Le nebule
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Questo testo fa parte della raccolta Commedie (Aristofane)
LE NEBULE D’ARISTOFANE.
COMEDIA. II.
- Strepsiade,
- Fidippide,
- Servidor di Strepsiade,
- Discepolo di Socrate,
- Socrate,
- Coro delle nebule,
- Parola giusta,
- Parola ingiusta,
- Creditore Pasia,
- Il testimonio,
- Un’altro creditore Aminia,
- Cherefonte,
strepsiade.
- ime, oime, ò signor Giove quanto sono lunghe le notti: non si farà hormai dì e pur un buon pezzo è, ch’io hò udito il gallo, e i famigli runchegiano, ma non già da quì in dietro, ò guerra rea per causa de molti, vatene in mal’hora, per ciò che à me non è lecito à punire i servidori. ma ne anche questo da ben giovane di notte si lieva, anzi poltronegia in cinque schiavine involtosi. e se à noi pare, runchegiamo coperti: ma io infelice già dormir non posso, punto, e morduto da la spesa, e da la stalla, e da’l debito, per questo mio figliuolo. & egli con suoi bei capelli se ne cavalca, e su’l cocchio si fà menare, e cavalli s’infogna: io poi mi muoro, vedendo che la Luna s’invecchia: però che le usure s’approssimano. impizza regazo il lume, e portami il libro da i conti, che voglio sapere à quanti sono debitore, e voglio vedere il conto de le usure. sù, ch’io vega quel che son debitore. Dodeci mine à Pasia: in che modo dodeci mine à Pasia? ch’hò io adoperato? quando comprai io cavallo bollato co’l x? ahi me sventurato, piacesse à i dei che m’havesse tratto fuora piu presto un’occhio con questo sasso.
- Fid.
- Filone fai male, seguita il tuo corso.
- Str.
- Questo è quel male, che m’ha rovinato, per ciò che dormendo s’infogna anche de la cavalleria.
- Fid.
- Quanti straci le carrette menano?
- Str.
- Tu meni ben mè tuo padre per molti spacij. ma che debito mi è venuto, oltre à Pasia? tre mine de’l carretto, e de le ruote ad Aminia.
- Fid.
- Volta in dietro, e cacia il cavallo à casa.
- Str.
- Ah disgraziato tu m’hai spinto giu de’l mio, per ciò che e à molti son debitore: e altri dicono, che per usura hò dato i pegni.
- Fid.
- Ma ò padre che ti crucia? e che ti volgitu tutta la notte?
- Str.
- Uno del popolo mi morde per letti.
- Fid.
- Lasciami ò infelice dormire un poco.
- Str.
- Tu dormi adunque, ma sapi che questi debiti, sopra di te tutti si voltaranno. oime, oh possa morire di mala morte quella donna, che mi fece dar per moglie tua madre. per ciò che la vita rustica mi piaceva smisuratamente, piena di ruto, senza regola, in riposo standomi, havendo abundantemente de le api, e de le pecore, e de le vigne: poi tolsi moglie, nezza di Megacleo, che è ben gran gloria, io essendo rustico, lei da la cità. ella se ne stava su le gratie, su gli apiaceri, su i diletti, e di fuco si sbellettava. quanto tolsi costei, mi corricai à lato suo io, sporco, brutto, con putimento di lane, perche assai n’haveva: ma lei poi d’odoriferi ontioni, di zaffrano, di cose che ella teneva in bocca di gran spendere, d’essere troppo liberale, d’esser venusta, di gentil sangue. non dirò già io quanto era disutile. pur consumava, e buttava via. et io mostrandoli la vesta mia, gli dicea la causa, ò moglie tu spendi fuor di modo.
- Ser.
- Non havemo oglio in la lume.
- Str.
- Oime perche haitu accesa una lucerna, che beve tanto. fati in quà, che voglio che piangi.
- Ser.
- Perche piangerò io mò?
- Str.
- Perche tu vi hai posto grossi stoppini. poi che cosi questo nostro figliuolo è nasciuto, et à me, et à la mia moglie da bene, per causa del nome queste cose crediamo: per ciò che ella presso a’l nome giungea Hippo, Xanthippo, ò Charippo, ò Callippide: et io gli poneva quello de l’avolo Fidonnide. à tanto adunque eramo differenti poi à tutto un tempo s’accordassimo, e gli ponessimo nome Fidippide. ella questo figlio pigliando, l’accarezzava dicendo, Quando tu, come sarai grande, menarai il cocchio à la cità, come facea Megacleo vestito di seta, et di panni fini? et io gli dissi, Quando tu menarai le capre da Felleo, come facea tuo padre vestito di griso? ma niente crede à le mie parole, anzi il desiderio di cavalleria hà spanta la mia roba, hor adunque tutta la notte pensando una qualche via, una n’hò trovata felicemente, che non si puo mutare, et eccellente, la quale se gliela persuaderò, non haverò un pensiere a’l mondo. onde desta prima lui: lo destarei io à qualche modo, à che modo mò, lo destarò io suavemente, e commodamente? à che modo? Fidippide, Fidippidino.
- Fid.
- Che cosa ò padre.
- Str.
- Basciami, e dami la tua mano destra.
- Fid.
- Eccomi, che cosa gli è.
- Str.
- Dimi, mi vuoi tu bene?
- Fid.
- Si per questo dio Nettuno cavalleresco.
- Str.
- Non mi dir già questo per modo niuno cavalleresco. perche questo dio è stato di mei mali cagione. ma se di cuore veramente mi ami ò figlio mio, fa à mio senno.
- Fid.
- Che cosa adunque debo obedirti?
- Str.
- Muta subitamente i tuoi costumi, et vieni à imparar quelle cose che io t’avisarò.
- Fid.
- Dimi mò, che comanditu?
- Str.
- Et che? farai à mio modo?
- Fid.
- Io 'l farò per il dio Bacco.
- Str.
- Horsu mò risguarda: vedi tu questa portella, e questa casetta?
- Fid.
- Vedo. che cosa è questa dunque. dimi 'l vero ò padre.
- Str.
- Questa è la scuola de gentili, e savi spiriti: quivi habitano huomini, che dicendo persuadono che 'l cielo è un forno, et è questo à torno à noi, noi poi carboni. questi insegnano, se alcuno dà argento, ò danari, colui che dice, vincere le giuste, et ingiuste cose.
- Fid.
- Che sono poi?
- Str.
- Non so bene il nome loro. fanno guarire i pensieri. sono da bene, sono honesti.
- Fid.
- Oh oh tristi, so bene, e tu dici quelli che sono soperbi, pallidi, et discalzi. de quali gli è quel diavol di Socrate, et Cherefonte.
- Str.
- Ah ah taci, non dir niente da stolto. ma se tu ha qualche cura de le farine del padre, di questi diventami, lasciando la cavalleria.
- Fid.
- Non già per Dionisio, se tu mi dessi fasiani, che Leogora nutrisce.
- Str.
- Và, tene prego, che à me sei più caro di tutti gli huomini, come sei là, ti sarà insegnato.
- Fid.
- Che t'impararò io?
- Str.
- Si dice che loro hanno due parole, una ch'è migliore e l’altra che è pegiore: di queste due parole una è minore. dicono che colui che dice, vince cose ingiustissime. Se adunque m’impararai questa parola ingiusta, di quelle cose che hora sono per te debitore, non gli renderò, ne anche un bagattino à niuno.
- Fid.
- Non m’arisicarò mica io. per ciò che non sofferrei vedere i cavallieri per il loro colore attristato.
- Str.
- Non per Cerere gia del mio mangiarai ne tu, ne Zigio, ne anche Samfora, ma ti scaciarò à le forche fuora di casa.
- Fid.
- Ma non mi sprezarà il zio Megaclee, senza cavalli, hor me vado, et di te non mi fò caso.
- Str.
- Ma ne anche io pur cadendo mi giacerò, anzi pregati gli dei sarò insegnato io stesso, andandone à la scuola. a che modo mò essendo vecchio, smentichevole, e tardo, impararò io le sottigliezze de le parole accorte? bisogna andare. perche havendo io queste cose strangoscio, et stringomi? ma non batto à la porta. fanciullo, fanciulletto.
- Dis.
- Vati fà squartare, ch’è quello che batt’à la porta?
- Str.
- Strepsiade figliuol di Fidone da Cicine.
- Dis.
- Bestia per dio Giove sia chi tu vogli esser, che cosi forte inconsideratamente hai battut’à la porta, et la consideratione meza fatta hai trovata.
- Str.
- Perdonami, che io ne stò longi à la villa, ma dimi la cosa meza fatta.
- Disc.
- Ma non è lecito dirla se non à scolari.
- Str.
- Hor dimi animosamente, per ciò che io stesso me ne vengo per imparare à la scuola.
- Disc.
- Dirollo. ma bisogna che tu pensi, che queste cose sono secrete. Socrate ha interrogato poco fà Cherefonte d’un pulice, quanti piedi de suoi ha saltato. perche havendo beccato il supercilio di Cherefonte, saltò su la testa di Socrate.
- Str.
- In che modo egli ha misurato questo?
- Dis.
- Facilissimamente. liquefatta la cera, et poi preso il pulice, gli intinse ne la cera i suoi piedi, et à quello morto poi, naquero i calciamenti. questi trattegli, rimesurò il spacio.
