Istoria del Concilio tridentino/Libro secondo/Capitolo IV

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Libro secondo - Capitolo IV (aprile - giugno 1546)

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CAPITOLO IV

(aprile-giugno 1546).

[Quarta sessione: i due decreti dogmatici sulle Scritture canoniche e sull’edizione, interpretazione, uso dei libri sacri. — Lettura delle lettere di credenza degli oratori cesarei. — Critiche mosse in Germania ai lavori del concilio. — Istruzioni da Roma ai legati conciliari. — Il papa insiste per l’intervento dei prelati svizzeri al concilio. — Scomunica dell’elettore arcivescovo di Colonia. — In Germania si insiste per un concilio nazionale. — Tentativi della parte imperiale al concilio per rinviare la trattazione e decisione di materie dogmatiche. — Si fissa per la sessione successiva l’articolo del peccato originale. — Modifiche per sollecitare i lavori del concilio. — Riprendesi a trattare delle cattedre religiose e della predicazione. — Contrasto fra i vescovi e gli ecclesiastici regolari sui privilegi monacali nell’insegnamento religioso e nella predicazione. — Il papa mostrasi favorevole a conservarli, per limitare il potere vescovile. — Articoli luterani sul peccato originale. — Discussioni sulla natura, la trasmissione, le conseguenze, la cancellazione, la pena del medesimo. — Opinioni del Catarino, del Soto, del Marinari. — Difficoltá nella formazione del decreto. — Disputa tra domenicani e francescani sull’Immacolata Concezione: processo storico della questione.]

Ma venuto il giorno degli 8 aprile destinato alla sessione, fu celebrata la messa dello Spirito Santo da Salvator Alepo, arcivescovo di Torre in Sardegna, e fatto il sermone da frate Agostino aretino, generale de’ Servi; e presi paramenti pontificali e fatte le solite letanie e preci, furono letti li decreti dall’arcivescovo celebrante. Il primo de’ quali in sostanza contiene che la sinodo, mirando a conservar la puritá dell’Evangelio promesso dalli profeti, pubblicato da Cristo e predicato dagli apostoli come fonte d’ogni veritá e disciplina de costumi, la qual veritá e disciplina conoscendo contenersi nei libri e tradizioni non scritte, ricevute dagli apostoli dalla [p. 258 modifica] bocca di Cristo e dettategli dallo Spirito Santo e di mano in mano venute, ad esempio delli Padri riceve con ugual riverenza tutti li libri del vecchio e novo Testamento, e le tradizioni spettanti alla fede ed alli costumi, come venute dalla bocca di Cristo, o vero dallo Spirito Santo dettate e conservate nella chiesa cattolica. E posto il catalogo dei libri, conclude che se alcuno non li riceverá per sacri e canonici tutti intieri con le sue parti tutte, come sono letti nella chiesa cattolica e si contengono nell’edizione Vulgata, o vero scientemente e deliberatamente sprezzerá le tradizioni, sia anatema, acciò ognuno sappia che fondamenti la sinodo è per usare in confirmar li dogmi e restituir li costumi nella Chiesa. La sostanza del secondo decreto è che la Vulgata edizione sia tenuta per autentica nelle pubbliche lezioni, dispute e prediche ed esposizioni, e nessun ardisca rifiutarla. Che la Scrittura sacra non possi esser esposta contra il senso tenuto dalla santa madre Chiesa, né contra il concorde consenso dei Padri, se ben con intenzione di tener quelle esposizioni occulte; e li contravvenienti siano dagli ordinari puniti. Che l’edizione Vulgata sia stampata emendatissima. Che non si possino stampare, né vender, né tener libri di cose sacre senza nome dell’autore, se non approvati, facendo apparire l’approvazione nel frontispicio del libro, sotto pena di scomunica e pecuniaria, statuita dall’ultimo concilio lateranense. Che nessuno ardisca usare le parole della Scrittura divina in scurrilitá, favole, vanitá, adulazioni, detrazioni, superstizioni, incantazioni, divinazioni, sorti, libelli famosi; e li trasgressori siano puniti ad arbitrio dei vescovi. E fu determinato che la sessione seguente si tenesse a’ 17 giugno.

Dopo fu letto dal secretario del concilio il mandato delli oratori di Cesare, Diego di Mendoza e Francesco di Toledo, quello assente e questo presente; qual con brevi parole salutati tutti li padri per nome dell’imperatore, disse in sostanza: esser manifesto a tutto il mondo che Cesare non reputa alcuna cosa piú imperatoria quanto non solo defender il gregge di Cristo dagl’inimici, ma liberarlo dalli tumulti e sedizioni; [p. 259 modifica] per il che con gioconditá d’animo ha veduto quel giorno, quando è stato aperto il concilio dal papa pubblicato. La qual occasione volendo favorire con la potestá e autoritá sua, subito vi mandò il Mendoza, al quale, impedito ora per indisposizione, vi ha aggionto lui. Onde non restava se non pregar concordemente Dio che favorisca l’impresa del concilio e, quello che è il principale, conservi in concordia il pontefice e l’imperatore per fermar la veritá evangelica, restituir la sua puritá alla Chiesa ed estirpar il loglio del campo del Signore. Fu risposto per nome del concilio che la venuta di sua signoria era gratissima alla sinodo per l’osservanza verso l’imperatore e per il favore che dalla Maestá sua si promette, sperando anco molto nella virtú e religione di sua signoria; per il che l’abbraccia con tutto l’animo e ammette quanto debbe di ragione li mandati di Cesare. Si duole dell’indisposizione del collega, e della concordia tra il papa e l’imperatore rende grazie a Dio, qual pregherá che favorisca li desideri d’ambidua per aumento della cristiana religione e pace della Chiesa. Queste cose fatte, con le solite ceremonie fu finita la sessione; li decreti della quale furono mandati a Roma dalli legati, e poco dopo stampati.

Ma veduti, e massime in Germania, somministrarono gran materia alli ragionamenti. Era riputato da alcuni ardua cosa che cinque cardinali e quarantotto vescovi avessero cosí facilmente definito principalissimi e importantissimi capi di religione, sino allora indecisi, dando autoritá canonica a’ libri tenuti per incerti ed apocrifi, facendo autentica una translazione discordante dal testo originale, prescrivendo e restringendo il modo d’intendere la parola di Dio. Né tra quei prelati trovarsi alcuno riguardevole per dottrina; esserne alcuni legisti, dotti forse in quella professione, ma non intendenti della religione; pochissimi teologi, ma di sufficienza sotto l’ordinaria, il maggior numero gentiluomini o cortigiani. E quanto alle dignitá, esserne alquanti portativi, e la maggior parte vescovi di cittá cosí picciole, che rappresentando ciascuno il popol suo, non si poteva dire che rappresentassero un millesimo della [p. 260 modifica] cristianitá. Ma specialmente di Germania non esservi pur un vescovo, pur un teologo: possibile che in tanto numero non s’avesse potuto mandarne uno? Perché l’imperatore non far andar alcuno di quelli che erano intervenuti nelli colloqui e informati nelle differenze? Tra li prelati di Germania il solo cardinale di Augusta aver mandato procuratore, e quello un savoiardo, perché li procuratori del cardinale ed elettor magontino, intesa la morte del loro patrone, erano partiti due mesi prima.

Altri dicevano che le cose decise non erano di tanto momento quanto pareva, perché il capo delle tradizioni, che piú importante pareva, non rilevava ponto; prima, perché niente era statuir che si ricevessero le tradizioni, senza dir quali fossero e senza dar modo di conoscerle; poi, che manco vi era precetto di riceverle, ma solo si proibiva lo sprezzarle scientemente e deliberatamente, onde non contravveniva chi con parole reverenti le regettasse tutte. E massime essendovi l’esempio di tutti gli aderenti della corte romana, che non ricevono l’ordinazione delle diaconesse, non concedono reiezione delli ministri al populo, che certo è esser instituzione apostolica continuata per piú di otto secoli: e quello che piú importa, la comunione del calice da Cristo instituita, dagli apostoli predicata, osservata da tutta la Chiesa sino inanzi duecento anni, ed anco al presente da tutte le nazioni cristiane, fuorché dalla latina: che se questa non è tradizione, non vi è modo di mostrare che altra vi sia. E quanto all’edizione Vulgata dechiarata autentica, niente esser fatto, non sapendosi per la varietá degli esemplari quale ella sia. Ma quest’ultima opposizione nasceva da non sapere che giá in concilio era fatta la deputazione di chi dovesse stabilire un esemplare emendato per la vera edizione Vulgata; il che per qual causa non fosse effettuato, al suo luoco si dirá.

Ma veduti in Roma li decreti della sessione, e considerata l’importanza delle cose trattate, pensò il pontefice che il negozio del concilio era da tenir in maggior considerazione di quello che sino allora si era fatto; ed accrebbe il numero [p. 261 modifica] nella congregazione de’ cardinali e prelati, a’ quali aveva dato cura di considerare le cose occorrenti spettanti al concilio e riferirli: e per conseglio di questi la prima volta congregati, ammoni li legati di tre cose. L’una, di non pubblicar in sessione all’avvenire decreto alcuno senza averlo prima comunicato in Roma; e fuggir bene la soverchia tarditá nel camminar inanzi, ma guardarsi ancora maggiormente dalla celeritá, come quella che poteva farli risolver qualche materia indigesta e levarli il tempo di poter ricever gli ordini da Roma di quello che si dovesse proponer, deliberare e concludere. La seconda, di non consumar il tempo in materie che non sono in controversia (come pareva che avessero consumato nelle trattate) per la prossima sessione, nelle quali tutti sono d’accordo e che sono principi indubitati. La terza, di avvertire che non si venga mai, per qual causa si sia, alla disputa dell’autoritá del papa.

