La terribile vendetta

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Nikolaj Vasil'evič Gogol' 1831 1916 Domenico Ciampoli Indice:Gogol - Novelle, traduzione di Domenico Ciampoli, 1916.djvu Novelle La terribile vendetta Intestazione 27 dicembre 2023 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Novelle (Gogol)


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LA TERRIBILE VENDETTA


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I.

Tutto un quartiere di Kiev è pien di chiasso e di strepito: l’essaul1 Gorobez celebra il matrimonio di suo figlio. L’essaul ha invitato molta gente. Nel tempo antico piaceva il mangiare; piaceva ancora di più il bever meglio, e sopra ogni cosa il divertirsi a dovere. Il zaporogo Mikitka è venuto, sul suo cavallo baio, difilato da’ piacevoli bagordi di Pereslaiapolo, dove ha bevuto per sette giorni e sette notti il vino rosso dei gentiluomini del re di Polonia. Danilo Burulebas, fratello dell’essaul, è giunto anche lui, dalle rive al di là del Dnepr, ove fra due montagne trovasi la sua terra; egli è accompagnato dalla giovinetta moglie Caterina e dal figlio di un anno. Gli invitati hanno ammirato il bianco viso della pania2 Caterina e le sue ciglia nere come velluto di Lamagna, le sue vestimenta da festa e la gonna di seta azzurra, i suoi stivali a bottoni di argento; ma più d’ogni altro ha destato sorpresa il fatto che il babbo non l’abbia accompagnata, il vecchio babbo di lei. Or è un anno appena ch’egli vive a Zadneprovi; ma per ventun anno non si vide mai, scomparso senza dar nova nè novella, e tornò dalla figlia quando si maritò ed ebbe un bambino. Raccontò, a dire il vero, molte cose singolari. Come non raccontare, quando si rimane a lungo ne’ paesi stranieri? Là, tutto è diverso: le genti non sono le stesse e non vi sono chiese cristiane... Ma lui non era venuto.

Offrirono agl’invitati un marzapane all’uva passa e alle prugne, e, sopra un grosso piatto, una torta. I suonatori n’ebbero la crosta di sotto cotta insieme col denaro, e nel [p. 86 modifica]frattempo, poiché restavan zitti, si collocarono attorno i cimbali, i violini, i tamburelli. Intanto le ragazze, asciugatesi le labbra coi fazzoletti ricamati, ruppero le file; e i giovinotti, con le mani a’ fianchi, guardandosi alteramente intorno, già si avviavano ad andar loro incontro, quando il vecchio essaul portò due icone per benedire i giovani sposi.

Quelle icone eran state donate da un santo eremita, il vecchio Varfolomèi. Non avevan ricchi manti, non brillavan d’oro o d’argento, ma chi le possedeva in casa era protetto da ogni potenza impura. Levando in aria le icone, già l’essaul cominciava a recitare una breve preghiera... quando, a un tratto, i monelli che giocavan per terra, gettaron grida di terrore, e, dietro di loro, il popolo indietreggiò, mentre, spaventati, mostravano a dito un cosacco, che se ne stava in piedi dinanzi a loro. Chi era? Nessuno lo sapeva. Egli aveva già ballato a meraviglia la kozacka3 ed era riuscito a far ridere la folla che lo circondava; ma quando l’essaul prese le icone, d’un subito la faccia del cosacco si trasfigurò: gli si allungò il naso torcendosi di lato; gli occhi che erano scuri divennero verdi e guizzanti, gli tremò il mento e gli si appunto come lancia, di bocca gli sporse un dente, di dietro al capo di alzò un gobbo; e invece del cosacco, si vide... un vecchio.

— È lui! Eccolo! — gridavan nella folla, pigiandosi e urtandosi a vicenda.

— Lo stregone riappare! — strillavan le madri afferrando i figliuoli per mano.

Maestosamente, l’essaul si avanzò verso di lui e gli disse con voce tonante, accostandogli le icone: «Scomparisci, imagine di satana! Qui non è posto per te!». Ed ecco, fischiando e battendo i denti, il vecchio fantastico, come un lupo, scomparve.

Il tumulto e le ciarle correvan, correvano via via fra il popolo, mugghiando come mare in tempesta.

— Cos’è codesto stregone? — domandavano i giovani e gli inesperti.

— Avverrà una sciagura! — dicevano i vecchi scuotendo la testa. E così, d’ogni parte, nel vasto cortile dell’essaul presero a raccogliersi in capannelli e ad ascoltar [p. 87 modifica]le storie sullo stregone meraviglioso. Ma quasi tutti ne parlavan in differente modo; poichè, in fondo in fondo, nessuno ne sapeva un bel niente.

Rotolarono dalla porta un barile d’idromele e portaron molti vedros4 di vin greco. Tutti tornarono allegri. I suonatori ripresero a strimpellare le loro arie: le ragazze, le donne, tutta l’ardente gioventù cosacca, in vesti chiare, si slanciarono al ballo. I vecchi di novanta, di cent’anni, ubriacandosi, si misero anch’essi a ballare, non pensando all’età che pesava loro sulle gambe. Festeggiarono sino a notte inoltrata, e festeggiaron tanto quanto non avevan mai festeggiato sin allora. Gli invitati cominciarono ad andar via; ma pochini, pochini davvero rientrarono nelle proprie case; molti restarono a dormire dall’essaul, nel vasto cortile, e il maggior numero si addormentò per terra, sotto le tavole, su panche, nelle scuderie, intorno alle stalle: là, dove la testa d’un cosacco vacillò briaca, ivi si addormentò e si russò in tutta Kiev.


II.

Un dolce bagliore rischiara tutta la terra, perchè la luna è sorta dietro una montagna. Ella copre la riva rocciosa del Dnepr, come d’un ampio tenue velame trapunto, candido come neve; e l’ombra spinge più lontano nel folto de’ boschi di pini.

Nel mezzo di Dnepr voga una barca. Due giovinetti son seduti a prora, col nero berretto cosacco a sghembo in capo, mentre sotto i remi, come foco d’acciarino, l’acqua sprizza per ogni verso.

Perchè non cantano i cosacchi? Perchè non parlano dell’arrivo in Ukraina de’ monaci che battezzano i cosacchi, il popolo cosacco, alla maniera cattolica, nè del combattimento sostenuto dall’orda, per due giorni interi presso il lago di Solenij? Ma come potrebbero cantare, o parlar di queste sciagure? A queste pensa il loro pan Danilo, lasciando che la manica del suo gabbano cremi[p. 88 modifica]sino penda dalla barca e rompa l’acqua; la loro pania Caterina intanto culla teneramente il bambino, contemplandolo senza posa, mentre l’acqua le copre di polviscolo grigio la gonna da festa, non protetta punto da alcuna tela.

Nulla di più gradevole quanto il guardar, di mezzo al Dnepr, verso le alte montagne, le vaste praterie, le foreste verdeggianti. Le montagne non sono montagne; non hanno base; in su come in giù, è una vetta acuta, e di sotto, come di sopra, vedesi il cielo profondo. I boschi che si trovan sui poggi non sono boschi; son capelli che copron la testa villosa d’un vecchio silvano. Sotto quella testa ondeggia una barba nell’acqua e sotto la barba e sulla testa è il cielo profondo. I prati non sono prati, son la verde cintura che taglia nel mezzo il cielo rotondo; e nella parte superiore e nella inferiore, vagola la luna5.

Il pan Danilo non si guarda intorno; guarda la sua giovine sposa.

— Perchè, mia giovine moglie, mia Caterina adorata, ti affliggi tanto?

— Io non mi affliggo tanto, mio pan Danilo. Sono turbata dei meravigliosi racconti sullo stregone. Dicono ch’è nato in guisa davvero spaventevole... e che nessun de’ suoi figli volesse giocare con lui. Odi, pan Danilo, quel che dicon d’orribile sul suo conto: gli sembra che tutti si ridan sempre di lui; se incontra di sera buia un uomo qualunque, subito apre la bocca e digrigna i denti: la dimane, trovano quell’uomo morto. Quando ho sentito questi racconti, son rimasta stupita, atterrita, — soggiunse Caterina, prendendo la pezzuola e asciugando il visetto del bambino che le dormiva fra le braccia. Sulla pezzuola eran ricamati in seta rossa fronde e bacche.

Il pan Danilo non rispose, e si mise a guardare la sponda oscura; lontano, da una foresta, sorgeva un ramparo di terra come baluardo nero e sul ramparo s’inalzava un vecchio castello. Sulle sopracciglia del pan si scavaron tre rughe, mentre egli con la mano manca si attorceva i baffi giovanili.

— Non è tanto lo stregone di per sè che fa spavento; il più terribile è quando egli ti giunge da ospite malvagio: che pazzia per lui l’essersi trascinato fin qui! Ho sentito [p. 89 modifica]dire che i Liakhi6 voglian costruire una fortezza da sbarrarci la via dei zaporoghi. Voglia Dio che sia vero... lo spazzerò presto quel nido del diavolo, appena corre voce che vi sia un rifugio. Brucerò il vecchio stregone in maniera che non ne resti briciola pel rostro dei corvi. Credo però ch’egli abbia oro e ricchezze... Ecco dove vive quel demonio... Ecco, noi voghiamo vicino alla croce... È un cimitero. Qui si putrefanno i suoi avi impuri. Dicono ch’eran tutti pronti a vendersi a Satana per danaro, anima, corpo e zimarre e brandelli. Se ha davvero dell’oro, non c’è tempo da perdere; non ogni dì vien ricchezza da guerra...

— So quel che pensi di fare; un incontro con lui non mi presagisce niente di buono. Ecco, già ti si aggrava il respiro, già gli occhi son truci, già aggrotti le ciglia minacciose...

— Taci, donna! — disse Danilo crucciato: — chi discute con femmine diventa femmina a sua volta. Garzone, dammi foco dalla pipa...

Si volse a uno de’ rematori, il quale tolse un pizzico di brace dal fondo della sua pipa e la mise in quella dei padrone.

— Avrò dunque paura d’uno stregone? — continuò il pan Danilo. — Un cosacco, mercè di Dio, non teme nè diavoli nè frati. Staremmo freschi ad ascoltar le femmine! Non è vero, giovinotti? È femmina per noi la nostra pipa, è femmina la sciabola affilata.

Caterina tacque e gittò l’occhio sull’acqua dormente; ma allora il vento l’increspò, e tutto il Dnepr s’inargento come pelliccia di lupo nel mezzo della notte.

La barca virò di bordo e cominciò a costeggiare la riva boscosa; si vide di lì a poco un camposanto, ove si accavalcavano moltitudini di croci antiche; fra loro non cresceva viburno, non appariva verde di sorta: solo, la luna le rischiarava dall’alto del cielo.

— Udite grida, ragazzi? C’è qualcuno che chiede aiuto... — disse il pan Danilo volgendosi ai rematori.

— Sentiamo grida, che vengono, a quanto pare, da questa parte, — risposero insieme i giovinetti, additando il cimitero. [p. 90 modifica]

Ma tutto tacque. Il canotto si staccò, si messe a seguire il promontorio.

A un tratto i rematori si lasciarono sfuggire i remi, e si fermarono a occhi fissi. Il pan Danilo rimase immobile; un sudore diaccio corse per le vene cosacche.

Una croce vacillò sulla sua tomba, e da questa uscì lentamente un morto scheletrito. Gli pendeva la barba fino alla cintura; dalle dita gli pendevan unghie più lunghe delle dita stesse. Egli stese pian piano le mani verso il cielo. Tutta la faccia gli tremava, si contorceva. Si vedeva che egli era in preda a terribili tormenti. «Soffoco! Soffoco!» gemeva con voce strana che non aveva nulla di umano. E quella voce, come lama, straziava il cuore. Il morto a un tratto rientrò sotterra.

Un’altra croce vacillò; e si levò un nuovo morto, ancora più spaventevole, più grande del primo; la barba gli cadeva sino alle ginocchia, e le unghie, fatte di osso, erano anche più lunghe. E ancora più selvaggiamente ululava: «Soffoco». Poi disparve sotterra.

