Melmoth o l'uomo errante/Volume II/Capitolo VI

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Volume II - Capitolo VI

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Charles Robert Maturin - Melmoth o l'uomo errante (1820)
Traduzione dall'inglese di Anonimo (1842)
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CAPITOLO VI.

storia degl’indiani.


Dalla parte settentrionale delle Indie, e non lungi dall’imboccatura dell’Hoogly, è un’isola che per la sua posizione, e per particolari circostanze restò lungo tempo sconosciuta agli Europei. Dessa non era neppure visitata dagli indigeni dell’isole circostanti se non in certe straordinarie ricorrenze. È cinta all’intorno da bassi-fondi che ne rendono impraticabile l’avvicinamento ai navigli carichi di merci, e le roccie che [p. 113 modifica]s’innalzano sulla costa fanno, che con pericolo vi si possano anco appressare i leggieri canotti de’ naturali del paese; ma ciò che un tempo la rendeva più formidabile di qualunque altra cosa, erano gli orrori, dai quali la superstizione l’aveva in certo modo investita. Esisteva una tradizione, secondo la quale il primo tempio della Dea Sèeva era stato costrutto in quest’isola, ove la sua spaventevole statua assisa sopra una stuoia formata di vipere intrecciate insieme, e portante al collo una collana di cranii umani ed una lingua biforcuta in ognuna delle sue venti bocche serpentine, aveva ricevuto da suoi adoratori i primi omaggi di sangue; omaggi che consistevano in membra mutilate ed in fanciulli immolati.

Un forte terremoto, che erasi fatto sentire fino alle spiaggie delle Indie ne aveva abbattuto il tempio e spogliato per metà l’isola de’ suoi abitatori. Il tempio ciò non ostante fu riedificato dallo zelo de’ suoi adoratori, e l’isola cominciava a ripopolarsi quando un oragano senza esempio, [p. 114 modifica]anco in quel clima, venne a desolare il luogo dalla credulità consacrato. Un fulmine incenerì la pagode; gli abitanti, le loro case, i loro colti furono distrutti, a segno che in tutta l’isola non rimase una traccia di umanità, di cultura o di vita. I devoti consultavano la loro immaginazione per rinvenire la cagione di tante calamità ed intanto che assisi all’ombra dei loro alberi di cocco davano pascolo alla nativa loro inerzia, attribuivano tali eventi allo sdegno della medesima Sèeva irritata dalla crescente popolarità del dio Juggernaut. Pretendevano di aver veduta la di lei immagine innalzarsi di mezzo alle fiamme, che ne avevano consumati gli altari, ed erano persuasi che dessa si fosse recata in qualche altra isola più fortunata, ove sperava di fruire de’ banchetti di carne e di sangue in pace, e senza esser molestata dall’aspetto del culto di Nume rivale. In conseguenza di ciò l’isola era rimasta per un lungo spazio di anni incolta per ogni parte e spoglia affatto di abitatori. [p. 115 modifica]

I navigatori Europei prestando fede alle asseveranti parole degl’Indiani, e persuasi di non rinvenire nell’isola nè animali nè vegetabili nè acqua, evitavano di visitarla, ed i naturali del paese quando le passavan d’avanti lanciavano uno sguardo di tristezza sul suo aspetto deserto e gettavano qualche oggetto sull’acque del mare a fine di disarmare la collera di Sèeva.

Cotesta isola abbandonata in tal modo a sè medesima acquistò una fertilità straordinaria, in quella guisa che noi veggiamo taluni bambini, che più robusti e rigogliosi crescono quando son trascurati, che quando loro si prodigano le più accurate attenzioni del lusso e di una eccessiva tenerezza. Il suolo ne era smaltato di ogni famiglia di fiori; le piante ricoperte di foltissime frondi piegavano sotto l’esuberante peso de’ frutti: ma non vi erano mani per coglierli, non palato per assaporarli: allorchè un giorno alcuni pescatori, trasportati verso l’isola da una rapida corrente, quantunque avessero fatto ogni [p. 116 modifica]sforzo per evitarla, si videro costretti ad avvicinarsi ad essa non senza aver indirizzate le più fervorose preghiere alla diva per rendersela favorevole; e con loro estrema maraviglia poterono allontanarsene di nuovo senza avere incontrata alcuna disgrazia; solamente al loro ritorno dissero, di aver inteso i più melodiosi suoni, che avessero giammai penetrato nelle loro orecchie, e giudicarono che senza dubbio una diva men crudele di Sèeva avesse ivi fissato il suo soggiorno. I più giovani fra i pescatori aggiunsero di più, che essi avevan traveduto la figura d’una donna dotata di straordinaria bellezza, che era passata rattamente, e subito scomparsa tra gli alberi che ombreggiavano per ogni dove le roccie della spiaggia.