A che essi risposero con prontezza d’ubidire quanto Sua Santitá comandava, parendo però loro che nelle cose difinite vi sia non poca discrepanzia tra cattolici ed eretici, e che alcune delle Scritture del Testamento vecchio e novo, ricevute dal terzo concilio cartaginense, da Innocenzo I e da Gelasio, e nella sesta sinodo di Trullo e dal concilio fiorentino, sono rivocate in dubbio dalli eretici, e quello che è peggio da alcuni cattolici e cardinali; e ancora che le tradizioni non scritte erano impugnate da’ luterani, quali a nessuna cosa piú attendevano che ad annichilarle, con dar ad intender che ogni cosa necessaria alla salute sia scritta; e però, se ben questi due capi sono principi, sono ancora conclusioni delle piú controverse e delle piú importanti che si avessero a decider nel concilio. Aggionsero che sino allora non era venuto nessuna occasione di parlar dell’autoritá del papa né del concilio, se non nella trattazione del titolo, quando fu ricercato che vi si aggiongesse la rappresentazione della Chiesa universale. La qual cosa ancora molti desiderano; e nondimeno essi la declineranno quanto sará possibile. Ma quando fossero costretti di venir a questo, faranno instanza (stimando che non [p. 262 modifica] li potrá esser negato) di esprimere il modo come la rappresenta, cioè mediante il suo capo e non senza; onde piú tosto vi sará guadagno che perdita. Del rimanente, parendoli di veder segno che la maggior parte sia sempre per portar a Sua Santitá ogni riverenza, trovandosi lei come capo unita col corpo del concilio (il che sará sempre che si concordi nella riformazione), potrá stare con l’animo quieto che l’autoritá sua non sará posta in difficoltá.

Mandò dopo queste cose il pontefice noncio in svizzeri Geronimo Franco, dandoli lettere alli vescovi di Sion e di Coira, all’abbate di San Gallo e altri abbati di quelle nazioni; a’ quali scrisse che avendo chiamato tutti li prelati di cristianitá al concilio generale a Trento, era cosa conveniente che essi ancora, che rappresentano la chiesa elvetica, vi intervenissero, essendo quella nazione molto a lui diletta, come speciali figli della sede apostolica e defensori della libertá ecclesiastica. Che giá erano arrivati a Trento prelati d’Italia, Francia e Spagna, e il numero quotidianamente aumentarsi; però non esser condecente che essi vicini siano prevenuti dai piú lontani; il suo paese esser in gran parte contaminato dalle eresie, e però aver bisogno tanto piú del concilio. In fine li comanda per obedienzia e per il vincolo del giuramento e sotto le pene prescritte dalle leggi che debbino andarci quanto prima, rimettendosi a quel di piú che il suo noncio li averebbe detto.

E per le molte instanze fatte dal clero e dall’accademia di Colonia, aiutati dalli vescovi di Liege e di Utrecht ed anco dall’accademia di Lovania contra l’arcivescovo ed elettore di Colonia, venne alla sentenzia difinitiva, dichiarandolo scomunicato, privandolo dell’arcivescovato e di tutti gli altri benefici e privilegi ecclesiastici, assolvendo li populi dal giuramento della fedeltá promessa e comandandoli di non ubidirlo: e questo per esser incorso nelle censure della bolla di Leon X pubblicata contro Lutero e suoi seguaci, avendo tenuta e defesa e pubblicata quella dottrina contra le regole ecclesiastiche, le tradizioni degli apostoli e li consueti riti della cristiana religione: e la sentenzia fu dopo stampata in Roma. Fece [p. 263 modifica] anco un’altra bolla, commettendo che fosse ubidito Adolfo conte di Scauemburg, giá assonto dall’arcivescovo per suo coadiutore. E fece efficace ufficio con l’imperatore che la sentenza fosse esequita; il qual però non giudicò a proposito per le cose sue quella novitá, perché era un far unire l’arcivescovo alli altri collegati, il quale sino allora si teneva intieramente sotto la sua obedienzia; e l’ebbe per arcivescovo ed elettore, e trattò con lui nelli tempi sequenti, e li scrisse come a tale, senza rispetto della sentenzia pontificia. Il che penetrava nell’intimo al papa; ma non vedendovi rimedio, e giudicando imprudenza il lamentarsi vanamente, aggionse questa offesa alle altre che riputava ricevere dall’imperatore.

Fece quella sentenza un altro cattivo effetto: che li protestanti presero occasione di confirmare la loro opinione che il concilio non fosse per altro intimato che per trappolarli. Imperocché se la dottrina della fede controversa doveva esser esaminata nel concilio, come poteva il pontefice inanzi la definizione venir a sentenzia, e per quella condannar l’arcivescovo di eresia? Apparir per tanto che vanamente anderebbono a quel concilio dove domina il papa, il quale non può dissimulare, se ben volendo, d’averli per condannati. Ma vedersi ancora che quel concilio era in nissuna stima appresso il medesimo papa, poiché essendo quello giá principiato, senza pur darli parte alcuna, il solo pontefice metteva mano difinitivamente in quello che al concilio apparteneva. Le quali cose il duca di Sassonia fece per suoi ambasciatori significare all’imperatore, con dirli appresso che, vedendosi chiara la mente del pontefice, sarebbe tempo di provvedere alla Germania con un concilio nazionale, o con trattar seriamente le cose della religione in dieta.

Ma tornando alle cose conciliari, erano restati, come s’è detto, per reliquie delle cose trattate inanzi l’ultima sessione li due capi di provvedere alle lezioni della sacra Scrittura e predicazioni del verbo divino; per il che nella prima congregazione si trattò di questo; e anco per dare principio alla materia della fede si propose di trattar insieme del peccato originale. Al che s’opposero li prelati spagnoli, con dire che [p. 264 modifica] vi restava ben materia assai da trattare per una sessione, provvedendo ben agli abusi che erano nella predicazione e lezione. La qual opinione fu anco seguita dalli prelati italiani imperiali; e parve alli legati di scoprire che questo era ufficio fatto dalli ministri cesarei, i quali strettamente appunto avevano trattato con quei prelati. Per il che ne diedero avviso a Roma, da dove li fu risposto che vedessero di andar ritenuti sin tanto che s’avesse potuto dare loro risoluzione. Per il che essi usarono artificiosa diligenza, trattenendosi con la parte degli abusi senza venir a conclusione di essi, e senza far dimostrazione che volessero o non volessero incamminarsi nella materia del peccato originale. E cosí si continuò sino a Pasca.

La qual passata, il pontefice scrisse che si procedesse inanzi e fosse quella materia proposta. La lettera capitata a’ 2 di maggio pervenne a notizia di don Francesco, il quale, andando alla visita dei legati, usò molti artifici, ora mostrando di consegnare, ora di proponere parere in materia del proseguire la reforma, solamente a fine d’intendere la mente loro e persuaderli obliquamente a quello che disegnava. Ma vedendo di non far frutto, passò inanzi dicendo tanto apertamente quanto bastava, aver lettere dalla Maestá cesarea per quali li commetteva di procurare che per allora non si entri nei dogmi, ma si tratti la reforma solamente. A che risposero li legati con assai ragioni in contrario, e fra le altre con dire che non potevano farlo senza contravvenire alle bolle del papa, che proponevano queste due materie insieme, e a quello che si era stabilito in concilio di mandarle del pari, aggiongendo d’aver scritto a Sua Santitá che otto giorni dopo Pasca averebbono incominciato. Furono da ambidue le parti fatti diversi discorsi e repliche; e dicendo finalmente li legati di aver comandamento dal papa e non poter mancar del loro ufficio, disse don Francesco l’ufficio de’ buoni ministri essere il mantener l’amicizia tra’ principi e aspettare qualche volta la seconda commissione; il che sì come dalli legati non fu negato, cosí risposero che non si doveva voler da loro piú di quello che [p. 265 modifica] potessero far con loro onore. Di tutto ciò diedero al pontefice conto, aggiongendo averli detto il cardinale di Trento che, se si proponesse l’articolo del peccato originale, non passarebbe senza mala contentezza dell’imperatore, e che però, desiderando esser da una parte ministri di pace e concordia e dall’altra obedienti ai comandamenti di Sua Santitá, li era parso spedire quest’avviso in diligenzia, pregandola a non lasciarli errare; soggiongendo che, non venendo altra commissione, seguiterebbono il suo ultimo comandamento, sforzandosi di persuader a don Francesco e al Cardinal di Trento che l’articolo del peccato originale in Germania non sia piú per controverso, ma per accordato, apparendo ciò per l’ultimo colloquio di Ratisbona, dove Sua Maestá per il primo articolo da concordare ha fatto pigliar quello della giustificazione; ma per dar piú longo tempo che sará possibile, si tratteniranno tutti i giorni che potranno onestamente, con l’espedizione del residuo della sessione passata.