- Str.
- O Giove re de le sottigliezze de le menti.
- Disc.
- Che dirai tu poi, se tu senti un’altra fantasia di Socrate?
- Str.
- Come di gratia? dimi.
- Disc.
- Cherefonte Sfettio gli domandò quale openione havesse, se le zanciale cantassino, ò da la bocca, ò da’l culo.
- Str.
- Che cosa poi egli gli disse de la zanciala?
- Disc.
- Disse, che lo intestino de la zanciala è stretto: il fiato poi di essa, che è piciola, per forza gli và dirittamente nel corpo: poi per la forza del fiato a’l culo cavo, e stretto, apresso fà strepito.
- Str.
- Il culo adunque de le zanciale è una tromba. ò assai piu che beato per la questione. chiunque conoscerà lo intestino de la zanciala, facilmente fugendo schifarà egli la pena?
- Dis.
- Et poco inanzi hà preso una grande opinione da una gatta.
- Str.
- A che modo? famelo ben sapere.
- Dis.
- Cercando egli gli andamenti et viagi de la Luna, e i rivolgimenti, poi guardando in suso, giu d'una casa di notte una gatta adosso li cadde.
- Str.
- N'ho havuto appiacere, per essere à Socrate il gatto caduto adosso.
- Dis.
- Et her sera noi non havevamo che cenare.
- Str.
- Stà bene. che provisione adunq; è stata di farina?
- Dis.
- Sù la tavola spargendo sotilmente il cenere, volgendo lo spedo, poi pigliando il compasso, da la palestra tolse su la vesta.
- Str.
- Perche miriamo adunque quel Thale? Apri, apri presto la scuola, et mostrami tosto tosto Socrate, per ciò che hò gran voglia d'imparare. mò apri la porta, ò dio Hercule che sorte di bestie?
- Dis.
- Per che sei tù maravigliato? à chi ti parono assomigliare?
- Str.
- A quelle di Laconia pigliate, da quelli di Pilo, ma perche alcuna volta costoro guardano in terra.
- Dis.
- Elli cercano quelle cose che stanno in terra.
- Str.
- Cercano adunque cepolle? ne hora di questo curatevi. io sò ben'io, ove elli sono grandi et buoni. che fanno costoro poi, si fortemente inchinati?
- Dis.
- Questi poi l'Erebo cercano sotto a'l tartaro.
- Str.
- Perche dunque il culo vi guarda il cielo?
- Dis.
- Egli secondo lui si fà insegnare lo strolegare. ma vien dentro, à ciò ch'egli non ne venga sopra.
- Str.
- Nò anchora, nò anchora. ma che aspettino, che io con loro qualche mia cosetta communichi.
- Dis.
- Ma non è possibile che loro di fuori à l'aere dimorino, che è molto assai tempo che li sono.
- Str.
- Che cosa è mò questa? dimmi per gli Idij.
- Dis.
- Questa è l'astronomia.
- Str.
- Che è poi questa.
- Dis.
- La Geometria.
- Str.
- Di questo dunque quale è il meglio?
- Dis.
- Il misurar la terra.
- Str.
- Quale? quella che si sortisce?
- Dis.
- Non, anzi tutta interamente.
- Str.
- Tù dici una gentil cosa e citadinesca. perche questa cogitatione è populare et utile.
- Dis.
- Questo poi ti è il circondo di tutta la terra: lo veditù? questa è Atene.
- Str.
- Che ditù? non lo credo, perche non vi vedo i giudici, che sedono.
- Dis.
- Sì de'l certo, che questo è il luogo Attico.
- Str.
- Et dove sono i miei da Cicine?
- Dis.
- Quì sono. et questa poi è la Eubea, come vedi, che è distante molto, et assai lontana.
- Str.
- Io'l sò, perche da voi è slontananta et da Pericle, ma Lacedemone ov'è?
- Dis.
- Ov'ella è? ella è questa.
- Str.
- Assai vicina è a noi: et voi vi studiate di sluntanar questa molto da lungi da noi.
- Dis.
- Ma non è possibile per Giove.
- Str.
- Piagnerete adunque. via, chi è mò questo huomo, ch’è ne la cista?
- Dis.
- Egli è desso.
- Str.
- Che desso?
- Dis.
- Socrate.
- Str.
- Socrate vien tù, richiamalomi forte.
- Dis.
- Tu medesimo pur chiamalo: per ch’io non hò agio.
- Str.
- Socrate, ò Socratino.
- Soc.
- Perche mi chiami ò mortale?
- Str.
- Prima ogni cosa che fai, disidero sapere: dillami.
- Soc.
- Per l’aere me ne vado, et considero il Sole.
- Str.
- Poi da la cista sprezzitù gli dij? ma non gia cosi da la terra?
- Soc.
- Non, perche non troverei bene le sottili cose, se non pensando la intelligentia, et la cogitazione sottile mescolando ne l’aere simile. se poi essendo in terra, di sotto via quelle cose contemplassi che sono di sopra, mai non ne trovarei. perche non cosi, ma la terra per forza à se tira lo humore de la cogitatione. et in questa cosa medesima anchora sono simili i cardami.
- Str.
- Che ditu? la cogitatione tirala l’humore ne i cardami? Hor via, vien giù à me ò Socrate, che tù m’insegni, et non per altro sono venuto.
- Soc.
- Tu sei poi venuto, à che fine?
- Str.
- Che voglio imparare à dire, per ciò che sono molestato da le usure, son tirato, la robba hò impegno.
- Soc.
- Da chi sei poi tù debitore stato fatto smentichevole di te stesso?
- Str.
- La infermità cavalleresca m’hà consumato, insopportabile de’l mangiare. ma insegnami una de le tue parole, quella che niente paga ò rende. il pagamento poi che mi domandarai, ti giuro per i dei che te lo darò.
- Soc.
- Che sorte de dei giuri tù? per ciò che primamente istimiamo, che non gli siano dei.
- Str.
- Mò à chi giurate: giurate forsi à le cose di ferro, come si fà in Costantinopoli?
- Soc.
- Vuoi tù sapere le cose divine chiaramente, quali sono, et dirittamente?
- Str.
- Sì per dio Giove, se cosi è.
- Soc.
- Et diventar nebule ne’l dire, et esser simile à le nostre dee?
- Str.
- Sì pure.
- Soc.
- Sedi adunque ne la sacrata sedia.
- Str.
- Ecco, ch’io segio.
- Soc.
- Piglia adunque questa corona.
- Str.
- Perche causa la corona, oime Socrate? à che foggia non sacrificarete mè, come se fossi Atamante.
- Soc.
- Non. ma tutte queste cose à i principianti non facciamo.
- Str.
- Mò che guadagnarò io poi?
- Soc.
- Il dire tù diventerai, isperientia, bandiera, fior di farina, ma tien secreto.
- Str.
- Per Giove tù non m’ingannarai gia mè. però che conculcato, et scalcagnato, me ne diverrò come polvere.
- Soc.
- Laudar bisogna il vecchio et benedirlo, et à le preghiere ubidire. O Signor Rè grande Aere, che habiti sopra de la terra sospesa, et ò Etere illustre e chiaro, et voi dee sante et reverende Nebule, che fate lampegiare, tuonare, et cascar saette, inalzatevi, mostratevi ò signore, alte a’l cogitante.
- Str.
- Non anchora, non anchor gia, avanti che mi vesta questo, à ciò che non mi bagni. che sia venuto io sventurato da casa, et non havere un capello?
- Soc.
- Venite pur ò molto honorande Nebule à costui in dimostratione, ò se sedete su le cime del olimpo, consacrate, tocche da la neve, ò se ordinate à le ninfe il coro sacro ne gli horti del padre Oceano, ò pure se ne le bocche del Nilo mandate fuora le aque da gli aurei vasi, ò vero se state ad habitar la palude Meoti, ò veramente lo scoglio di Mimante di neve pieno: essauditemi accettando il sacrificio, et havendo care le cose sacre.
- Co.
- Sempre correnti Nebule elevamosi visibili et chiare, per vedere la nobile natura irrosciadata da’l padre Oceano, che fortemente soffia, de gli alti monti le sommità, che hanno i capelli de frondosi arbori, le prospettive che di lontano si vegono, e i frutti, et l’humida e sacrata terra, e i mormoramenti d’i divini fiumi, et anchora il mare gridante, et molto forte risonante, perche l’occhio del'Etere inquieto illustra gli splendori chiari et lucidi. ma mossi i pivuosi nuvoli, guardiamo per le mortali idee la terra co’l lume nostro che di lungi guarda.
- Soc.
- O molto reverende Nebule chiaramente havete sentito mè chiamandovi. haitù conosciuto la voce, insieme co’l tonitruo che divinamente et forte strasona?
- Str.
- Et le riverisco anche io, ò reverendissime, et di molto honor degne. et voglio à i tuoni contra tirar corezze. tanto di lor mi spavento, et n’hò paura, et se è licito, hor’ à mano à mano, et se non è licito, hò voglia di cacare.
- Soc.
- Non, tù non vituperarai, ne manco farai quello che hanno fatte queste dee, ma dine bene, per ciò che si muovevan gran compagnia di dee à le laudi.
- Co.
