuchi, e camminò per le vie di Bagdad finchè giunse al giardino. La porta stavane aperta per la negligenza di Sceich Ibrahim, il quale aveva dimenticato di chiuderla tornando col vino, cui era stato a comprare. Il califfo ne rimase scandalizzato. — Giafar,» diss’egli al gran visir, «che cosa significa la porta aperta a quest’ora? Sarebbe possibile che fosse l’uso di Sceich Ibrahim di lasciarla così spalancata alla notte? Preferisco credere che l’imbarazzo della festa abbiagli fatto commettere tale mancanza. —

«Il califfo entrò nel giardino, e giunto al padiglione, siccome non voleva salire al salone senza prima sapere cosa vi si facesse, si consultò col gran visir se non dovesse ascendere sugli alberi più vicini, per chiarirsene. Ma guardando la porta dell’edificio, si accorse il gran visir ch’era semiaperta, e ne lo avvertì. Sceich Ibrahim l’aveva lasciata socchiusa, quando Noreddin e la Bella Persiana avevanlo persuaso ad entrare per tener loro compagnia.

«Il califfo, abbandonato il suo primo disegno, salì senza far rumore alla porta del salone, la quale essendo appunto socchiusa, gli diede agio di poter vedere quelli che vi stavano dentro senza esserne veduto. Ma quale non fu la sua maraviglia scorgendo una dama d’impareggiabile bellezza ed un giovine di leggiadro aspetto, seduti a tavola insieme col custode! Sceich Ibrahim teneva in mano la tazza, e andava dicendo alla Bella Persiana: — Mia bella dama, [p. 71 modifica] un buon bevitore non deve mai bere senza cantare prima la sua canzonetta. Fatemi l’onore di ascoltarmi; eccone una delle più graziose. —

«Sceich Ibrahim cantò, ed il califfo ne fu tanto più stupito, in quanto che avea fin allora ignorato ch’egli bevesse vino, credendolo invece un uomo savio e posato, com’eragli sempre apparso. Si allontanò dalla porta colla medesima cautela onde vi si era accostato, e recossi dal gran visir Giafar che stavasene sulla scalea, alcuni gradini sotto di lui. — Ascendi,» gli disse, «e vedi se quelli che stanno là dentro siano ministri di moschea, come tu hai voluto farmi credere. —

«Dall’accento con cui il califfo pronunciò tali parole, conobbe benissimo il gran visir che la faccenda andava male per lui. Pure salì, e guardando dalla fessura della porta, tremò di spavento per sè quando ebbe vedute le tre persone nella situazione e nello stato in cui si trovavano. Tornò tutto confuso al califfo, nè seppe cosa dirgli. — Qual disordine,» gli disse questi, «che quegl’individui abbiano l’ardimento di venire a divertirsi nel mio giardino e dentro al mio padiglione; e che Sceich Ibrahim ne conceda loro l’ingresso, li soffra e si diverta insieme! Non credo però che si possa vedere un giovine ed una damina più belli e meglio accoppiati. Prima di far iscoppiare la mia collera, voglio chiarirmi vie maggiormente, e sapere chi siano, e per qual occasione si trovino qui.» Tornò alla porta per osservarli ancora, ed il visir, che lo seguiva, si fermò dietro di lui, mentre teneva gli occhi fissi su coloro. Intesero entrambi che Sceich Ibrahim diceva alla Bella Persiana: — Amabile mia signora, avvi qualche cosa che possiate desiderare onde rendere più compiuta la nostra gioia di stasera? — Mi sembra,» rispose la Bella Persiana, «che tutto andrebbe a maraviglia, se [p. 72 modifica] aveste un istrumento ch’io potessi suonare, e voleste favorirmelo. — Signora,» le chiese Ibrahim, «sapete suonare il liuto? — Recatemelo,» disse la vaga donna, «e ve lo mostrerò. —

«Senza andar troppo lontano dal suo posto, Sceich Ibrahim, cavato dall’armadio un liuto, lo presentò alla Bella Persiana, la quale cominciò ad accordarlo. Il califfo intanto si volse al gran visir, e gli disse: — Giafar, la giovane sta per suonare il liuto: se suona bene, le perdonerò, del pari che al giovane per amore di lei; quanto a te, non dimenticherò di farti impiccare. — Commendatore de’ credenti,» rispose il gran visir, «se così è, prego dunque Iddio ch’ella suoni male. — E perchè?» ripigliò il califfo. — In quanti più saremo,» replicò Giafar, «e più avremo occasione per consolarci di morire in bella e buona compagnia. —

«Il califfo, che amava i detti arguti, si mise a ridere di quella risposta, e volgendosi all’apertura della porta, tese l’orecchio per sentire la Bella Persiana a suonare.