Gli abitanti delle isole circonvicine non meno superstiziosi, che di fervida immaginazione dotati, deificarono cotesta visione ognuno alla loro maniera. I vecchi adoratori non tralasciavano, nell’invocarla, alcuna delle pratiche sanguinose del culto di Sèeva e di Harèe; le giovani [p. 117 modifica]donzelle si avvicinavano ne’ loro leggieri canotti più presso che potevano all’isola incantata, offrendo de’ voti a Camdeo, (il dio dell’amore presso gli Indiani) cui inviavano delle barchettine fatte di corteccia di papiro, piene di fiori, e con una candela accesa, con la speranza che la loro amata divinità fissasse quell’isola pel luogo della sua residenza. I giovanetti altresì che erano innamorati, o che si dilettavano della musica, andavano sulle coste dell’isola a supplicare Apollo Krishnou, onde volesse con la sua presenza santificarla; nè sapendo cosa a lui offrire stando in piedi sui canotti cantavano delle canzoni selvagge, e terminavano col gettare in mare una figura di cera avente in mano una specie di lira.

Per un lungo spazio di tempo furono veduti tutte le sere questi canotti vogare verso l’isola, ed incrociarsi in mezzo alla oscurità come meteore luminose; ed ora si vedeva una mano tremante depositare sulla arena un paniere di fiori; ora una mano più ardita appenderlo sulle [p. 118 modifica]roccie. Quei semplici isolani si compiacevano della loro volontaria umiltà; ma si rimarcava che ritornavan dall’isola con delle idee molto soavi intorno all’oggetto della loro adorazione. Le donne si sforzavano di ripetere i suoni divini, che avevan percosso le loro orecchie; gli uomini ritornavano con la desolazione nel cuore per non aver potuto vedere la celestial bellezza che secondo la relazione de’ pescatori vagava in quel luogo disabitato.

A poco a poco l’isola andò perdendo la cattiva riputazione che aveva per lungo tempo avuta, ed alla fine arrivò un’avventura, che non lasciò più alcun dubbio intorno alla sua santità, e su quella del solo abitante, che conteneva. Un giovane Indiano aveva a più riprese, ma sempre invano, offerto all’amica del suo cuore il mazzetto mistico, del quale la disposizione de’ fiori esprimeva l’amor suo. Ansioso di sapere il suo destino risolvette di recarsi all’isola incantata a fine di esserne istrutto dalla misteriosa divinità, che ivi avea stabilita la sua permanenza. Intanto che dirigeva [p. 119 modifica]il suo canotto verso la spiaggia compose una canzone nella quale diceva, che la sua amante era verso di lui troppo barbara, e lo rigettava come se fosse un Paria, quantunque l’amerebbe ancorchè egli discendesse dalla illustre casta dei Bramini; aggiungeva che la pelle della sua diletta era più lucida del marmo dei gradini per mezzo de’ quali si discende alla fontana di un Rojah ed i suoi occhi più brillanti delle stelle. Dessa era a’ suoi sguardi più maestosa della pagode di Juggernaut e più splendida del tridente del tempio di Mahadeva quando è rischiarato dal placido raggio della luna. Nè deve far maraviglia, che cotesti due oggetti trovassero luogo ne’ versi dell’Indiano, perchè l’una e l’altro si distinguevano da lungi da lui che solcava un mare tranquillo sotto il cielo sereno di una notte del tropico. Egli terminò la sua canzone promettendo alla sua innamorata, se ella non isgradiva i suoi sospiri, di fabbricarle una capanna, elevata quattro piedi da terra per ripararla contro i serpenti, di [p. 120 modifica]piantarci all’intorno delle palme e dei tamarindi, e di discacciarle durante il sonno le zanzare con un ventaglio formato delle foglie del primo mazzetto di fiori, che ella si degnerebbe accettare in testimonianza della sua corrispondente passione.