Si fece una congregazione per questo solo, di dar miglior forma come si dovesse procedere piú ordinatamente che per lo passato, cosí nel trattar la dottrina della fede come la materia della riforma; e furono distinte due sorti di congregazioni, una di teologi per discorrere sopra la materia di fede che si proponesse, e le loro opinioni fossero scritte da uno delli notari del concilio; e parlandosi della riforma, fossero, oltre li teologi, introdotti anco li canonisti, e queste congregazioni si tenessero in presenza delli legati, ma vi potessero però intervenir quei padri a chi piacesse per udire. Un’altra sorte di congregazione constasse delli prelati deputati a formar li capi o di dottrina o di riforma; i quali esaminati e secondo il parere piú comune ordinati, fossero proposti nella congregazione generale per sentir il voto di ciascuno, e secondo la deliberazione della maggior parte stabilire li decreti da pubblicar in sessione.

Seguendo quest’ordine, fu trattato delle lezioni e prediche, formando e riformando varie minute di decreti; né mai si trovò modo che piacesse a tutti, per esser interessati molto li [p. 266 modifica] prelati a volere che tutto dependesse dall’autoritá episcopale e che non vi fosse nessuna esenzione; e dall’altro canto volendo li legati mantenere li privilegi dati dal pontefice, massime a’ Mendicanti e alle universitá. E dopo molte dispute, essendo la materia assai dibattuta, credettero che nella congregazione delli i10 maggio dovessero esser tutti d’accordo. Ma riuscí in contrario, perché, se ben durò sino a notte, non si potè prender conclusione, in alcuni capi per la diversitá delli pareri tra li prelati medesmi, in altri perché li legati non volevano condescender all’opinione universale di levare o almeno moderare li privilegi. Opponevano alli vescovi che si movessero piú per interesse proprio che per ragione, che non tenissero conto del pregiudicio delli regolari, che troppo arditamente volessero correggere li concili passati e metter mano nei privilegi concessi dal papa. Né potȇro convenire, non tanto per la varietá delle opinioni e per l’interesse delli vescovi, ma ancora perché gl’imperiali procuravano ciò per mettere tempo, a fine che non si venisse alla proposizione dei dogmi. Né alli legati era ingrato che si temporeggiasse, essendo risoluti, se non li veniva vietato nella risposta che aspettavano da Roma, passar alla proposizione de’ dogmi e, come dicevano li suoi confidenti, chiarirsi quello che ne abbia a riuscire.

Ma per metter qualche fine alle cose trattate, fecero legger un sommario delle opinioni de’ teologi e canonisti dette in diverse congregazioni precedenti, dicendo che per essere li voti assai longhi, avevano scelto quello che li pareva essere di buona sustanza, acciocché si esaminasse e si dicesse sopra il parere. Ma Braccio Martello, vescovo di Fiesole, udito a leggere l’estratto, si oppose con perpetua orazione, dicendo essere necessario che la congregazione generale intendesse i voti e le ragioni di tutti, e che non li fossero lette raccolte e summari. E si estese in maniera (amplificando l’autoritá del concilio e la necessitá di ben informarlo, e la poca convenienza che era che alcuni soli fossero arbitri delle deliberazioni, o vero le risoluzioni venissero d’altrove), che li legati restarono [p. 267 modifica] assai offesi e ripresero il vescovo bene con affettata modestia, ma però assai pongentemente. E la congregazione fu licenziata.

Il giorno seguente mandarono li legati a dimandar al vescovo copia del ragionamento fatto da lui, e la mandarono a Roma, tassando il ragionamento come irriverente e sedizioso, aggiongendo che gli avevano fatto una modesta e severa reprensione, e che sarebbono anco passati piú inanzi, perché cosí il vescovo meritava, se non fosse stato il dubbio di attaccar qualche disputa aromatica, la qual potesse generar scissura; però che non è da lasciarlo impunito, per non accrescerli l’ardire di far in ogni congregazione il medesimo e peggio, rappresentando a Sua Santitá che ad ogni modo sará bene farlo partir da Trento, o per una via o per l’altra, e operare che non ritorni piú il vescovo di Chiozza, poco dissimile da lui, se ben per diverso andare. Era partito questo vescovo immediate dopo la sessione sotto pretesto d’indisposizione, ma in veritá per parole passate tra lui e il Cardinal Polo in congregazione nella materia delle tradizioni, avendo il vescovo parlato in difesa di fra’ Antonio Marinaro, e perciò conteso col cardinale; il che avendo dato occasione a lui di far querimonia che non vi fosse libertá nel concilio, si vedeva non esser in buona grazia delli legati e stare soggetto a qualche pericolo. Non contenti li legati dell’operato, per mortificare il vescovo di Fiesole e mantenere la cosa integra sino all’avviso di Roma (per poterla o cacciar inanzi o dissimulare, secondo che li fosse ordinato,) nella seguente congregazione li fece il Monte una ripassata addosso, concludendo che si lasciava per allora di attender ai casi suoi, essendo necessario occuparsi in cose di maggior importanza.

Ebbero risposta da Roma, quanto alli due vescovi, che opportunamente s’avrebbe rimediato; ma quanto alle cose da trattare che, quando s’attendesse all’appetito de’ principi, sarebbe far il concilio piú tumultuoso e le risoluzioni piú longhe e difficili, cercando ognuno di attraversar quella parte che non li piacesse o, col metter difficoltá in una cosa, intrattener [p. 268 modifica] l’altra. Però senza altro risguardo dassero mano al peccato originale, ma avvertendo di non valersi in modo alcuno di quella scusa che disegnavano usar con don Francesco, cioè che l’articolo del peccato originale non sia controverso in Germania, e usassero piuttosto termini generali, e con ogni sorte di riverenza verso l’imperatore. Li comandò oltra di ciò strettamente che intorno l’emendazione dell’edizione Vulgata non si dovesse passar piú inanzi, sinché la congregazione delli deputati sopra il concilio in Roma non avesse deliberato il modo che si deve tenere.

In esecuzione di quegli ordini, risoluti li legati di passar inanzi alla proposizione del peccato originale, fecero congregazione doi giorni continuatamente per risolvere li dui capi del leggere e predicare, inanzi che pubblicassero di voler trattar materia di fede, acciò, restando quei capi indecisi, non porgessero occasione agli imperiali di divertir da questa; e dalli deputati sopra l’edizione Vulgata si fecero portare tutto l’operato in quella materia, commettendo loro che non vi mettessero piú mano sino ad altro novo ordine. Tale era la libertá del concilio dependente dal pontefice nel tralasciare le cose incominciate e metter mano alle nove.

Nel trattar di lezioni e prediche, era generale querela dei vescovi, e massime spagnoli, che essendo precetto di Cristo che sia insegnata la sua dottrina, il che si esequisce con la predica nella chiesa e con la lezione a’ piú capaci, acciò siano atti ad insegnar al popolo, di tutto ciò la cura di sopraintendere a qualonque altro esercita quei ministeri debbe essere propria del vescovo; cosí aver instituito gli apostoli, cosí esser stato esequito dalli santi padri; al presente essere levato alli vescovi assolutamente tutto questo ufficio con li privilegi, si che non gliene resta reliquia; e questa essere la causa che tutto è andato in desordine, per esser mutato l’ordine da Cristo instituito. Le universitá con esenzioni si sono sottratte che il vescovo non può saper quello che insegnino, le prediche sono per privilegio date alli frati, quali non riconoscono in conto alcuno il vescovo, né li concedono l’intromettersene, [p. 269 modifica] in modo che alli vescovi resta levato affatto l’ufficio di pastore. E per il contrario quelli che nell’antichitá non erano instituiti se non per piangere li peccati, a’quali l’insegnare predicare era proibito espressamente e severamente, se l’hanno assonto, o vero gli è stato dato per ufficio proprio; e il gregge se ne sta senza né pastore né mercenario, perché questi predicatori ambulatori, che oggi sono in una cittá, dimani in un’altra, non sanno né il bisogno né la capacitá del populo, né meno le occasioni d’insegnarlo e edificarlo, come il pastor proprio che sempre vive col gregge e conosce li bisogni e le infirmitá di quello. Oltre che il fine di quei predicatori non è l’edificazione, ma il trar limosine o per sé propri o per li conventi loro; il che per meglio ottenere, non mirano all’utilitá dell’anima, ma procurano di dilettare e adulare e secondare gli appetiti, per potere trarne maggior frutto; e il populo, in luoco d’imparar la dottrina di Cristo, aprende o novitá o almeno vanitá. Lutero è stato uno di questi, qual se fosse stato nella cella sua a piangere, la Chiesa di Cristo non sarebbe in questi termini. Piú manifesto esser ancora l’abuso dei questori che vanno predicando indulgenze, de’ quali non potersi narrar senza lacrime li scandali dati negli anni precedenti: questi esser cosa evidente che non esortano ad altro che al contribuir danaro. Alli quali disordini unico rimedio è levar tutti li privilegi e restituir alli vescovi la cura loro d’insegnare e predicare, ed eleggersi per cooperatori quelli che conosceranno esser degni di quel ministerio e disposti all’esercitarlo per caritá.