- Giovani piuvose andiamo à l’abondante terra di Minerva, terra ove stanno huomini da bene, per vedere quella di Cecrope molto desiderabile, ove è la riverentia de sacri occulti, ove la casa si mostra, che riceve discepoli, ne i santi sacrificij, et à i celesti dei i doni, et tempij alti, et statue, et le entrate de beati sacratissimi, et i ben coronati sacrificij, et convivij da tutte le hore et d’ogni tempo, e la prima vera venendo, gli è la gratia di Bacco, et i motetti d’i cori ben sonanti, et una musica di tibie che profondamente suona.
- Str.
- Per Giove ti prego, dimmi che sono ò Socrate costoro che hanno detto questa honoranda cosa. sono elle reine?
- Soc.
- Non, ma Nebule de’l cielo, dee magnifiche, che à gli huomini quieti, ciò è à noi danno cogitatione, et disputatione e mente, et honore, et eloquentia, et percussione, e comprensione.
- Str.
- Per queste cose, udendo l’animo mio la loro voce, cominciò a volare, et gia cerca di dire cose sottili, et disputare de’l fumo, e scoprendo la sententia à una sententiola, con un’altra parola contradire. però se à qualche guisa si può vedere esse, gia apertamente le disidero.
- Soc.
- Guarda mò quà a’l Parnaso, ch’io le vedo venir giù tacitamente?
- Str.
- Hor sù, ove, mostra.
- Soc.
- Vengono pur assai loro por luoghi cavi et spessi, istorte.
- Str.
- Che novella è questa? che non vegio?
- Soc.
- A la entrata.
- Str.
- Hor gia à pena vego.
- Soc.
- Hor non di meno gia le veditù se non zucche tutt’aqua.
- Str.
- Per Giove io pur, ò molto honorate, che gia ogni cosa possedono.
- Soc.
- Pur tù non sapevi, ne tu pensavi ch’elle fossino dee.
- Str.
- Non per Giove, anzi istimava ch’elle fussero nebia, rosciata, et ombra oscura.
- Soc.
- Tù non sapevi mica per Giove, che elle danno da vivere à pur’assai sofisti, à indovinatori, à maestri di medicina, à filosofi, et maestri di musica, à huomini che sanno d’i secreti, à quelli che non hanno da fare, et che niente fanno, per ch’elli laudano queste.
- Str.
- Queste cose adunque facevano il movimento separato de le humide nebule, et che in splendor si volgono, et i capelli di Tifone da le cento teste, et le spiranti procelle: poi venti humidi, corvi, voltori, che ne l’aer notano, et piogie daque de le nebule rugiadose, poi in loro luogo inghiottivano pezzi di cestri grandi, buoni, et le carni d’augelli tordi.
- Soc.
- Per queste niente dimeno non giustamente.
- Str.
- Mò dimi, che hanno lor patito, poi che nebule sono veramente, et s’assomigliano à mortali donne! perche quella gia non sono cosi fatte.
- Soc.
- Hor su, mò di che sorte sono?
- Str.
- Non lo sò chiaro. assomigliano adunque à lana che vola, et non gia à donne per niente, non per Giove, perche queste hanno il naso.
- Soc.
- Rispondimi di tutto quello che ti domandarò.
- Str.
- Dì tosto ciò che vuoi.
- Soc.
- Hai tu mai in suso guardandoti, veduto una nebula, à un centauro simile? ò à un pardo, ò à un lupo, ò à un toro?
- Str.
- Io sì, per Giove, che cosa è questa poi?
- Soc.
- Ogni cosa diventano ciò che vogliono. et poi se pur vegono un ch’habia i bei capelli, di questi rustici materiali, come quel di Xenofante, havendo considerato elle la sua furia à i centauri quelle sono fatte simili.
- Str.
- Che poi, se riguardano Simone rapace de le cose del commune, che fanno loro?
- Soc.
- Dimostrando la natura di colui, subitamente lupi diventano.
- Str.
- Queste cose adunque; sono queste medesime, veduto Cleonimo heri timido, perche lo vedevano timidissimo, per questo cervi diventarono.
- Soc.
- Et hora perche Clistene hanno visto (veditu?) per questo sono fatte femine.
- Str.
- Però ò signore alegratevi, et pur hora à uno et à un’altro, et à me anchora, ò del tutto reine parlate divinamente.
- Coro
- Alegrati ò padre antico, cercatore de le parole che hanno scientia, et tù da le suttilità e burle sacerdote, dine ciò che vuoi: che non obediremo già ad alcuno di questi che sono alti sofisti, se non à Prodico, et à questo, perche è savio et dotto: à te poi, perche ey tu t’inalzi ne le vie, et butti fuori gli occhij, et scalzo molti mali sofferisci, et che ne mostri venerabil ciera.
- Str.
- O terra d’eloquentia, che sei sacra, et venerabile, e monstruosa.
- Soc.
- Queste sole sono ben dee: tutte le altre cose poi, sono zancie.
- Str.
- Hor sù, Giove celeste poi, non è à noi dio in terra?
- Soc.
- Qual Giove? nò: non cianciare: non gli è Giove.
- Str.
- Che dici tu? mò chi fà piovere? mostrami un poco frà le altre cose questo in prima.
- Socr.
- Queste in ogni luogo sono, e con gran segni farrolloti sapere, vien quà, ove hai tu mai veduto piovere senza nuvoli? e pur à la serenità questo piovere bisognava, e questi nuvoli andar via.
- Str.
- Per lo dio Apolline, con questo parlare tu bene hai parlato, et in prima in prima veramente pensava, che Giove pissasse per un crivello. ma chi è colui che tuona? dimi. questo mi fà tremare.
- Socr.
- Queste nebule tuonano, l’una con l’altra involte.
- Str.
- A che modo, ò tu che d’ogni cosa vuoi impazzarti?
- Socr.
- Quando sono piene d’aqua assai, et sono costrette andarsene con rovina gonfie di piogia, secondo che dio vuole, poi grevi l’una con l’ultra abbattendosi si spezzano con furore, et strasonano.
- Str.
- Chi è poi quello che le costrigne? non è egli Giove per farle andare?
- Socr.
- Non, anzi è l’etereo turbine.
- Str.
- Turbine? non sapeva questo. Giove che non gli è, et per esso il turbine, che adesso regna. ma non anchora m’hai insegnato de’l strepito, et tuono.
- Socr.
- Tu non m’hai udito, che dico, che le nebule d’aqua piene, abbattendosi l’una con l’altra, fan crepito, per essere troppo spesse, et grosse?
- Str.
- Hor à chi bisogna credere questo?
- Socr.
- Da te medesimo io t’insegnarò, hora tu ripieno di bruodo ne i Panatenei, poi turbatosi il tuo ventre, la turbatione subito l’hà assaltato.
- Str.
- Per Apolline, et ancho mi aggrava tosto tosto, et mi turba, et come un tonitruo, il brodetto suona, et fà rumor grande, prima quietamente pappax, et poi induce papapappax, et quando caco, smisuratamente strasona papapappax, come fanno quelle nebule.
- Socr.
- Considera adunque da questo ventriculo, di che sorte hai tuonato, l’aere poi che è cosi infinito, à che modo non conviene, che terribilmente tuoni? et questi nomi adunque tra se il crepito, et tonitruo s’assomigliano.
- Str.
- Ma il fulmine poi, donde viene, splendente per lo fuogo? (questo insegnami) et à fatto bruscia percotendone, vivendo poi ne scotta? questo poi Giove manifestamente tira à i falsi giuratori?
- Socr.
- Et à che modo, rozzo che tu sei, et che spuzzi di vecchio, et antico? se pur ferisce i periuratori, à che modo adunque non hà abbrusciato Simone, ne Cleonimo, ne Teoro? et à tutta via sono gran mancatori di fede? anzi manda giu la saetta nel suo tempio, et ne l’alta rocca d’Ateniesi, et le grandi quercie? perche fà questo? la quercia non giura già falso.
- Str.
- Non so, ma tu mi pari dir bene, ch’è adunque poi il fulmine?
- Socr.
- Quando il vento sgonfio, et innalzato, s’inchiude in esse nebule, di dentro via quelle sgonfia à guisa d’una vesica, et poi per forza rompendole, escie fuori terribile per la spessezza, da la sorbitione, et da l’impeto, da se stesso brusciandosi.
- Str.
- Per Giove, adunque manifestamente ciò m’avenne una volta ne le feste di Giove io arrostiva una panzetta à mei parenti, e poi non la sfendeva non curandomi: et questa pur s’enfiava, poi subito à loro strasondando ella si mi distese per sù gli occhi, e m’ascottò la facia.
- Coro.
- O huomo desideroso de la nostra gran sapientia, tu molto aventurato fra gli Ateniesi, e Greci diverrai, se sei memoriato, et studioso, e la cosa piu infelice è ne l’anima, et non t’afatichi, ne stando, ne andando, ne freddo havendo, molto ti tristi, ne disideri di disnare. da’l vino poi ti guardi, et da altri essercitij venerei. et questo tieni per cosa ottima, cosa che conviene à un’huomo prudente, à vincere, facendo, et consigliando, et con la lingua combattendo.
- Str.
- Ma per causa d’un’anima stabile, et d’un pensiero difficile, et d’un ventre parco, et dal viver consumato, e che de l’herbe cena: non haver pensiere confidandoti per causa di queste cose essere fabro: io mi dimostrarei pure.
