Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo II/Libro IV/Capo III

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Capo III - Oratori, Retori e Gramatici

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Capo III.

Oratori, Retori e Gramatici.

I. A dare una giusta idea dello stato a cui eran gli studi e le belle lettere a questi tempi in Italia, sembrami opportuno il prender incominciamento non dalla poesia, come finora abbiam fatto, ma dall’eloquenza, alla quale siamo or costretti per la scarsezza della materia a congiungere ancora tutto ciò che appartiene alle pubbliche scuole, e a’ professori di eloquenza e di gramatica. Perciocchè in tal modo veggendo chi eran coloro che servivano agli altri di esempio e di guida, avremo a maravigliarci meno al rimirare le funeste rivoluzioni che ne soffriron gli studi. Noi vedremo la letteratura italiana, singolarmente in Roma, conservare ancora una cotaa’apparenza di maestà e di grandezza, e rivolgere a sè tuttora gli occhi e l’ammirazione degli stranieri; ma realmente decadere vieppiù ogni giorno, e non ostante lo sforzo e l’industria di alcuni protettori e fomentatori delle belle arti accostarsi alla sua estrema rovina. [p. 613 modifica]QUARTO 6 I 3 II. E per cominciare da’ pubblici professori di eloquenza che furono in Roma, noi ne troviamo parecchi de’ quali gli autori loro contemporanei ci dicon gran lodi, talchè noi gli crederemmo quasi rivali di Cesare e di Cicerone. Ma le loro opere che ci sono rimaste, ci fan conoscere doversi detrarre molto da cotai lodi, e ci mostrano che il buon gusto era allora così universalmente corrotto, che grandissimi encomj facevansi di tali scrittori, i quali a’ tempi di Augusto se avessero usato di quello stile e di quel gusto che in essi veggiamo, non sarebbono stati uditi che con disprezzo. Uno di essi è il celebre Mario Vittorino africano, di cui già abbiam veduto di sopra che allor quando Giuliano fece comandamento che i professori cristiani dovessero abbandonare le loro cattedre, egli senz’altro lasciò quella di eloquenza che teneva in Roma. S. Agostino lo esalta con somme lodi (l. 8 Conf. c. 2), e il chiama vecchio dottissimo e versatissimo in tutte le arti liberali, che molti libri de’ filosofi avea letti e esaminati e rischiarati, e alcune opere di Platone singolarmente recate in lingua latina, maestro di tanti nobili senatori, e che per la fama del suo magistero avea meritato e ottenuto l’onor di una statua nel Foro di Traiano. Quindi soggiugne che allora era ancor Vittorino idolatra, e descrive poscia come per opera di S. Simpliciano ei venisse alla Fede, cui dopo aver seguito per alcun tempo occultamente, ne fece poi nella Chiesa pubblica professione. Della stima in cui era presso i Romani Mario Vittorino, e della statua innalzatagli fa n. Professori d’eloquenti in Roma; Mario Vittorino. [p. 614 modifica]Gl 4 LIBRO Le.sLimouianza ancor S. Girolamo. Il P. Caraffa citando questo passo della Cronaca così lo legge (Hist. Gymn. Rom. t. 1, p. 84): Victorinus rhetor, et Donatus grainmaticus magi stri et praeceptores im i Romac insignes habebantur. Ma realmente S. Girolamo ha così: flirto rinus Rhelor, et Donatus gramaticus praeceptor meus Romae insignes habentur. E altrove egli dice bensì (Praef. Comment. in Ep. ad Galat.) che Vittorino faceva scuola di rettorica in Roma; ma ch’egli ne fosse stato scolaro, nol dice mai. Or questa sì grande stima che avevasi di Vittorino, ci potrebbe far credere eh’ei fosse veramente colto ed elegante scrittore. E nondimeno le Opere che ne abbiamo, cel mostrano assai inferiore alla fama. Alcune di esse appartengono alla rettorica e alla gramatica, e sono state stampate nelle Raccolte de’ retori e de’ gramatici antichi, fra le quali abbiamo un comento sui due libri dell’Invenzione di Cicerone. Altre hanno argomento sacro, e fra esse quattro libri contro gli Ariani, due opusculi pubblicati dal P. Sirmondo (t. 1 ejus Op.), e alcuni altri che veggonsi nella Biblioteca de’ Padri (t. 4 edit. Lugd.), oltre alcuni comenti sulle Epistole di S. Paolo, di cui si cita dallo stesso P. Sirmondo un codice mss.; finalmente un poemetto su’ sette Martiri Maccabei (V. Ceillier t. 6, p. 26). Or in tutte queste opere, e nelle dogmatiche singolarmente, vedesi uno stile rozzo, incolto e oscuro, ch’io non so intendere come potesse aver sì gran plauso 5 oltreché S. Girolamo lo riprende (l. cit.), perchè non avendo egli fatto studio sulla Sacra Scrittura, [p. 615 modifica]QUARTO 6l5 volesse nondimeno trattar questioni di religione e di dogma. Quando ei morisse, non si può affermare precisamente. Come però S. Agostino ne parla qual d’uomo già trapassato, quando egli si volse a Dio, convien dire che ciò accadesse prima dell’anno 386 in cui avvenne la conversione del medesimo Santo. III. Più celebre ancora fu verso il tempo medesimo un sofista greco che tenne scuola pubblica d’eloquenza in Roma, cioè Proeresio, di cui abbiam parlato nel Capo primo di questo libro. Eunapio, che ne ha lungamente scritta la Vita, dice (Vit. Soph. c. 8) che in sì gran fama egli venne, che a lui pure fu innalzata una statua con questa gloriosa, o, a dir meglio, gonfia iscrizione: Regina Rerum Roma Regi Eloquentiae. Io crederei facilmente che fosse questo un racconto finto a capriccio, poichè Eunapio a imitazion di Filostrato ci narra talvolta de’ suoi Sofisti cose maravigliose e quasi incredibili, e ci dà motivo di sospettare che la sua Storia non sia troppo sincera. Ma riflettendo che Proeresio era cristiano, ed Eunapio gentile, sembra difficile ch’egli volesse esagerarne oltre il dovere le lodi. Di Proeresio facea pur grande stima lo stesso Giuliano, e ne abbiamo in pruova una lettera piena di elogi ch’egli gli scrisse (Julian. ep. 2), e il privilegio accordatogli di continuare il suo magistero, benchè cristiano; del qual beneficio però, come abbiam detto, non volle usar Proeresio, l.ihanio ancora ne parla con grandi elogi, e dice che colla dottrina e coll’eloquenza, di cui era adorno, rendevasi benemerito di tutto il mondo; [p. 616 modifica]IV. Se ad r*si deliba aggiugnersi 8. Girolanti1. Gl6 LIBRO e non solo rammenta la statua innalzatagli in Roma, ma un’altra ancora di cui fu onorato in Atene (Ep. 278, p. 136 ed. Amstel. 