In contrario di questo li generali de’ regolari e li altri dicevano che, avendo li vescovi e altri curati abbandonato affatto l’ufficio di pastore, sì che per piú centenara d’anni era stato il populo senza prediche nella chiesa e senza dottrina di teologia nelle scole, Dio aveva eccitato gli ordini mendicanti per supplire a questi ministeri necessari; nelli quali però non si erano intrusi da sé, ma per concessione del supremo pastore; al qual toccando principalmente il pascere tutto il gregge di Cristo, non si poteva dire che li deputati da lui [p. 270 modifica] per supplire alli mancamenti di chi era tenuto alla cura del gregge e l’aveva abbandonata abbiano occupato l’ufficio d’altri; anzi convien dire che se non avessero usato quella caritá, non vi sarebbe al presente vestigio di cristianitá. Ora avendo per trecento e piú anni vacato a questa santa opera col frutto che ne appariva, con titolo legittimo dato dal pontefice romano sommo pastore aver prescritto questi ministeri ed esser fatti propri loro, né averci dentro li vescovi alcuna legittima ragione; né poter allegar l’uso dell’antichitá per ripetere quell’ufficio, dal quale per tante centenara d’anni si sono dipartiti. L’affetto di acquistar per sé o per li monasteri esser mera calunnia, poiché dalle limosine non cavano per sé se non il necessario vitto e vestito: che il rimanente, speso nel culto di Dio in messe, edifici e ornamenti di chiese, cede in beneficio e edificazione del populo, e non in propria loro utilitá; che li servizi prestati dagli ordini loro alla santa Chiesa e alla dottrina della teologia, che non si ritrova fuori dei claustri, meritano che li sia continuato quel carico che altri non sono cosí sufficienti di esercitare.

Li legati, importunati da due parti, col conseglio delli piú ristretti con loro risolverono dar conto a Roma e aspettar risposta. Il pontefice rimesse alla congregazione, dove immediate fu veduto a che tendesse la pretensione dei vescovi, cioè a farsi ciascuno di essi tanti papi nelle diocesi loro. Perché, quando fosse levato il privilegio o esenzione pontificia e ognuno dependesse da loro e nessuno dal papa, immediate cesserebbe ogni ragione d’andar a Roma. Consideravano da tempo antichissimo aver li pontefici romani avuto per principal arcano di conservar il primato datogli da Cristo d’esimere li vescovi dagli arcivescovi, gli abbati dalli vescovi, e cosí avere persone obbligate a defenderlo. Esser cosa chiara che dopo l’anno seicento il primato della sede apostolica è stato sostenuto dalli monachi benedittini esenti, e poi dalle congregazioni di Clugni e Cistercio e altre monacali, sino che Dio eccitò gli ordini mendicanti, da’ quali è stato sostenuto sino a quell’ora. Onde tor via li privilegi di quelli esser [p. 271 modifica] direttamente oppugnar il pontificato e non quegli ordini; il levare l’esenzioni esser una manifesta depressione della corte romana, perché non averebbe mezzi di tenere tra i termini un vescovo che s’inalzasse troppo: però esser il papa e la corte da mera necessitá constretti a sostentare le cause dei frati. Ma per fare le cose con suavitá, considerarono anco essere necessario tener questa ragione in secreto, e fu deliberato di rispondere alli legati che onninamente conservassero lo stato de’ regolari e procurassero di fermare li vescovi col metter inanzi il numero eccessivo de’ frati e il credito che appresso la plebe hanno, e consegliarli a prendere temperamento e non causar un scisma col troppo volere. Esser ben giusto che ricevino qualche sodisfazione, ma si contentassero anco di darla; e quando si verrá al ristretto, concedessero ogni cosa quanto alli questori, ma quanto alli frati nessuna cosa si facesse senza participarla ai generali, e alli vescovi fosse data sodisfazione che in esistenza non levi li privilegi. L’istesso facessero delle universitá, essendo necessario aver queste e quelli per dependenti dal papa e non da vescovi.

Gionte le lettere in Trento, con tre fini diversi si camminava nel concilio, per il che poco venivano in considerazione gli altri particolari proposti in queste due materie da quelli che non erano interessati né a favore né contra le esenzioni. Fu proposto intorno alle lezioni da alcuni di questi di restituire l’uso antico, quando li monasteri e le canoniche non erano altro che collegi e scole, di che restano reliquie in molte cattedrali, dove è la dignitá dello scolastico, capo delli lettori, con prebenda, quali adesso non esercitano il carico, e sono conferite a persone inette per esercitarlo; e a tutti parve onesta e util cosa reintrodurre la lezione delle cose sacre e nelle cattedrali e nelli monasteri. Alle cattedrali pareva facile il provvedere dando cura dell’esecuzione a’ vescovi, ma alli monasteri difficile. Al dare sopraintendenza alli vescovi anco in questo si opponevano li legati, se ben de’ soli monachi e non de’ mendicanti si trattava, per non lasciar aprir la porta di metter mano nelli privilegi concessi dal papa. Ma a questo [p. 272 modifica] Sebastiano Pighino, auditor di rota, trovò temperamento con proporre che la sopraintendenza fosse data alli vescovi come delegati dalla sede apostolica. Piacque l’invenzione, perché si faceva a favor de’ vescovi il medesmo effetto senza derogazione del privilegio, poiché il vescovo, non come vescovo, ma come deputato dal papa doveva sopraintendere. Il qual modo diede esempio di accomodar altre difficoltá: l’una, nel dar autoritá alli metropolitani sopra le parrocchie unite alli monasteri non soggetti a diocesi alcuna; l’altra, nel dar potestá alli vescovi sopra li predicatori esenti che fallano; e anco servì molto nelli decreti delle sessioni seguenti.

Proponevano anco li canonisti che nelli tempi presenti poco conveniva la sottilitá scolastica di metter ogni cosa in disputa e versar piuttosto in cose naturali e filosofiche; che queste nove lezioni dovessero esser introdotte per trattar delli sacramenti e dell’autoritá e potestá ecclesiastica, come con molto frutto aveva fatto il Turrecremata e Agostino Trionfo, e dopo loro sant’Antonino e altri. Ma per la contradizione dei frati, che opponevano esser tanto necessaria questa quanto quella dottrina, si trovò temperamento di ordinare che le lezioni fossero per esposizione della Scrittura, poiché secondo l’esigenze del testo che fosse letto e della capacitá degli audienti s’averebbe applicata la materia.

Delle prediche, dopo molti discorsi fatti in piú congregazioni, si venne a stabilire il decreto; e per superar le difficoltá con uffici fecero, per mezzo de’ prelati loro confidenti, praticar li vescovi italiani, mettendo in considerazione quanto per onor della nazione fossero tenuti sostentar la dignitá del pontificato, dell’autoritá del quale si trattava mettendo mano nelli privilegi, e quanto potessero sperar dal pontefice e dalli legati, accomodandosi anco a quello che è giusto e non volendo privar li frati di quello che hanno per tanto tempo goduto. Esser cosa pericolosa disprezzar tanti soggetti litterati, in questi tempi che l’eresie travagliano la Chiesa: che allora si sarebbe accresciuta l’autoritá episcopale con concederli di approvar o reprovar li predicatori, quando fuori delle chiese [p. 273 modifica] del loro ordine predicano; e quando in quelle, con farli riconoscer il prelato, dimandando prima la benedizione. Che li vescovi potessero punire li predicatori per causa d’eresia e proibirli la predica per occasione di scandolo. Di questo si contentassero, ché alla giornata sarebbono aggionte altre cose. Con questi uffici acquistarono tanto numero che furono sicuri di stabilir il decreto con quelle condizioni. Ma restava un’altra difficoltá, perché li generali e li frati non si contentavano, e il disgustarli non pareva sicuro ed era dal papa espressamente proibito. Si diedero a mostrar loro che quanto era alli vescovi concesso era giusto e necessario; a che essi avevano dato occasione con estendere troppo li privilegi e passar li termini dell’onesto; Finalmente, con una particola monitoria alli vescovi di proceder in maniera che li frati non avessero occasione di lamentarsi, anco li generali s’acquietarono.

Quando scoprirono la risoluzione di condannar nella medesima sessione le opinioni luterane del peccato originale, allegarono che, per servar l’ordine di mandar insieme ambe le materie, era necessario trattare qualche cosa de fide, né potersi altrove incominciare; e proposero gli articoli estratti dalla dottrina de’ protestanti in quella materia, per esser dalli teologi nelle congregazioni esaminati e discussi se per eretici dovevano esser condannati. Il cardinale Paceco disse che il concilio non per altro ha da trattar gli articoli de fide, se non per ridur la Germania, e chi vorrá far questo fuori di tempo non solo non conseguirá il fine, ma fará peggiorar le cose. Quando l’opportunitá sia di farlo, non potersi saper in Trento, ma da chi siede al timone di Germania e, vedendo tutti li particolari, conosce anco quando sia tempo di dargli questa medicina. Pertanto consigliava che si ricercasse con lettere il parere del li principali prelati di quella nazione, inanzi che passar ad altro, o vero che il noncio apostolico ne parlasse con l’imperatore. Al qual parere aderirono li prelati imperiali, praticati dall’ambasciatore. Ma li legati, lodato il giudicio di quelli e promesso di scrivere al noncio, soggionsero che con tutto ciò gli articoli potevano esser dalli teologi disputati per [p. 274 modifica] avanzar tempo; a che aderì anco il cardinale e gli altri, sperando che molte difficoltá si potessero attraversare per far differir, e contentandosi l’ambasciator Toledo, purché passasse la state senza che si venisse a difinizione.