«Questa bella giovane preludiava già in una guisa che fece comprendere alla prima al califfo com’ella suonasse da maestra. Cominciò poscia a cantare un’arietta, ed accompagnando la voce, che aveva mirabile, col liuto, lo fece con tant’arte e perfezione, che il califfo ne rimase estatico.

«Quando la Bella Persiana ebbe finito di cantare, il califfo discese dalla scalea, seguito da Giafar, e quando fu abbasso: — In vita mia,» diss’egli al visir, «non ho inteso una voce più bella, nè suonar meglio il liuto: Isacco (1), ch’io credeva il più bravo suonatore che ci fosse al mondo, non solo non [p. 73 modifica] la supera, ma non la pareggia nemmeno. Ne sono tanto contento, che voglio entrare per sentirla suonare in mia presenza: si tratta soltanto di sapere in qual maniera potrò farlo.

«— Commendatore de’ credenti,» ripigliò il gran visir, «se entrate, e che Sceich Ibrahim vi riconosca, ne morrà di paura. — Ciò appunto è quello che mi dà pena,» rispose il califfo, «e mi dispiacerebbe di cagionargli la morte, dopo tanto tempo che mi serve. Mi viene un pensiero che potrà riuscire: resta qui con Mesrur, ed aspetta nel primo viale ch’io torni.»

Schahriar scorse con pena il giorno, che, cominciando a spuntare, costrinse la sultana ad interrompere il racconto; essa lo ripigliò dunque la notte seguente, con grande contento del sultano delle Indie:


NOTTE CCXLVII


— Sire, la vicinanza del Tigri aveva concesso al califfo di deviarne acqua bastante sopra una gran volta ben terrapienata, da formare un leggiadro laghetto, dove i più bei pesci del Tigri venivano a ritirarsi. I pescatori lo sapevano, ed avrebbero desiderato assai di aver la libertà di gettarvi le reti; ma il califfo aveva espressamente vietato a Sceich Ibrahim di lasciarvi avvicinare alcuno. Nondimeno, quella medesima notte, passando un pescatore davanti alla porta del giardino, lasciata aperta dal califfo come avevala trovata dopo esservi entrato, erasi costui approfittato dell’occasione, introducendosi nel giardino fino al laghetto.

«Quivi aveva gettate le reti, e stava per ritirarle nel momento in cui il califfo, il quale, dopo la [p. 74 modifica]negligenza di Sceich Ibrahim, era entrato in sospetto di quanto poteva essere accaduto, e voleva valersi della congiuntura pel suo disegno, capitò a quel medesimo luogo. Ad onta del suo travestimento, il pescatore lo riconobbe, e se gli gettò ai piedi, domandandogli perdono, e scusandosi per la sua povertà. — Alzati, e non temer di nulla,» si fece a dirgli il califfo; «ritira soltanto le tue reti, acciò vegga qual pesce vi sia dentro. —

«Il pescatore, rassicurato, eseguì tosto quanto il califfo desiderava, e raccolse cinque o sei bei pesci, fra’ quali Aaron scelse i due più grossi, cui fece attaccare insieme per la testa con un vinciglio. Disse quindi al pescatore: — Dammi il tuo abito e prendi il mio.» Il cambio si fece in pochi momenti, e vestito che fu il califfo da pescatore, fino alla calzatura ed al turbante: — Prendi le tue reti,» disse all’altro, «e va pe’ fatti tuoi. —

«Partito il pescatore, contentissimo della sua buona ventura, il califfo prese in mano i due pesci, ed andò a trovare il gran visir e Mesrur; Giafar, cui si era fermato davanti, non lo riconobbe. — Cosa vuoi?» gli disse, «Vattene per la tua strada.» Il califfo si mise a ridere, per cui il gran visir, riconosciutolo: — Commendatore de’ credenti,» sclamò, «è possibile che siate voi? Non vi aveva conosciuto, e vi chieggo mille scuse della mia inciviltà. Ora potete entrare nel salone, senza temere che Sceich Ibrahim vi riconosca. — Restate dunque qui ancora,» disse Aaron ai due compagni, «mentre io vado a rappresentare il mio personaggio. —