1738). Finalmente anche S. Gregorio Nazianzeno cel rappresenta come uomo di un’ammirabile eloquenza in un epigramma con cui ne piange la morte (Murat. Anecd. gr. p. 1). Eunapio aggiugne che quando egli da Roma tornar volle ad Atene, i Romani il pregarono che mandasse loro un discepolo; e ch’egli scelse a tal fine un cotal Eusebio Alessandrino, uomo, die’ egli, opportuno per Roma, perciocchè avvezzo ad adulare i potenti. Colle quali parole ei forma, per vero dire, un poco vantaggioso carattere de’ Romani di questi tempi. IV. Il P. Caraffa tra i professori dell’Ateneo romano annovera ancor S. Girolamo (l. cit.), e a provarlo si serve di un passo tratto dalla Regola delle monache inserita tra le sue Opere, ove dice (c. 11): Me, antequam vigesimum annitrii ac tatis attingerem, urbs Roma in summum praelegerat magistrum in omnibus pene liberalibus disciplinis. Ma convien dire che il P. Caraffa non abbia avvertito esser quella un’operetta supposta al santo Dottore, e ciò per consentimento ancora degli antichi editori non che de’ recenti. Egli è vero però che S. Girolamo venne a’ Roma fanciullo per coltivarvi gli studj, il che ci mostra ch’erano essi in gran fama anche ne’ paesi stranieri. Racconta egli stesso (Comm. in Ep. ad Gal. c. 2) che esercitavasi ivi nell’usato esercizio del declamare, e con finte liti si addestrava a trattar le vere; e aggiugne che andando talvolta a’ tribunali de’ [p. 617 modifica]QUARTO Cl^ giudici, ei vi udiva i più eloquenti oratori disputar gli uni contro gli altri così animosamente, che spesso lasciata in disparte la causa si trattenevan soltanto nel mordersi e nel mottegiarsi a vicenda. V. Ma ciò che di S. Girolamo non si può affermare, sembra che negar non si possa di S. Agostino, cioè che egli tenesse in Roma scuola pubblica di eloquenza. Per qual motivo ei risolvesse di trasportarsi da Cartagine a Roma, egli stesso il racconta nelle sue Confessioni: Non volli già io, egli dice (l. 5, c. 8), andarmene a Roma per maggior guadagno, e per T onor maggiore che dagli amici mi si prometteva, benchè queste cose ancora mi movevano in quei giorni; ma il principale e quasi solo motivo di questa mia risoluzione si fu T aver 10 udito che ivi studiavasi con più quiete, e, che la gioventù era tenuta più infreno, sicché non entrasse all’improvviso e sfacciatamente, nella scuola di quello che non è l’usato suo maestro; e che niuno si ammettesse a scuola alcuna, se il maestro nol permetteva. Al contrario in Cartagine ella è sfrontata e indegna la libertà degli scolari. Entrano arditamente in iscuola, e sconvolgono l’ordine e il metodo che il maestro prefigge all’ammaestramento de’ suoi discepoli. E prosiegue descrivendo il libertinaggio che tra la studiosa gioventù regnava in Cartagine. Poscia dopo avere narrato della pericolosa infermità da cui fu in Roma sorpreso, e della sua guarigione, così prosiegue (c. 12): Cominciai dunque a adoperarmi per ciò che condotto aveami a Roma, cioè per insegnare v. S. Agostino tiene scuola ÌU Ruma. [p. 618 modifica]VI. K pmrìa in Milano: altri professori ivi. 6l8 LIBRO r arte rettorie a, e a raccoglier dapprima alcuni in mia casa, a’ quali io mi era già fatto conoscere. Ed ecco ch’io veggo farsi in Roma altre cose che in Africa non si facevano. Perciocchè io seppi che non eravi veramente il disordine da me veduto in Cartagine, ma molti giovani, dicevanmi alcuni, qui si uniscono insieme, e per non pagare al maestro la dovuta mercede lo abbandonano, e sen vanno altrove. Queste ultime parole han fatto credere ad alcuni che S. Agostino non avesse già la sua scuola nel pubblico Ateneo, ove i professori aveano dal regio erario il determinato loro stipendio, ma nella privata sua casa. E forse fu così veramente; ma le parole sopraccitate nol provano abbastanza; perciocchè il tempo in cui S. Agostino sen venne a Roma, potè essere facilmente quel tempo stesso in cui a’ professori sottratto fu lo stipendio , come altrove abbiam detto; e in cui perciò dovettero esser costretti a riceverlo nuovamente, come ne’ più antichi tempi era in uso, da’ lor discepoli. Ciò accadde a’ giorni di Simmaco, e a’ giorni appunto di Simmaco venne a Roma S. Agostino, come da ciò che or siamo per dire, sarà manifesto. VI. Era un anno a un dipresso che S. Agostino trovavasi in Roma, quando i anno 384 giunse a Simmaco prefetto della città un’ambasciata de’ Milanesi che il richiedevano perchè volesse loro inviare un professor di rettorica. Questa ambasciata è un onorevole testimonio non sol della fama in cui erano gli studj romani, ma dell’impegno ancora con cui coltivavansi [p. 619 modifica]QUARTO 6lf) in Milano, ove è probabile che il soggiorno che vi tennero di questi tempi alcuni impera dori, e singolarmente Valentiniano II, accrescesse di assai l’emulazione e la gara de’ cittadini nei letterarii esercizj. S. Agostino sinceramente confessa (ib. c. 13) che adoperossi egli stesso, per mezzo di alcuni Manichei, affine di esser prescelto a questo onorevole impiego \ e che mostrato a Simmaco un suo componimento , questi che in lettere umane era ottimo giudice per que’ tempi, approvollo, e lui scelse tra tutti per mandarlo a Milano. Vi venne dunque Agostino, e al cominciamento del nuovo anno recitò innanzi al console Bautone e a numerosissima radunanza un’orazione pel solenne cominciamento della sua scuola August contra literas Petiliani l. 3). Se egli nel raccontare per qual maniera andò a Milano, non avesse avuto in pensiero di scriver la storia della sua conversione anzichè de’ suoi studj, ci avrebbe probabilmente fatto conoscere in quale stato fossero allora le scuole di questa illustre città, chi fossero i più celebri professori, ed altre somiglianti cose che a rischiararne la storia letteraria gioverebbono assai. Ma egli intento unicamente a spiegarci gli umili suoi sentimenti, delle altre cose non ci ha lasciata memoria alcuna, e non possiamo se non congetturando raccogliere, come sopra abbiamo accennato, che fiorir doveano allora felicemente, quanto la condizion de’ tempi lo permetteva, gli studj in Milano. Ei nomina solo un cotal Verecondo cittadino e gramatico milanese suo intrinseco amico (l. 8 Conf. c. 6), in una villa di cui, [p. 620 modifica]VII. Minen ’o, SiiiiiioeFil« ladm prof s»«•ri in Honj. 620 unno detta Cassiciaco, ei ritirossi per alcun tempo nell’autunno dopo la sua conversione prima di ricevere il battesimo (l. 9, c. 3). Era Verecondo allora idolatra; ma poichè S. Agostino, abbandonata la cattedra d’eloquenza sotto pretesto della debol sua sanità, e già battezzato, andossene a Roma per far ritorno a Cartagine, Verecondo venuto a morte in Milano ricevè il battesimo, e morì cristiano (ib.). Il Calchi nomina ancor Flagrio Manlio milanese maestro di Valentiniano II (Hist Patr. l. 3), di cui dice che un erudito comento sulle Georgiche di Virgilio conservasi in un monastero presso Tours. Io mi lusingo che il Calchi non iscrivesse ciò senza alcun fondamento 5 ma pare che al presente un tal codice si sia smarrito. Io certo non ne trovo menzione presso alcun autore, nè esso vedesi nella Biblioteca de’ Manoscritti del P. Montfaucon. Questo è ciò solo che della letteratura milanese di questi tempi possiamo accertare, la quale però io non dubito che non fosse per darci assai più ampio argomento di ragionare, se più copiosi monumenti ci fosser rimasti. Ma ritorniamo alle scuole romane. VII. Non dall’Africa solamente, ma dalle Gallie ancora vennero illustri retori a Roma 5 e due tra essi rammentati vengono da Ausonio ne’ suoi epigrammi in lode de’ professori delle scuole pubbliche di Bourdeaux. Il primo è Minervio nato della suddetta città, che in Costantinopoli, in Roma, e finalmente nella sua patria tenne scuola di eloquenza. Ausonio ne dice lodi grandissime (Profess.Burdig. carm. 1), nè teme di paragonarlo a’ più celebri professori [p. 621 modifica]quarto 62I e agli oratori più eloquenti. Di tali elogi erano gli scrittori di questi tempi assai liberali, e noi possiamo, senza che essi abbian ragione a dolersene, ribassarne alquanto. Nondimeno anche S. Girolamo ne parla con grande stima (Chron. ad an. 349): Minervius burdigalensis rhetor Romae florentissime docet. Egli fiorì circa la metà del iv secolo. L’altro è un figlio di Sedato celebre retore in Tolosa e in Bourdeaux, di cui non sappiamo il nome, ma solo Ausonio ci narra (ib. carm. 12) ch’egli era retore in Roma, e che seguiva le gloriose tracce del suo genitore. Egli fu contemporaneo dello stesso Ausonio, e visse perciò a’ tempi di Graziano e di Teodosio. A questi due vuolsi aggiugner Palladio, cui gli autori della Storia letteraria di Francia annoverano tra’ loro uomini illustri (ti, pari. 2, p. 424)> benché io non sappia per qual ragione. Essi affermano che dalle Lettere di Simmaco si raccoglie che Palladio avea fatti i suoi primi studj sotto la direzione di Ausonio, e perciò nelle Gallie. Ancorchè ciò fosse vero, proverebbesi egli che Palladio fosse natìo delle Gallie? Quanti altri recavansi di questi tempi a studiar nelle Gallie, ove le lettere fiorivano felicemente? Ma io non trovo che Simmaco affermi ciò che affermano i Maurini. Egli scrive ad Ausonio (l. 1, ep. 15) che Palladio, cui egli chiama nuovo ospite del romano Ateneo (mostrando con ciò ch’egli era straniero), avea coll’arte delle divisioni, colla copia degli argomenti, colla gravità de’ pensieri, coll’ornamento delle parole risvegliata l’ammirazion de’ Romani; e dice bensì ch’egli [p. 622 modifica]622 UBHO credeva di far cosa grata ad Ausonio dandogliene avviso, ma non fa motto nè della patria di Palladio, nè degli studj da lui fatti sotto la direzione dello stesso Ausonio. Anzi conchiude dicendo: Queste cose io ho giudicato di non doverti tacere, perchè non vi ha cosa di’ io pregi più della tua amicizia, e perchè io mi compiaccio del conto in cui ti degni di avermi. Se Palladio fosse stato discepolo di Ausonio, non dovea egli Simmaco farne espressa menzione? Checchè sia di ciò, questa orazione fu probabilmente da Palladio recitata nell’entrar ch’egli fece alla cattedra d’eloquenza. Ma non pare che molto tempo ei la tenesse, levatone per sollevarlo a più grandi onori. Tale sembra che sia il senso di queste parole di Simmaco (l. 3, ep. 50): Meus Palladius.... quem ego non minus doleo abductum a juventute romana, quam gratulor in spem sui honoris accitum. Qual fosse la carica di cui fu onorato Palladio, non è possibile determinarlo; poichè a