Una terza croce si mosse, e un terzo morto venne su. Pareva che solo le sue ossa sorgessero dal suolo. La barba gli fluiva fino a’ piedi; le dita dalle unghie enormi solcavano il terreno. Stese paurosamente le braccia all’aria come volesse afferrar la luna, e gettò tale un grido da far pensare che gli crocchiassero le ossa ingiallite...

Il bimbo, che dormiva nelle braccia di Caterina, dette un vagito e si destó; anche la pania gettò un grido; i rematori si lasciaron cadere di capo i berretti nel Dnepr; lo stesso pan rabbrividì.

Poi, d’un tratto, ogni cosa sparve, come se nulla fosse; tuttavia, i giovinotti restaron lì, a lungo, senza riprendere i remi. Burulebas guardò teneramente la giovine moglie, che, tutta atterrita, cullava sul seno la creatura piangente; se la strinse al cuore e la baciò sulla fronte.

— Non temere, Caterina. Guarda: non c’è niente, — disse mostrandole la riva. — Lo stregone vuole spaventar la gente perchè nessuno si avvicini al suo nido impuro. Ma lui non spaventa così che le donne. Dammi mio figlio.

A queste parole, il pan Danilo alzò il figlio per aria e lo appressò alle labbra: — Vero, Ivan, che tu non hai paura dello stregone? — No; rispondi: «Babbo, io sono cosacco!». Smetti dal piangere. Ora torneremo a casa. [p. 91 modifica]torneremo a casa nostra. La mamma ti darà la polentina d’orzo mondato, ti porrà nella cuna, e canterà:

               Ninna-nanna, ninna-nanna,
               Ninna-nanna, mio piccino;
               Cresci, gioia, a babbo e mamma,
               Cresci, a gloria dei cosacchi,
               Per castigo all’invasor...

Ascolta, Caterina: mi sembra che tuo padre non voglia vivere d’amore e d’accordo con noi: è giunto arcigno, dispettoso, come se fosse crucciato... Ora, s’è arrivato di malavoglia, perchè è venuto? Non ha voluto bere alla libertà cosacca. Non ha toccato con le mani il bambino... Lì per lì volevo dirgli ciò che mi pesa sul cuore; ma non mi venne in taglio; balbettavo... No, lui non ha cuore cosacco... Come mai cuori cosacchi, incontrandosi ovunque, non balzerebbero l’un verso l’altro? Orsù, ragazzi miei, alla riva. Vi darò berretti nuovi. A te, Stereko, ne regalerò uno di velluto ricamato in oro. Lo prenderò insieme con la vesta d’un tataro; tutti gli altri arnesi saran miei; getterò via molto volentieri solo l’anima sua... Su, ormeggiate!... Ecco, Ivan, siamo arrivati, e tu piangi ancora? Piglialo, Caterina.

Sbarcarono tutti. Di là dalla montagna sorgeva una casa coperta di stoppia; era il maniero della famiglia del pan Danilo. Dietro al maniero era un’altra montagna e campi e campi; ma si sarebbe potuto correre per cento verste senza incontrare un solo cosacco.


III.

Il podere del pan Danilo trovasi posto fra due montagne, in uno stretto vallone, che scende verso il Dnepr. Il suo maniero non è alto; ha l’aspetto di una capanna, come pei semplici cosacchi, e nell’interno ha una stanza sola. Ma v’è luogo per lui, per la moglie, una vecchia serva, e dieci giovani scelti. Intorno alle pareti, in su, son palchetti di quercia. Su quei palchetti si accalcano pignatte, paiuoli per le vivande. In mezzo, vi si vedon anche coppe di argento e bicchieri cesellati di oro, avuti [p. 92 modifica]in dono o conquistati in guerra. Al di su, ancora, sono sospesi ricchi moschetti, sciabole, archibugi, lance, armi prese, di buona o mala voglia, a’ turchi, a’ tatari, ai liakhi; e perciò quasi tutte un po’ scheggiate: serbandole, il pan Danilo, come dinanzi a iscrizioni, ricorda le sue gesta. Lungo le pareti, giù, corron panche di quercia brunita; là vicino, dinanzi alla stufa, è la cuna sospesa a corde che scorrono girando in un anello fisso al soffitto. In tutta la stanza l’impiantito, nitido, è spalmato, quasi incerato d’argilla. Sulle panche si coricano il pan Danilo e la moglie; sulla stufa riposa la vecchia serva; nella cuna gioca o dorme il bambino, al suono d’una cantilena; sul pavimento dormono i giovinotti. Ma un cosacco preferisce dormire sulla nuda terra, a cielo aperto; non ha bisogno di letto di piume o di cuscino; si mette sotto il capo un po’ di paglia fresca e si stende a bell’agio sull’erba. Gli è grato, quando si desta nel ritmo della notte, mirare il cielo profondo disseminato di stelle e abbrividire alla frescura notturna, che ristora le membra; egli accende la pipa e si stringe addosso ancor meglio la calda pelliccia.

Burulebas non si svegliò di buon’ora la dimane della festa; e, levatosi, si sedette in capo alla panca, e si mise ad arrotare una nuova sciabola turca, che aveva barattata con altra merce, mentre la pania Caterina prendeva a ricamare in oro un fazzoletto di seta.

D’improvviso entrò il padre di Caterina, adirato, accigliato, con una pipa straniera fra i denti: andò verso la figlia e le chiese duramente perchè fosse tornata a casa tanto tardi.

— In quanto a questo, suocero mio, devi interrogare me, non lei. Non è la donna, ma l’uomo responsabile. Da noi, la cosa va così; non te ne crucciare, — disse Danilo, senza interrompere l’affilatura. — Se in certi paesi del settentrione la cosa è diversa... non so.

Il volto del suocero divenne di bragia dalla rabbia; gli occhi gli luccicarono stranamente.

— Chi dunque, se non il padre, deve occuparsi della figlia? — borbottò fra sé. — Allora, domando a te: dove sei andato scorazzando sino a mezzanotte?

Ah! si tratta di questo, caro suocero? Bene; devo dirti in tal caso che già da un bel pezzo io non son fra coloro che le vecchie fasciano. Io so tenermi a cavallo; so anche maneggiare una sciabola tagliente è so pure qual[p. 93 modifica]che altra cosa... So appunto non dare ad anima nata le ragioni di quel che faccio.

— Vedo, Danilo, e so a mia volta che ti piacciono le liti. Chi si nasconde deve avere, certo, cattive intenzioni.

— Pensa come vuoi, — rispose Danilo, — ch’io farò lo stesso. Grazie a Dio, sinora, io non mi son lordato mai di cose disonoranti; io mi son sempre levato per la fede ortodossa e per la patria; e non già come certi vagabondi, che giran Dio sa dove, quando gli ortodossi vanno alla morte, e poi tornano a rapire a costoro il frumento che han seminato. Essi non somigliano reppure agli ussiti, non entrano mai nella chiesa di Dio. A costoro, sì, si deve domandare dove vanno.

— Via, cosacco! Sai?... Io son cattivo bersagliere: a cento sagene7 la mia palla spacca il cuore; nella sciabola son mediocre; io taglio un uomo a pezzetti più piccoli dell’orzo mondato col quale si fa la kasa8.

— Io son pronto, — disse il pan Danilo, brandendo arditamente in aria la sciabola, come se l’avesse affilata addirittura per tale occasione.

— Danilo! — gridò vivamente Caterina, afferrandogli la mano e sospendendovisi: — ricordati, insensato, guarda su chi alzi la mano. E tu, babbo... hai i capelli bianchi come la neve, e molti in furia come un ragazzo che perde la testa.

— Donna! — urlò minaccioso il pan Danilo; — tu sai che ciò non mi garba; fa il tuo mestiere di donna.

Le sciabole cozzarono terribilmente; il ferro suonò sul ferro; e una pioggia di scintille avvolse i cosacchi. Desolata, Caterina si rifugiò in un altro canto, si gettò sopra un letto e si turò le orecchie per non udire l’urto delle sciabole. Ma i cosacchi si battevan sul serio e non badavano ad attutire i colpi. Il cuore le batteva sino a spezzarsi; lei sentiva lo strepito per tutta la persona; tac, tac, tac! «No, io non sopporterò... io non li lascierò... Forse già il sangue vermiglio scorre a fiotti da’ bianchi corpi... Forse in questo punto il mio diletto perde le forze; ed io, io resto qui!». E tutta tremante, quasi fuori di sè, ella rientrò nella stanza. [p. 94 modifica]

I cosacchi si battevano furiosamente, a forze pari; non uno la vinceva sull’altro. Ora attaccava il padre di Caterina, e il pan Danilo si difendeva; ora attaccava il pan Danilo, e il rosso padre parava; poi, si trovavan di nuovo sulla linea stessa. Grondavano schiuma. Alzarono le braccia... tam! Risuonaron le sciabole, e con fracasso le lame volaron d’ambo i lati.

— Ti ringrazio, mio Dio! — disse Caterina. Ma subito ruppe in un altro grido, vedendo i cosacchi dar di mano a’ moschetti... Aggiustarono la pietra focaia e alzarono il grilletto.

Tirò il pan Danilo, e fallì il colpo. Il padre mirò... vecchio, non vede bene come un giovine; la mano però non gli trema; tira; il colpo echeggia... Il pan Danilo vacilla; sangue vermiglio gli arrossa la manica sinistra della giubba.

— No! — gridò lui, — io non mi dò punto per vinto. Non la mancina importa, ma la diritta. Ho appesa alla parete una pistola turca; non mi ha tradito mai per tutta la vita. Scendi dal muro, vecchio compagno; rendimi un novello servizio.

Danilo stese la mano.

— Danilo! — invocò Caterina desolata afferrandolo per la mano e gettandoglisi alle ginocchia: — io non ti scongiuro per me, poichè la mia morte è prossima; è una cattiva donna colei che sopravvive allo sposo; il Dnepr, il Dnepr gelato sarà la mia fossa... Ma guarda tuo figlio, Danilo, pensa a tuo figlio... Chi riscalderà l’infelice bambino? Chi lo carezzerà? Chi gl’insegnerà a volare sopra un cavallo nero, a battersi per la libertà e per la fede, a bere e a sollazzarsi come un cosacco? Muori, figlio mio, muori! Il tuo babbo non vuole riconoscerti. Vedi come volge la testa?... Oh, adesso io ti conosco! Tu sei una bestia feroce, non un uomo. Tu hai cuore di lupo, un’anima di fango. Credevo che fosse in te una goccia di pietà, che nel tuo cuore di pietra fosse ancora qualche senso di umanità. Ah, mi ingannavo da folle! Sarai lieto, contento. Le tue ossa si metteranno a danzare per la gioia nella tomba, quando sentiranno che i Liakhi, empie belve, getteranno tuo figlio nel fuoco, o te lo scanneranno coi coltellacci e tu ne udrai le grida. Tu ne godrai nella bara e attizzerai col berretto il fuoco che gli arderà sotto.

— Basta, Caterina! Vieni, Ivan mio diletto, ch’io ti [p. 95 modifica]baci! No, figlio mio, nessuno ti torcerà un capello. Tu crescerai per la gloria della patria; come l’uragano tu galopperai davanti ai cosacchi con in capo il berretto di velluto, con la sciabola tagliente nella mano... Dammi la mano, babbo. Torniamo come prima. Ciò che ti ho fatto è ingiusto; lo riconosco. Mi darai la mano? — disse Danilo al padre di Caterina, che restava lì, allo stesso posto, non lasciando trasparir dal viso nè sdegno, nè riconciliazione.

— Babbo! — pregò Caterina, mentre gli si avvicinava e lo baciava; — non essere impassibile; perdona a Danilo; egli non ti si opporrà più, oramai.

— Solo per te, figlia mia, perdono, — rispose lui, e nel baciarla gli brillavano stranamente gli occhi.

Caterina ebbe un lieve brivido; quel bacio le parve cosa inaudita, e misterioso quel lampo di pupille. Si appoggiò coi gomiti alla tavola, sulla quale Danilo posava la mano ferita, fasciandola. E nel curarsi, cambiò di parere, stimando di aver fatto male e operato non come un cosacco, chiedendo perdono, quando lui non era colpevole punto.