Gli articoli proposti furono:

I. Che Adamo per la transgressione del precetto ha perduto la giustizia e incorso l’ira di Dio e la mortalitá, e deteriorato nell’anima e nel corpo: da lui però non è transferito nella posteritá peccato alcuno, ma solo le pene corporali.

II. Che il peccato d’Adamo si chiama originale, perché da lui deriva nella posteritá, non per trasmissione, ma per imitazione.

III. Che il peccato originale sia ignoranza o sprezzo di Dio, o vero l’esser senza timor, senza confidenza in Sua Maestá e senza amor divino, e con la concupiscenza e cattivi desideri; ed universalmente una corruzione di tutto l’uomo nella volontá, nell’anima e nel corpo.

IV. Che nei putti sia una inclinazione al male della natura corrotta, sì che, venendo l’uso, della ragione produca un abborrimento delle cose divine e un’immersione nelle mondane; e questo sia il peccato originale.

V. Che li putti, almeno li nati da genitori fedeli, se ben sono battezzati in remissione delli peccati, non portano, per la descendenza loro da Adamo, peccato alcuno.

VI. Che il peccato originale nel battesmo non è scancellato, ma non imputato, o vero raso sì che incominci in questa vita a sminuirsi e nella futura sia sradicato totalmente.

VII. Che quel peccato rimanente nel battezzato lo retarda dall’ingresso del cielo.

VIII. Che la concupiscenza, chiamata anco fomite, la qual dopo il battesmo rimane, è veramente peccato.

IX. Che la pena principale debita al peccato originale è il fuoco dell’inferno, oltre la morte corporale e le altre imperfezioni a quali in questa vita l’uomo è soggetto.

Li teologi nelle congregazioni tutti furono conformi in dire che era necessario per discussione degli articoli non [p. 275 modifica] proceder con quell’ordine, ma esaminare metodicamente tutta la materia e vedere qual fu il peccato di Adamo, e che cosa da lui derivata nella posteritá sia peccato in tutti gli uomini, che si chiama originale; il modo come quello si trasmette, e in che maniera è rimesso.

Nel primo punto convennero parimente che, privato Adamo della giustizia, li affetti si resero rebelli alla ragione; il che la Scrittura suole esprimere dicendo che la carne rebella allo Spirito (e con un solo nome chiama questo defetto «concupiscenza») incorse l’ira divina e la mortalitá corporale minacciatagli da Dio, insieme con la spirituale dell’anima. E nondimeno nessuno di questi defetti può chiamarsi peccato, essendo pene conseguite da quello, ma formalmente il peccato esser la trasgressione del precetto divino. E qui molti s’allargarono a ricercare il genere di quel fallo, defendendo alcuni che fu peccato di superbia, altri di gola, parte sostennero che fu d’infedeltá: piú sodamente fu detto che si poteva tirar in tutti quei generi e in altri ancora; ma fondandosi sopra le parole di san Paulo, non si poteva mettere se non nel genere della pura inobedienza. Ma cercando che cosa derivata da Adamo in noi sia il peccato, furono piú diversi li pareri, perché sant’Agostino, che primo di tutti si diede a cercar l’essenza di quello, seguendo san Paulo disse che è la concupiscenza; e sant’Anselmo, molte centenara d’anni dopo lui, tenendo che nei battezzati il peccato è scancellato e pur la concupiscenza rimane, tenne che è la privazione della giustizia originale, la qual nel battesmo è renduta in un equivalente, che è la grazia. Ma san Tomaso e san Bonaventura, volendo congionger ambedue le opinioni e concordarle, considerarono che nella nostra natura corrotta sono due rebellioni: una della mente a Dio, l’altra del senso alla mente; che questa è la concupiscenza, e quella l’ingiustizia; e però ambedue insieme sono il peccato. E san Bonaventura diede il primo luoco alla concupiscenza, dicendo che è il positivo, dove la privazione della giustizia è il negativo. E san Tomaso per il contrario fece la concupiscenza parte materiale, la privazione della giustizia il [p. 276 modifica] formale; onde questo peccato in noi disse esser la concupiscenza destituita dalla giustizia originale. Il parer di sant’Agostino fu seguito dal Maestro delle sentenze e dalli scolastici vecchi, e in concilio fu defeso da due frati eremitani. Ma perché Gioanni Scoto sostenne la sentenzia di Anseimo suo conterraneo, li frati di san Francesco la defesero in concilio, e la maggior parte delli dominicani quella di san Tomaso: cosí fu dechiarato qual fosse il peccato di Adamo, e qual sia originale negli altri uomini.

Ma come sia da lui nelli posteri e successivamente di padre in figlio trasmesso, con maggior fatica fu discorso. Imperocché sant’Agostino, che aprí la strada agli altri (stretto dalla obiezione di Giuliano pelagiano, che lo ricercava del modo come si potesse trasmetter il peccato originale quando l’uomo è concetto, poiché è santo il matrimonio e l’uso di quello; non peccando né Dio, primo autore, né li genitori, né il generato: per qual fissura adonque entra il peccato?), altro non rispose sant’Agostino, se non che non era da cercar fissure dove si vedeva una patentissima porta, dicendo l’Apostolo che per Adamo il peccato è entrato nel mondo. E in piú luochi dove di ciò occorse parlare, sempre sant’Agostino si mostrò dubbioso, essendo anco irresoluto se, sí come il corpo del figlio deriva dal corpo del padre, cosí dall’anima anco l’anima derivasse; onde essendo infetto il fonte, per necessitá restasse anco il rivo contaminato. La modestia di quel santo non fu imitata dalli scolastici, li quali avendo accertato per indubitato che ciascun’anima sia creata immediate da Dio, dissero che la infezione era principalmente nella carne, la qual dai primi genitori nel paradiso terrestre fu contratta o dalla qualitá venenata del frutto o dal fiato venefico del serpe; la qual contaminazione deriva nella carne della prole, che è parte di quella delli genitori, e dall’anima è contratta nell’infusione, sí come un liquore contrae la mala qualitá dal vaso infetto; e l’infezione esser causata nella carne per la libidine paterna e materna nella generazione. Ma la varietá delle opinioni non causava differenza nella censura degli articoli, perché ciascuno [p. 277 modifica] inerendo nella propria, da quella mostrava restar deciso esser eretico il primo articolo, il qual senza dubbio fu anco per tale dannato nel concilio di Palestina, e in molti africani contra Pelagio; e reesaminato a Trento, non come ritrovato nelli scritti di Lutero o suoi seguaci, ma come asserito da Zuinglio. Il qual però ad alcuni delli teologi che discussero bene le sue parole pareva piuttosto che sentisse non essere nella posteritá d’Adamo peccato del genere di azione, ma corruzione e trasformazione della natura, che egli diceva peccato nel genere della sostanza.

L’articolo secondo fu stimato da tutti eretico. Fu giá inventato dall’istesso Pelagio, il quale per non esser condannato nel concilio di Palestina, per aver detto che Adam non aveva nociuto alla posteritá, si retrattò confessando il contrario; e dopo con li suoi dechiarò che Adamo aveva dannificato i posteri, non transferendo in loro peccato, ma dando cattivo esempio che nuoce a chi l’imita. Ed era notato Erasmo dell’aver rinnovato l’istessa asserzione, interpretando il luoco di san Paulo che il peccato fosse entrato nel mondo per Adamo e passato in tutti, in quanto gli altri hanno imitato e imitano la transgressione di quello.

Il terzo articolo, quanto alla prima parte fu censurato in Trento, come anco in Germania in molti colloqui, con dire che quelle azioni non possono esser il peccato originale, poiché non sono nelli putti né meno negli adulti in ogni tempo; onde il dire che altro peccato non vi fosse salvo quello, era un negarlo affatto, e non sodisfare l’iscusazione allegata da loro in Germania, che sotto nome delle azioni intendono un’inclinazione della natura alle cattive e una inabilitá alle buone; perché se cosí intendevano conveniva dirlo, e non parlar male, volendo che altri intendesse bene. E quantonque sant’Agostino abbia parlato in simil maniera, quando disse che la giustizia originale era ubidir a Dio e non aver concupiscenza, se egli fosse in questi tempi non parlerebbe cosí. Perché è ben lecito nominare la causa per l’effetto e questo per quella, quando sono propri e adequati; ma non è cosí in questo caso, imperocché [p. 278 modifica] l’originai peccato non è causa di quelle azioni cattive, se non aggiongendosi la mala volontá come principale. Ma quanto alla seconda parte dell’articolo dicevano che se li protestanti intendessero una corruzione privativa, l’opinione si poteva tollerare; ma intendono una sostanza corrotta, sí che la propria natura umana sia trasmutata in altra forma che quella in che fu creata; e reprendono li cattolici, quando chiamano il peccato privazione della giustizia, come un fonte senz’acqua. Ma dicono esser un fonte dove scaturiscono acque corrotte, che sono gli atti dell’incredulitá, diffidenza, odio, contumacia e amor inordinato di sé e delle cose mondane; e però conveniva dannar assolutamente l’articolo. E per l’istessa ragione ancora il quarto era censurato, con dire quella inclinazione esser pena del peccato, e non formalmente peccato: onde non ponendo altro che quella, si negava il peccato assolutamente.