«Ascese il califfo al salone, e bussò alla porta. Noreddin, che l’intese pel primo, ne avvertì Sceich Ibrahim, e questi tosto domandò chi fosse. Il califfo allora aprì la porta, ed inoltrandosi solamente d’un passo nel salone per farsi vedere: — Sceich Ibrahim,» [p. 75 modifica] rispose, «sono il pescatore Kerim; essendomi accorto che trattavate i vostri amici, ed avendo pescato in questo momento due bei pesci, vengo a chiedervi se ne avete bisogno. —

«Noreddin e la Bella Persiana furono lieti di sentire a parlar di pesce. — Sceich Ibrahim,» disse tosto la Bella Persiana, «vi prego, fateci il favore di farlo entrare, onde poter vedere il suo pesce.» Il custode non era più in istato di domandare al preteso pescatore nè come, nè d’onde fosse venuto, e pensò soltanto a compiacere la giovane. Rivolse dunque la testa dal lato della porta con istento, tanto aveva bevuto, e disse balbettando al califfo, cui prendeva per quello che sembrava: — Fatti innanzi, ladrone di notte, accostati, che ti si possa vedere. —

«Il califfo venne innanzi contraffacendo ottimamente tutte le maniere d’un pescatore, e presentò i due pesci. — Ecco un pesce bellissimo,» disse la Bella Persiana; «ne mangerei volontieri, se fosse cotto e ben accomodato. — La signora ha ragione,» soggiunse Sceich Ibrahim; «cosa vuoi tu che facciamo del tuo pesce se non è acconciato? Va a cuocerlo tu stesso, e portacelo: nella mia cucina troverai l’occorrente. —

«Tornò il califfo a trovare il gran visir, e gli disse: — Giafar, sono stato benissimo accolto, ma vogliono che il pesce sia accomodato. — Vado a prepararlo io,» rispose il visir, «e ciò sarà fatto in un momento. — Mi sta tanto a cuore,» ripigliò il califfo, «di venir a capo del mio disegno, che me ne prenderò io medesimo il disturbo. Se so fare così bene da pescatore, posso egualmente fare da cuoco: mi sono divertito di cucina nella mia gioventù, e non ci riusciva male.» Dicendo queste parole, prese la strada della dimora di Sceich Ibrahim, ed il gran visir a Mesrur lo seguirono. [p. 76 modifica] «Tutti e tre s’accinsero all’opra; e sebbene la cucina di Sceich Ibrahim non fosse grande, siccome però non vi mancava nessuna delle cose, delle quali avevano mestieri, ebbero in breve acconciato il piatto di pesce, cui il califfo portò nel salone, e postolo in tavola, mise pure davanti a ciascheduno un cedro, affinchè se ne servissero. Mangiarono essi di buon appetito, Noreddin specialmente e la Bella Persiana, restando frattanto il califfo davanti a loro in piedi.

«Quand’ebbero finito, Noreddin, guardando il califfo: — Pescatore,» gli disse, «non si può mangiare miglior pesce, e tu ci hai fatto il più gran piacere del mondo.» E nel medesimo tempo, posta la mano in seno, ne trasse la borsa contenente le trenta pezze d’oro, avanzo delle quaranta che Sangiar, usciere del re di Balsora, avevagli date prima della sua partenza, e: — Prendi,» gli disse, «te ne darei di più se ne avessi: ti avrei tratto dalla povertà, se ti avessi conosciuto prima di avere scialacquato il mio patrimonio; ricevilo nonostante con tanto buon cuore, come se il dono fosse maggiore. —

«Il califfo prese la borsa, e mostrandosene grato a Noreddin, siccome sentì che conteneva oro: — Signore,» gli disse, «non posso ringraziarvi abbastanza della vostra liberalità. È una fortuna aver da fare con buona gente come voi; ma prima di partire, vorrei farvi una preghiera, che vi supplico di accordarmi. Ecco un liuto, il quale mi fa comprendere che la signora lo sa maneggiare. Se poteste da lei ottenere che mi facesse il favore di suonare un’aria, me ne andrei il più lieto del mondo: è uno strumento che amo con passione.

«— Bella Persiana,» disse subito Noreddin, volgendosi a lei, «vi domando questa grazia, e spero che non me la negherete.» Preso essa dunque il liuto, ed accordatolo in pochi istanti, suonò e cantò un’ [p. 77 modifica] arietta che dilettò assai il califfo; terminando, continuò i concenti senza cantare, suonando con tanta forza ed espressione, ch’ei ne fu come rapito in estasi.