questi tempi medesimi troviam molti di questo nome in ragguardevoli impieghi; e nel solo anno 382 tre ve ne avea, uno prefetto d’Egitto, un altro maestro degli ufficj, il terzo governatore dell’Osroena (V. Tillem. Hist. des Emper. t. 5, noi. i o sur Theodose). Sembra però eli’ ei fosse in qualche carica militare, poichè abbiamo una lettera dello stesso Simmaco, in cui gli raccomanda un cotal Benedetto che era stato privato del posto che avea nella milizia, acciocchè sia in esso ristabilito (l. 9, ep. 1). La memoria di Palladio mantennesi viva per lungo tempo, e Sidonio Apollinare ne fa menzione tra [p. 623 modifica]QUARTO 623 molti retori ed oratori illustri, e ne loda singolarmente la pompa: Pompam Palladii (l. 5, ep. 10). VIII. Alcuni altri veggiam nominati da Simmaco, che celebri furono in Roma, mentre ei ci vivea, e che furono professori di eloquenza, o almeno in essa si esercitarono. Egli scrive gran lodi ad Ausonio di un certo Giuliano (l. 9, ep. 43), e il loda singolarmente perchè avea in sè accoppiati due pregi che assai difficilmente, egli dice, ritrovansi congiunti insieme , cioè la modestia e f eloquenza. Più lettere abbiamo inoltre da lui scritte ad Antonio (l. 1, ep. 89, 90, ec.), il quale pare che dall’impiego di retore passato fosse a quel di oratore; perciocchè nella prima di esse con lui si rallegra perchè con un’orazione recitata poc’anzi in senato accresciuta si avea quella gloria che col magistero si avea dinanzi acquistata , ed esalta la grazia insieme e la maestà degna di quell’augusta assemblea, con cui egli avea favellato. Egli fa ancora menzione di un cotal Gallo retore cui propone per maestro de’ fìgliuoli di Nicomano Flaviano (l. 6, ep. 34). Tutti questi che veggiamo stretti in amicizia con Simmaco, dovean essere al par di lui idolatri. Idolatra ancora era Paterio o Patera che prima nelle Gallie, poi in Roma fu professor d’eloquenza, di cui S. Girolamo parla con molta lode, e dice che teneva la scuola in Roma prima ch’egli nascesse (Chron. ad an. 337 , et ep. 120, ed. veron.). E tale ancora è verisimile che fosse Olimpio greco di nascita, ma passato ad essere sofista in Roma. Abbiam tre lettere da Libanio a lui scritte (Ep. 44®> 4^5, 4^0 > Vili. A 11 ri prufesMtri di que’ tempi. [p. 624 modifica]IX. Scrii tori «li ¡Mtirgiriri

  • di precetti

reiterici. 6a4 LIBRO nelle quali con lui si rallegra del sommo applauso che colla sua eloquenza riscuoteva in Roma, ma insieme il prega a non lasciarsene adescare per modo che vi fissi la sua dimora, ma anzi affretti il suo ritorno alla patria. Ma cristiano era certamente un-certo Magno, a cui lo stesso Girolamo scrivendo (Ep. 70 ed. Veron.) il chiama romano oratore, e lo riprende perchè tutto occupato nella lettura di Tullio trasandasse lo studio della Sacra Scrittura. A S. Girolamo pure dobbiam la notizia di un certo Gennadio cui egli chiama (Chron. ad an. 357) oratore insigne in Roma ai tempi di Costanzo. IX. Niuno de’ retori e degli oratori che finora abbiam nominati, ci ha lasciato monumento alcuno della sua eloquenza, o se alcuno ne avea tramandato a’ posteri, esso non ci è pervenuto. Anzi ci convien confessare sinceramente che in tutto questo spazio di presso a due secoli, che in quest’epoca abbiatn compreso , non vi è monumento alcuno di profana eloquenza di cui noi Italiani possiamo a buon diritto gloriarci. I panegirici antichi, che, raccolti insieme, sono stati più volte dati alla luce insieme con quel di Plinio, sono l’unico saggio dell’arte oratoria di questi tempi che ci sia rimasto. Ma non vi ha alcuno de’ loro autori che si possa dire accertatamente italiano e la più parte d’essi furono fuor d’ogni dubbio stranieri. Galli certamente furono e Claudio Mamertino ed Eumenio, de’ quali abbiamo alcuna cosa accennata nel libro precedente. Nativo ancor delle Gallie fu Nazario autore di un Panegirico a Costantino, come dal Panegirico stesso (n. 37) raccogliesi [p. 625 modifica]QUARTO 6j5 chiaramente. Il P. de la Baune inclina a credere (V. Paneg. vet. ed. ven. 1728, p. 182) che messinese fosse un altro Claudio Mamertino, di cui.abbiamo un’Orazione all’imperadore Giuliano in ringraziamento del consolato a lui conferito. Ma la sola pruova che se ne può arrecare , è la conghiettura tratta dal nome di Mamertino, con cui di fatto si chiamano i Messinesi. Conghiettura però troppo debole per potervisi bastantemente fondare; poichè se il primo Mamertino non ostante un tal nome fu Gallo, perchè nol potè essere anche il secondo? Non vi è però pruova alcuna ad accertare che il fosse; e nondimeno i Maurini gli han dato luogo tra’ loro scrittori (Hist. Ut ter. de la France t. 1, part. 2, p. 198). Io potrei perla stessa ragione annoverarlo tra’ nostri, ma voglio attenermi al mio usato costume di non attribuire all’Italia se non ciò che in niun modo non se le può contrastare. L’ultimo degli antichi panegiristi è Latino Pacato Drepanio, di cui abbiamo un panegirico a Teodosio il Grande. I due nomi di Latino e di Drepanio potrebbero sembrare argomenti bastevoli a crederlo italiano e siciliano, come altri ha fatto. Ma egli troppo chiaramente chiama sua la Gallia (n. 24) per non dovernelo creder nativo, e dice ancora ch’egli era venuto a Roma dall’estremità della Gallia occidentale (n. 2). Finalmente que’ Panegirici ancora che non han certo autore r come quello a Massimiano e a Costantino, e un altro al medesimo Costantino, non ci danno alcun indizio per affermare con qualche probabile argomento che sieno di autori Tiraroschi, Poi. II. ’ 4° [p. 626 modifica]6a6 libro italiani. Alcuni