Non è da tralasciar di raccontare che in queste considerazioni li francescani non si potevano contenere di esentar da questa legge la Vergine madre di Dio per privilegio speciale, tentando di allargarsi nella questione e provarlo; e li dominicani in comprenderla sotto la legge comune nominatamente, quantonque il Cardinal dal Monte con ogni occasione facesse intendere che quella controversia fosse tralasciata, ché erano congregati per condannar l’eresie, non le opinioni de’ cattolici.

Alla dannazione degli articoli non era chi repugnasse; ma fra’ Ambrosio Catarino notò tutte le ragioni per insufficienti, che non dichiarassero la vera natura di questo peccato. Lo mostrò con longo discorso, la sostanza del quale fu: esser necessario distinguer il peccato dalla pena di esso; ma la concupiscenza e la privazione della giustizia esser pene del peccato: esser adonque necessario che il peccato sia altro. Aggionse: quello che non fu peccato in Adamo è impossibile che sia peccato in noi; ma in Adamo nessuna delle due fu peccato, non essendo né la privazione della giustizia né la concupiscenza azioni di Adamo, adonque né meno in noi: e se in lui furono effetti del peccato, bisogna bene che negli altri siano effetti. Per la qual ragione non si può meno dire [p. 279 modifica] che il peccato sia inimicizia di Dio contra il peccatore, né quella di lui verso Dio, poiché sono cose consequenti il peccato e venute dopo quello. Oppugnò ancora quella transmissione del peccato per mezzo del seme e della generazione, dicendo che sí come quando Adam non avesse peccato, la giustizia sarebbe stata transfusa non per virtú della generazione, ma per sola volontá di Dio, cosí conveniva trovare altro modo di transfondere il peccato. Ed esplicò la sua sentenzia in questa forma: che sí come Dio statuí e fermò patto con Abramo e con tutta la sua posteritá, quando lo constituí padre de’ credenti, cosí quando diede la giustizia originale ad Adam e a tutta l’umanitá, pattuí con lui in nome di tutti un’obbligazione di conservarla per sé e per loro, osservando il precetto; il quale avendo transgredito, la perdette tanto per gli altri quanto per se stesso, ed incorse le pene anco per loro; le quali sí come sono derivate in ciascuno, cosí essa transgressione di Adamo è anco di ciascuno: di lui come di causa, degli altri per virtú del patto; sí che l’azione di Adamo, peccato attuale in lui, imputata agli altri, è il peccato originale, perché peccando lui peccò tutto il genere umano. Si fondò principalmente il Catarino, perché non può esser vero e proprio peccato se non atto volontario, né altro poter esser volontario che la transgressione di Adamo imputata a tutti. E dicendo san Paulo che tutti hanno peccato in Adamo, non si può intendere se non che hanno commesso l’istesso peccato con lui. Allegò per esempio che san Paulo agli ebrei afferma Levi avere pagato la decima a Melchisedech quando la pagò Abramo suo bisavo; colla qual ragione si debbe dire che li posteri violarono il precetto divino quando lo transgredi Adamo, e che fossero peccatori in lui sí come in lui ricevettero la giustizia. E cosí non fa bisogno ricorrere a libidine che infetta la carne, da quale l’anima ricevi infezione, cosa inintelligibile come uno spirito possa recever passione corporale. Che se il peccato è macchia spirituale nell’anima, non poteva esser prima nella carne; e se nella carne è corporale, non può nello spirito far effetto alcuno. Che poi un’anima per [p. 280 modifica] congiongersi a corpo infetto ricevi infezione spirituale, esser una transcendenza impercettibile. Il patto di Dio con Adamo lo provava per un luoco del profeta Osea, per un altro dell’Ecclesiastico e per diversi luochi di sant’Agostino. Il peccato di ciascuno esser il solo atto della transgressione di Adamo, lo provava per san Paulo, quando dice: «Per l’inobedienza d’un uomo molti sono fatti peccatori;» e perché non si è mai inteso nella Chiesa peccato esser altro che l’azione volontaria contra la legge, (ma altra azione volontaria non fu se non quella di Adamo), e perché san Paulo dice per il peccato originale esser entrata la morte: la qual non è entrata per altro che per l’attuale transgressione. E per prova principalissima portò che, quantonque Eva mangiasse il pomo prima di Adamo, però non si conobbe nuda né incorsa nella pena, ma solo dopo che Adamo ebbe peccato. Adonque il peccato di Adamo, sí come fu non solo proprio, ma anco d’Eva, cosí fu di tutta la posteritá.

Ma fra’ Dominico Soto per defesa dell’opinione di san Tomaso e degli altri teologi dalle obiezioni del Catarino portò una nuova dechiarazione, dicendo che Adam peccò attualmente mangiando il frutto vietato, ma dopo restò peccatore per una qualitá abituale che dall’azione fu causata, come per ogni azione cattiva si produce nell’anima dell’operante una tal disposizione, per quale, anco passato l’atto, resta e vien chiamato peccatore. Che l’azione di Adamo fu transitoria, né ebbe essere se non mentre egli operò; che la qualitá abituale rimanente in lui passò in la posteritá e in ciascuno si transfonde propria. Che l’azione di Adamo non è il peccato originale, ma quell’abituale conseguente, e questa chiamano li teologi «privazione della giustizia». Il che si può esplicar considerando che l’uomo si chiama peccatore, non solo mentre attualmente transgredisce, ma ancora dopo, sin tanto che il peccato non è scancellato; e questo non per rispetto delle pene o altre consequenze al peccato, ma per rispetto della transgressione medesima precedente, sí come quello che fa l’uomo curvo sin tanto che non si ridrizza, e si dice tale non per l’azione [p. 281 modifica] attuale, ma per quell’effetto restato dopo quella passata, assomigliando il peccato originale alla curvitá, come veramente è un’obliquitá spirituale: essendo tutta la natura umana in Adamo, quando egli per la trasgressione del peccato si incurvò, tutta la natura umana, e per consequente ogni singolar persona, restò incurvata, non per la curvitá di lui, ma per una propria a ciascuno, per la quale è veramente curvo e peccatore, sin tanto che per la grazia divina non si ridrizza.

Queste due opinioni furono parimente disputate, pretendendo ciascuno che la sua dovesse esser ricevuta dalia sinodo. Ma nella considerazione in che maniera il peccato originale sia rimesso, furono concordi in dire che per il battesmo viene scancellato, e resa l’anima cosí monda come nello stato dell’innocenza, quantonque le pene conseguenti il peccato non siano levate, acciò servino alli giusti per esercizio. E questo tutti lo dechiaravano con dire che la perfezione di Adamo consisteva in una qualitá infusa, la qual rendeva l’anima ornata, perfetta e grata a Dio, e il corpo esente dalla mortalitá; e per il merito di Cristo, Dio dona a quelli che per il battesmo rinascono un’altra qualitá chiamata «grazia giustificante», che scancellando ogni macchia nell’anima la rende cosí pura come quella di Adamo; anzi in alcuni particolari fa effetti maggiori che la giustizia originale, solo che non ridonda nel corpo, onde la mortalitá e gli altri naturali defetti non sono emendati. Erano allegati molti luochi di san Paulo e degli altri apostoli, dove dicono che il battesmo lava l’anima, che la monda, che l’illumina, che la purifica, che non vi resta alcuna dannazione né macola né ruga. Fu con molta accuratezza trattato come, se li battezzati sono senza peccato, quello possi passar ne’ figli. A che Agostino con soli esempi rispose come dal circonciso padre nasce il figlio incirconciso e dall’uomo cieco ne nasce un oculato, e dal grano mondo nasce il vestito di paglia. Il Catarino rispondeva che con solo Adam fu statuito il patto, e ciascun uomo ha il peccato per imputazione della transgressione di Adamo, onde li intermedi genitori non hanno che fare; e se il frutto vietato, non da Adamo, ma da alcun suo [p. 282 modifica] figlio fosse stato mangiato, la posteritá di quello però non averebbe contratto peccato; e se Adamo avesse peccato dopo generati figli, ad essi, quantonque nati innanzi, sarebbe stato imputato il peccato di Adamo. Contra di che Soto disputò che se Adamo avesse peccato dopo nati figli, quelli non sarebbono stati soggetti, ma siíben li nepoti nati di loro.