Il caso volle che in quella notte medesima la giovanetta, di cui la riserva non era stata cagionata dalla indifferenza, si recasse all’isola ancor essa in un canotto con altre sue compagne, onde scoprire se i voti del suo amante fossero sinceri. Essi arrivarono quasi allo stesso istante, e non ostante l’oscurità, che i primi colori dell’alba nascente non avevano per anco dissipata, si fecero coraggio e discesero sulla riva, ciascuno però dal suo lato, tenendo in mano ciascheduno di essi un paniere di fiori. Si avanzarono verso le rovine della pagode, ove comunemente credevasi, la diva avesse stabilito il suo soggiorno. Ebbero però della pena ad aprirsi il varco a traverso i cespugli de’ fiori, che spontaneamente coprivano l’inculto terreno, e non senza [p. 121 modifica]timore di vedere da un momento all’altro una tigre lanciarsi contro di loro. Si rassicurarono però al riflettere, che tali belve ordinariamente stanno appiattate nelle vaste paludi ove sorgono delle canne palustri, e non ne luoghi deliziosi, profumati dai fiori. Non avevano neppure a temere lo scontro de’ coccodrilli negli angusti ruscelli che dovevano valicare, e la cui acqua non superava il terzo della loro gamba. I tamarindi, gli alberi di cocco, le palme distendevano i loro fiori, esalavano dei soavi profumi e facevano pendere i ricchi lor rami sul capo della giovinetta religiosa e tremante a misura che andava avvicinandosi alle rovine della pagode. Codesto edifizio era stato anticamente un tempio di forma quadrata costruito in mezzo ad un enorme gruppo di macigni, i quali per un capriccio della natura, assai ordinario nelle Indie, occupavano il centro dell’isola, e sembrava essere il risultato di una vulcanica eruzione. Il terremoto, che aveva rovesciato il tempio, aveva insieme confusi i [p. 122 modifica]macigni e le rovine in maniera che più non formavano se non una massa informe, la quale pareva attestasse ad un tempo l’impotenza della natura e dell’arte, abbattute da quella potenza che le ha create e che può quando vuole ridurre entrambe al nulla da cui le astrasse. Da una parte erano delle colonne, su cui vedevansi incisi de’ caratteri geroglifici; dall’altra delle pietre, che portavano l’impronta di un potere irresistibile. Mortali, diceva codesto potere, voi delineate con lo scarpello ed io non iscrivo che col fuoco. Qua le reliquie del monumento offrivano la rappresentazione dei terribili serpenti su’ quali Sèeva era stata assisa; là vedevasi la rosa schiudersi il passo e sbocciare tra le fenditure delle rupi, come se la natura avesse voluto mandare la più vaga delle sue creature a predicare la mansuetudine e l’innocenza agli enti dotati di ragione. La statua vedevasi caduta ed i suoi sparsi frammenti ricuoprivano il terreno. Vedevasi ancora però la sua orribil bocca, dentro la quale altre volte erano [p. 123 modifica]stati gettati de’ cuori ancor palpitanti, mentre che ora de’ bellissimi pavoni, spiegando la loro coda magnifica, nudrivano i loro figli fra mezzo ai tamarindi, che ne ombreggiavano gli anneriti frammenti.

I giovani Indiani si avanzavano e di mano in mano diminuiva in essi il timore. Tutto intorno ad essi era calma, oscurità, silenzio. Vicino alle rovine erano gli avanzi di una fontana, simile a quelle che si veggono vicino alle altre pagodi, e che servono a rinfrescare e purificare quelli che vanno a visitare il luogo; ma gli scalini pe’ quali vi si discendeva erano spezzati e l’acqua era divenuta stagnante. I giovani Indiani ne bevettero ciò non ostante alcune stille, invocando la diva protettrice dell’isola, dopo di che si avvicinarono all’unica arcata, che era rimasta intatta. L’interno del tempio era stato scavato sul masso; vi si vedevano come nell’isola Elefantina, delle figure mostruose tagliate in pietra, delle quali alcune aderenti alla rupe ed altre distaccate. [p. 124 modifica]

Due giovanette compagne della Indiana, distinte pel loro coraggio, si avanzarono formando una specie di danza irregolare avanti le rovine della divinità antica, ed invocarono la nuova abitatrice dell’isola, perchè si degnasse esser propizia ai voti della loro amica. Questa si approssimava ancor essa per appendere la sua ghirlanda di fiori sugli avanzi d’un idolo per metà nascosto fra i frammenti delle pietre e coperto di quella ricca vegetazione, che negli orientali paesi sembra annunziare il trionfo eterno della natura in mezzo alle rovine dell’arte. La rosa si rinnovella tutti gli anni; ma secoli intieri non potranno già rinnuovare una piramide!