- Socr.
- Alcun'altra cosa poi, adunque pensarai già niun dio, se non quelle cose che noi diciamo, questo chaos, et le nebule, et la lingua, queste tre cose.
- Str.
- Ne contenderei anchor palesamente con altri, ne anche occorrendo, ne farei sacrificio, ne sacrificherei, ne vi metterei incenso.
- Coro.
- Dimmi mò, ciò che tu t'assicuri che ti faciamo, che non t'andarà fallito, facendone honore, et havendone in osservantia, et cercando d'essere savio, et prudente.
- Str.
- O signore vi prego adunque, et domando questa assai poca cosa, ch'io sia'l miglior dicitore de Greci per cento stadij.
- Coro.
- Hor questo ti faremo. sì che per l'avenire da quì indietro, niuno ne'l popolo eccetto tè, vincerà cause grandi, et di gran conto.
- Str.
- Non farmi dire cause grandi, che queste non cerco, ma ogni cosa che à me istesso volti la giustitia, et fugia i creditori.
- Coro.
- Tu conseguirai dunque quelle cose che disideri, perche non disideri gran cose. ma di buono animo da te istesso à le nostre fanti ne le mani.
- Str.
- Questo farò confidandomi in voi, perche la necessità mi stringe, per i cavalli bollati co'l x, et le nozze, che m'hanno disfatto. hor dunque ad essi usurai apertamente ciò che vogliono, dò questo mio corpo da battere, haver fame, et sete, esser squalido, haver freddo, scorticare la pelle, se pur fugirò i debiti, à gli huomini poi parerò alegro, buon parlatore, audace, impetuoso, odioso, di cose false conglutinatore, trovator di parole, disfattion di cose giuste, tavola de legi, istrumento da sonare, volpe, conversatione, incostante, dissimulatore, puzza, superbo, stimulator, scelerato, astuto, difficile, fastidioso, se queste cose mi dicono incontrandomi, faciano palesamente ciò che vogliono: et se vogliono per Cerere, à i studiosi pongano avanti le mie viscere.
- Socr.
- Una prudentia certo è in costui, non di poco ardire, ma pronta, ma sapi, che per queste cose, che hai da me imparate, gran gloria, et ampia frà gli huomini honorati haverai.
- Str.
- Che deb'io credere?
- Socr.
- Tutto il tempo con essomeco una beatissima vita d'huomini viverai.
- Str.
- Mò questo dunque quando vederò io?
- Socr.
- Si che molti de tuoi sempre su la porta sedano, volendo communicare elli, et venire à parlare, per consultarsi teco i travagli, et contradittioni de molti talenti, cosa che ti và per la tua mente.
- Coro.
- Hora incomincia ciò che dei fare, à insegnare a'l vecchio, et muovegli la mente, et approva la volontà sua.
- Socr.
- Hor via dimi tu il tuo modo di vivere, à ciò che sapendo qual si sia, à man à mano presso questo nuove invention t'apporti.
- Str.
- Et che? pensi tu per gli dij combattere un muro?
- Socr.
- Non, anzi ti voglio addimandare alcune poche cose, se tu te n'arricordi.
- Str.
- A doi modi per Giove, che se io son creditore, molto m'arricordo: se son poi debitore, sventurato, per lo piu me lo smentico.
- Socr.
- Bisogna adunque dirti cose naturali?
- Str.
- Dir certo non bisogna, ma levar via.
- Socr.
- In che modo adunque potrai tu imparare?
- Str.
- Ben certamente.
- Socr.
- Horsu, che quando alcuna cosa addurò di quelle sublime, et alte, subitamente la capisci.
- Str.
- Che poi? come cane mangiarò io la sapientia?
- Socr.
- Costui è huomo che non vuole imparare, ignorante, et barbaro. hò paura ò vecchio, che tu non habi bisogno di botte. hor vegio che tu faressi, se uno ti battesse.
- Str.
- Son battuto, et poi ritenendomi un poco, menarò il testimonio: poi un'altra volta alquanto restando, andarò à la ragione.
- Socr.
- Vien hora, pon giu la vestimenta.
- Str.
- T'hò io fatto qualche dispiacere?
- Socr.
- Non. ma volemo che s'entri dentro ignudi.
- Str.
- Ma non per robare io gia, vengo quà dentro.
- Socr.
- Metti giu. che zancitu?
- Str.
- Hormai dimi questo: se studioso sarò, et diligente, et se con prontezza impararò, à qual de gli scolari sarò io simile?
- Socr.
- Niente sarai differente da la natura di Cherefonte.
- Str.
- Oime infelicissimo, mezzo morto divennerò.
- Socr.
- Non: non parlarai, ma dietro à me verrai, alquanto affrettandoti: via presto.
- Str.
- Dami in mano hor la ischicciata per la prima, come che habia paura io, venendo giuso dentro, quasi in quella di Trofonio.
- Socr.
- Vieni innanzi, che staitu à inchinarti circa à la porta?
- Coro.
- Horsu alegrandoti per questa virilità, buona forte venga à l'huomo, ch'è venuto in fondo de la età, egli à la sua natura dà colore con travagliamenti più giovani, et s'essercita ne la sapientia.
Il poeta parla à gli spettatori.
- O spettatori à voi dirò liberamente il vero, per dio Bacco che mi tien vivo: cosi vincerei io bene, et dotto, et savio tenuto sarei, come penso essere voi spettatori degni, et questa dottissima de le mie comedie havere. voi primi hò giudicato degni gustar quella, che m'hà dato assai grande importanza. poi son mi partito da gli huomini d'alto affare, superato per non esser degno, però queste cose à voi prudenti, et savij accuso, per cui causa queste medesime io negotiava. però ne anche spontaneamente mai cosi voi prudenti perder vi lasciarò. per ciò che da quel tempo che quivi da gli huomini, da quali et Sofrone, et Catapigone ottimamente hanno udito il suave dire: et io anchora era vergine, et giovane fino à l'hora, et lecito non mi era in luogo alcuno far figliuoli, lo misi fuora, un'altra putta poi pigliandolo il portò via, et voi l'havete allevato generosamente, et ammaestrato: per questo i vostri giuramenti de la volontà tengo fedeli. hor adunque secondo quella Elettra, questa comedia venne cercando, se alcuna volta averrà à gli spettatori cosi sagij et prudenti: ella conoscerà, se vedrà i capei de'l suo fratello. che la sia poi da bene naturalmente, et discreta, considerate: che pur primamente è venuta, niuna pelle havendosi legata, giuso pendente, rossa, et in cima grossa, a ciò che à i putti spasso, et riso fosse, ne hà svillanegiato i calvi, ne hà posto sù ballo lascivo. ne'l vecchio ragionando, quella presente co'l bastone l'ha bastonata, levando le ignominie. ne anche hà introdutto havendo le facelle, ne grida oime, oime, ma à essa, et à le parole credendo, è venuto. et anche io di tal sorte huomo essendo poeta non mi superbisco, ne cerco ingannarvi, due et tre volte queste cose introducendo, ma dentro sempre nuove forme, et imaginationi portando, accorto sono, niente son simili l'una con l'altra, et tutte ingeniose, che'l gran Cleone hò percosso nel ventre, et non piu in un'altra volta à lui che giaceva in terra son saltato adosso. costor poi, quando una volta gli hà dato l'ansa Hiperbolo, à questo poveretto, et à la madre sempre tirano de calzi. Eupoli ben Marica primamente trasse, voltando i nostri cavallieri esso tristo tristamente, aggiugnendoli una ebriaca vecchia per lo ballar lascivo, la qual Frinico altre volte fece, la quale la balena mangiò. poi Hermippo di nuovo la fece contra Hiperbolo, et tutti gli altri poi fermarono contra Hiperbolo, havendo imitate le mie imagini d'anguille. Chiunque di queste cose andunca si vuole ridere, non de le mie alegrar si dee. ma se di me et de le mie inventioni v'alegrate, in altri tempi havere spasso voi pensarete.
- Coro.
- In prima chiamo ne'l coro grande l'altiregnante Giove, d'i dei signore: e il valente di forze, guardiano de la tridente, et de la terra et de'l mar salso grave motore: e'l padre nostro di gran nome Etere, che castissimo è, et di tutti la vita nutrisce: et anche Hippo nome, che sopra i splendidi ragi contiene il campo de la terra universa, grande fra i dei, et fra i mortali savio.
- Coro.
- O molto savij mei spettatori et dotti, di gratia qui avertite, noi ingiuriate in contrario vi accusiamo voi: che à noi (aiutandovi la cità più che tutti i dei) sapienti sole ne sacrificio, ne cerimonie, ne honor fate, che vi conserviamo. perche se gli è qualche exito con niuna mente, à l'hora e tuoniamo, ò un poco piovemo. poi quando lo nemico d'i dei Paflagone coriario per duce v'elegeste, s'accorocciassimo, et gravi cose et da non sopportare facessimo, il tonitruo poi si rupe con lampo, et la Luna lasciò le sue vie, il Sol poi in se medesimo tirando'l ragio subito, diceva di non lucervi, se Cleone stato fosse duce. ma niente di meno costui v'elegeste. Onde si dice, ch'e'l cattivo consiglio è in questa cità. pur queste cose i dei, ciò che voi fallate, in meglio volgano, et che questo anchor giovi, facilmente l'insegnaremo. se prendendo voi Cleone rapitor de doni et di furto, poi gli inturbarete il collo con questo legno, un'altra volta nel pristino et primo tempo, se qualche delitto haveste fatto, quello che si fà ne la cità di bene in meglio farà andare.