IV.

Spuntò il giorno, ma senza sole; si coperse il cielo. e sulle praterie, sui boschi, sul lago Dnepr cadde una sottile pioggerella. La pania Caterina si destò con l’anima in pena; aveva gli occhi rossi e la vita intera inquieta, sconvolta. — Mio caro marito, marito mio diletto! Ho sognato un sogno spaventevole.

— Che sogno, mia cara Caterina?

— Ciò che ho sognato è proprio spaventevole, eppure mi sembrava di essere desta. Ho sognato che mio padre è lo stesso mostro che vedemmo dall’essaul. Ma, ti prego, non credere a questo sogno; quante sciocchezze non appaiono in sogno! Io gli stavo davanti, tutta tremante; avevo paura e ogni sua parola mi torceva i nervi. Se sapessi che cosa mi ha detto....

— Che ti ha detto, adorata Caterina mia?

— Mi ha detto: «Guardami, Caterina; io sono bellissimo. A torto la gente crede ch’io sia brutto. Io sarò per te un marito perfetto. Ve’ come mi brillano gli occhi!». [p. 96 modifica]

E mi fisso cogli occhi ardenti. Io gettai un grido e mi svegliai.

— Sì, i sogni dicono spesso la verità. Sai tu che là, dietro la montagna, non si è più tranquilli? I Liakhi ricominciano a volgere gli occhi a queste parti. Gorobez mi ha mandato a dire di star sulle scolte; lui si turba a torto, poichè, anche senza quelle voci, io veglio sempre. I miei giovani stanotte han fatto dodici atterramenti d’alberi. Noi gli accoglieremo con prugne di piombo e i signori polacchi danzeranno a suon di randelli.

— E il babbo sa codesto?

— Tuo padre mi pesa sulle spalle. Sinora non ho potuto capirlo. Egli ha commesso, certo, in terra straniera, molti delitti. Per qual ragione, a dirla fra noi, vive da un mese così, senza svagarsi mai, come fa un onesto cosacco? Non ha voluto bere idromele. Comprendi, Caterina? Non ha voluto bere l’idromele che presi dagli ebrei di Bretov... Olà, giovinotto! — gridò il pan Danilo; — corri in cantina, figliuolo, e portami dell’idromele ebreo. Lui non bevve neppure l’acquavite di granone! Che peccato! A me pare, pania Caterina, che non creda in Cristo nostro Signore. Di’: e a te che ne sembra?

— Santo Dio! Cosa ti viene in mente, pan Danilo?

— È curioso, pania! — seguitò Danilo prendendo dalle mani del cosacco un orcio; — gli stessi cattolici impuri gustano l’acquavite; solo i turchi non ne bevono. E tu, Stereko, ti sei goduto un bel po’ d’idromele, in cantina?

— L’ho appena assaggiata, pan.

— Tu menti, figlio di cane! Ve’ come le mosche ti si avventano ai baffi. Ti leggo negli occhi che ne hai ingozzato mezzo vedro. Oh, i cosacchi! Mala genia! Sempre pronto nel dare ai compagni, ma asciuga tutto quanto è liquido. E io, pania Caterina, da quanto tempo non mi ubriaco! Vero?

— Già, da un pezzo! Ma l’ultima volta...

— Non temer di niente, non temere. Non berrò più a boccali. Ma ecco il prete turco apre l’uscio!... — brontolò fra i denti, vedendo il suocero giungere alla porta.

— Or com’è mai, figlia mia? — disse il padre togliendosi di testa il berretto e aggiustandosi la cintura d’onde scendeva una sciabola dalle pietre stravaganti. — Il sole è già tant’alto e il pasto non è pronto?

— Il pasto è pronto, padre pan; ci accomoderemo su[p. 97 modifica]bito. Prendi una terrina di galuskij, — disse la pania Caterina alla vecchia serva, che asciugava il vasellame di legno: — anzi, aspetta; la prenderò da me; e tu chiama i ragazzi.

Tutti sedettero a cerchio per terra: sotto la finestra il pan padre; a mano manca il pan Danilo, e alla sua dritta la pania Caterina; i dieci giovinotti appresso, in gabbanetti azzurri e gialli.

— Non mi piacciono codesti galuskij, — disse il pan padre, mangiando un poco e lasciando il cucchiaio: — non san di niente.

— So che preferisci la lapsa9 ebrea, pensò fra se Danilo, — Perchè mai, suocero, — seguitò ad alta voce: — perchè dici che i galuskij non san di niente? Vuoi dire che sono mal fatti? La mia Caterina li sa fare come di rado ne mangia lo stesso etmano. Perchè rifiutarli? È un cibo cristiano... Tutta la gente pia e i santi han sempre mangiato galuskij...

Il padre non rispose sillaba, e il pan Danilo tacque.

Portarono un cinghiale arrostito, con cavoli e prugne.

— Non mi piace il porco! — disse il padre di Caterina, prendendo una cucchiaiata di cavoli.

— Perchè non gustare il porco? — disse Danilo: — solo i turchi e gli ebrei non mangiano il porco.

Il padre aggrottò le sopracciglia.

Mangiò solo un pezzo di torta col latte e burro, invece di acquavite, bevve certa acqua nera, che si versò da una fiaschetta che portava in seno.

Dopo il pasto, Danilo si addormentò d’un sonno così profondo che si svegliò solo sul far della sera. Sedette e si pose a scrivere le note per le orde cosacche, mentre la pania Caterina, seduta sulla stufa, tentennava col piede la cuna.

Il pan Danilo stava seduto; guardava con l’occhio sinistro la carta e col destro oltre la finestra. Vedeva di là nitide le montagne e il Dnepr; al di là del Dnepr, le foreste opaline; su, il cielo sereno della notte, che schiariva ogni cosa. Ma il pan Danilo, in verità, non mirava il cielo profondo e le foreste opaline; egli fissava l’occhio sul promontorio, ove nereggiava l’antico castello. Egli era sorpreso [p. 98 modifica]nel vedervi luccicare un foco da una finestrella. Ma in breve quel lume disparve; non era dunque, per certo, che una illusione. Non si sentiva che il mormorare del Dnepr, che scorreva cupamente laggiù, per tre grandi braccia le cui onde si accavallavano. Il Dnepr non si solleva, ma, come un vecchio, brontola e strepita; non ogni cosa gli piace, ma tutto gli si cambia intorno; lui rode pian piano le montagne che son sulle sue rive, i boschi, i prati, e reca i suoi lamenti al mar Nero.

Or ecco sul largo fiume apparir una barca e nel castello qualcosa luccicare nuovamente. Danilo dà un lieve sibilo, e a quel sibilo accorre uno de’ suoi fedeli giovinotti.

— Tu, Stercko, prendi la tua sciabola affilata, la carabina, e aspettami.

— Dove vai? — chiese la pania Caterina.

— Esco, donna. Occorre veder se tutto è a posto, in ordine.

— Ho molta paura di restar sola. Mi coglie il sonno; e se sognassi ancora? Non sono ancora sicura se quello era proprio sogno o vero.

— Resta con te la vecchia, e i cosacchi dormono nelle tende e nel cortile.

— La vecchia già dorme, e non ho fiducia de’ cosacchi. Senti, pan Danilo; chiudimi a chiave nella stanza, e la chiave portala con te. Avrò così meno paura; e i cosacchi si stendano davanti la porta.

— Sia pure! — disse Danilo, spolverando la carabina, e caricandola.

Il fedele Stereko era già pronto e armato.

Danilo si calcò il berretto d’astracan, aperse la finestra, chiuse la porta a catenaccio, dette una mandata alla toppa, e, fra i suoi cosacchi addormentati, uscì pian piano nel cortile, e via per la montagna.

Il cielo si era quasi affatto rasserenato. Un venticello fresco soffiava sul Dnepr; e, tranne i lamenti lontani degli alcioni, tutto sembrava muto.

Ma d’improvviso, un fruscio... Burulebas, col fedele servitore, si nascose quatto quatto in un cespuglio di vepri.

Un uomo in gabbanello rosso, armato di due pistole, con una sciabola a fianco, scese dalla montagna.

— È mio suocero, — disse il pan Danilo, osservando di dietro la macchia. — Dove va mai a quest’ora, che va fa[p. 99 modifica]cendo? — seguitò; — Stereko, non batter ciglio; guarda attentamente qual via prende mio suocero.

L’uomo dal gabbanello rosso discese sulla stessa riva e si volse all’altipiano che piombava a picco sul Dnepr.

— Ah! ecco dove va! — disse il pan Danilo. — Stereko, lui si è ficcato appunto dallo stregone, dietro un tronco d’albero.

— Sì, davvero; proprio là, pan Danilo! Se no l’avremmo veduto altrove; è scomparso vicino al castello.

— Fermo, allora! noi balzeremo fuori e ne seguiremo le tracce; qui siamo al coperto. No, Caterina; ti dissi che tuo padre non è un uomo onesto; non opera punto come un ortodosso.

Il pan Danilo e il fido compagno giunsero alla fine sull’altipiano. Ma eran nascosti dal bosco centenario che circonda il castello. Da una finestra in alto vedevasi un bagliore; i cosacchi si tennero al di sotto, divisando come potessero arrivarvi; non vedevano alcuna porta; una entrata doveva essere certo nel cortile; ma come trovarla? Non si sentiva di lontano che uno sbatter di catene e un abbaiar di cani.

— Perchè pensarci su tanto? — disse il pan Danilo, scorgendo un’alta quercia di rimpetto alla finestra. — Rimanti costì, caro, ch’io salirò sulla quercia. Di là si vede la finestra come di su il davanzale.

Si tolse la cintura, lasciò la sciabola giù temendo di dar di cozzo e far rumore, si arrampicò di ramo in ramo, e fu sull’albero. La finestra era sempre rischiarata. Sedutosi su di un ramo vicino, si protese alquanto e guardò.

Nella stanza non si vedeva lampada, eppure era illuminata. Alla parete eran segni fantastici, e appese armi quali non portano turchi, crimeesi, liakhi, cristiani, neppure il glorioso popolo degli svedesi. Al soffitto si scorgeva per ogni verso appese delle nottole, la cui ombra prospettavasi sui muri, sugli usci, sul pavimento. Ed ecco aprirsi silenziosamente una porta. Entra qualcuno in gabbanello rosso e va difilato verso la tavola, coperta di una tovaglia bianca.

— È lui, è il suocero!

Il pan Danilo si aggrappò alquanto più in giù, afferrandosi meglio all’albero. Ma il suocero non aveva agio di badar se vi fosse persona presso la finestra. Si avvicinò, in aspetto cupo, crucciato; tolse il mensale dalla tavola, e, d’improvviso, per tutta la stanza, si diffuse dolce luce az[p. 100 modifica]zurrina trasparente; sole, le onde della prima luce bionda dorata non vi si fondevano, ma striavano, ondulavano, come un mare turchino, e si fissero a striscie quali venature nel marmo. Egli posò allora un vaso sulla tavola e v’infuse alcune erbe.

Il pan Danilo seguitò a osservarlo, e non vide il gabbanello rosso: aveva invece larghi calzoni a guisa de’ turchi, e pistole alla cintura; portava in testa una curiosa acconciatura, coperta di lettere, che non eran russe o polacche. Danilo lo fissò in faccia; e la faccia cominciò a cambiare; il naso gli si allungo, pendulo sulle labbra; la bocca gli si allargò sino alle orecchie; gli sporse di bocca un dente e si piegò di sghembo; e così gli apparve lo stesso stregone che era comparso negli sponsali in casa dell’essaul.

— Il tuo sogno era vero, Caterina! — pensò Burulebas.

Lo stregone prese a girare intorno alla tavola; gli oggetti appesi alle pareti mutaron posto; i vespertiglioni starnazzarono per ogni senso, di su, di giù, innanzi, indietro.

La luce azzurrina si attenuò, impallidì, e alla fine sparve; e la stanza si colorì subito d’un lieve albore roseo. Con brusio sommesso parve che la magica luce percorresse tutti i canti; a un tratto sparve, e successe il buio profondo. Non si udiva che un fruscio, come lo stormir del vento nelle placide ore della sera, che sfiora lo specchio dell’acqua e vi tuffa meglio le ramaglie di salici argentei.