La bella Indiana attacca la sua ghirlanda. Ad un tratto una voce nascosta mormorò: qui vi è un fiore appassito. Sì, sì, ve ne hanno, rispose la giovanetta, e codesto fiore appassito è l’emblema del mio cuore. Io ho coltivato più d’una rosa, ma ho lasciata appassir questa, che mi era la più cara di tutte. Vuoi tu [p. 125 modifica]rinverdirla per me, incognita diva, affinchè la mia ghirlanda non disonori i tuoi altari? — Vuoi tu rianimare la rosa riscaldandola contro il tuo seno? disse il giovane amante sortendo di dietro ai frammenti delle rupi e delle colonne ove erasi nascosto, e d’onde aveva pronunziate in forma d’oracolo le risposte ai discorsi enimmatici, ma intelligibili della sua amante, e che egli aveva ascoltati con estremo diletto. Rianimerei la rosa? le ripetè egli stringendosela al seno col trasporto dell’amore e della contentezza. La bella Indiana cedendo ad un tempo alla passione ed alla superstizione lasciossi andare nelle braccia di lui, ma ad un tratto se ne allontanò, lo rigettò con tutta veemenza, e si ritrasse spaventata e confusa. Dessa non poteva favellare; e si limitava ad indicare col dito una figura che era ad un tratto apparsa in mezzo a quell’ammasso indistinto di macigni e di rovine. Il giovane senza esser allarmato del grido emesso dalla sua amante voleva di nuovo avanzarsi [p. 126 modifica]per istringerla un’altra volta fra le braccia, quando lo sguardo di lui si fissò sull’oggetto che aveva atterrita l’amante sua e si lasciò cadere col viso in terra immergendosi in una muta adorazione.

La figura, che essi avevano veduta era di donna, ma di un genere che non avevano giammai conosciuto. La pelle di lei era di una candidezza maravigliosa, particolarmente posta in confronto col color di bronzo degli Indiani di Bengala. Le sue vesti non consistevano che in fiori intrecciati con delle penne di pavone, ed i cui splendidi colori formavano un drappo molto degno in realtà di coprire una divinità di tal genere. I lunghi capelli castagni le cadevano fino ai piedi, e si frammischiavano fantasticamente alle penne ed ai fiori, che costituivano il di lei abbigliamento. Sul capo portava una corona di quelle brillanti conchiglie, che non si trovano, se non nelle Indie, e la di cui porpora e il verde potevano fare invidia all’amatista e allo smeraldo. Sulla di lei bianca e nuda [p. 127 modifica]spalla stava posata una lossia, ed intorno al collo aveva un monile fatto delle uova di questo uccello, tanto bianche e diafane, che il primo regnante di Europa avrebbe date in cambio per quelle il più bel filo di perle del suo scrigno. Nude affatto aveva le braccia, e le gambe, ed il suo passo aveva una rapidità ed una leggerezza divina, che ricolmò di maraviglia i due Indiani, quanto lo straordinario colore della sua carnagione e de’ suoi capelli.

I giovani amanti, come abbiamo detto, si prostrarono rispettosamente innanzi alla supposta diva; dessa indirizzò loro con voce soave la parola, ma in un linguaggio, che era a loro incognito; cotesta circostanza contribuì a vieppiù confermarli nell’idea che fosse un linguaggio divino e si prostrarono di nuovo. In quell’istante medesimo la lossia abbandonando la spalla di lei svolazzò intorno ai due Indiani, e quindi con una intelligenza particolare alla sua specie avendo adottato e compreso la predilezione della sua padrona [p. 128 modifica]pe’ fiori freschi de’ quali ella formava tutti i giorni la sua abbigliatura, si slancio sulla rosa ch’era frammezzo al mazzetto dell’amante Indiana, e togliendola di mezzo agli altri fiori la depositò ai piedi di lei. Gli Indiani interpetrarono ciò per un fausto augurio, e dopo essersi un’altra volta prostrati a terra, presero di nuovo il cammino per ritornare alla loro isola nativa. Ma questa volta non s’imbarcarono in canotti differenti; l’amante dirigeva quello della sua amante, che assisa tranquillamente al fianco di lui porgeva orecchio agli inni che le giovani sue compagne cantavano in onore della bianca divinità e dell’isola propizia agli amori, nella quale essa erasi stabilita.

La bella ed unica abitante di questa isola turbata un istante all’aspetto dei suoi adoratori non tardò a riacquistare la sua tranquillità. Dessa non poteva conoscere il timore, perciocchè nel mondo, che aveva veduto nessuna cosa le aveva ancora offerta l’apparenza della inimicizia. Il [p. 129 modifica]sole e l’ombra, i fiori e le foglie, i tamarindi ed i fichi, che erano il solo suo nutrimento; l’acqua che ella beveva, ammirando estatica l’avvenente creatura, che beveva sempre insieme con lei; i pavoni che distendevano le loro ricche e belle piume, appena la scorgevano; la lossia infine che posata sulla mano, o sulla spalla di lei la seguiva nelle sue passeggiate e si sforzava co’ suoi garriti imitarne la voce: tutti questi oggetti erano i suoi amici nè altri ne conosceva fuori di loro. Le umane creature, che talvolta avvicinavansi all’isola le cagionavano in vero una qualche leggiera emozione; ma questa era più presto curiosità, che timore. D’altronde i loro gesti esprimevano del rispetto; tanto aggradevoli per lei erano le loro offerte di fiori, le loro visite eran fatte in un silenzio così profondo, che ella le guardava senza veruna repugnanza, e solo al vederle partire restava maravigliata, come mai potessero sostenersi con sicurezza sulla superficie delle acque, e come creature di un colore sì [p. 130 modifica]oscuro e con lineamenti tanto poco aggradevoli potessero crescere in mezzo ai bellissimi fiori, che a lei offrivano come prodotti della loro terra natale.