frammenti e alcuni brevi trattati dell1 arte rettorica abbiamo nella Raccolta de’ Retori antichi di Francesco Piteo, cioè di Aquila romano, di Giulio Rufiniano, di Curio Fortuna ziano, eh Sulpizio Vittore, di Emporio, di Giulio Severiano, e di altri, alcuni de’ quali vissero probabilmente in questi tempi. Ma sì poco è ciò che ci è rimasto di essi, e questo ancora di sì poco valore, che non giova il cercarne più oltre. Si può vedere ciò che di essi hanno scritto il Fabrizio (Bibl. lat. l. 4, c. 8) e il Gibert (Jug. des Maîtres d’Eloq.). X. Il solo oratore italiano del cui stile e della cui eloquenza ci sian rimasti de’ saggi, benchè niuna abbiam delle Orazioni da lui composte, è il celebre Q. Aurelio Simmaco. Era egli figlio di L. Aurelio Aviano Simmaco che fu prefetto di Roma l’anno 363 Nelle belle lettere fu istruito da uno ch’era nativo delle Gallie, come egli stesso con sentimento di gratitudine si protesta (l. 9), ep. 86). Io bramo, egli dice, di dissetarmi a’ fonti della gallica eloquenza; non già perchè V eloquenza romana abbandonati abbia i nostri sette colli, ma perchè X arte rettorica mi è stata nella mia fanciullezza insegnata da un vecchio alunno della Garonna. Per mezzo di questo mio precettore io sono in certa maniera congiunto alle vostre scuole. Qualunque sia il mio sapere, ch’io ben conosco esser piccolo, tutto il debbo alla tua ’ patria. Rallegromi dunque ancora con quelle Muse che nelle belle arti mi dierono il primo latte. E se qualche cosa ti offenderà ne’ miei componimenti, o col tuo silenzio cuopri e [p. 627 modifica]QUARTO 627 difendi lo scolaro di un tuo concittadino, o tu di nuovo lo istruisci. Queste parole potrebbono di leggieri persuaderci che Simmaco avesse fatti nelle Gallie i suoi primi studj; ma non sembrami che ciò ne discenda necessariamente, ma solo che natio delle Gallie fu il suo maestro. Jacopo Lezzio pensa eli’ ei fosse Ausonio (in not. ad h. l.). Ma Ausonio non era tanto maggiore di Simmaco, che in età senile potesse tenere scuola a lui fanciullo. E inoltre noi abbiam pure non poche Lettere di Simmaco ad Ausonio, e in niuna di esse, benchè ne abbia quasi sempre opportunissima occasione, non gli fa mai cenno di averlo avuto a maestro. Io crederei anzi che il maestro di Simmaco fosse per avventura Minervio, Gallo egli ancora, di cui abbiam poc’anzi veduto che fu retore in Roma verso la metà del quarto secolo, il che ottimamente conviene a’ tempi di Simmaco che verso la (fine del secolo stesso era uom maturo e provetto. XI. Io non tratterrommi a esaminare minutamente tutto ciò che alla vita e alle vicende di Simmaco appartiene 5 di che si posson vedere tutti gli storici di questi tempi. Egli ebbe la dignità di pontefice maggiore, e fu questore, pretore e correttore nella Lucania e ne’ Bruzj, proconsole d’Africa, prefetto di Roma l’anno 384, e forse ancora ne’ due seguenti (V. Corsin, de Pracf’ect. Urb. p. 281), e console ordinario l’anno 395 (V. Tillem. Hist. des Emper. in Theod. art. 91). Ma questi onori non andaron disgiunti da sinistre vicende. Egli zelante pel culto de’ pretesi suoi Dei recossi fanno 383 a Tir a boschi , T ol. II..\o* XI. Epoche della sua vita. [p. 628 modifica]628 libro Graziano in nome ilei senato romano per ottenere eh’ei rivoeas.se il comando che dato avea di distruggere l’altare della Vittoria in Roma. Ma i senatori cristiani spedirono per mezzo di S. Damaso papa una solenne protesta a S. Ambrogio, dichiarandosi eli e essi non avevano in ciò parte alcuna, e che solo alcuni pochi Idolatri eran gli autori di tal preghiera (S. Ambr. ep. contra Symm). Quindi Graziano ricusò di ammetter Simmaco e i suoi colleghi all’udienza. Mentre egli era prefetto a Roma, fu accusato) di molestare i Cristiani; ma egli ottenne, come dalle sue Lettere si raccoglie (l. 10, ep. 34) 5 un attestato del sopraddetto pontefice, che niun Cristiano avea da lui ricevuta molestia di sorte alcuna. Ma l’anno 388 avendo egli ardito di rinnovare a Teodosio la preghiera pel ristabilimento dell’altare della Vittoria, e avutane per opera di S. Ambrogio una nuova ripulsa, perchè nondimeno in un panegirico che poco appresso egli gli recitò, ebbe ancora ardire di farne motto, Teodosio sdegnatone comandò che posto subito su un cocchio fosse condotto cento miglia lungi da Roma. Così narra la cosa l’autore del libro De Promiss ionibus Dei, che va unito colf Opere di S. Prospero d’Aquitania. Ma Cassiodoro attribuisce (Hist (Tripart. l. 9, c. 23) lo sdegno di Teodosio contro di Simmaco a un panegirico che in lode del tiranno Massimo egli avea recitato; e aggiugne che l’infelice temendo la morte rifugiossi entro una chiesa , e che poscia Teodosio alle preghiere d’alcuni gli concedette pietosamente il perdono. In quale anno egli morisse, [p. 629 modifica]QUARTO 629 11011 si può accertare; ma sembra che ciò accadesse al principio del v secolo. XII. Niuna cosa ci fa meglio conoscere l’infelice gusto di questo secolo, quanto il leggere > da una parte gli elogi che di Simmaco han ’ fatto gli scrittori di questo tempo, e dall’altra le Opere che di lui ci sono rimaste. Prudenzio, che all’orazione di Simmaco per l’altare della Vittoria rispose con due interi libri di versi, ne parla come di un uomo di prodigiosa eloquenza, e superiore allo stesso Tullio: O linguam miro verborum fonte fluentem , Romani decus eloquii!, cui cedat et ipse Tulli us; lias fundit dives facundia gemmas. Os dignum, aeterno tinctum quod fulgeat auro, Si mallet laudare Deum. L. 1 in Symm. Macrobio il propone a modello di uno de’ quattro generi d eloquenza, ch’egli distingue, cioè del fiorito, e dice che in esso ei non è inferiore ad alcun degli antichi: Pingue et floridum , in quo Plinius Secundus quondam, et nunc nullo veterum minor noster Symmachus luxuriatur (l. 5 Saturn, c. 1). Ammiano Marcellino afferma ch’egli debb’essere nominato tra’ principali esempj di dottrina insieme e di modestia (l. 27, c. 3). Cassiodoro ancora lo chiama eloquentissimo (l. 11 Variar. ep. 1). Finalmente abbiamo una lettera dei celebre sofista Libanio, in cui egli ancora ne parla con sentimento di grandissima stima, e si vanta come di un solenne trionfo, perchè Simmaco gli avesse scritto chiedendogli la sua amicizia (Ep. 923, edit. Amstel. 