E il pan Danilo stupì al veder là, nella stanza, brillar la luna, girar le stelle e schiarire tristamente un cielo oscurato, e sentir il freddo dell’aria alitargli in viso. E il suo stupore crebbe (allora si tirò forte i baffi per accertarsi di essere desto, di non sognare) quando dalla stanza il cielo dileguò, e dette luogo addirittura alla stanza di lui, alla propria camera nuziale; pendevano dalle pareti sciabole tatare e turche; i palchetti reggevano i vasi e le stoviglie di casa; sulla mensa eran pane e sale; la cuna penzolava... ma al posto delle icone smorfeggiavano stravaganti figure sulla stufa... Ma ecco addensarsi una nebbia, nasconder tutto; e tornar nuovamente il buio fitto.

E di nuovo, con uno strano crepitìo, tutta la camera si illuminò di luce rossa ed egli vide di nuovo lo stregone immobile, col turbante magico. Crebbero i rumori e si avvicinarono; la luce rossa brillò di più, e qualcosa di celeste, quasi nube, alito nel mezzo della camera; e, davanti al pan [p. 101 modifica]Danilo attonito, la nube sparve e apparve una donna; ma donde veniva? era portata dall’aria? Come si reggeva così, senza toccar terra, senza appoggiarsi a niente, traversata dalla luce rosea, e lasciando vedere, nella evanescenza della persona, i segni che spiccavan sulla parete?

Ed ecco: lei scuote la testa diafana; gli occhi azzurri chiari le brillano soavemente; le si sciolgono i capelli e le scendono sulle spalle, come nuvola d’un grigio luminoso; le si tingon le labbra di un pallido incarnato, come per la trasparenza bianca del cielo mattutino sale il vermiglio dell’aurora; le si sfuman le sopracciglia... Ah, è dessa, Caterina!

E Danilo sentì le membra come incatenate; volle parlare ma le labbra gli si mossero senza profferir accento. Lo stregone restava là, immoto, al suo posto. «Dove eri?» le domandò; e lei gli rimase dinanzi tremante.

— Oh, perchè mi hai chiamata? — gemette con un fil di voce. — Ero laggiù, nella gioia. Ero nel luogo stesso dove son nata e dove son vissuta quindici anni. Deh, com’è bello laggiù! com’è verde, odoroso il prato, ove giocavo nella mia fanciullezza! E i fiori di campo, e la nostra capanna e l’orticello! Oh, come la mia buona mamma mi abbracciava! Quanto amore ne’ suoi occhi! Lei mi carezzava, mi baciava sulle labbra, sulle guance, e con un pettine fine mi pettinava la chioma bionda... Babbo! — e in così dire fissò lo stregone cogli occhi pallidi — perchè mi hai ucciso la mamma?

E la bellezza diafana tremò.

Lo stregone, con gesto terribile, la minacciò col dito: «Forse ti ho concesso di parlar su questo?».

E la bellezza diafana tremò.

— Dov’è in questo momento la tua pania?

— La mia pania Caterina dorme in questo momento, ed io era lieta, prendevo il volo e volavo via. Da molto tempo desideravo vedere la mamma. A un tratto ho avuto quindici anni e mi son sentita lieve lieve, come un uccello. Perchè mi hai chiamata?

— Rammenti ciò che ti dissi ieri? — domandò lo stregone con voce tanto bassa da sentirsi appena.

— Me ne rammento, me ne rammento; ma che non darei per poterlo dimenticare? Infelice Caterina! Lei ignora quel che sa l’anima mia.

— È l’anima di Caterina — pensò il pan Danilo. [p. 102 modifica]

— Fa penitenza, babbo! Non è già terribile l’angoscia che, dopo ognuno de’ tuoi omicidi, sorgano i morti di sotterra?

— Non prender a ridir codeste cose! — interruppe violento lo stregone. — Io ti costringerò; ti sforzerò a fare quanto io voglio. Caterina mi amerà!

— Oh, tu sei mostro, non padre! — gemette. — No, il tuo volere non si compirà mai. È vero bensì che hai, con nefandi sortilegi, ottenuto il potere di evocare l’anima e torturarla; ma Dio solo obbliga a fare ciò che gli piace. No, sin che Caterina vivrà nel mio corpo, non commetterà mai un’indegna azione. Padre! Il terribile giudizio è vicino! Se tu non fossi mio padre, non insisterei oltre a voler che inganni il mio sposo caro e fedele. Se pur mio marito non fosse fiducioso e dolce, io non lo ingannerei, perchè Dio non ama le anime spergiure e infedeli.

Ella fissò in quel momento i pallidi occhi verso la finestra, di fronte alla quale era intento il pan Danilo, e non si mosse.

— Dove guardi? Chi guardi? — gridò lo stregone.

La trasparente Caterina tremò; ma il pan Danilo era già lontano, giù, a terra, e si perdeva col fido Stereko nella montagna.

— Orribile! Orribile — diceva fra sè, sentendo in cuore come uno spavento. In breve giunse a casa, innanzi alla quale dormivano profondamente i cosacchi, meno uno, che fumava a pipa.

Tutto il cielo era disseminato di stelle.


V.

— Hai fatto tanto bene a destarmi! — disse Caterina, stroppicciandosi gli occhi con la manica ricamata della camicia e guardando da capo a piedi il marito che le stava. diritto davanti. — Che sogno spaventoso ho fatto! Il petto poteva appena respirare..... Uf!..... Mi pareva stessi per morire...

— Qual sogno? Non è questo?

E Burulebas prese a raccontarle quanto aveva visto.

— Come sai codesto, marito mio? — chiese Caterina at[p. 103 modifica]tonita. — Ma no; io non so molte cose che tu mi racconti. No; io non ho sognato che mio padre uccise la mamma; non ho veduto morti, nè... niente!

— Non è strano che tu non abbia veduto molto. Tu non sai la decima parte di quel che sa l’anima tua. Sai tu appunto che tuo padre è l’anticristo? Dall’anno passato, quand’io m’ero alleato coi Liakhi contro i Crimeani (davo ancor mano a quel popolo rinnegato), l’abate del monastero di Brazkij, un sant’uomo, mi disse che l’anticristo ha la potenza di evocare l’anima dell’uomo; ma l’anima vaga a sua posta, quando dorme, vola cogli arcangeli del paradiso di Dio. L’indole di tuo padre non mi s’era svelata agli occhi dal primo incontro. Se avessi saputo che tu avevi un simile padre, io non ti avrei sposata; ti avrei abbandonata, e non avrei commesso il peccato di congiungermi alla razza dell’anticristo.

— Danilo! — disse Caterina, coprendosi il viso con le mani, e singhiozzando: — son forse colpevole in qualche cosa verso di te? Ti ho forse ingannato, sposo mio caro? Perchè il tuo sdegno piomba su di me? Ti ho servito infedelmente? Ti ho detto mai parola avversa quando tornavi troppo brillo da un banchetto di giovinotti? Non ti ho dato un figlio dalle sopracciglia nere?

— Non piangere, Caterina; ora io ti conosco, e non ti lascerò mai per simile cosa. Tutto il mio sdegno ricade su tuo padre.

— No, non chiamarlo mio padre. Lui non è mio padre. Se Dio m’ascolti, io lo rinnego, io lo rinnego da padre. E l’anticristo, è l’apostata! Scompaia, si anneghi, non moverò dito per salvarlo, si avveleni con la mal’erba, non gli darò goccia da bere. Tu, tu solo sei il padre mio!


VI

Nella profonda cantina del pan Danilo, dietro tre chiavistelli, lo stregone è legato con catene di ferro; e lontano, al di sopra del Dnepr, divampa il suo diabolico castello, e le onde fiammeggianti rosse come sangue mugghiano e stringono invadendo le vecchie mura. [p. 104 modifica]

Non per gl’incantesimi e l’empietà lo stregone è chiuso nel profondo sotterraneo; per queste cose, sarà solo giudice Iddio; egli è là per segreto tradimento, per un accordo coi nemici della terra russa ortodossa; egli ha voluto consegnare ai cattolici il popolo di Ukraina, e far incendiare le chiese cristiane, Lo stregone è cupo; volge in mente idee nere come la notte; non gli rimane che un giorno di vita, poichè domani dovrà dire addio alla terra, domani lo aspetta il castigo.

E il castigo non sarà lieve; sarà invece già una pietà se lo cuoceranno vivo in una caldaia o se gli strapperanno la pelle.

Lo stregone è cupo e china la testa. Forse si pente al cospetto dell’ora fatale; ma i suoi delitti son tali, che Dio stesso non può perdonarli. Gli sta sopra una stretta finestra, munita di sbarre di ferro. Facendo suonar le catene, tenta di guardar da quella finestra se non passi la figlia. Lei è dolce, misericordiosa come una colomba: non avrà compassione del padre? Ma, niente. In giù stendesi la strada; non passa anima. Più giù scorre il Dnepr; su lui non c’è da sperare; lui mugola, e quello strepito suona lugubremente alle orecchie del prigioniero.

Ecco; qualcuno appare sulla strada... È un cosacco; e il prigioniero sospira penosamente. Tutto torna deserto.

Vien di lontano una persona... Ha un kuntus10; le brilla in capo un korablik11 d’oro... È lei; egli si accosta alla finestra. Ella giunge, si avvicina...

— Caterina, figlia mia; abbi pietà; fammi grazia!...

Ma lei è muta; lei non vuole ascoltare e distrae gli occhi dalla prigione; è già passata, è scomparsa. Tutto è deserto sulla terra; il Dnepr mormora tristemente; un senso d’angoscia stringe il cuore; ma può forse lo stregone provar quell’angoscia?

Passa il giorno. Già il sole tramonta; scompare. È sera; fa fresco; un bove muggisce lontano; giungono rumori da altre parti; certo, la gente torna dal lavoro, si diverte; sul Dnepr luccica una barca... A chi può esser utile tanto quanto sarebbe al prigioniero? Una serpe di argento, la lu[p. 105 modifica]na, brilla nel cielo. Ecco: dal lato opposto alla strada giunge alcuno; si distingue appena nel buio: è Caterina che torna...

— Figlia mia, per amor di Dio! Gli stessi lupi crudeli non sbranano la madre; figlia mia, getta almeno un’occhiata al tuo padre colpevole!

Lei non ascolta; passa.

— Figlia mia, per amore della tua disgraziata mamma!..

Lei si ferma.

— Vieni ad ascoltare la mia ultima parola!

— Perchè mi chiami, rinnegato? Non chiamarmi figlia tua. Fra noi non c’è parentela. Che vuoi da me per l’amore della mia disgraziata mamma?

— Caterina, la mia fine è giunta; lo so; tuo marito vuol legarmi alla coda d’un puledro e lanciarmi per la campagna; si pensa forse a un supplizio più atroce...

— C’è forse al mondo un supplizio pari ai tuoi delitti? Aspettalo; nessuno può intercedere per te.

— Caterina! Il supplizio non mi spaventa; mi spaventano le pene dell’altro mondo... Tu sei innocente, Caterina; l’anima tua volerà in paradiso presso Dio; ma la rinnegata anima di tuo padre brucerà nel fuoco eterno, e quel fuoco non si spegnerà mai; brucerà sempre più violento; e non goccia di rugiada scenderà mai dalla mano di alcuno, non aliterà mai soffio di vento...

— Io non son padrona di alleviar codesto castigo — disse Caterina, volgendosi.

— Caterina! Ascolta ancora solo una parola: tu mi puoi salvare l’anima. Tu non sai bene quanto Dio è buono, misericordioso! Hai inteso parlare dell’apostolo Paolo, che fu peccatore... e diventò santo?

— Che poss’io fare per salvarti l’anima? — chiese Caterina. — Debbo io, debole femmina, pensare a ciò?