«Quando la Bella Persiana ebbe cessato di suonare: — Ah!» sclamò il califfo; «qual voce, qual mano, che arte! Chi mai ha meglio cantato, e suonato meglio il liuto? No, io non ho mai udito, nè veduto nulla di simile. —

«Noreddin, solito a dare ciò che gli apparteneva a tutti quelli che ne facevano le lodi: — Pescatore,» gli disse, «ben veggo che te ne intendi; poichè essa ti piace tanto, è tua, te ne fo un dono.» E nel tempo stesso, alzatosi, prese l’abito che aveva svestito, e volle partire, lasciando il califfo, cui non conosceva se non per un pescatore, in possesso della Bella Persiana.

«Questa, stupita all’estremo dell’intempestiva liberalità di Noreddin, lo trattenne. — Signore,» gli disse, guardandolo teneramente, «dove intendete mai di andare? Rimettetevi al vostro posto, ve ne supplico, ed ascoltate ciò che sono per cantare e suonare.» Cedette egli alle di lei brame; ed allora, toccando il liuto, o guardandolo colle lagrime agli occhi, essa cantò alcuni versi, cui compose all’improvviso, nei quali rimproveravagli vivamente il poco amore che aveva per lei, abbandonandola sì facilmente e con tanta durezza a Kerim; voleva dire, senza esprimersi di più, ad un pescatore come Kerim, ch’essa, non più di lui, non conosceva pel califfo. Terminando, si mise accanto il liuto, e portossi al volto il fazzoletto per nascondere le lagrime che non seppe frenare.

«Noreddin non rispose una sola parola a que’ rimproveri, e col suo silenzio dimostrò di non pentirsi della fatta donazione: ma il califfo, sorpreso di quanto aveva udito, gli disse: — Signore, da quel che veggo, questa dama sì bella, sì rara ed ammirabile, della quale mi faceste ora dono con tanta generosità, è [p. 78 modifica] vostra schiava, e voi ne siete il padrone. — È vero, Kerim,» rispose Noreddin, «e tu saresti ancor molto più maravigliato, se note ti fossero tutte le disgrazie che mi sono accadute per di lei occasione. — Ah! di grazia, o signore,» replicò il califfo, rappresentando sempre a maraviglia il personaggio di pescatore, «favorite di mettermi a parte della vostra storia. —

«Noreddin, il quale aveva già fatto per lui cose di ben maggior conseguenza, sebbene non lo risguardasse che come un semplice pescatore, volle aver ancora codesta compiacenza. Gli raccontò dunque tutta la sua vita, cominciando dall’acquisto fatto dal visir suo padre della Bella Persiana pel re di Balsora, e nulla tacque di quanto aveva fatto e di tutto ciò ch’eragli accaduto fino al suo arrivo a Bagdad con lei, e fino al momento in cui gli parlava.

«Quando Noreddin ebbe finito il suo racconto: — Ed ora dove andate?» gli chiese il califfo. — Dove vado?» rispos’egli. «Dove Iddio mi condurrà. — Se vorreste credermi,» ripigliò il califfo, «non andrete più lungi; anzi, per lo contrario, è d’uopo che torniate a Balsora. Vi darò due righe di accompagnamento che consegnerete al re da parte mia; vedrete che vi riceverà molto bene appena l’avrà letta, e che nessuno vi dirà parola.

«— Kerim,» ripigliò Noreddin, «quel che tu mi dici è ben singolare: non ho mai inteso che un pescatore come te abbia avuto corrispondenza con un monarca! — Ciò non vi deve sorprendere,» replicò il califfo; «abbiamo fatto i nostri studi insieme sotto i medesimi maestri, e fummo sempre i migliori amici del mondo. Vero è che la fortuna non ci si mostrò egualmente propizia, facendo lui re, e me pescatore; ma questa ineguaglianza non ha diminuita la nostra amicizia. Egli volle trarmi dal mio stato con tutte le immaginabili sollecitudini; ma io mi sono contentato [p. 79 modifica] della considerazione ch’egli ha di non negarmi nulla di quanto gli chiedo pel servigio de’ miei amici: lasciatemi dunque fare, e ne vedrete l’esito. —

«Noreddin accondiscese alla volontà del califfo, e siccome eravi nel salone l’occorrente per iscrivere, il califfo vergò questa lettera al re di Balsora, in cima alla quale, quasi all’estremità della carta, aggiunse questa formola, in carattere minutissimo: «In nome di Dio misericordioso;» per dinotare che voleva essero obbedito assolutamente.


Note

  1. Famoso suonatore di liuto, che viveva a Bagdad sotto il califfato di Aaron-al-Raschid.