1758). Or se noi prendiam nelle mani i dieci libri delle Lettere di Simmaco, [p. 630 modifica]G3o Liisno che sono l’unico saggio del suo stile che ci sia pervenuto, noi non possiamo a meno di non maravigliarci come mai sia stato egli onorato di sì grandi elogj. Leggasi la sua parlata a Valentiniano e a Teodosio pel ristabilimento del mentovato altare, che è inserita anch’essa tra le sue Lettere (l. 10, ep. 54), e che deesi credere certamente la miglior cosa ch’ei componesse , e veggasi se possa ad uom saggio cadere in mente di paragonarlo con Cicerone. Ma tal era il pensare di questi tempi. Durava ancora in alcuni il gusto di un parlare concettoso e raffinato che erasi introdotto già da tre secoli; e a ciò aggiugnendosi una cotale rozzezza e di pensare e di scrivere, che dal conviver co’ Barbari, de’ quali era piena l’Italia , necessariamente si contraeva , formai asi un certo stile di nuova foggia fiorito insieme ed incolto, che da chi è avvezzo alla lettura de’ buoni autori non si può udir senza stomaco. Quindi ottimamente dice Erasmo: Amino pure Simmaco quelli a cui piace di parlare noiosamente anzichè bene (in Ciceron). Avea Simmaco composte e recitate ancora più orazioni, come i Panegirici di Massimo e di Teodosio, che di sopra abbiam rammentati. Di un’altra sua orazione ci parla in una sua lettera ad Agorio Pretestato (l. 1, ep. 52); ed è verisimile che altre ancora in altre occasioni ne facesse. Il Tillemont (l. cit) dice che le sue orazioni non gli riusciron troppo felicemente; ma a dir vero, non parmi che sia questo il senso delle parole di Simmaco, ch’egli cita in pruova della sua asserzione. Simmaco dice: Unum quippe [p. 631 modifica]QUARTO 63I hoc litcrarum genus (cioè di scriver lettere) superest post amaros casus orationum mearum (l. 8, ep. 68). Ma questi avversi casi non furono già il poco applauso dalle sue orazioni ottenuto; che anzi dalla maniera con cui ne parlano gli antichi, egli è palese che F ottenne grandissimo; ma sì lo sdegno di Teodosio, e il pericolo a cui per esso si vide, come sopra abbiam dimostrato. XIII. A Simmaco conviene aggiugner due altri che troppo da vicino gli appartengono per non sapararneli; uno che fu a lui stesso, l’altro a cui fu egli modello e esempio d’indefessa applicazione agli suoi studj, dico suo padre e suo figliuolo. Di suo padre ci ha lasciata Simmaco onorevol memoria nelle sue Lettere, e in una singolarmente in cui a lui stesso scrivendo gli forma questo magnifico elogio che io qui recherò colle parole stesse di Simmaco per dare un saggio dello stile da lui usato: Unus aetate nostra monetam Latiaris eloquii Tulliana incude finxisti: quidquid in poetis lepidum, apud oratores grave, in annalibus fidele , inter gramaticos eruditum fuit, solus hausisti, justus haeres veterum literarum. Ne mihi verba dederis: novi ego, quid valeat adagia: Sus Minervam. Adprime calles epicam disciplinam, non minus pedestrem lituum doctus inflare. Ain tandem? Orandi aeque magnus et canendi, meae te opis indignum mentiare? Haud aequum facis, neque me juvat falsa jactatio (l. 1 , ep. 4)- Forse il figliale affetto fece esagerare alquanto a Simmaco le lodi paterne; ma da altre lettere è certo ch’egli assai dilettavasi [p. 632 modifica]XIV. Graziatici di questi tempi. 632 LIBRO degli studi d’eloquenza e di poesia, e che molto era sollecito che il suo figlio ancora in essi felicemente si avanzasse. Non meno sollecito di un tale avanzamento era il nostro Simmaco pel suo proprio unico figlio Q. Flaviano Memmio Simmaco. Egli ne parla spesso nelle sue Lettere, e in una singolarmente (l.4,ep. 20) dice che per istruirlo nella lingua greca facevasi egli stesso in certo modo fanciullo, ripetendone insieme con lui i primi elementi. Cercò ancora di sollevarlo alle cariche più luminose; ed in fatti a molte il vide innalzato, e a quella ancora ch’era allora singolarmente in pregio, e a cui era pur giunto il padre, cioè ad esser prefetto di Roma l’anno 4 19 (V. Tillem. l. cit. et Corsin. p. 338). XIV. Rimane a dir qualche cosa de’ gramatici più illustri di questa età. Tra questi S. Girolamo nomina con sentimento di riconoscenza Elio Donato (in Chron. ad an. 358) di cui dice di essere stato scolaro in Roma. Egli avea scritti de’ Comenti sulle poesie di Terenzio e di Virgilio; ma que’ che ora abbiamo sotto il suo nome, credesi comunemente che siano di più recenti autori (V. Tillem. Hist. des Emper. in Constantio art. 65; Fabr. Bibl. lat. t.1, p. 33 edit. Ven.). I libri da lui composti intorno all’arte di cui era maestro, ancor ci rimangono, almeno in parte, e veggonsi inseriti nelle Raccolte degli antichi Gramatici. Da lui è diverso Tiberio Donato autore, come si crede, di una Vita di Virgilio, di cui abbiamo parlato nel primo volume (p. 175). Nonio Marcello di Tivoli sembra che vivesse a questo tempo medesimo [p. 633 modifica]QUARTO G33 (V. Fabr. Bibl. lat. t. 2, p. 412 j Tillem. l. cit.) 3 c forse ancora fu di questa età Sesto Pompeo Festo , benchè di lui non vi abbia ragion bastevole ad affermarlo (ib.). Abbiam le Opere di amendue nelle mentovate Raccolte. Più celebre è il nome di Servio , che fu contemporaneo di Macrobio, e visse perciò a’ tempi o di Teodosio, o di Onorio. Macrobio lo introduce tra’ personaggi de’ suoi Dialogi intitolati Saturnali 3 e dice eh1 egli era uomo che a una singolare dottrina congiungeva una singolare e amabil modestia (l. 1 Saturn c. 2); e gli dà il nome di Massimo tra’ Dottori (l. 7, c. 7.); e ne loda singolarmente i Comenti da lui fatti sopra Virgilio. Essi esistono ancora, benchè alcuni pensino che siano anzi una comE dazione raccolta da varj autori. Di lui abbiamo ancora qualche libro gramaticale nelle Raccolte degli antichi Gramatici, se pure non è un altro Servio da lui diverso (V. Fabr. Bibl. lat. t. 2, p. 468). Abbiamo ancora nelle stesse Raccolte i libri gramaticali di Diomede e di Flavio Sosipatro Carisio, che credonsi di questi medesimi tempi (V. Fabr. t. 2, p. 454? 4^)* 10 passo leggermente su questi gramatici, e tralascio ancora di nominare alcuni altri di minor nome e d1 incerta età. Le loro Opere ci giovan solo a intendere il senso preciso di alcune voci latine, e a valerci di alcuni passi di antichi autori, che non troviamo altrove. Ma 11 affaticarsi a ricercar di essi più distinta contezza sarebbe noiosa al pari che inutil fatica. Si può vedere ciò che di essi dicono il Fabricio (Bibl. lat. l. 4, c. 6, 7) e il Baillet (Jug. [p. 634 modifica]634 libro des Sav. t. 3). Di due altri gramatici illustri dirò sol brevemente. Un di essi fu Simplicio nativo di Emona, che dopo avere per alcun tempo esercitata la professione di grama ticò, passò ad essere consigliero di Massimino vicario di Roma, e poscia fu vicario egli ancora della stessa città (Amm. Marcell. l. 28,c. 1). L’altro fu Citario nato in Siracusa nella Sicilia, e passato ad esser professore di gramatica in Bourdeaux, di cui Ausonio loda assai l’ingegno e lo studio, e le poesie singolarmente da lui in età giovanile composte (Profess. Burdigal. ep. 13). XV. Io mi vergognerei di dover qui favel- lare di Fabio Fulgenzio Planciade autore di tre ’ libri di Mitologia, di un libro sulla Continenza Virgiliana (nel quale da alcuni è stato ridicolosamente creduto che trattasse della castità di Virgilio, mentre altro non si prefigge se non di parlare di ciò che si contiene in Virgilio) e di una sposizione del parlare antico. Egli è scrittor così barbaro, così rozzo, così insipido, ch’io mi compiaccio che non vi sia argomento alcuno a provare ch’ei fosse italiano. Basti il recarne un piccolo saggio preso dall’esordio del primo libro della Mitologia: Quamvis inefficax petat studium res, quae caret effectu, et ubi emolumentum deest negotii, causa cesset inquiri, hoc videlicet pacto, quia nostri temporis aerumnosa miseria non dicendi petat studium., sed vivendi fleat ergastulum, nec J’amae adsistendum poeticae, sed fami sit consulendum domesticae. Ecco il primo periodo di questo elegante scrittore, in cui io sfido il più [p. 635 modifica]quaji+o 635 intendente gramatico a trovar senso. Oltre che egli, come osserva il Vossio (De Histor. lat. l. 1, c. 20), è uomo così erudito che cita autori e libri che non sono.mai stati al mondo. Io l’ho nominato a quest’epoca, perchè in essa si crede da alcuni ch’egli vivesse. Ma altri a mio parere saggiamente il voglion vissuto dopo la guerra de’ Goti; e io crederei di provvedere anche meglio alla riparazion di Fulgenzio, dicendo ch’egli visse*nell’via, o nel ix secolo. Certo egli è tutt’altro da S. Fulgenzio vescovo, con cui alcuni l’hanno incautamente confuso. Intorno a lui si può vedere, da chi il brami, la prefazione di Tommaso Munckero premessa all’azione che ne ha fatta, più magnificamente ancora che non facea bisogno, Agostino Van Steveren in Ley de 11 l’anno 177 4 3 insieme col supposto Igino, e con un cotal Lattanzio Placido autore di un compendio delle Metamorfosi d’Ovidio. XVI. Più onorevole sarà all" Italia la menzione di Aurelio Teodosio Macrobio eli’ io pongo qui tra’ gramatici, non perchè egli tenesse scuola, ma perchè scrisse di argomento ch’era proprio de’ gramatici, i quali singolarmente, come altrove abbiam dimostrato, si esercitavano nel ricercare gli antichi costumi, nell’esaminare gli antichi autori, e in tutto ciò in somma che noi or comprendiamo sotto il nome di filologia. Nè voglio già io affermare che.Macrobio fosse italiano (18). Egli stesso troppo apertamente (*) Macrobio nei bassi secoli fu creduto tli patria parmigiano; e in Panna esiste tuttora il sepolcro in [p. 636 modifica]G36 • miìro afferma il contrario, dicendo di esser nato sotto altro cielo, ove la lingua latina non era natìa (prooem. l. 1 Saturn.). Ma ch’ei vivesse in Roma, apertamente raccogliesi da’ personaggi ch’egli introduce a favellar ne’ Dialogi intitolati De’ Saturnali. I principali tra essi sono Vezio Pretestato, Aurelio Simmaco, Cecina Albino, Servio, Furio Albino, Flaviano Nicomaco e Avieno. Di Simmaco e di Servio abbiam già favellato. Di Avieno ragionerem tra’ Poeti. Vezio Agorio Pretestato fu uno de’ più celebri uomini di questa età, e ornato di tutte le più ragguardevoli cariche, fra le altre della prefettura di Roma, come si raccoglie da una iscrizione presso il Grutero, riportata ancora da Isacco Pontano (in not. ad Macrob. l. 1 Saturn, c. 17). Abbiamo molte lettere a lui scritte da Simmaco che gli era amicissimo, e che ne loda l’amore allo studio, e