— Se riuscissi a uscir di qui, abbandonerei tutto; farei penitenza; andrei in una caverna, mi coprirei il corpo d’un aspro cilicio, e pregherei Dio notte e giorno. E la mia bocca non toccherebbe mai cibo grasso, neppure un pesce. Non spoglierei le vesti per riposarmi. E pregherei sempre, pregherei senza posa. E quando la misericordia di Dio non mi abbandonasse oltre, a malgrado de’ miei tanti delitti, allora mi sprofonderei in terra sino al collo o mi chiuderei in un muro di pietre; non prenderei più cibo o bevanda, e morirei; e lascerei ogni bene ai monaci, perchè, durante [p. 106 modifica]quaranta giorni e quaranta notti, celebrassero per me le esequie.

Caterina osservò:

— Se pure io ti aprissi, non potrei spezzarti le catene.

— Non temo le catene, — rispose lui. — Tu dici che mi stringono le mani e i piedi? No: io gettai loro nebbia negli occhi, e, invece delle mani, io detti loro un arido tronco. Ve’ guarda; ora non ho ombra di catena disse mettendosi nel mezzo della stanza. — Io non temerei neppure questi muri e fuggirei; ma tuo marito ignora che muri son questi; furono costrutti da un santo eremita, e non v’è forza impura che possa trarne uno stregone, se non gli è aperto con la stessa chiave con la quale il santo chiudeva la sua cella. E da questa cella io non uscirò appunto, misero peccatore, se non quando sia liberato di buon grado.

— Ascolta; or io te ne farò uscire; ma tu non m’inganni? — disse Caterina, stando innanzi alla porta: — e se tu, invece di far penitenza, tornassi verso il diavolo?

— No, Caterina; io non ho più molto da vivere; la mia fine è vicina, pur senza supplizio. Puoi credere ch’io mi getti in un castigo eterno?

Cigolarono i chiavistelli.

— Addio! Ti guardi la misericordia di Dio, figlia mia, — disse lo stregone, e la baciò.

— Non toccarmi, peccatore nefando; fuggi senza indugio... — disse Caterina.

Ma egli era già scomparso.

— L’ho lasciato fuggire — soggiunse scrutando le pareti. — Che risponderò ora a mio marito? Sono perduta. Non mi resta che seppellirmi viva nella tomba.

E, singhiozzando, si lasciò quasi cadere sul tronco, ove sedeva lo stregone.

— Ma ho salvato l’anima sua — aggiunse a bassa voce: — ho compiuto un’opera gradita a Dio. Eppure... mio marito, ecco, l’ho tradito per la prima volta. Oh, come sarà terribile, come sarà difficile dirgli una menzogna! Vien qualcuno!... È lui, mio marito! — esclamò lei, disperata.

E cadde a terra priva di sensi. [p. 107 modifica]


VII

— Son io, piccina mia! son io, mio cuore! — intese Caterina, tornando in sè; e si vide innanzi la vecchia serva. La baba12, ginocchioni, le sembrava borbottasse qualcosa, e stendendole sopra la mano rugosa, la spruzzò d’acqua fresca.

— Dove sono? — chiese Caterina, alzandosi e guardandosi attorno. — Innanzi a me mugola il Dnepr; dietro, sono le montagne... Dove mi hai condotta, baba?

— Non ti ho condotta, ma portata via; ti ho portata via sulle braccia dalla cantina dove si soffoca; e ho rinchiuso la porta a chiave, perchè non ti colga male dal pan Danilo. — Dov’è la chiave? — domandò Caterina, guardandosi la cintura: — non la veggo.

— Tuo marito te l’ha sciolta per andare a veder lo stregone, piccina mia!

— Andare a vederlo!... Baba, sono perduta! — gridò Caterina.

— Se Dio ce la perdoni, figlia mia, non dirne parola, mia poverina cara, nessuno saprà niente.

— Se n’è scappato! II maledetto anticristo se n’è scappato! intendi, Caterina? — disse il pan Danilo accorrendo verso la moglie.

Gli occhi gettavan lampi; la sciabola, come percossa. gli tremava a fianco. La moglie fu colta da pallore mortale.

— Qualcuno l’avrà fatto uscire, marito mio? — chiese lei tremante.

— Qualcuno l’avrà fatto uscire; hai ragione, e l’ha fatto uscire appunto il diavolo. Or ve’, al suo posto era una trave incatenata. Dio ha dunque voluto che il diavolo non tenesse le mani cosacche. Se mai fosse un de’ miei cosacchi a propiziar la fuga, e io lo sapessi... non saprei trovar castigo grande degno di lui.

— E se fossi io? — disse non volendo Caterina, rimanendo impietrita dal terrore. [p. 108 modifica]

— Se avessi osato, allora tu non saresti più mia moglie. Ti cucirei in un sacco e ti getterei nel bel mezzo del Dnepr.

Caterina si sentì girar la testa e le si rizzaron i capelli dallo spavento.


VIII

In una taverna, su di una strada della frontiera, i Liakhi sono riuniti e si danno bel tempo da due giorni; son molti e vengon certo per qualche scorreria; alcuni sono armati di moschetto; tintinnano gli speroni, cozzano le sciabole. I pannij si divertono e ciarlano; raccontano gesta che non sono mai avvenute; si piglian gioco degli ortodossi, chiaman servo il popolo d’Ukraina, e in aria terribile si arricciano i baffi; poi, gravemente, a testa piena si stendon sulle panche. Fra di loro è un prete cristiano; beve e gavazza con tutti, e tiene con accento d’empietà discorsi vergognosi.

E i valletti non la cedono a’ padroni; si son rimboccate le maniche a’ laceri gabbani e fanno i bravacci, come se fossero arnesi da bene; giuocano a carte, occultandosele coi naso; si contendono femmine straniere; e via, grida e tafferugli!

I panij van sulle furie, e rovescian le tavole; afferran per la barba un ebreo e gli disegnano una croce in fronte; tirano una scarica a voto su povere vecchie e ballano la krakoviak13 con quel prete ribaldo. La terra russa non ha veduto simili scandali dal tempo de’ tatari; si vede che Dio permette tante nequizie appunto per punirla.

Fra il tumultuare di tutti, si ode parlar della terra di oltre Dnepr, del pan Danilo, della bellezza di sua moglie...

Certo, non per una buona causa si è raccolta simile bordaglia.


IX

Il pan Danilo è seduto innanzi alla tavola, nella sua stanza; si poggia sul gomito e pensa. La pania Caterina è seduta sulla stufa e canta una canzone. [p. 109 modifica]

— Io mi sento triste, donna, — dice pan Danilo; — ho mal di capo e di cuore. Son di peso a me stesso. Certo la mia sorte non è lontana.

— Oh, sposo mio diletto, poggia la festa su di me. Perchè ti crucci in tante idee nere? — pensò Caterina, ma non osò dirlo. Ora le era penoso ricevere le carezze del marito.

— Ascolta, donna, — disse Danilo: — non abbandonare il figlio mio quando io non sarò più qui. Dio non ti darà bene in questa vita e nell’altra, se tu lo abbandoni. Sarebbe troppo strazio alla mia casa l’imputridire nell’umida terra, e strazio maggiore all’anima mia.

— Che dici, sposo mio? Non ti ridi di noi, povere donne? E ora tu parli come noi donne. Bisogna vivere ancora per cent’anni.

— No, Caterina; la mia anima sente vicina la morte. Qualcosa di triste sta sulla terra; i tempi cattivi son giunti. Oh, io mi ricordo, mi ricordo gli anni passati; non torneranno più certo. Viveva ancora l’onore e la gloria delle nostre armi, il vecchio Konasevic. Mi vedo dinanzi agli occhi difilare i reggimenti cosacchi! Era l’età dell’oro, Caterina! Il vecchio etmano sedeva sul suo cavallo nero; nella mano gli luccicava il bastone del comando; intorno i capi, e dietro la rossa marea dei zaporoghi. L’etmano cominciò a parlare, e tutti fecero silenzio, come la tomba. Il vecchio piangeva, ricordandoci le nostre gesta, i nostri combattimenti passati. Se tu sapessi come ci combattevamo allora coi turchi! Mi si vede ancora in testa una ferita. Quattro palle mi traforarono il capo, e ciascuna ferita non è rimarginata del tutto. Quant’oro guadagnavamo allora! I cosacchi pigliavan a pieno i cappelli, le pietre preziose. E che cavalli, Caterina, se tu sapessi che cavalli prendevamo allora! Mi par di non esser ancora vecchio, di esser anzi robusto; ma il brando polacco m’è caduto di mano; vivo senza far niente e non so più perchè vivo. Non è più ordine in Ukraina: i polkovnikij e gli essauli14 si accapiglian fra loro, come cani; non è più su di loro un capo supremo. La nostra nobiltà ha preso i costumi polacchi e imparato il russo, ha venduto l’anima e accetta l’unione coi cattolici... L’ebreismo opprime il popolo infelice. Oh, il tempo, il tempo passato! Che siete divenuti, anni miei? Va’, ragazzo, in canti[p. 110 modifica]na e portami una ciotola d’idromele. Voglio bere all’antica libertà e agli anni trascorsi!

— Come riceverai gli ospiti, pan? Di là, dalle praterie giungono i Liakhi! — disse Stereko entrando nella capanna.

— So perchè vengono, — rispose Danilo, balzando. — Sellate i nostri cavalli, fedeli servitori! Indossate gli arnesi da guerra! Sciabole al vento! Non perdete tempo a raccoglier le palle di piombo; bisogna ricevere gli ospiti nostri con onore.

Ma i cosacchi avevano avuto appena il tempo di montare a cavallo e di caricare i moschetti, che i Liakhi, come foglie che cadon dall’albero al suolo sul finir dell’autunno, copersero l’altura.

— Orsù! C’è costì con chi discorrere! — disse Danilo, osservando i grossi panij caracollanti inanzi sui cavalli, e coperti di armature d’oro. — Vedo che potremo ancora una volta coprirci di gloria. Rallegrati, anima cosacca, per l’ultima volta rallegratevi, ragazzi; è giunto per noi il giorno della festa.

E la festa comincia sulla montagna, e il convito dura a lungo; scintillano le spade; fischian le palle; i cavalli nitriscono, scalpitano; il tumulto fa perder la testa; gli occhi si accecan nel fumo. Tutto si confonde; ma il cosacco discerne qual’è l’amico, qual’è il nemico; sibila una palla, e un ardente cavaliere cade d’arcione; balena una sciabola, e rotola per terra una testa, che mormora parole insensate.

Ma, nel tumulto, la punta rossa del berretto di Danilo domina tutto; si scorge la sua cintura dorata sul gabbano azzurro; ondeggia al vento turbinando la criniera del suo cavallo nero. Come un uccello, apparisce di qua, di là; grida e brandisce una spada damascata che fende spalle a dritta e a mancina. Picchia, cosacco! rallegrati, cosacco! appaga il tuo giovine cuore! ma non indugiarti alle cinture d’oro e ai mantelli; calpesta l’oro e le pietre preziose. Ammazza, cosacco! godi, cosacco! ma guardati addietro: i Liakhi senza onore già metton foco alla capanna, e sbandano il bestiame spaventato. E, come l’uragano, il pan Danilo torna appunto indietro; e il berretto dalla punta rossa già spicca vicino alla capanna, mentre la turba gli si allarga o accalca intorno.

Da oltre due ore Cosacchi e Liakhi si battono; da una parte e dall’altra, alcuni smettono; ma il pan Danilo non si [p. 111 modifica]stanca; egli scavalca i Liakhi con la lunga lancia e passa col focoso cavallo i fantaccini. Già la porta si libera; già i nemici volgono alla fuga; già i cosacchi strappano ai morti le spoglie dorate, le ricche armature, già il pan Danilo si slancia allo inseguimento e guarda per raccogliere i suoi... quando è colto da subito sudore: scorge il padre di Caterina. Costui sta sul poggio; lo mira col moschetto... Danilo sprona il cavallo e gli corre contro a tutta foga... Cosacco! Tu corri alla morte!... il moschetto echeggia... e lo stregone scompare dietro l’altura. Ma il fido Stereko lo riconosce dal gabbanello rosso, dalla bizzarra acconciatura. Il cosacco vacilla e cade a terra. Il fedele Stereko si avventa sul suo signore, che è là disteso, a occhi chiusi; il sangue vermiglio gl’irrompe gorgogliando dal petto. Ma certo egli ha sentito il fedele servitore; apre a stento le palpebre, gli luccicano gli occhi.