Si potrebbe immaginare che gli elementi almeno dovessero avere ispirata alla immaginazione di lei una qualche idea di timore; ma la periodica regolarità de’ loro fenomeni nel clima in cui ella abitava spogliava quelli di tutto ciò che aver potessero di terribile, ed erasi a loro accostumata come alla successione del giorno e della notte. Non avendo mai sentito da altri parlare di terrore non poteva averne l’idea; perchè nella maggior parte degli spiriti la prima causa del timore nasce da cotesta comunicazione di pensieri. Dessa non aveva mai sentiti se non de’ dolori di tanto poca entità, che non ne meritavano il nome; come dunque poteva conoscere il timore? Quando per avventura l’isola era visitata da qualche oragano, accompagnato dallo spettacolo orribile di una profonda oscurità in mezzo del giorno, da nere e soffocanti nubi, dal fragore di un [p. 131 modifica]tuono spaventevole, dessa se ne rimaneva imperturbata sotto le larghe foglie di un banano, ignorando il suo pericolo ed esaminando con una inesplicabile curiosità gli angelli piegare il capo e le ali, e le scimmie saltellare da uno in un altro ramo. Se il fulmine percuotendo un albero lo ardeva, dessa le rimirava come un bambino guarda per divertimento un fuoco artificiale. Ciò non pertanto l’indomani piangeva al vedere che le foglie appassite non si rianimavano più. Quando la pioggia cadeva a dirotto le rovine della pagode le servivano di ricovero, ed ascoltava con indicibile diletto il fragore delle acque che intorno a lei precipitavano al basso. Ella viveva come un fiore fra il sole e la tempesta, più brillante alla luce del giorno, ma che china il capo al soffiar de’ venti, e traendo dall’uno e dall’altra la sua dolce e selvaggia esistenza. Cotesta esistenza in parte fisica, in parte immaginaria, ma scevra di passioni e d’intelligenza durò fino al suo diciassettesimo anno. Fu allora che sopraggiunse una [p. 132 modifica]circostanza, che ne alterò per sempre il colore.

La dimane del giorno in cui era stata visitata da’ due amanti Indiani, Immalia, era questo il nome con cui aveanla chiamata i suoi adoratori, Immalia, dico, se ne stava sulla riva all’approssimar della sera, quando vide avvicinarsele un ente differente affatto da tutti quelli, che erano stati da lei veduti finora. Il colore del volto e delle mani di lui rassembrava al suo, ma il vestimento, che era all’Europea, e fatto secondo la foggia che usava nel 1680, le parve sì poco dicevole, sì poco grazioso che provò una sensazione mista di ripugnanza e di sorpresa, la quale i suoi bei lineamenti non poterono in altra guisa esprimere, che con un sorriso.