- Coro.
- Intorno à me di nuovo signor Febo di Delo, che in Cinto habiti l'alta pietra: et tu che in Efeso, beata ne stai in una casa d'oro tutta, ne la quale le giovani di Lidia grandemente honoranoti: et tù dea de la nostra patria, carratiera d'Egite, Minerva, de la nostra cità patrona: et tu ebriaco Dioniso, che la Parnasia pietra habiti, luci con le facelle picee, decente per i lauri delfici.
- Coro.
- Quando noi quì di venir parecchiavamo, la Luna incontro venendo, ne mandò à dire, che prima salutassimo gli Ateniesi et coaiutori, poi diceva essersi sdegnata, per haver patiti incommodi, giovando à voi tutti non di parole, ma de fatti, perche in principio de'l mese ne la facella non manco d'una dramma, che ogniun dice che vien fuor di sera, Non comprar putto la face, perche il lume de la Luna è bello, et dice che faciate bene le altre cose, et non passar di niuno se non giustamente: et non molestare di sopra ne di sotto. Sì ch'ella dice che i dei à lei alcuna volta minaciano. quando si sono ingannati de la cena, et sono andati à casa non havendo tocco di festa, secondo la ragione de giorni. et poi quando sacrificar bisogna vi torzete, et giudicate. et spesse volte noi menando à i dij il digiuno, quando piangemo, ò Memnone, ò ver Sarpedone voi sacrificate, et ridete. in luogo di questi per sorte fù eletto Hiperbolo hieri à sacrificare. poi da noi dee de la corona è stato privato. tal che più cosi conoscerà, che secondo la Luna i dì de la nostra vita menar bisogna.
- Soc.
- Per la respiratione, per il Chaos, per l'aere, non hò visto cosi huomo rustico niuno, ne debile, ne rozzo, ne scordevole, che certi picioli giuochi imparando, queste cose s'hà scordato in prima imparare. nulla di meno lo chiamo esso fuori de la porta quà a'l lume. hor Strepsiade vien fuora piglia, lo scagno.
- Str.
- Ma non mi lasciono uscir fuora i cimesi.
- Soc.
- Presto un poco, pon giù, et attendi.
- Str.
- Ecco.
- Soc.
- Hor su che vuoi tù prima hora imparare di quelle cose che non sei stato ammaestrato mai niente? (dimi) ò di misure, ò di parole, ò de canti?
- Str.
- Di misure io che pur adesso da un venditor di formento sono stato ingannato di mezzo staro.
- Soc.
- Non ti domando questo. ma qual metro pensitù che sia'l migliore, o'l trimetro, o'l tetrametro?
- Str.
- Io gia niente meglio de'l semisestario.
- Soc.
- Niente dici ò huomo.
- Str.
- Risguardami adesso, se'l non è tetrametro il semisestario.
- Soc.
- Va à le forche, che sei grosso, rozzo, et non poi imparare, tosto potresti ben e imparar di canto.
- Str.
- Mò che mi giovano i canti à la farina?
- Soc.
- Hor prima essere ornato ne la compagnia, poi udire di che sorte sono i canti secondo l'enoplio, et di che sorte anchora secondo'l dattilo.
- Str.
- Secondo'l dattilo, per Giove. ma il sò.
- Soc.
- Hor dì.
- Str.
- Di che sorte altro in luogo di questo dattilo? per che questo era anchora, quando io era putto.
- Soc.
- Disutile sei et goffo.
- Str.
- Non hò mica io, ò fastidioso, disio d'imparare niente di queste cose.
- Soc.
- Che poi?
- Str.
- Quella, quella parola ingiustissima.
- Soc.
- Ma altre cose che sono prima di questo ti bisogna imparare. di quelli che hanno quattro piedi quali sono propriamente mascoli.
- Str.
- Mà sò bene io i maschij, se non divengo matto, montone, becco, toro, cane, gallo.
- Soc.
- Veditu che fai? e femina tù chiami'l gallo à un medesimo nome, e maschio.
- Str.
- Mò à che modo di gratia?
- Soc.
- A che modo? gallo et gallina.
- Str.
- Per lo dio Nettuno, horgia à che modo mi bisogna chiamarlo?
- Soc.
- Uno gallina, et l'altro gallo.
- Str.
- Gallina? ben bene, per l'aere. dunque per questo ammaestramento solo di farina t'empirò la tua cassa à torno à torno.
- Soc.
- Ecco più un'altra volta questo altro, la cassa maschio chiami essendo femmina.
- Str.
- A che modo maschio chiamo io la cassa?
- Soc.
- Si ben, come ancho Cleonimo.
- Str.
- In che foggia? dillo.
- Soc.
- Tanto ti fà la cassa come Cleonimo.
- Str.
- Ma ò huomo da bene, Cleonimo non havea cassa, ma in un mortaio rotundo rimasinava, et in ultimo à che guisa mi bisogna chiamare?
- Soc.
- A che guisa? la cassa come fai la sostrata.
- Str.
- Tu dì più giustamente la cassa femina, per quello poi sarebe la cassa Cleonima.
- Soc.
- Pur anchora de nomi ti bisogna imparare quali sono maschij, et quali di quelli sono femine.
- Str.
- Ma io sò bene quali sono femine.
- Soc.
- Di mò.
- Str.
- Lisilla, Filinna, Clitagora, Demetria.
- Soc.
- I maschij poi quali sono i nomi?
- Str.
- Sono infiniti, Filosseno, Melesia, Aminia.
- Soc.
- Ma ò villano, questi ben sono non maschij.
- Str.
- Non maschij à voi sono.
- Soc.
- Nò, nò, perche à che modo chiamerai tù incontrandoti Aminia?
- Str.
- A che modo? cosi. vien quà Aminia.
- Soc.
- Vedi tu? femina tu chiami Aminia.
- Str.
- Dunq; giustamente, chiunq: non và à la guerra. ma perche queste cose che ogniuno sapiano, imparo?
- Soc.
- Niente per Giove, ma ch’hai declinato fatti in quà.
- Str.
- Che debo fare?
- Soc.
- Truova un poco qualche cosa de le tue.
- Str.
- Non per questo qui de gratia. ma se pur forza è, lasciami pensare queste cose medesime in terra.
- Soc.
- Non gli sono altre cose che quelle.
- Str.
- Meschino che son io, che sorte di supplicio patirò io hoggi per cimesi?
- Soc.
- Considera hora et guarda ogni cosa, et muta la tua usanza de’l vivere, havendola fatta grossa. quando poi subito in dubio cascarai, salta in un’altra cogitation di mente, il sonno poi grato à l’animo siati luntano da gli occhij.
- Str.
- Oime, oime.
- Soc.
- Ch’hai tu? che fai tu?
- Str.
- Me ne moro meschino per lo scabello, mi mordono i serpi di Corinto, et mi straciano i fianchi, et fuganomi l’anima, et stirpanomi i testicoli, et mi forano il culo, et m’amazzano.
- Soc.
- Hor non ti dolere si fortemente.
- Str.
- Et à che modo? poi che i mei travagliamenti sono vani, vano’l dolore, vana l’anima, et vano anchora’l calciamento, e presso à questi mali anchor contando à la custodia in poco di tempo son diventato vano.
- Soc.
- Tù che fai? non pensitu?
- Str.
- Io per Nettuno sì.
- Soc.
- Et ch’hai tu dunque escogitato?
- Str.
- Dà i cimesi, se niente di me è restato.
- Soc.
- Tù ti rovini tristo.
- Str.
- Ma’l mio huomo da ben son rovinato, poco è.
- Soc.
- Non bisogna che queste cose sian tardate, ma coperte, per ciò convien trovar una mente privativa e una decettione.
- Str.
- Oime che mi darà dunque da le pelli d’agnelli la sententia privativa?
- Soc.
- Hor sù vederò prima ciò che fà questa cosa. tù dormi?
- Str.
- Non per Apolline, io gia.
- Soc.
- Hai tù qualche cosa?
- Str.
- Per Giove niente io.
- Soc.
- Pur niente?
- Str.
- Niente altro che un testicolo da la destra.
- Soc.
- Tù discoperto subito qualche cosa haverai ne l’animo?
- Str.
- Di che cosa? tù dimi mò questo ò Socrate.
- Soc.
- Tù dì ciò che voi prima attrovare.
- Str.
- Udito hai più di mille volte quello ch’io voglio, che de le usure à niuno render deba.
- Socr.
- Horsu copriti, et fermando una sottile cogitatione, à poco à poco considerà i travagli, dirittamente dividendo, et considerando.
- Str.
- Oime sgratiato.
- Soc.
- Taci, et se tu dubiti qualche cosa de le cogitationi, lasciale, et vatene, et poi la mente di nuovo muovi un’altra volta, et il medesimo poi considera.
- Str.
- O Socrate carissimo.
- Soc.
- Che cosa ò vecchio?
- Str.
- Hò la privativa sententia de l’usura.
- Soc.
- Mostrala.
- Str.
- Horsu dimi.
- Soc.
- Che?
- Str.