Fu comune voce che ’l sesto articolo è eretico, perché nelli battezzati asserisce rimaner cosa degna di dannazione; e il settimo, per lasciar nel battezzato reliquie di peccato; e piú chiaramente l’ottavo, mentre pone la concupiscenza nei battezzati esser peccato. Solo fra’ Antonio Marinaro carmelitano, non discordando dagli altri in affermare che ’l peccato è scancellato per il battesmo e che la concupiscenza è peccato innanzi, considerò nondimeno, quanto al dannar il contrario di eresia, che sant’Agostino giá vecchio, scrivendo di questa materia a Bonifacio, disse chiaramente che la concupiscenza non era peccato, ma causa ed effetto di esso. E contra Giuliano con parole non meno chiare disse che era peccato, causa di peccato ed effetto ancora; e pure nelle retrattazioni non fece menzione né dell’una né dell’altra di queste proposizioni contrarie: argomento che riputasse ciò non appartenere alla fede e potersene parlar in ambidua li modi, essendo la differenzia piuttosto verbale che altro. Imperocché altra cosa è ricercare se una cosa sia in sé peccato, o vero se sia peccato ad una persona escusata; come se alcuno, andando alla caccia necessaria per il suo vivere, pensando uccidere una fiera, per ignoranza invincibile uccidesse un uomo, li giuriconsulti dicono che l’azione è omicidio e delitto, ma il cacciator è scusato, sí che non è peccato a lui per la circonstanza dell’ignoranza. Cosí la concupiscenza, essendo la medesma inanzi e dopo il battesmo, in se stessa è peccato, e san Paulo dice che anco nelli renati repugna alla legge di Dio, e tutto quello che alla legge divina s’oppone è peccato. Ma il battezzato è iscusato per l’esser vestito di Cristo, sí che in un modo è vero l’articolo, nell’altro falso, e non è giusto condennar una proposizione che abbia un buon senso, senza prima distinguerla. Il qual [p. 283 modifica] parere fu da tutti reprovato, con dire che sant’Agostino pose due sorti di concupiscenza: quella che è inanzi il battesmo, la qual è una repugnanza della volontá alla legge di Dio, quale ebbe per il peccato, e nel battesmo scancellarsi; ed un’altra, che è repugnanza del senso alla ragione, che resta anco dopo il battesmo, la qual Agostino disse effetto e causa, ma non mai peccato; e quando pare che il contrario dica, convien tenere per fermo la mente di Agostino esser che la concupiscenza sia peccato, che nel battesmo resti d’esser tale e divenga esercizio di virtú e buone opere.

Il frate, attesa questa sua opinione, essendoli aggionte le cose dette nelli sermoni fatti da lui nella messa della quarta domenica dell’advento precedente e in quella della quaresima (esortando a mettere la total fiducia in Dio e dannando ogni confidenza nelle opere, e affermando che li atti eroici degli antichi, tanto lodati dagli uomini, erano veri peccati; della differenza ancora della Legge e dell’Evangelio parlando non come de dua tempi, ma come che sempre vi sia stato Evangelio e sempre vi debbia esser Legge; e della certezza della grazia ancora, se ben con qualche clausule ambigue e artificiose, sí che non si averebbe potuto riprenderlo che non si fosse difeso), entrò in sospetto di alcuni che non fosse a fatto alieno dalla dottrina dei protestanti.

Come si venne all’articolo della pena, se ben sant’Agostino, fondatosi sopra san Paulo, professatamente tenne convenirli la pena del fuoco infernale, eziandio nelli fanciulli, e da nessuno delli santi padri fu detto in contrario, con tutto ciò il Maestro [delle sentenze] con li scolastici, che seguono piú le ragioni filosofiche, distinsero due sorti di pene eterne: una, la sola privazione della beatitudine celeste, e l’altra il castigo: e la prima sola diedero al peccato originale. Dall’universal parere de’ scolastici si partí solo Gregorio d’Arimino, che perciò dalle scole si acquistò il titolo di «tormento dei putti»; ma né esso né sant’Agostino furono difesi dalli teologi nelle congregazioni. Un’altra divisione però fu tra loro, volendo li dominicani che li fanciulli morti senza battesmo inanzi l’uso di ragione [p. 284 modifica] dovessero dopo la resurrezione restar nel limbo e tenebre in sotterraneo luoco, ma senza fuoco; li franciscani, che sopra terra e alla luce. Alcuni anco affermavano che fossero per filosofare e occuparsi nella cognizione delle cose naturali, e non senza quel gran piacere che segue quando con invenzione si empie la curiositá. Il Catarino aggiongeva di piú: che saranno dalli santi angeli e dagli altri beati visitati e consolati. E tante vanitá volontarie furono in questo dette, che potevano dar gran materia di trattenimento. Ma per la riverenza di sant’Agostino, e acciò non fosse dannato Gregorio d’Arimino, fecero gli agostiniani grand’instanza che l’articolo, quantonque falso, come tenevano, non dovesse esser condannato per eretico, se ben il Catarino s’adoperò con ogni spirito, acciò fosse fatta dechiarazione, a fine (diceva egli) di reprimere l’ignoranza e audacia di qualche predicatori, che con grande scandolo del populo predicano quella dottrina; e affermando che sant’Agostino aveva parlato cosí per calore della disputa contra li pelagiani, non che avesse quell’opinione per certa. Onde dopo che dal comun consenso delle scole era certificata la veritá in contrario, e che li luterani hanno eccitato l’istesso errore, e li cattolici medesimi v’incorrono, esser necessaria la dechiarazione della sinodo.

Finita la censura delli teologi, e trattandosi le materie tra li padri per risolvere la forma del decreto, li vescovi, pochissimi de’ quali avevano cognizione della teologia, ma erano o iurisconsulti o litterati di corte, si trovarono confusi per il modo scolastico di trattar le materie, pieno di spine, e nelle diversitá delle opinioni non potevano formar giudicio per conto dell’essenza del peccato originale. Piú di tutte era intesa quella del Catarino, per esser espressa col concetto politico di patto fatto da uno per la sua posteritá, che transgresso, senza nissun dubbio l’obbliga tutta, e molti delli padri la favorivano; ma vedendo la contradizione degli altri teologi, non ardirono riceverla. Quanto alla remissione del peccato, questo solo tenevano per chiaro, che inanzi il battesmo ognuno ha il peccato originale, e da quello per il battesmo è mondato perfettamente; [p. 285 modifica] però concludevano che questo tanto si dovesse stabilire per fede e ’l contrario dannar per eresia, insieme con tutte quelle opinioni che negano in qual si voglia modo il peccato originale; ma che cosa quello sia, essendo tante differenze tra li teologi, non esser possibile difinirlo con tanta circonspezione, che si dia sodisfazione a tutti, e non si condanni l’opinione di qualcuno con pericolo di causar qualche scisma.

A questa universal inclinazione erano contrari Marco Viguerio, vescovo di Sinigallia, e fra’ Geronimo, general di Sant’Agostino, e fra’ Andrea Vega, franciscano teologo. Questi piú di tutti mostrava non esser conveniente né mai usato da alcun concilio condannar una opinione per eretica, senza asserir prima qual sia la cattolica. Nessuna negativa vera aver in sé la causa della sua veritá, ma esser tale per la veritá d’un’affermativa; né mai alcuna proposizione essere falsa, se non perché un’altra è vera, né potersi saper la falsitá di quella da chi non sa la veritá di questa. Imperò non potersi condannar per eresia l’opinione de’ luterani da chi non asserisce quella della Chiesa. Chi osserverá il modo di procedere di tutti li concili che hanno trattato materia di fede, vederá quelli aver prima fatto il fondamento ortodosso e con quello dannate le eresie. Cosí esser necessario far al presente: perché quando si leggerá che la sinodo tridentina ha dannato l’asserzione luterana, che dice l’original peccato esser l’ignoranza e sprezzo, diffidenza e odio delle cose divine, e una corruzione di tutto l’uomo nella volontá, nell’anima e nel corpo, chi sará quello che non ricercherá subito che cosa adonque sia, e che non dica in se stesso: «Qual’è adonque la sentenzia cattolica, se questa è eretica?» E vedendo dannata l’opinione di Zuinglio che li putti figli de fedeli sono battezzati in remissione delli peccati, non però è trasmesso cosa alcuna da Adamo se non le pene e la corruzione della natura, non ricerchi subito: «Che altra cosa adonque è trasmessa?» In somma concludeva esser il concilio congregato principalmente per insegnar la veritá cattolica e non solo per condannar l’eresia. Diceva il vescovo che, essendosi di questi articoli tante volte disputato [p. 286 modifica] nelle diete di Germania, dal concilio ognuno averebbe aspettato una dottrina lucida e chiara e resoluta di tutte le difficoltá. Il general ancora, se ben era in qualche sospetto che parlasse per subornazione dell’ambasciator Toledo, aggiongeva che la dottrina vera e cattolica del peccato originale è nelli scritti di sant’Agostino; che Egidio di Roma ne aveva scritto un libro proprio; che quando li padri avessero voluto prender un poco di leggier fatica, averebbono compresa la veritá e potuto darne giudicio; non doversi lasciar uscir fama che in Trento in quattro giorni s’abbia risoluto quello che in Germania è stato cosí longamente senza conclusione discusso.

Non erano questi avvertimenti uditi, perché li prelati non avevano speranza di poter con studio informarsi delle spinositá scolastiche, né li dava l’animo di mettersene alla prova; e perché li legati, avendo da Roma ricevuto assoluto comandamento di differir questa materia nella sessione prossima, erano costretti ad evitar le difficoltá, e massime che ’l Cardinal del Monte era risoluto di far quel passo onninamente: e però, chiamati a sé li generali degli ordini e li teologi Catarino e Vega che piú degli altri parlavano, impose loro che dovessero, scansate le difficoltá, aiutare l’espedizione.