Lo straniero se le avvicinò ed ella si avanzò verso di lui non già come farebbe una femmina Europea con delle riverenze piene di grazia; meno ancora come una giovane Indiana con riverenze indicanti umiltà e sommissione, ma simile ad un giovane pavone: le maniere di lei [p. 133 modifica]esprimevano ad un tempo vivacità, timidezza, confidenza. Ella abbandonò quindi precipitosamente la spiaggia del mare, corse al suo antro favorito, ed incontanente ritornò circondata dalla sua scorta de’ pavoni, i quali avevano dispiegate le magnifiche loro ali, quasi che l’istinto avesse fatto loro conoscere il pericolo, cui andava incontro la loro protettrice, la quale battendo palma a palma in segno di allegrezza pareva che dal canto suo invitasse lo straniero ad entrare a parte del contento che ella provava nel contemplare il nuovo fiore che era noto framezzo alle arene della spiaggia. Lo straniero arrivato vicino a lei le indirizzò la parola. Immalia con suo grande stupore riconobbe il linguaggio, di cui le deboli impressioni della infanzia avevano lasciata qualche traccia nella memoria di lei, linguaggio che ella indarno erasi studiata di far prendere ai suoi pavoni, ai suoi pappagalli, alle sue lossie. Cotesti suoni però le erano divenuti tanto stranieri, che rimase [p. 134 modifica]estatica quando intese una bocca umana pronunziarne de’ più insignificanti. Quando lo straniero gli disse: che fate, bella vergine? Dessa rispose: Iddio mi ha creata, prima risposta del catechismo, che l’infantile sua bocca avesse un tempo incominciato a belbettare. Dio non ha mai fatta una creatura più bella, risposele lo straniero fissando su di lei due occhi, che ardono ancora sotto le pupille di questo gran tentatore. Oh! sicuramente, rispose Immalia; egli ha fatto delle cose più belle. La rosa ha un colore più vivace del mio; la palma è più grande; ma essi cangiano ed io non cangio mai. La rosa dopo poche ore che è sbocciata appassisce, ed io divenuto più grande e più forte...... Ma voi da qual lungo venite? Voi non siete muto come quelli, che vivono sotto acqua; non avete il colore rossastro come quelli che io ho veduti talvolta, che mi rassomigliavano, e che mi parevano venissero molto al di là delle acque. Da qual luogo venite? Non avete già lo splendore degli altri. Ove [p. 135 modifica]cresceste voi e come avete fatto a venir qui? Ho una debole rimembranza di aver veduta una creatura simile a voi; ma è tanto tempo: che appena me ne sovvengo. — Bella creatura, io vengo da un mondo, in cui vi sono delle migliaia di enti simili a me. — Delle migliaia? cosa vuol dir migliaia? spiegatemi questo nome. — Vuol dire una gran moltitudine. — Ciò è impossibile: perchè lo son sola qui, e tutti i mondi deggiono esser simili a questo. — Ciò che io vi ho detto, ciò non ostante è vero. Immalia arrestossi un momento, come se per la prima volta avesse fatto uno sforzo per riflettere, il quale sforzo però era penoso in un ente, la cui esistenza non era stata composta finora che di felici ispirazioni e di un istinto senza riflessione; quindi mossa da un subitaneo moto aggiunse: Io v’intendo meglio che i miei uccelli. Quello, che noi facciamo adesso credo che si chiami favellare. Nel paese, dal quale venite, gli augelli e le rose favellano ancor essi? [p. 136 modifica]

Invece di risponder alla di lei interrogazione lo straniero le fece intendere di aver fame. Immalia lo invitò a seguirla, e gli imbandì un pasto semplice e frugale di fichi e di tamarindi, ed attinse dentro una noce di cocco dell’acqua di una limpida fontana. Intanto che egli mangiava, Immalia gli raccontò tutto ciò, che sapeva di sè medesima. Dessa era, gli disse, figlia di un palmizio: cioè a dire che sotto l’ombra di quello aveva provata la prima sensazione della sua esistenza. Era senza dubbio bene avanzata in età, giacchè aveva vedute molte rose nascere, e seccare; e quantunque fossero state seguite da altre rose; dessa amava più le prime, perchè erano molto più belle e più brillanti; d’altronde tutto era impicciolito, giacchè presentemente poteva arrivare a staccare i frutti, che un tempo non poteva ottenere, se non quando fossero caduti in terra.

Qui lo straniero la interruppe per dimandarle come avesse appreso a parlare. Questo era ciò che vi [p. 137 modifica]andava a dire, rispose Immalia. Io sapeva parlare prima che nascessi; mi ricordo, che un tempo era in mia compagnia un ente che mi rassomigliava molto, ma aveva nero il colore. Cotesto ente era assai buono; desso prendeva cura di me e mi carezzava; quando io era piccola mi recava da mangiare e da bere, e mi parlava lo stesso linguaggio, che voi.... Oh! adesso mi ricordo, che una volta mi disse la stessa cosa, che mi avete detta voi, che vi era un’altro mondo, nel quale vi erano molte creature simili a me; io me ne era affatto dimenticata..... Ma per ritornare a lui, un giorno io mi era assisa sotto quel palmizio, che vede te laggiù a poca distanza; io desiderava un tamarindo per rinfrescarmi, perchè faceva molto caldo. Non ve ne era nessuno nella nostra vicinanza ed il mio buon amico nero mi disse, che sarebbe andato a cercarmene più lontano.... Ebbene! lo credereste? da quel momento non lo rividi più. Io ne piansi dirottamente dopo averlo aspettato lungo [p. 138 modifica]tempo. Lo cercai dappertutto, e non posso immaginare ciò, che ne sia addivenuto.

Durante il surriferito discorso di Immalia lo straniero erasi appoggiato contro di un albero e la stava contemplando con una espressione indefinibile. Per la prima volta della sua vita lo sguardo di lui si atteggiava ad una specie di compassione. Cotesta sensazione però non durò lungo tempo in un cuore in cui essa era totalmente straniera, e la di lui espressione si cangiò ben tosto in uno sguardo parte ironico, parte diabolico, che Immalia non poteva comprendere. Voi dunque siete qui soletta, le disse lo straniero, dopo la partenza del vostro compagno, avete ritrovato nessun altro amico? — Oh, sì, ho un amico di gran lunga più bello dell’altro; ma questo non parla. Esso abita sotto le acque. Io lo abbraccio ed esso mi contraccambia le sue carezze; la sua bocca però è tanto, tanto fredda! E poi quando l’abbraccio si direbbe che egli danza e la sua bellezza si [p. 139 modifica]suddivide in molti piccoli aspetti, che mi sorridono come tante piccole stelle.