— Addio, Stereko! Di’ a Caterina che non abbandoni mio figlio. E non lo abbandonate neppur voi, fedeli servitori! — E tace: l’anima cosacca è volata via dal suo nobile corpo; gli si illividiscono le labbra; il cosacco dorme in eterno.

Il servitore singhiozza e accenna con la mano a Caterina.

— Via, pania; accorri; il tuo signore si è divertito; egli è oramai Uro-morto, sulla terra umida; per lungo tempo non si desterà.

Caterina batte convulsa le palme, e si abbandona come un fascio sul corpo inanimato.

— Sposo mio! Tu sei dunque qui steso, a occhi chiusi? Alzati, mio diletto falco, tendi le mani; salvati. Guarda almeno una volta ancora la tua Caterina; muovi le labbra, pronuncia la minima parola!... Ma tu taci, tu taci, mio radiante signore! Tu illividisci, come il Mar Nero! Il cuore non ti batte più!... Perchè sei così gelato, o mio signore! Le mie lacrime, vedo, non sono abbastanza ardenti per riscaldarti. I miei gemiti non sono tanto alti da svegliarti! Chi guiderà ora le tue genti armate? Chi monterà sul tuo cavallo nero, griderà e brandirà le tue sciabole alla testa dei cosacchi? Cosacchi! Cosacchi! Cosacchi! Dov’è il vostro onore, la vostra gloria? Ecco: giaciono qui, ad occhi chiusi, sull’umida terra. Seppellitemi, sotterratemi con lui. Gettatemi terra negli occhi. Inchiodatemi tavole di acero bianco sul petto. A che vale omai più la mia bellezza? [p. 112 modifica]

Lei piange e si percote.

Ma tutto l’orizzonte copresi d’un nuvolo di polvere: è il vecchio essaul Gorobez che giunge a soccorso.


X

Meraviglioso è il Dnepr, quando in una giornata tranquilla fluisce con acque libere, tacite, giù fra boschi e monti. Non agitamenti, non strepiti di sorta. Si guarda e non si sa se quella sua massa maestosa cammini o non cammini; e si rimane attoniti, giacchè sembra correre sotto uno specchio, mentre quel suo nastro verde-azzurro, dalla lunghezza senza fine, dalla larghezza smisurata avanza e ondula nella verzura. Il sole ardente gode nello specchiarvisi dall’alto del cielo, e nell’immergervi i raggi nella freschezza delle acque cristalline e a riflettervi nitidamente i boschi che coprono le rive. I cespugli verdeggianti si affollano coi fiori campestri sull’orlo delle acque, e vi si chinano, guardandovi entro, non per rimirarsi e compiacersi del fiorito aspetto, ma per sorridere al fiume e rendergli omaggio.

Non osan però guardare nel bel mezzo del Dnepr; niuno, tranne il sole e il cielo azzurro, lo scruta; raramente l’uccello giunge nel mezzo del Dnepr: è splendido; e non è al mondo riviera che possa simigliargli.

Pur meraviglioso è il Dnepr in una calda notte d’estate, quando tutto dorme: uomo, bestia, uccello; quando Dio solo contempla maestosamente cielo e terra e scuote il mantello, d’onde piovon le stelle; le stelle scintillanti e brillanti sul mondo e tutte riflettenti nel Dnepr. Egli le riceve tutte nel suo cupo seno, e non glie ne sfugge una sola, se pur non si spenga nel cielo. Una nera foresta, dalle cornacchie assopite, montagne scoscese un tempo, che scendono a picco, tentan di coprirlo con la lunga loro ombra... Invano! Niuno al mondo può coprire il Dnepr! Il suo flutto azzurro scorre, sempre azzurro, nel mezzo della notte come in giorno pieno; lo si distingue bene sin dove giunga l’occhio umano. Cullandosi e stringendosi sempre più alle rive pel freddo della notte, egli ha talora l’onda argentea che brilla come lama di spada damaschina; ma poi si riassopisce, sempre azzurro. Meraviglioso è allora il Dnepr, e non è al mondo riviera che possa simigliargli. [p. 113 modifica]

Quando in cielo le nuvole si accavallano a guisa di monti, quando le foreste nere si squassano dalle radici, quando crocchian le querci, e la folgore, scoppiando fra le nuvole, illumina d’un lampo tutta la terra: allora, il Dnepr è tremendo. I cavalloni mugghiano, urtando contro le colline, e con lamenti e strepito, rimbalzano, piangendo e singhiozzando, lontano, lontano. Così geme una madre cosacca, il cui figlio parte per la guerra: costui, prode, spensierato, va sul cavallo nero, col pugno all’anca e il berretto sciolto, ma lei singhiozzando gli corre incontro, lo afferra per le staffe, ghermisce il morso, vi strazia le mani, e piange a calde lacrime.

Come strane macchie, fra le ondate in lotta, apparivan le travi arse e le pietre sul promontorio. Una barca, lì lì per approdare, batteva contro la sponda, levandosi sulla cresta de’ flutti e ricadendo. Qual cosacco ardiva vagare così sul battello, a quell’ora che il vecchio Dnepr era sulle furie? certo egli non sapeva che inghiotte genti come mosche.

Il burchiello poggia, e n’esce lo stregone. Non era allegro: gli è stata amara la festa funeraria celebrata da cosacchi pel loro morto signore. Molti furono i Liakhi rimasti vittime: quarantaquattro panij coi loro arnesi e i gabbani e trentatrè valletti sono stati tagliati a pezzi: i superstiti sono stati condotti in prigione per esser venduti ai tatari.

Egli scese pei giardini di pietra, fra travi tracciati, sino a una fossa profonda ov’egli si era costrutto un rifugio sotterraneo. Vi entrò adagio adagio, facendo cigolar la porta; posò sulla tavola, coperta da tovaglia, un vaso, e vi gettò con lunghe mani alcune erbe sconosciute; prese poi una ciotola, fatta col legno d’un albero magico; con essa attinse acqua, e l’acqua prese ad aspergere intorno, movendo le labbra e profferendo scongiuri.

Apparve nella stanza una luce rosea, e allora l’aspetto dello stregone divenne tremendo. Tutto il viso parve coperto di sangue; solo le profonde rughe v’imprimevan solchi più scuri e gli occhi parevan divampare. Empio peccatore! Da un pezzo ha la barba grigia; la faccia grinzosa; le membra inaridite; eppure medita sempre colpevoli disegni.

Nel mezzo della camera cominciò ad alitare una nuvoletta bianca, mentre qualcosa simile alla gioia illuminò la faccia dello stregone; ma perchè d’un tratto egli si è fermato immobile, a bocca aperta, non osando batter ciglio; e [p. 114 modifica]perchè gli si rizzano i capelli sui capo? Nella nuvola, là, dinanzi a lui, è apparsa una strana figura. Senza esser chiamata, ne evocata, si è invitata da sè in quel convegno, e per di più riluce ancora e gira gli occhi vivaci. I lineamenti, le sopracciglia, gli occhi, le labbra... tutto gli è ignoto; durante la vita intera non l’ha mai veduta. E ciò gli sembra terribile, poichè un invincibile spavento lo invade. Ma la testa sconosciuta, sorprendente, traverso la nuvola, lo guarda fiso. La nuvola dilegua; ma quei tratti ignoti sembrano spiccar meglio, e quegli occhi acuti non gli si staccan di dosso. Lo stregone diviene bianco come un cencio; urla con voce acuta e che non è la sua, rovescia il vaso...

Tutto scompare.


XI

— Calmati, sorella mia diletta! — diceva il vecchio essaul Gorobez: — i sogni dicon di rado il vero.

— Càlmati un poco! — diceva la sua giovine nuora: — farò venire una vecchia fattucchiera, contro la quale non è forza che tenga; lei ti toglierà qualunque turbamento.

— Non temere di nulla! — diceva il figlio, stringendo la sciabola: — niuno potrà torcerti un capello.

In aria cupa, cogli occhi torvi, Caterina li guardò e non seppe rispondere parola.

— Preparai la mia rovina io stessa, lasciandolo fuggire! — disse alla fine. — Non avrò più requie. Ecco, sono oramai dieci giorni che sto con voi a Kiev, e non cessano le lacrime e tormenti. Pensavo, nella tranquillità, di allevare mio figlio per la vendetta... quando mi è riapparso in sogno colui, terribile, terribile! Dio vi salvi dal guardarlo! Il cuore mi sussulta ancora!... «Io ucciderò tuo figlio, Caterina!» ha gridato, «se tu non consenti a maritarti con me!»

E, singhiozzando, si gettò sulla cuna; ma il bambino, intimorito, stese la manina e strillò.

Il figlio dell’essaul ribolliva, schizzava dall’ira, udendo narrare così. Uscì, e lo stesso essaul, alzando gli occhi acuti, esclamò:

— Provi a venir qui, il maledetto anticristo! Sentirà che forze restano nelle mani d’un vecchio cosacco. Sa Dio [p. 115 modifica]se ho galoppato per correre in aiuto del fratel nostro Danilo. Ma fu la santa volontà. Egli riposa nel freddo letto, dove son distesi molti fra i prodi del popolo cosacco. Forse la festa del suo funerale non fu bella quant’egli meritava? Lasciammo un solo Liakho vivo? Quetati, figlia mia! Niuno oserà toccarti, sin che io e mio figlio respireremo.

Così dicendo, il vecchio capitano si avvicino alla cuna, e il piccino, nel veder la stupenda pipa sospesa a una correggia, in una guaina d’argento, e il gaman15 a foco, gli tese le manine e si mise a ridere.

— È tutto il padre! — disse il vecchio capitano, sciogliendo la pipa e dandogliela: — non esce ancora dalla cuna e già pensa a farsi una pipata!

Caterina sospirò lievemente e prese a dondolare la cuna. Convennero di passar la notte insieme; e senza indugiar oltre, tutti si addormentarono. Anche Caterina si assopì.

Nel cortile e nella casa tutto era tranquillo; vegliavan solo i cosacchi alla scolta. D’improvviso Caterina getta un grido, si desta e tutti sussultano con lei. «È morto! È ucciso!» esclamava; e si precipitò verso la cuna...

Tutti circondarono la cuna; e rimasero impietriti dal terrore, vedendo ch’essa non conteneva che un piccino morto.

E niuno poteva profferir parola, istupiditi davanti a quel delitto inaudito!


XII.

Lontano dalla terra d’Ukraina, andando verso la Polonia, e lasciando da banda la popolosa città di Lemberg, si aggruppano montagne dalle alte vette. Addossate le une alle altre, con catene di macigni, avanzano a diritta e a sinistra e cingon la contrada d’un baluardo pietroso, come a proteggerla dall’invasione del mare che mugghia e tuona. Queste catene vanno verso la Valachia e le provin[p. 116 modifica]cia di Sedmigradskij16, spiegando la lor mole in forma di ferro di cavallo, fra le genti ungheresi e galiziane. Montagne simili non si vedon dalle nostre parti. L’occhio non osa contemplarle, e mai piede umano calcò i loro pinnacoli. Si resta attoniti a vedere. Forse il mare tranquillo balzò in un giorno di uragano fuori delle sponde, lanciando in turbini ondate mostruose, e le ondate a un tratto impietrarono e restaron là, immobili nell’aria? O nuvole pesanti cadder dal cielo e ingombrarono la terra? Non si sa; ma esse hanno una stranissima tinta grigia, mentre la loro cima brilla e scintilla al sole. Sino ai monti Karpati s’ode la lingua russa, anzi, sino al di là dei monti, s’ode tuttavia l’accento nostro; ma la fede non è più la stessa e pure la favella è diversa. Colà vive la poco numerosa stirpe ungherese, che monta a cavallo, si batte e beve bene quanto i cosacchi; ma non cavan di borsa tanti ducati fiammanti quanti costoro per bardare i cavalli e adornarsi i gabbani.