- Se io comprata una donna venefica di Tessaglia, tirassi giu di notte la Luna, et poi la’nchiudesse in un vaso rotondo, come un specchio, et poi me la servassi.
- Soc.
- Che ti gioverebe poi questo?
- Str.
- Perche se non nascesse piu la Luna in nissun luogo, non renderei già le usure.
- Soc.
- Che poi?
- Str.
- Perche di mese in mese s'impresta l'argento.
- Soc.
- Buona. ma un'altra cosa di nuovo porroti innanzi a'l proposito. se ci fosse scritta una pena di cinque talenti, à che modo la scancellaresti? dimi.
- Str.
- A che modo? à che modo, no'l sò: ma è cosa da cercare.
- Soc.
- Hor non pigliar circa à te medesimo la sententia sempre, ma lascia andare in aere la cogitatione, come Melolonte legato per un pé con un filo.
- Str.
- Ho trovato una distruttione di pena eccellentissima, per confessarlami te medesimo.
- Soc.
- Di che sorte? quale?
- Str.
- Hor veditu questa pietra da i venditori de farmaci, che è bella, che è lucente, d'onde impizzano il fuogo?
- Soc.
- La chiamitu vetro?
- Str.
- Io sì.
- Soc.
- Horsu che poi?
- Str.
- Se pigliarò questa, quando il notaro scriverà la pena, di lungi stando quì a'l sole, faro disfar le lettere de la mia causa.
- Soc.
- Da savio per le Gratie.
- Str.
- Oime, quanto hò io appiacere? che'l debito di cinque talenti si m'è dipennato.
- Soc.
- Hor già tosto piglia questo.
- Str.
- Che?
- Soc.
- A che modo avolgeresti la pena de gli avversari essendo debitore, non siandogli i testimonij?
- Str.
- Ogn'uno'l sa, et facilissimamente.
- Soc.
- Hor dì.
- Str.
- Et già dicolo. se gli è una imminente causa avanti che la mia sia chiamata, mi soffocarò correndo.
- Soc.
- Tu di niente.
- Str.
- Per gli dij io sì, perche niuno metterà pena contra di me quando sarò morto.
- Soc.
- Tu cianci, và via, non t'insegnarò piu.
- Str.
- Perche, perche? si per i dei ò Socrate.
- Soc.
- Ma subito ti scordi tu, ciò che hai anche imparato. però dì che cosa prima t'è stata insegnata.
- Str.
- Horsu il sò. pur che cosa prima era? che cosa prima era? che cosa era quella, ove masinassimo le farine? oime ch'erala?
- Soc.
- Non ti fai tu straciar à i corvi smentichevolissimo, et ignorantissimo vecchiazzo?
- Str.
- Oime che cosa adunque poi partirò io mal'aventurato? che mi moro non havendo imparato voltare la lingua. ma ò nebule datemi qualche buon consiglio.
- Coro.
- Noi ò vecchio ti consigliamo, se tu hai qualche figlio allevato, mandarlo lui à imparare per te.
- Str.
- Anzi hò un figlio, et bello, et buono, ma non vuol già imparare. che cosa farò io?
- Soc.
- Tu poi glielo comporti?
- Str.
- Egli è ben di buona natura, et vivo tutto, et è nato da quelle donne superbe di Cesira. ma vado ad esso. se non verra poi, non mi sarà vietato che non lo scacci di casa. ma aspettami, intrando tù, in poco di tempo.
- Coro.
- Hor t'accorgitu d'haver'incontanente beneficij assai per noi sole dee? perche costui è pronto à far ogni cosa che commandi. tu poi da un'huomo stupido, et apertamente altiero intendendo levarai ciò che poi di piu. perche tosto sogliono à qualche guisa altramente tai cose voltarsi.
- Str.
- Tu non starai piu quì ne la oscuritade, ma commodamente andrai à le colonne di Megaclee.
- Fid.
- O sventurato, che travaglio è il tuo ò padre, non sei in cervello per Giove olimpio.
- Str.
- Ecco, ecco, tu inconsideratamente Giove olimpio istimi, che sia cosi grande?
- Fid.
- Perche t'hai tu riduto di questo? dì'l vero.
- Str.
- M'hò posto in animo che fanciulletto sei, et vuoi sapere le cose antiche: nondimeno pur fati innanzi, à ciò che piu ne sapi. et ti dirò una novella, che se la impari, sarai un'huomo, con questo patto poi, che à niun la insegni.
- Fid.
- Ecco, che cosa gli è?
- Str.
- Giura hora per Giove.
- Fid.
- Ben io.
- Str.
- Hor veditu che buona cosa è lo imparare? non gli è Giove ò Fidippide.
- Fid.
- Mò che gli è?
- Str.
- Il turbine regna iscacciando Giove.
- Fid.
- Oime che cianci?
- Str.
- Sapi che gli è cosi.
- Fid.
- Chi dice questo?
- Str.
- Socrate Melio, et Cherefonte, che sà le pedate de pulici.
- Fid.
- Tu poi sei tu venuto in tanta sciocchezza, che dai fede à pazzi huomini, et infuriati?
- Str.
- Parla bene, et non dir niente di male de gli huomini accorti, et dotti, et savi. da la temperantia de quali mai niuno è stato tosato ne onto, ne anche è andato in bagno se non per lavarsi. ma tu disfai la vita mia come d’un morto: hora immantinente và, et impara per me.
- Fid.
- Che cosa buona poi da quelli uno impararà?
- Str.
- In verità, ogni cosa che si dee sapere fra gi huomini, et conoscerai te istesso, che sei rozzo,, et grosso: ma aspettami qui un poco.
- Fid.
- Oime che farò io, se mio padre perde il cervello? per esser lui pazzo debo io pigliarlo, et menarlo dentro? overo à i sotteradori deb’io dire la sua pazzia?
- Str.
- Horsu. tu dimi, che pensitu che sia questo?
- Fid.
- Un gallo.
- Str.
- Sta bene: questa poi, che è?
- Fid.
- Un gallo.
- Str.
- Tutti doi una cosa medesima? tu di te fai ridere. non piu da qui innanzi. ma questa chiamala gallina. et quest’altro gallo.
- Fid.
- Gallina? hai tu imparate queste cose dotte dentro venendo poco fà, da quelli de la terra?
- Str.
- Et moltre altre cose anchora. ma ogni cosa che hò imparato m’ho smenticato subitamente per la moltitudine di mei anni.
- Fid.
- Et per questo hai perduto la cappa?
- Str.
- Ma non l’ho persa, anzi l’hò spesa a imparare.
- Fid.
- I calciamenti poi ove gli hai lasciati ò pazzo che tu sei?
- Str.
- Come Periclee per bisogno gli hò persi, horsu và, andiamo: poi credi à tuo padre, e falla. et io so, che alcuna volta faceva à tuo modo di sei anni essendo tu, e balbettando. con quel primo danaro che ho ricevuto giudiciale, ne le feste di Giove un carretto hò compro.
- Fid.
- Certo di queste cose à qualche tempo ti dolerà.
- Str.
- Stà ben, che hai voglia di far à mio modo. vien quà, vien quà ò Socrate, vien. che ti meno questo figliuolo à suo dispetto, chè non mi vuole obedire.
- Soc.
- Ma egli è anchora fanciullo, et non esperto di questi calati.
- Fid.
- Tu issesso esperto saresti, se stesti pendente.
- Str.
- Non, và à le forche: tu dici male de’l maestro?
- Soc.
- Ecco che starai pendente, che scioccamente hà parlato, et senza ritegno. A che modo impararà mai costui il fugire de la pena, overo la citatione, overo la eloquentia persuasista? nondimeno questo per un talento hà imparato Hiperbolo.
- Str.
- Con sicurezza insegnalo, naturalmente egli è savio d’animo, subito essendo fanciulletto si fatto, là dentro forma di case faceva, et navi cavava, et carriuoli, di corame facea, e da le scorze di pomo granato facea rane, pensa à che modo, à che modo pò egli imparare quelle due parole, una ch’è buona, l’altra ch’è cattiva: ma se nò, almeno quella ch’è ingiusta con ogni arte.
- Soc.
- Esso impararà da le istesse parole.
- Str.
- Et io andarò via. questo adunque arricordati, che egli possa ad ogni cosa giusta contradire.
DE'L CORO
- Giu.
- Vien quà, fati vedere à i spectatori, anchor che sij audace.
- Ingiu.
- Và dove vuoi, che io dicendo in assai cose molto piu ti rovinarò.
- Giu.
- Tu mi rovinarai? che saresti mai tu?
- Ingiu.
- Parola.
- Giu.
- Da poco sei.
- Ingiu.
- Ma ti vinco, che dico, che io sono piu da bene, che non sei tu.
- Giu.
- Che cosa dotta fai?
- Ingiu.
- Sententie nuove attrovo.
- Giu.
- Et queste cose sono in prezzo per questi pazzi.
- Ingiu.
- Non, anzi savij.
- Giu.
- Ti rovinarò malamente.
- Ingiu.
- Dì, che cosa fai?
- Giu.
- Giuste cose dico.
- Ingiu.
- Ma voltarò queste contradicendo, ne voglio che vi sia giustitia, in modo niuno.
- Giu.
- Dì tu, ch'ella non vi è?
- Ingiu.
- Dimi un poco, ov'ella?