Li prelati deputati a formar il decreto con l’aiuto dei teologi divisero la materia in cinque anatematismi: il primo, del personal peccato di Adamo; il secondo, della transfusione nella posteritá; il terzo, del rimedio per il battesmo; il quarto, del battesmo dei putti; il quinto, della concupiscenza rimanente dopo quello. Erano dannate le opinioni de’ zuingliani ne’ quattro primi, e nel quinto quella di Lutero. Furono quasi con tutti conferiti, e levato e aggionto secondo gli avvertimenti con molta concordia; se non che li vescovi e frati dell’ordine di San Francesco non approvarono che universalmente si dicesse il peccato di Adamo esser passato in tutto il genere umano, perché veniva compresa la beata Vergine madre di nostro Signore, se specialmente non era eccettuata, e instavano per l’eccezione. In contrario dicevano li dominicani che la proposizione cosí universale e senza eccezione era di san Paulo [p. 287 modifica] e di tutti li santi dottori; però non conveniva con eccezione alterarla. E riscaldandosi la contradizione, recaderono nella questione che li legati più volte avevano divertita. Questi dicevano che quantunque la Chiesa abbia tollerato l’opinione della Concezione, nondimeno chi ben esaminasse la materia troverebbe che né meno la beata Vergine fu esente dalla comune infezione; e gli altri opponevano che sarebbe stato un condannar la Chiesa che celebra la Concezione come immaculata, e un’ingratitudine derogando all’onor dovuto a quella per il cui mezzo passano tutte le grazie di Cristo a noi. Passarono le dispute a specie di contenzione, e tanto oltre che l’ambasciator cesareo venne in speranza di ottener il suo disegno che la materia non si potesse propor nella seguente sessione.

Ma perché molte cose furono in quell’occasione proposte e fecero venir al decreto che si dirá, il qual diede da parlare, per intiera intelligenza del tutto è necessario dal suo principio narrar l’origine di questa controversia.

Dopo che l’impietá di Nestorio divise Cristo, facendo due figli e negando che il generato dalla beata Vergine fosse Dio, la Chiesa, per inculcare nella mente dei fedeli la veritá cattolica, introdusse di replicarla frequentissimamente nelle chiese, cosí di oriente come di occidente, con questa breve forma di parole: in greco Maria Theotocos, in latino Maria mater Dei; il che, instituito in onore di Cristo solamente, pian piano si comunicò anco alla Madre, e finalmente fu ridotto a lei sola. E per la stessa causa, quando furono frequentate le immagini, si dipinse Cristo fanciullo in braccio della Vergine, per rammemorare la venerazione a lui dovuta anco in quell’etá: passò nondimeno in progresso la venerazione della Madre senza il Figlio, restando egli nella pittura per appendice. Li scrittori e predicatori, massime contemplativi, tratti dal torrente del volgo che molto può in queste materie, tralasciato di parlar di Cristo, a concorrenza inventarono nove lodi ed epiteti e servizi religiosi, tanto che circa il 1050 fu anco instituito un officio quotidiano, distinto per sette ore canoniche, alla beata Vergine, [p. 288 modifica] nella forma che da antichissimo tempo era sempre consueto celebrarsi in onore della Maestá divina. E nelli cento anni seguenti s’aumentò tanto la venerazione, che si ridusse al colmo, e sino all’attribuirgli quello che le Scritture dicono della divina Sapienza; e tra le novitá inventate fu una questa: la total esenzione del peccato originale. Quella però restava solamente nelle opinioni d’alcuni pochi privati, senza aver luoco nelle ceremonie ecclesiastiche né appresso gli uomini dotti. Circa il 1136 li canonici di Lione ardirono d’introdurla negli uffici ecclesiastici. San Bernardo, che in quei tempi viveva, stimato il piú dotto e pio di quel secolo, e nelle lodi della beata Vergine frequentissimo, sino a darli titolo di collo della Chiesa pel quale passa dal capo ogni grazia e ogni influsso, inveí severamente contra li canonici, scrisse loro riprendendoli d’aver introdotto novitá pericolosa senza ragione, senza esempio dell’antichitá; che non mancano luochi da lodare la Vergine, a quale non può piacer una novitá presuntuosa, madre della temeritá, sorella della superstizione, figlia della leggerezza. Il secolo seguente ebbe li dottori scolastici di ainbidue gli ordini, dominicano e franciscano, che nelli loro scritti rifiutarono questa opinione, sino intorno al 1300, quando Giovanni Scoto franciscano, posta la materia in disputa ed esaminate le ragioni, ricorse alla divina potestá, dicendo Dio aver potuto fare che mai fosse in peccato, o che vi fosse solo per un istante, e anco che gli sottogiacesse per tempo; che Dio solo sa qual di questi tre sia avvenuto; esser cosa probabile nondimeno attribuir a Maria il primo, se però non repugna all’autoritá della Chiesa e della Scrittura. La dottrina di questo teologo, nelli suoi tempi celebre, fu comunemente seguita dall’ordine francescano; ma nel particolare della Concezione, vedendo la via aperta dal suo autore, affermò assolutamente per vero quello che da lui fu proposto per possibile e probabile, sotto condizione dubitativa, se non ripugni alla fede ortodossa. Li dominicani constantemente repugnavano, per seguir san Tomaso del loro ordine, celebre per dottrina e per l’approbazione di papa Giovanni XXII, il quale [p. 289 modifica] papa, a fine di deprimere l’ordine franciscano, che in gran parte aderiva a Ludovico bavaro imperatore scomunicato da lui, celebrava e canonizzava quel dottore e la dottrina sua. L’apparenza della pietá e devozione fece che all’universale fu piú accetta l’opinione franciscana, e ricevuta tenacemente dall’universitá di Parigi, che era in credito di dottrina molto eminente; e poi dal concilio di Basilea, dopo longa ventilazione e discussione, approvata, e proibito il predicare e insegnare la contraria; il che ebbe luoco in quelle regioni che ricevettero quel concilio. Finalmente papa Sisto IV, franciscano, in questa materia fece due bolle: una del 1476, approvando un novo officio composto da Leonardo Nogarola protonotario, con indulgenze a chi lo celebrava e assisteva; l’altra del 1483, dannando per falsa ed erronea l’asserzione che sia eresia tener la Concezione o peccato il celebrarla, e scomunicando li predicatori e altri che notassero d’eresia quella opinione o la contraria, per non esser ancora deciso dalla chiesa romana e sede apostolica. Questo però non sopí le contenzioni, le quali tra questi due ordini de frati s’inasprivano sempre maggiormente; e ogni anno al decembre si rinnovavano, tanto che papa Leon X pensò di remediar con difinire la controversia, e fece scrivere a diversi. Ma ebbe poi pensieri piú importanti per le novitá di Germania, le quali anco operarono in queste contenzioni quello che avviene nelli stati, che, assediata la cittá, le fazioni cessano, e tutti s’uniscono contra il comun nemico. Fondavansi li dominicani sopra la Scrittura e la dottrina de’ Padri e de’ scolastici piú vecchia, dove per gli altri non si trovava pur un ponto in favore, ma per sé allegavano miracoli ed il consenso delli populi. Diceva fra’ Gioanni da Udine dominicano: «O voi volete che san Paulo e li Padri abbiano creduto questa vostra esenzione della Vergine fuori della comune condizione, o no. Se l’hanno creduta, e pur hanno parlato universalmente senza mai far menzione di questa eccezione, imitateli anco adesso; ma se essi hanno creduto il contrario, la vostra è una novitá». Fra’ Gerolamo Lombardello franciscano diceva non esser minor [p. 290 modifica] l’autoritá della Chiesa presente che della primitiva: se il consenso di quella nelli tempi suoi indusse a parlar senza eccezione, il consenso di questa, che si vede nel celebrar la festa per tutto, debbe indur a non tralasciarla.

Li legati scrissero a Roma la mirabil concordia di tutti contra la dottrina luterana e la deliberazione presa di condannarla, e mandarono copia delli anatematismi formati, avvisando insieme la contenzione eccitata per la Concezione. A che da Roma fu risposto che per nessuna causa si mettesse mano a quella materia, che poteva causare un scisma tra’ cattolici, ma cercassero di metter pace tra le parti e dar sodisfazione ad ambedue; e sopra tutto conservar in vigore il breve di Sisto IV. Li legati, ricevuto l’ordine, ed essi medesimi e per mezzo delli prelati piú prudenti persuasero ambe le parti a deporre le contenzioni e attender unicamente contra luterani; quali si contentarono di metter il tutto in silenzio, mentre che non fosse fatto pregiudicio all’opinione sua. Però li francescani dicevano che il canone era contra di loro, se la Vergine non era eccettuata; li dominicani che, se era eccettuata, essi erano condannati. Si vide necessitá di trovar modo come si dechiarasse non compresa né affermativamente eccettuata; che fu, dicendo non aver avuto intenzione di comprenderla, né meno di eccettuarla. Poi per la grand’instanza de’ francescani si contentarono anco gli altri, che si dicesse solamente non aver avuto intenzione di comprenderla: e per ubidir al papa s’aggionse che si servassero le constituzioni di Sisto IV.