Fra le montagne son grandi laghi, immobili come cristallo; e, come specchi, riflettenti le nude guglie de’ monti e i loro piè verdeggianti.

Ma chi mai, nel mezzo della notte (non si sa brillino o non brillino le stelle), cavalca su di un cavallo nero? Qual cavaliere dalla stature sovrumana galoppa fra i monti, lungo i laghi, riflettendo nelle acque quete il suo cavallo gigantesco, mentre l’immensa sua ombra stendesi sulle alture? Splende la sua corazza cesellata; sull’omero egli porta la lancia; in testa calcato il cimiero; ha neri i mustacchi; gli occhi chiusi, le ciglia basse; dorme, e dormendo regge le briglie; e dietro di lui siede, sul cavallo medesimo, un giovine paggio, che dorme anch’esso, e, dormente, si aggrappa al cavaliere.

Chi è? D’onde viene? Perchè cavalca? Chi lo sa?

Già da oltre due giorni traversa montagne. Quando spunta il giorno e splende il sole, egli diventa invisibile; e soli, ma di rado, i montanari notano che sui monti si profila un’ombra lunga lunga, mentre il cielo è limpido, senza nubi.

Ma appena la notte n’adduce il buio, lo si rivede novellamente galoppar tra i laghi, mentre l’ombra gli si allunga di dietro tremolando. [p. 117 modifica]

Egli ha già traversato molti monti; è salito sul Krivan. Non è montagna più alta su i Karpati: come uno zar, si leva sulle altre; il cavallo ivi si ferma; si ferma il cavaliere, e si sprofonda sempre più nel sonno: le nuvole, abbassandosi, ce lo nascondono.


XIII.

— Più piano, baba! Non far tanto chiasso; il mio bambino si è addormentato. Ha gridato a lungo il mio figliuolino; ora, dorme. Ora, io voglio andar nella foresta, baba. Ma, perchè mi guardi così? Tu mi fai paura: dagli occhi ti escono tenaglie di ferro... oh, come sono lunghe! e luccicano come foco. Tu sei certamente una vedma17. Oh, se tu sei davvero una vedma, allora, via di qui! Tu spaventi mio figlio. Quanto è stupido codesto essaul, che crede io stia contenta a Kiev! No, mio marito è già qui, e mio figlio; chi baderà dunque alla casa? Io son venuta via adagino adagino, così che non mi hanno inteso nè cane nè gatto... Vuoi, baba, far la giovinetta? Non è difficile. Basta ballare... Ve’, come ballo io...

E fra queste strane parole, Caterina si dette a ballare, guardando in ogni canto con aria smarrita, e piantandosi le mani a’ fianchi.

Batteva i piedi, gettando grida; gli ornamenti d’argento tintinnavano senza cadenza o misura; sul suo collo bianco si torcevano i riccioli neri non intrecciati. Come un uccello, senza fermarsi, volava, battendo le mani e dondolando il capo, e pareva stesse, col mancar delle forze, sul punto di piombar per terra o di perdere i sensi.

La vecchia balia se ne stava là, triste; e quelle rughe del viso eran piene di lacrime; pesava profondo il dolore sul cuore de’ suoi fedeli nel guardare la loro pania... Lei si indeboliva affatto, e non muoveva più lentamente i piedi sullo stesso punto, credendo di danzare la gorliza18.

— Ho una corona, giovinotti — disse alla fine, fermandosi, — e voi non ne avete. Dov’è mio marito? — gridò d’un tratto, traendo dalla cintura un pugnale turco. — Oh, non è un coltello, come quel che bisogna! [p. 118 modifica]

Poi, le apparvero in volto lacrime ed ansie.

— Il cuore di mio padre è lontano; non può raggiungerlo. Il suo cuore è fatto di ferro; una vedma glie lo ha fucinato nel foco dell’inferno. Perchè mio padre non viene? non sa ch’è venuta l’ora della sua morte? Vedo: vuole che vada io stessa...

E senza finire, scoppiò a ridere in modo spaventevole.

— Mi è venuta in mente un’allegra storiella; or mi ricordo come hanno seppellito mio marito. Sapete che lo hanno sotterrato vivo?... Che follia di riso mi ha preso allora! Ascoltate, ascoltate!

E invece di parlare, prese a intonare una canzone, a mescolare arie gioconde e tristi, accompagnate da parole prive di senso.

Son già tre giorni ormai che vive nella sua casa, senza voler sentir parlar di Kiev, senza pregare, fuggendo la gente, errando da mattina a sera nella cupa foresta. Le spine le graffiano la faccia e le spalle; il vento le arruffa i riccioli intrecciati; le foglie d’autunno le crepitano sotto i piedi; ma lei non bada a niente. Nell’ora che scende il crepuscolo, quando non brillano ancora le stelle e non è sorta la luna, è già pauroso l’andar nella foresta: in quei momento, i bambini non battezzati si graffiano, si afferrano alle ramaglie, singhiozzando, ridono, si rotolano a palla pei sentieri e per le ortiche; dalle onde del Dnepr sfuggono a stuoli le anime perdute delle fanciulle; scendon dalla lor testa verde le chiome sulle spalle; scorre mormorando l’acqua da’ lunghi suoi capelli e la giovinetta luce traverso il flutto come traverso una camicia di vetro; le ridon le labbra argute, le fiammeggian le gote, gli occhi attiran l’anima... L’anima umana si sente arder d’amore, vuol baciare avidamente... Fuggi, uomo battezzato!... Quelle labbra, son ghiaccio; il suo letto, è l’acqua fredda; lei ti farà morire sotto le sue carezze e ti trascinerà sulla riviera.

Caterina non guarda niente; la povera pazza non teme le rusalki 19; lei gira sul tardi, brandendo un coltello, e cerca suo padre. [p. 119 modifica]

Un mattino, di buon’ora, giunse un ospite di alta statura, in gabbano rosso, che chiese del pan Danilo; ascoltò tutta la storia, si asciugò con la manica gli occhi lacrimosi e scrollò le spalle. Lui aveva combattuto liceva, col defunto Burulebas; avevan guerreggiato insieme contro i crimeesi e i turchi; non avrebbe mai supposto che il pan Danilo facesse quella fine. L’ospite raccontò ancora molte altre cose e chiese di veder la pania Caterina.

Caterina non ascoltò sulle prime quel che diceva l’ospite; parve alla fine tuttavia intenta a quelle parole, come persona savia. Egli narrò come vivessero insieme Danilo e lui, quasi due fratelli, come sfuggirono ai crimeesi una volta nascondendosi nel fieno... Caterina ascoltava tutto ciò, fissandolo sempre cogli occhi.

— Ella risorge! — pensarono i giovinotti guardandosi: — quest’ospite la guarisce. Ve’, lei ascolta, come persona ragionevole.

L’ospite cominciò a raccontare, fra le altre cose, che il pan Danilo, un giorno che si trattenevano a cuore aperto, gli avesse detto: «Odi, fratello Kopriano: quando per la volontà di Dio, io non sarò più in questo mondo, prendi la mia moglie teco, e fanne tua moglie».

Caterina fissò ancora intensamente gli occhi di lui.

— Ah! — gridò: — è lui, è mio padre! — E gli si gettò contro col pugnale brandito... Egli lottò a lungo, sforzandosi di strapparle il ferro; alla fine l’afferrò, levò la mano... e allora avvenne una cosa spaventevole: il padre colpì la figlia folle.

I cosacchi sbalorditi gli si lanciaron contro; ma lo stregone aveva avuto il tempo di balzar sul suo cavallo e di scomparire ai loro sguardi.


XIV.

Avvenne a Kiev un inaudito prodigio. Tutti i panij e gli estranei accorsero ad ammirarlo; l’orizzonte si restrinse e si potette vedere a occhio nudo sino ai confini del mondo. Di lontano si scorgeva la linea azzurra del Liman, e, dietro, il Mare Nero. Le persone colte riconobbero anche la Crimea, sorgente dal mare come una montagna, e il fungoso Sivas. [p. 120 modifica]

A mano sinistra vedevasi la terra galiziana.

— Or che cosa è mai codesta? — domandava il popolo ai vecchi scorgendo nelle lontananze le vesti grigie e bianche spiccanti sul cielo, anzi simili a nuvole.

— Sono i monti Karpati! — rispondevano i vecchi; — e fra essi ve ne hanno che la neve vi dura da secoli, e le nuvole li circondano e li adombrano.

Un nuovo prodigio apparve in quel momento: le nuvole lasciarono il monte più alto, e sulla cima si potè vedere un uomo a cavallo, il quale, dopo aver guardato d’ogni parte, come per cercar cogli occhi se qualcuno non lo inseguisse, spronò frettolosamente il suo corsiere. Era lo stregone. Perchè si spaventava tanto? Dopo aver mirato con terrore il prodigioso cavaliere, egli aveva riconosciuto in lui la figura stessa, che, senza essere evocata, gli era apparsa, mentre egli faceva i sortilegi. Egli medesimo non poteva comprendere, perchè, a questa vista, tutto gli si era sconvolto nell’anima; e, guardando paurosamente, spingeva il cavallo a galoppo, mentre non era ancor giunta la sera e le stelle non spuntavano ancora. Certo, egli tornava a casa per consultare la forza impura sul significato di un simile prodigio.


XV.

Solo nella sua caverna, davanti a una lampada, era seduto l’eremita, e non levava gli occhi dai sacri libri. Da molti anni egli si era chiuso in quell’antro; vi si era costrutta una bara, ove si stendeva per dormire, a vece di letto. Il santo vecchio chiuse il libro, e cominciò a pregare... a un tratto ecco entrare un uomo dall’aspetto strano, terribile.

Il santo eremita stupì per la prima volta, e indietreggiò scorgendo quell’uomo. Egli tremava per tutta la persona come foglia di tremula; gli luccicavan gli occhi spaventosamente, gettando orribili vampe; il tremendo aspetto dava brividi sino in fondo all’anima.

— No, malfattore inaudito; per te non v’è perdonanza. Fuggi di qui! Io non posso pregare per te!

— No? — gridò il ribaldo, come pazzo. [p. 121 modifica]

— Guarda: le sacre lettere del libro son coperte di sangue... Non v’è stato ancora al mondo un simile peccatore.

— Padre, tu ti beffi di me.

— Va’, maledetto, scellerato! Io non ti beffo. Io sono in preda al terrore. Non è bene per l’uomo il trovarsi con te!

— No, no, tu scherzi, non dir di no... Ti vedo semiaprir la bocca; son due file bianche i tuoi denti...

E, preso dall’ira, irruppe... e uccise il santo eremita.

Egli sentì allora un’ineffabile paura. Con suo stupore, tutto si scompigliò; udiva negli orecchi, nella testa, strepito come di briaco e quanto gli si trovava davanti parve coperto d’un velo.

Balzando sul cavallo, galoppò diritto verso Kanev, credendo così, col traversare il paese dei circassi, di raggiungere quel dei tatari e della Crimea, senza sapere addirittura perchè. Galoppò, galoppò due giorni interi senza che Kanev apparisse. La strada era quella, e da un pezzo avrebbe dovuto raggiunger la città; ma punto Kanev sull’orizzonte. Lontano lontano, brillarono i campanili delle chiese. Non era Kanev, ma Gumak. Lo stregone fu sorpreso dell’aver viaggiato proprio in senso inverso. Spinse il cavallo verso Kiev, e dopo una lunga giornata, vide apparire una città. Non era Kiev, ma Galic, città ancora più lontana di Kiev, di Cumak, e prossima agli ungheresi. Non sapendo che fare, volse indietro il cavallo; ma sentì novellamente d’andare in senso opposto e pur sempre avanti.