- Giu.
- Apresso à i dei.
- Ingiu.
- A che modo adunque essendovi la giustitia, Giove non è morto, havendo legato il padre?
- Giu.
- Oime, et si vi puo aggiugnere anche questo male, datemi una conca.
- Ingiu.
- Superba vecchia, et discordevole sei.
- Giu.
- Impudica sei, et dinanzi, et di dietro.
- Ingiu.
- Sono rose queste che dici.
- Giu.
- Et robatrice di cose sacre.
- Ingiu.
- Di giglij m'incoroni.
- Giu.
- Ucciditrice del padre.
- Ingiu.
- D'oro inspargendomi non mi conosci.
- Giu.
- Nò nò avanti, ma di piombo.
- Ingiu.
- Hor già questo m'è ornamento.
- Giu.
- Sei molto ardita.
- Ingiu.
- Tu poi sei vecchia.
- Giu.
- Ma per te niuno de giovani ne vuole andar. sarai conosciuta à l'ultima da gli Ateniesi, che cose tu insegni à i rozzi.
- Ingiu.
- Spelorza brutta.
- Giu.
- Tu poi fai bene, avenga dio, che in prima pitocavi, dicendo che tu eri Telefo Misio, da una scarselletta mangiando le sententie pandeletie.
- Ingiu.
- Oime, di che sententia ti sei tu arricordata?
- Giu.
- Oime de la tua sciocchezza, et de la tua cità, che ti tien viva, che guasti i giovani.
- Ingiu.
- Non questo insegnarai, perche sei un Saturno.
- Giu.
- Poi che à lui è forza salvarla, et non la loquela solamente essercitare.
- Ing.
- Vien quà lascia costei impazzire.
- Giu.
- Tù piangerai. tù vi pon la mano?
- Coro.
- Cessate di contendere et dirvi villania. ma mostrane tù quelle cose ch’hai insegnate à quelli de prima, et tu la instruttion nuova, à ciò che colui che vi oda à contradire, giudicando se ne vada.
- Giu.
- Questo voglio fare.
- Ing.
- Et anchor io voglio.
- Coro.
- Hor quale di voi prima dirà?
- Ing.
- Costei lascierò dire. et poi da quelle cose ciò che dirà, con parolette nuove et sententie la saettarò. Ultimamente s’ella parlarà, punta per tutta la facia, et per gli occhij come da le vespe, da le sententie se ne morirà.
- Coro.
- Hor mostrate, confidandovi ne le parole convenienti, et ne i studij, et ne le cogitationi, quale di voi dicendo migliore apparerà. per ciò che tutto’l pericolo quì si dà à la sapientia, de la quale à i miei amici è gran contentione et pugna. Ma ò tù ch’incoroni d’assai buone usanze i vecchij parla con quel modo che ti piace, et de la tua natura.
- Giu.
- Dirò adunque la disciplina antica, come era stata ordinata, quando io giuste cose dicendo fioriva, et la discretione era riputata. bisognava che niun udisse la voce d'un putto che parlasse, bisognava andare per le strade bene ordinato, à la scuola di sonare quelli de la terra, nudi, adunatisi, anchora che molto smisuratamente nevasse: poi essercitava prima imparare il canto quelli che non tenevano strette le gambe, ò Minerva dissipatrice de le cità, grave: ò un qualche alto grido, distendendo l’harmonia, che gli hanno insegnato i magiori. Se alcuno poi d’essi havesse fatto aguati à l’altare, ò havesse istorto qualche tortuosità, si come quelli hora di Frine, queste difficilmente storte fraccava, battendone molte, quasi scanzelando il canto. i putti poi che in scuola sedevano gli bisognava mettere fuora la gamba, à ciò che à quelli ch’erano di fuori, niente mostrassino immansueto. poi di nuovo un’altra volta levandosi farsi netti et antivedere, non lasciare imagine à gli amatori de la pubertà. et niun putto s’ungea l’ombiligo di sopra via à l’hora, che à le parti pudendi, rosciata et lanugine come à i pomi fioriva. ne mescolando la molle voce, egli di sè medesimo essendo ruffiano, avanti à gli occhij à l’amatore andava. ne gli era licito cenando pigliare un capo di rafano, ne l’aneto d’i vecchij carpire, ne appio, ne mangiare quelle cose che si mangiano co’l pane, ne mangiar tordi, ne tenere i piedi à l’incontro.
- Ing.
- Cose antiche et giù d’usanza et piene di cigale, et di cecido, et d’uccision de bovi.
- Giu.
- Hor dunque queste cose sono quelle, per quali la mia dottrina hà sostentato gli huomini che hanno combattuto in Maratone. et tù hora incontanente gli insegni involtarsi ne le vestimenta, fino à tanto che mi strangolino, quando loro conviene ballare cò i Panatenei, havendo avanti à la gamba negligentemente il scudo di Minerva. per il che ò giovanetto con sicurezza elegi mè per la miglior parola, et saperai havere in odio’l palagio, et da’l bagno astenerti, et de le dishonestati haver vergogna, anchor che alcuno ti dica villania d’essere abbrusciato, et levarti da le sedie incontro à i vecchij che gli vanno, ne padre et madre biastemare, ò dirne male, et niun’altra cosa turpe ò dishonesta fare, perche tu daresti pieno ornamento à la verecundia: ne intrare in luogo dishonesto, à ciò che à queste cose havendo l’appetito, non ti sia tratto un pomo da una feminuzza, et ti levi la buona fama: ne contradire a’l padre niente, ne adducendo zancie, arricordarsi de la età de cattivi, ne la quale da giovene sei allevato.
- Ing.
- Se farai à modo di costei queste cose ò giovanetto, per dio Bacco, à figliuoli d’Hippocrate diverrai simile. et ti chiamaranno pazzo.
- Giu.
- Ma adunque ben formato et co’l vanto d’essere il primo ne le scole dimorarai, non zanciando in piazza cose di poco valore, come fanno costoro adesso, ne tirato circa à un poco di cosetta potente ti offenderai, ma venendo giù ne la Academia, sotto le ulive correrai, incoronato d'un calamo bianco da un discreto compagno, sapendo di buono, di milace, d'apragmosine, et di pioppa, che fuori produce le foglie ne'l tempo di prima vera, alegrandoti quando il platano e l'olmo mormora. Se farai queste cose che io ti dico, et à queste porrai mente, havrai sempre il petto candido, il color chiaro, le grandi spalle, la lingua accorta, le grandi natiche, il membro virile piciolo, se studiarai poi quelle cose che fanno costoro, primamente havrai colore pallido, le spalle piciole, il petto piciolo, la lingua grande, le natiche picole, la verga grande, il giudicio lungo. et questa cosa dishonesta, ogni cosa bella et buona ti farà istimare, et quella cosa ch'è buona trista. et oltra di questo per la cinedità d'Antimaco ti farai perfetto.
- Coro.
- O che esserciti la sapientia bella et forte et gloriosissima, quanto suave è il fior modesto de le tue parole. et felici pur'erano quelli che à l'hora vivevano, quando tù vi eri. ò che hai dunque, la superba musa à queste cose di prima, bisogna che dichi qualche cosa nuova, perche un huomo è riuscito famoso. Ma à tè è parso esserti bisogno de gravi consultationi, circa à lui, avenga che l'huomo vincerai, et non sarai obligato à ridere.
- Ing.
- Et io pure lungamente mi doleva ne'l cuore, et gran disiderio haveva di disturbare con sententie contrarie tutte queste cose. per cio che per questa cosa medesima sono stata chiamata la menore parola fra gli studiosi, il che prima mi pensai. et con legi, et con giustitie contradire cose contrarie. et questo val più che diece milla ducati, elegendosi le minori parole poi vincere. considera poi la dottrina che s'insegna, che riprendo ogniuno che dice che prima non lasci patire co'l caldo, non di meno havendo una certa opinione vituperi i caldi lavacri.
- Giu.
- Cosa ch'è tristissima, et infelice fà l'huomo.
- Ing.
- Stà cheta. per ciò che pigliandoti senza fallo subito ti hò à traverso. et dimi de figliuoli di Giove quale huomo tù pensi che sia da ben con l'animo, dillomi, et che molte fatiche habia fatto.
- Giu.
- Io giudico ben, che non ce sia più da bene huomo di Hercole.
- Ing.
- Dove hai tu mai visto fredde lavationi d'Hercule? non di meno ch'è stato più virile, et più robusto?
- Giu.
- Queste sono quelle cose che fanno il bagno pieno di giovani che sempre ogni dì parlano, et i luoghi da essercitarsi vuoti.
- Ing.
- Poi vituperi il pratticar ne'l foro, et io'l lodo. perche se non fusse buono, mai Homero non havrebe fatto Nestore concionatore et dicitore, ne ancho savij tutti. Hor quà me ne vò in quella lingua, che costei dice, non essere necessaria à i giovani essercitare, et io dico che si: et dice anchora che bisogna esser da bene et discreto, sendo doi gran mali. perche tù per essere da bene, dimi à chi mai haitu veduto essere accaduto qualche bene, et riprendimi parlando.
- Giu.
- A molti: Perche Peleo per si fatta cosa pigliò la spada?
- Ing.
- La spada? egli sventurato pigliò un citadinesco guadagno. Hiperbolo poi non da le lucerne altro che molti talenti ricevè per le sue malitie, non gia, per Giove, non la spada?