l’occuparsi ch’egli faceva, ne’ giorni che gli rimanevano liberi, nella lettura degli ottimi autori (l. 1 ep. 44)• Ma piene singolarmente di magnifici elogi per esso sono le lettere che Simmaco scrisse agl’imperadori Teodosio, Arcadio e Valentiniano II, quando egli morì, allora appunto ch’era per prendere l’insegne del consolato (l. 10, ep. 23, 24, 25), il che accadde l’anno 384, come mostra il Tillemont (in Theod. art. 22, not. 20), presso il quale si potranno vedere raccolte cui credevasi eli"ci fosse chiuso, c noi ne parleremo nelle giunte al tomo sesto di questa Storia, ove cadrà di nuovo il discorso di l’iagio Pelacani filosofo parmigiano. [p. 637 modifica]QUARTO boy insieme le notizie che appartengono a Pretestato. Cecina Decio Albino fu egli pure prefetto di Roma tra l’anno 395 e l’anno 408, come pruova il medesimo Tillemont (ib), in Honor. art. 68, not. 39). Di Furio Albino non abbiamo altra contezza, se pur ei non è lo stesso che Cesonio Rufio Albino perfetto di Roma l1 anno 389. (V. Tillem. ib. art. 47; Corsin, p. 288). Flaviano Nicomaco finalmente sembra quel desso che morì combattendo nell’esercito di Eugenio contro di Teodosio P anno 3g4; benché potè essere ancora Flavio Nicomaco di lui figlio prefetto di Roma F anno 3gg (ib. art. 78, et in Honor. art 9). Da tutto ciò ricaviam chiaramente il tempo a cui visse Macrobio, cioè sotto F impero di Teodosio , e probabilmente ancora sotto quello di Onorio. Quindi credesi da alcuni ch’ei sia quel Macrobio medesimo che ai tempi di Onorio e di Teodosio II fu gran ciambellano (Cod. Theod. l. 6, tit. 8); ma non vi è ragione ad affermarlo sicuramente. Io non so intendere come ad alcuni sia caduto in mente di crederlo cristiano, mentre egli e i suoi interlocutori parlan sempre col linguaggio usato a’ Pagani , e molto più mentre il veggiamo amicissimo di Simmaco, di Pretestato e di Flaviano, eli’ eran nemici giurati della religione cristiana. XVII. Di lui abbiamo, oltre qualche operetta gramaticale inserita nelle Raccolte degli antichi Gramatici (se pur hou ne è autore un altro Macrobio da lui diverso) due libri di Comenti su quella parte de’ libri di Cicerone sulla Repubblica. che contiene il Sogno di Scipione, xvi r. Sue opere j

loro Siile. [p. 638 modifica]638 LIBRO

ne’ quali eyli siegue comunetnenlc le dottrine platoniche (V. Bruck. Hist. PhiL t. 2, p. 456), e mostra una sufficiente cognizione d’astronomia, benchè spesse volte ci narri cose che ci fanno conoscere il poco che allora se ne sapeva. Più utili sono i sette libri da lui intitolati Conviti saturnali, perchè riferisce gli eruditi discorsi che da’ personaggi soprannomati si eran tenuti all’occasione delle feste sagre a Saturno. Molte quistioni vi si trattano su diversi argomenti d’antichità , di mitologia, di storia, di poesia; vi si rischiarano ed esaminano molti passi di antichi autori 5 vi si rammentano molte leggi e molte costumanze così de’ Romani, come di altri popoli antichi ■ ed è in somma una varia ed erudita Raccolta assai utile all’intelligenza de’ buoni autori. Lo stile non è certo molto elegante, ma non è a stupirnej ed egli stesso ne chiede scusa, ricordando, come abbiam detto, che la lingua latina non gli era natia. Alcuni il riprendono perchè sovente egli trascriva de’ passi intieri di Seneca, di (Gellio, di Valerio Massimo, senza mai nominarli , e il ripongon perciò nell’infame ruolo de’ plagiarj. Ma parmi ch’essi potrebbono con lui usare di qualche pietà, se ponessero mente a ciò che clic’egli stesso di questa sua opera: Nec mihi vitio vertas, die1 egli stesso (Proemi, l.1), si res quas ex lectione varia mutuabor, ipsis saepe verbis, quibus ab ipsis auctoribus enarratae sunt , explicabo; quia praesens opus non cloquenUae, seti nosccndorum congerie/n pollicciiir, et boni consulas oportet, si notitiam vetustatis modo nostris [p. 639 modifica]QUARTO 63y poli obscure , modo ipsis antiquorum fideliter verbis reconoscas, prout quaeque se vel enarranda, vel transferenda, saggesserint Poteva egli Macrobio parlare più chiaramente a rimuovere da sè la taccia di plagiario? Se dunque egli non cita gli autori da cui trae alcuni passi, potrà esser ripreso di negligenza nell’indicare i fonti a cui attingeva, ma non di furto, nè di essersi occultamente arricchito delle fatiche altrui. XVIII. Io farò qui finalmente menzione di Marziano Mineo Felice Capella, di cui abbiam nove libri intitolati De Nuptiis Philologiae et Mercurii, ne’ quali noi ah’occasione di tali nozze da lui poeticamente ideate tratta di quasi tutte le scienze, e ne spiega i principj e l’indole con uno stile barbaro al certo ed incolto, ma che pur ci offre molte utili cognizioni. Ei fu africano di patria, nel che non v’ ha luogo a dubbio (V. Voss. de Hist. lat. l. 3). Rafaello Volterrano citando l’autorità di non so quale Remigio dice (l. 17 Comment. urb.) eli’ ei viveva in Roma; ma non parmi che sia questa autorità bastevole ad accertarlo. È incerto ancora a qual età egli vivesse. Il Grozio dice (ap. Fabr. Bibl. lat. l. 33, c. 15) che Cassiodoro ne fa menzione, nel (qual caso converrebbe crederlo vissuto all’epoca di cui scriviamo. Ma io non trovo in qual luogo faccia Cassiodoro memoria alcuna di tale autore. Nè altra ragione si arreca per fissarlo a quest’epoca; anzi alcuni il vogliono vissuto più tardi assai (Voss. ib.). Basterà dunque l’averlo qui brevemente accennato, senza però pretendere di porlo [p. 640 modifica]accertatamente nè tra gli scrittori che pel soggiorno in Italia si posson dire italiani, nè tra quelli che fiorirono a questi tempi.