Non è penna umana che possa narrar quanto avveniva nell’animo dello stregone; e se persona al mondo lo avesse veduto, non avrebbe più dormito una sola notte, nè sorriso più mai neppure una volta. Non era furore, paura, dispetto. In terra non è parola per esprimer codesto. Gli pareva bollire, ardere, avrebbe voluto pestare il globo sotto gli zoccoli del suo cavallo; afferrar tutta la terra, da Kiev a Galic, cogli abitanti, con ogni cosa, e lanciarla nel Mar Nero. Ma non voleva far ciò per cattiveria; no; lui stesso non sapeva perchè. Rabbrividì per tutte le fibre, quando gli si drizzaron davanti i monti Karpati e l’alto Krivan, coperto da una nuvola grigia, come da un cappello. Ma il cavallo, infuriando, lo trasportò verso le montagne. Le nuvole sparvero d’improvviso, e il gran cavaliere gli apparve, spaventoso... [p. 122 modifica]

Egli tentò di fermarsi, e diè violento uno strappo al morso; il cavallo nitri stranamente, scosse la criniera, e via di fuga verso il cavaliere. E lo stregone fu interrorito a vederlo, prima torpido, moversi poi, coprir d’un subito gli occhi, fissar il nuovo giunto, e ridere. Come tuono, quello strano riso echeggiò nelle montagne e risuonò nel cuore dello stregone straziato, come se gli fosse dentro. E dentro gli sembrò essergli entrata un’estranea forza, scorrervi e picchiargli il cuore a colpi di martello; come le arterie... Tanto quel riso gl’incuteva terrore.

Il cavaliere lo ghermì con mano tremenda e lo sollevò in aria. In un batter d’occhio lo stregone fu morto, e, dopo morto, schiuse le pupille; ma, cadavere, guardò come cadavere. Mai uomo vivente e battezzato ebbe un simile sguardo. Volse d’ogni parte quegli occhi pieni di vita e scorse dei morti sorgere da Kiev, dal paese di Lalic, dai Karpati, tutti simili a lui, come goccie d’acqua.

Lividi lividi, l’ultimo sempre più grande de’ precedenti, sempre più ischeletrito, si posero intorno al cavaliere, che teneva fra le mani la preda viva.

Il cavaliere rise un’altra volta, e la gettò nell’abisso. E tutti i morti le si slanciaron dietro, l’agguantarono e l’addentarono. Ma l’ultimo, più grande e più atroce degli altri, volle balzare in terra anch’esso, ma non potè, non avendo più forza; allora il colosso si sprofondò nel suolo. E se mai si sollevasse, riconoscerebbe i Karpati, la provincia di Sedmigradskij e il paese turco.

Una volta egli si mosse appena, e un terremoto scosse tutta la terra, le capanne crollaron da per tutto, e molta gente rimase schiacciata. Si ode spesso pei Karpati un sibilio, come se mille mulini girasser le ruote nell’acqua; gli è che nell’abisso senza fondo, che niun uomo ha sinora veduto, tanto si teme avvicinarvisi, i morti tormentano i morti.

Spesso avviene per tutta la terra che il suol tremi da un capo all’altro: ciò deriva, dicon le persone colte, dal fatto che vicino al mare trovasi una montagna d’onde irrompe il fuoco e scorron torrenti di lava. Ma i vecchi che abitano l’Ungheria e la terra di Galic, ne san di meglio e di più; sanno che è il gran morto, il gigante sotterrato, il quale vuol sollevarsi e fa traballare la terra. [p. 123 modifica]


XVI.

Nella città di Glukhov, il popolo si raccolse un giorno intorno a un vecchio suonatore di bandura20 e ascoltò, durante un’ora almeno, gli accordi del cieco sul suo strumento. Mai bandurista aveva sino allora cantato istorie così spaventose e nell’un tempo così ben cantate.

Egli celebrò da prima le alte geste degli antichi etmani, di Sagaidacni e di Khmelenizkij. Quel tempo non era come adesso; la gloria cosacca era al suo apogeo: essa calpestava i nemici cogli zoccoli dei suoi cavalli; e niuno ha osato di beffarsene.

Il vecchio cantò così arie gioconde, volgendo gli occhi alla folla, come se potesse vederla, e le sue dita, armate dell’ossetto, volavan come le mosche, sulle corde, che parevan risonar da sole; i giovani cogli occhi intenti al suonatore, sussurravano appena qualche parola, e non uno pensava a ridere.

— Ascoltate! — disse il vecchio, — vi conterò una storia del tempo antico.

La folla si strinse sempre più, e il cieco cominciò:

«Sotto il pan Stefano, principe di Sedmigradskij (questo principe era pure re di Polonia), vivevan due cosacchi: Ivan e Pietro. Vivevano come due fratelli. «Vedi, Ivan; quanto ci avverrà, sarà diviso a mezzo; quando un di noi avrà un piacere, l’altro l’avrà egualmente; quando un di noi avrà una pena, l’altro ne prenderà la parte sua; quando l’uno avrà del bottino, sarà per l’altro la metà; se l’uno è fatto prigioniero, l’altro venderà tutto per riscattarlo; e, se non può, andrà a raggiungerlo nella prigionia». E così fu; quando i cosacchi acquistarono, ne fecero due parti: se cacciaron di greggi e di cavalli, divisero sempre.


«Il re Stefano dichiarò la guerra ai Turchi. Già combatteva i turchi da tre settimane, ma non giungeva a vin[p. 124 modifica]cerli. Dalla banda de’ turchi era un pascià, che con dieci giannizzeri metteva in fuga un reggimento intero. «Andiamo, fratello, a prendere il pascià!» disse Ivan a Pietro. E i due cosachi andarono, un da una parte, l’altro dall’altra.


«Pietro lo prese o non lo prese? Il fatto è che Ivan meno il pascià con una corda al collo al cospetto del re in persona. «Bravo, giovinotto!» disse re Stefano, e comandò di dargli un premio come usa darne a tutto un esercito, di largirgli tanta terra quanta ne volesse, e tanti armenti quanti ne desiderasse. Quando Ivan ricevette il dono dal re, ne dette subito a Pietro la metà. Costui prese bensì quella metà, ma non potette prender la parte della stima concessa a Ivan dal re; e risolse di vendicarsi.


«I due cavalieri partiron per la terra donata loro dal re, che era posta vicino ai Karpati. Il cosacco Ivan aveva messo a cavallo il suo figliuolo e se l’era legato dietro al corpo. Già scendeva il crepuscolo ed essi cavalcavano; il fanciullo si addormentò, e lo stesso Ivan si assopì anche lui. Non addormirti, cosacco; le vie son pericolose nelle montagne!... ma il cosacco aveva un ottimo cavallo che conosceva le vie da per tutto; non inciampava mai, non dava mai passo al fallo. V’è fra le montagne un abisso il cui fondo mai niuno ha veduto; tanto spazio è dal fondo di quel baratro quanto dalla terra al cielo. Rasenta il precipizio, ove forse due uomini posson passar di fronte, ma non tre. Il cavallo dell’addormentato cominciò a inoltrarsi prudente. Pietro andava di fianco tutto tremante e nascondendo la gioia. Egli si guardò dietro, poi, con decisa, rapida mossa spinse verso l’abisso il corsiere col carico dei dormienti: e cavallo e cosacco e fanciullo caddero nel vuoto.


«Il cosacco si afferrò tuttavia a un ramo, e solo il cavallo rotolò sino al fondo. Si mise ad arrampicar verso l’orlo e stava per raggiungerlo, quando, alzando gli oc[p. 125 modifica]chi, scorse Pietro, che brandiva la lancia per rigettarlo giù. «Mio Dio, tu che sei giusto, non sarebbe stato meglio ch’io non riaprissi più gli occhi, anzi che vedere il mio fratello stesso sospingermi con la sua lancia nell’abisso? Mio Dio, tu che sei buono, forse era scritto dalla nascita per me; ma salva il figlio mio: che cosa ha potuto fare questo piccino innocente da meritar in un baratro una morte tanto crudele?» Pietro rise e lo respinse con la lancia; e il cosacco col fanciullo precipitò nella voragine. Pietro serbò per sè solo ogni bene, e si dette a vivere come un pascià. Non si eran mai veduti armenti di cavalli come quelli di Pietro; in niuna parte mai si eran veduti simili pecore e agnelli. Pietro morì.


«Quando Pietro fu morto, Dio convocò le due anime di Pietro e di Ivan pel giudizio: «Quest’uomo è un gran colpevole!» disse Dio: «Ivan, io non posso trovare lì per lì un castigo per lui; castigalo tu stesso!». Ivan pensò lungamente, imaginando supplizi; alla fine, rispose: «Quest’uomo mi ha fatto un grande oltraggio; ha venduto suo fratello, come Giuda, e mi ha privato d’una famiglia e di una posterità nel mondo. E l’uomo che trovasi senza famiglia onorata e senza posterità nel mondo, è come seme di frumento gettato che cade in terreno sterile, e perdersi; non ne spunta germe, e nessuno sa che frumento fu seminato in quel punto.


«Fa’ dunque, mio Dio, che tutta la sua discendenza non abbia letizia sulla terra; che l’ultimo della sua stirpe sia tale scellerato, che la terra non ne abbia mai portato uno pari: che a cagione de’ suoi delitti, gli avi, gli antenati suoi non trovino riposo nelle tombe, ma soffrendo un supplizio ignoto al mondo, essi balzino da’ loro sepolcri. E lui — Giuda — Pietro — non abbia la forza di sollevarsi e patisca, perciò, un’angoscia peggiore, e, come un arrabbiato, mangi la terra sotto la quale si dimena. [p. 126 modifica]«E quando sarà venuta l’ora che dovran cessare i delitti di questo uomo. suscitami, mio Dio, dal fondo del baratro col mio cavallo, sull’alta montagna, e fa’ ch’egli venga a me; io lo lancerò dall’alto del monte nello stesso abisso profondo; fa’ che tutti i suoi morti, avi e antenati, ovunque sian vissuti, accorran da’ quattro angoli della terra per vendicarsi degli strazi che fa loro patire, e lo tormentino eternamente; e allora io mi rallegrerò, a vedere il suo supplizio. E Giuda Pietro non possa sollevarsi; si sbrani da sè e si ferisca; e crescan le sue ossa e diventino tento più estese e immense quanto più il suo dolore sarà forte. E questo castigo sarà tremendo per lui, poichè non v’è maggior angoscia per un uomo che il non potersi vendicare, quando vuole».


«Il castigo che tu hai inventato, o uomo, è spaventevole!» disse Dio; sia fatto come tu hai detto; ma anche tu resterai eternamente sul tuo cavallo e non acquisterai il regno celeste; tu sarai sempre sul tuo cavallo!». E tutto si compì secondo la divina parola. Fino ad oggi il fantastico cavaliere se ne sta a cavallo sui Karpati e guarda in fondo al baratro i morti tormentare il morto, e ascolta il morto, sotterra, allungarsi, torcere le ossa in terribili tormenti e scuotere spaventevolmente il fondo».


Il cieco finì con la canzone, e tornò a far risonare le corde della sua bandura. Raccontò poi storie gioviali su Khornel e Ierema, su Sikliaka Stokosa... ma i vecchi e i giovani restavano ancore fuor di sè, attoniti, a testa bassa, ripensando alla tremenda avventura, che si era svolta nel tempo.

Note

  1. Essaul, capitano dei cosacchi.
  2. Moglie del pan: signore, in polacco.
  3. Danza nazionale cosacca.
  4. Vedi pag. 77, nota 1.
  5. Qui si allude al riflesso delle montagne nel Dnepr.
  6. Liakhi: polacchi.
  7. Circa due metri.
  8. Kasa: tritello, orzo mondato in minestra.
  9. Specie di pasta a fili.
  10. Antica sopravveste molto usata fra i polacchi.
  11. Antica acconciatura da testa.
  12. Celebre nelle fiabe è la baba-yaga, una specie di strega o fata, or malefica, ora benefica.
  13. Quadriglia polacca.
  14. Colonnelli; capitani.
  15. Specie di busta, ove si custodiscono l’acciarino, la selce, l’esca, il tabacco, e anche il danaro.
  16. Transilvania.
  17. Vecchia strega.
  18. Specie di ballo.
  19. Ninfe delle acque, che a primavera adornano i rami degli alberi, sul tramonto. Vedi nel volume della nostra collezione: Puskin, Drammi, poemi, leggende, ove trovansi un dramma e una leggenda sull’argomento.
  20. Mandola, liuto, a quattro corde.