Dessa continuò lunga pezza a descrivere cotesto misterioso suo amico, e quando ebbe finito, lo straniero dimandò se era un uomo o una donna. Io non so cosa voi vogliate intendere con ciò, gli rispose Immalia. — Vi ho dimandato di qual sesso è il vostro amico. Egli non ottenne alcuna soddisfacente risposta alla fatta interrogazione, e non fu se non l’indomani, che visitando di nuovo l’isola fu confermato nel suo sospetto, che gli era stato ispirato dai discorsi d’Immalia. Trovò egli questa innocente creatura tutta chinata su di un limpido ruscelletto, che rifletteva l’immagine di lei ed alla quale ella faceva de’ vezzi pieni di grazia e di una innocente tenerezza. Lo straniero la contemplò per molto tempo, ed alcuni pensieri, che nessun mortale potrebbe penetrare, gettarono per un momento la loro variata espressione sulla di lui fisonomia, che ordinariamente era tanto quieta ed immota. [p. 140 modifica]

La gioia con la quale Immalia lo accolse contribuì parimente a ricondurre de’ sentimenti umani in un cuore al quale questi da tanto tempo erano stati estranei. Egli provò una sensazione simile a Satana suo duce, quando visitò il paradiso terrestre: cioè a dire della pietà pe’ fiori, che esso era risoluto di far per sempre appassire. Al vederla egli avvicinarglisi con una innocente confidenza e le braccia tese, gli occhi pieni di gioia e di brio, la guardò attentamente, e non potè a meno di mandare un sospiro quando la intese festeggiare il suo arrivo con parole adattate ad una creatura, che da tempo immemorabile non aveva ascoltato che il mormorio delle acque e il canto degli abitatori delle aeree regioni. Nulladimeno per quanto grande fosse l’ignoranza di lei non potè ella ritenersi dal dimostrargli la sua sorpresa, che egli arrivasse nell’isola senz’alcun mezzo apparente di trasporto. Egli evitò di dare una categorica risposta e disse: Immalia, io vengo da un mondo assai differente da [p. 141 modifica]quello in cui abitate voi, e nel quale non vedete che fiori inanimati ed augelli privi di ragione. Vengo da un mondo, in cui tutti gli abitanti pensano e parlano al pari di me.

Immalia guardò per alcuni istanti un silenzio misto di stupore e di gioia; alla fine esclamò: Oh! come deggiono essi amarsi, perchè io amo eccessivamente i miei augelli, i miei fiori ed i miei alberi che mi accolgono sotto la loro ombra, ed i miei ruscelli, che cantano in vece mia. Lo straniero sorrise ed aggiunse: in tutto il mondo, donde io sono venuto, non vi ha forse un’altra creatura che vi possa stare a confronto per la innocenza e la bellezza. Desso è un mondo di sofferenze, di delitti e di angustie. A tali parole Immalia guardò fissamente lo straniero. Ella non comprendeva nulla di quanto le diceva e non fu che a grande stento, che egli pervenne a darle una molto debole idea di ciò che intendesse con queste spaventevoli parole.

Oh! esclamò ella alla fine; se io vivessi in cotesto mondo vorrei [p. 142 modifica]render tutti felici! Ma voi non lo potreste, Immalia. Cotesto mondo è tanto vasto, che in tutto il corso della vostra vita potreste a mala pena attraversarlo, e nelle vostre corse non potreste vedere che piccol numero di infelici alla volta, e sovente le loro infelicità sarebbero tali, che nessun potere umano avrebbe la forza di alleviarle. A queste parole Immalia diede in un dirotto pianto. Debole, ma amabile creatura, aggiunse lo straniero, credette voi forse, che le vostre lagrime possano guarire le sofferenze della malattia, spegnere il fuoco, che arde in un cuore esulcerato, rianimare i corpi estenuati dalla fame, ma soprattutto ammorzare le fiamme di una illecita passione?

Immalia impallidì alla enumerazione di tanti mali, de’ quali non aveva alcuna idea. Finalmente disse, che in qualunque luogo andasse porterebbe seco de’ fiori e che farebbe assidere gl’infelici all’ombra de’ tamarindi. Quanto alla malattia e alla morte, ella non sapeva cosa dir volessero. Sarà forse, ella disse, come i [p. 143 modifica]fiori che veggio sovente languire e talvolta appassire per non più ritornare alla vegetazione. Ma aggiunse dopo aver alcun poco riflettuto: io ho rimarcato che cotesti fiori conservano i loro deliziosi profumi anco dopo esser divenuti aridi e secchi. E non è possibile che ciò che in noi pensa viva ancora dopo che il nostro corpo sia appassito? Questo è un molto dolce pensiero. In quanto alla passione, ella non aveva alcuna idea e non poteva proporre de’ rimedii per un male, che le era in sì alto grado sconosciuto. Aveva veduti i fiori appassire quando era trascorsa la loro stagione, ma non poteva concepire perchè un fiore si volesse da sè medesimo distruggere. Ma, le disse lo straniero con tutto l’artifizio della seduzione, non avete osservato un verme in un fiore? — Sì, risposegli Immalia, ma il verme non formava parte del fiore. Le sue proprie foglie non gli avrebbero mai potuto cagionare alcun male.

Questa risposta diede luogo ad una discussione, alla quale la perfetta [p. 144 modifica]innocenza di Immalia fece fronte a tutti i pericoli, che ella correva. Non ostante la sua viva curiosità e la prontezza del suo intendimento le sue risposte festevoli; ma vaghe la sua immaginazione irrequieta e bizzarra le sue armi intellettuali di buona tempera ma che ella non sapeva molto destremente maneggiare, e principalmente il suo istinto ed il suo infallibile discernimeuto per tutto ciò, che era giusto od ingiusto, tutte queste cose, dico, fecero andare a vuoto i discorsi del tentatore in una maniera più sicura, che se avesse argomentato contro tutti i logici riuniti insieme delle accademie Europee. Versato in tutti i sofismi della scolastica filosofia, egli era piucchè ignorante in questa rettorica del cuore e della natura. Come dicesi che il leone si umilia al cospetto di una vergine dotata della sua natia purezza, così il tentatore si ritirava svergognato, e malcontento, quando ad un tratto vide la lagrima affacciarsi alle pupille trasse un triste e favorevol presagio.

Voi, le disse quindi piangete, [p. 145 modifica]Immalia? — Sì, piango sempre quando veggio il sole scomparire la sera e scondersi dietro le nubi; e voi, sole del mio cuore, scomparite ancor voi fra le ombre? non uscirete più dall’orizzonte? ditemi, non dovrò più rivedervi? Nel pronunziar che fece queste ultime parole prese affettuosamente la mano dello straniero, e se la avvicinò alla sua bocca di coralle e di perle. Quindi proseguì: se voi non ritornate, io non amerò più ne le mie rose nè i miei pavoni; perciocchè essi non possono parlarmi e rispondermi come fate voi, ed io non posso loro dimandare de’ pensieri, laddove voi me ne somministrate in gran copia. Oh! io vorrei avere dei pensieri intorno a codesto mondo che soffre e donde voi venite. Diffatti io deggio credere, che di là voi venghiate, perchè fino al momento in cui vi ho per la prima volta veduto, io non aveva sentito un dolore, che non fosse stato un piacere. Ora però tutto è dolore, particolarmente quando penso che più non ritornerete. — Ritornerò, mia bella Immalia, ed al [p. 146 modifica]mio ritorno vi recherò un abbozzo del mondo, dal quale io vengo, e che in breve dovrete voi medesima abitare. — Vi rivedrò dunque? senza di ciò come potrei io parlare di pensieri? — Oh, sì! oh, certamente! — Ma perchè ripete voi due volte la medesima cosa? Una sola vostra parola mi sarebbe stata sufficiente. — Ebbene! dunque, sì. — Prendete questa rosa e respiriamone insieme la fraganza. Così io dico ancora al mio amico del ruscello quando mi chino per abbracciarlo; ma egli si ritira la sua rosa prima che io l’abbia sentita, e lascio la mia sulle acque. Ebbene! non la volete prendere? — Sì, senza dubbio, rispose lo straniero prendendo un fiore dal mazzetto, che Immalia gli presentò. Questo incominciava ad appassire. Egli se ne impadronì e se lo nascose in seno. Dunque, proseguì Immalia, voi tornate di nuovo a traversare questo mare oscuro, senza entrare in una di quelle grandi conchiglie, nelle quali ho veduto tante volte venire quelle creature dal color rossastro, delle quali [p. 147 modifica]vi ho parlato? — Noi ci rivedremo e ciò sarà nel mondo delle sofferenze. ― Vi ringrazio, vi ringrazio, rispose Immalia veggendolo internarsi tra i flutti. Lo straniero si contentò di rispondere: ci rivedremo. Due volte, prima di partire, gettò lo sguardo su questa bella ed innocente creatura. Un sentimento d’umanità fece trasalire il cuore di lui, ma ad un tratto si toglie dal seno con impeto la rosa appassita, e risponde al sorriso incantatore d’Immalia: ci rivedremo.