- Giu.
- Et tolse Peleo Per moglie Teti, per esser da bene et savio.
- Ing.
- Et quella poi lasciando'l se n'andò via. non era gia ingiuriatore, ne ancho soave et dolce à veghiare ne i letti tutta la notte. la donna facendosi chiavare, pigliava appiacere. ma tu sei una cavalla vecchia. Considera un poco ò giovenetto ne'l'essere da bene, che ogni cosa consiste, che è, et che de tanti appiaceri sei per essere privo, de putti, de femine, de giuochi, de collationi, de pasti, de risi, ma che ti gioverebbe il vivere se di queste cose fosti privato? Siano, ti concedo, cose che necessariamente accadono, à la natura, tu hai fallato, sei stato inamorato, hai adulterato, in che cosa poi sei stato colto? sei morto. tu non poi gia dire, stando meco, adopera la natura, salta, ride, pensa niuna cosa turpe, perche se t'accaderà esser trovato in adulterio queste cose contradirai ad esso. che niuno hai ingiuriato. puoi riferirlo à Giove. e quello è da manco de l'amore, et de le femine. Sì che, tu essendo mortale, à che modo potrai piu magior cosa di Dio.
- Giu.
- Che poi se gli fosseno tratti dietro i rafani facendo à tuo modo, e fosse incenerato, che fama egli haverà se non d'un largo buco?
- Ing.
- Et se havera largo il buco, che male egli patirà?
- Giu.
- Che cosa adunque anchor magiore di questa mai patirà?
- Ing.
- Che dirai tu poi, se in questo sarai vinta da me?
- Giu.
- Tacerò. che gli è poi altro?
- Ing.
- Hor su dimi, per cui cagione canzonano?
- Giu.
- Per i larghi busi.
- Ing.
- Credo. et per cui causa fanno le tragedie?
- Giu.
- Per i larghi busi.
- Ing.
- Ben parli. et per cui governano il popolo?
- Giu.
- Per i larghi busi.
- Ing.
- Hai tu adunque conosciuto, che niente dici? et di spettatori quali siano i piu, considera.
- Giu.
- Et gia il considero.
- Ing.
- Che veditu poi? assai molti?
- Giu.
- Sì per i dij, largi busi, et costui dunque io vedo, et colui, et quest'altro che ha i capelli.
- Ing.
- Che dirai tu mò?
- Giu.
- Vinte siamo.
- Fidi.
- O travagliati, per gli dij pigliate il mio vestito che à voi spontaneamente vengo.
- Soc.
- Che vuoi tu dunque, ò che ricevendo questo tuo figliuolo introduca, ò che insegni à te à dire?
- Str.
- Insegnalo, et castigalo, et ricordati che bene esso mi confermi, et conferma una de le masselle potente ne le controversie piciole, et l’altra valente à magiori imprese.
- Soc.
- Non haver pensier, tu portarai questo sofista savio.
- Fidi.
- Pallido adunque penso che’l sia et infelice et meschino.
- Coro.
- Và via hora. penso che di questo poi ti pentirai.
Vogliamo dirvi i giudici, che cose guadagnaranno, se in qualche cosa giovaranno à questo coro. per ciò che in prima se vorrete secondo il tempo rinovare i campi, pioveremo à voi primi, et à gli altri poi: poscia conservaremo le vigne che il frutto partoriscano, talmente che non habiano ne troppa secchezza, ne troppa piogia. Se un’huomo mortale poi non farà honore à noi che dee siamo, pongasi à mente, che sorte d’adversità da noi patirà, ricevendo ne vino, ne niente altro da’l campo. et quando le olive e le viti germogliaranno, e saranno amputate, in tali possessioni chioccaremo. et se vederemo quel che fà le pietre cotte, pioveremo, et gli spezzaremo con grani di tempesta rotundi, i coppi del suo tetto, et se torrà moglie per aventura esso, ò de parenti, ò de gli amici, pioveremo tutta notte. di forte che forsi vorrà piu tosto che anch’in Egitto fosse, che giudicare malamente.
- Str.
- Quinta, quarta, terza, dietro à questa la seconda. poi quella che io piu di tutti i dì hò temuta, et che hò abhorrita e fugita, et odiata, subito dopo questa è la ultima et la nuova, perche ogniuno giura, à chi m’incontro debitore, ponendomi avanti i pritanei, e dice di rovinarmi et distrugermi, me domandandogli il dovere e’l giusto. ò sventurato questo hora gia non mi torai. et lo aslongami, et lo lasciami, mai non dicono cosi ricevere: anzi mi fanno villania, che non sono huomo da bene ne giusto, et dicono di farmi citare à ragione, hor dunque mi citino. ogni modo n’hò poco pensiere, poi che hà imparato Fidippide à dir bene. et incontinente lo saperò, se batto ne la scola. figlio dico, figlio, figlio.
- Soc.
- Saluto Strepsiade.
- Str.
- Et io anchor tè, ma piglia questo prima. perche forza è honorar in qualche cosa il maestro, ma dimi, se mio figliuolo ha imparata quella parola, quale pur hora gli hai introdutta?
- Socr.
- L’hà imparata.
- Str.
- Ben sei privatrice, ò d’ogni cosa reina.
- Soc.
- Di modo che fugirai qual pena vorai.
- Str.
- Et se testimonij vi erano quando tolsi in presto ad usura.
- Soc.
- Tanto magiormente anchor che fossino stati mille.
- Str.
- Gridarò adunque un gran gridore. io, io, piangete ò creditori, et voi, et le sorti, et le usure de le usure. non mi farete già voi piu male. di che sorte figliuolo se m’alleva in questa casa, con la lingua aguzza d’ogni banda, splendente protettore mio, salvatore à le case, à i nemici doloroso, disfacitore de grandi mali de’l padre. chiamalo à me tu che di dentro corri. ò figlio, ò figliuolo, ò figliuolo, vien fuori di casa, odi tuo padre.
- Soc.
- Questo è quell’huomo.
- Str.
- O caro, ò caro.
- Soc.
- Và via tu, piglialo.
- Str.
- Io, io figliuolo, oh, oh, molto m’alegro prima vedendo il tuo colore. hor sei, à vederti, primamente negativo, et contradittivo, et questo è di tuo padre. chiaramente sei in fiore. che ne dici tu? et pensitu d’ingiuriar lo ingiuriante et malfattore. so che et ne la tua facia è un’aspetto Attico. Hor dunque à che modo mi salvarai tu, poi che m’hai rovinato?
- Fid.
- Hai tu paura di qualche cosa?
- Str.
- De la ultima, et de la nuova.
- Fid.
- Mò qual’è la ultima, et nuova giornata?
- Str.
- In che mi dicono por le buone mani.
- Fid.
- Si rovinano certamente quelli che le pongono, perche non si puo far che un dì sia fatto due dì.
- Str.
- Che non facio?
- Fid.
- Mò à che modo? se non insieme ella medesima diventi, et vecchia, et fresca donna.
- Str.
- Et cosi è stato ordinato.
- Fid.
- Non penso già che ben sapiano la lege, che vien à significare.
- Str.
- Et che cosa significa?
- Fid.
- Solone antico era amator del popolo naturalmente.
- Str.
- Questo non fa gia à l’ultima, et à la nuova.
- Fid.
- Egli adunque hà posto il chiamare in due dì, et ne la ultima, et ne la nuova, à ciò che si facesseno le positioni ne’l novilunio.
- Str.
- A che proposito gli hà egli posto l’ultima?
- Fid.
- A ciò che quelli ch’apresso erano, fugendo in un dì prima di volontà fossero liberati, se non poi, che la matina s’attristasseno per il far de la Luna.
- Str.
- Perche i principati non togliono adunque ne la nuova Luna le buone mani, ma la ultima, et la nuova?
- Fid.
- Perche parono i creditori patire, che subito portino via le buone mani, per questo hanno proposto un dì.
- Str.
- O molto sventurati, che state à sedere, ò ignoranti, sassi che sete di quelli che fanno i nostri guadagni, numero, pecore anchora, amfore ghiozzanti. onde verso di me, et di questo mio figliuolo è da cantare una laude per le felicità mie: O felice Strepsiade, et tu quanto sei nato savio, et un gran figliuolo nutrisci. hor gli amici mi dicono, et i citadini havendomi invidia, Quando vinci dicendo le cause. ma introducendoti voglio prima mangiare.
- Cre.
- Poi bisogna che l’huomo qualche cosa lasci andare inanzi di quelle di esso? non già. ma meglio sarebe stato in uno instante à l’hora haver vergogna piu, che haver negocij, poi che hora per causa di queste mie facende ti meno, et tiro chiamandoti: et mi farò nemico oltre à ciò à l’huomo populano. et mai fin che scampo non farò vergogna à la patria. ma chiamo Strepsiade.
- Str.
- Chi è questo?
- Cre.
- A l’ultima et nuova.
- Str.
- Con testimonij ti farò vedere che hà detto in doi dì, perche cosa?
- Cre.
- De le dodici mine, che ricevesti à comprare il cavallo rosso.
- Str.
- Cavallo? non udite? che tutti voi sapete come hò in odio la cavalleria?
- Cre.
- Et per Giove, tu giuravi à i dij di purgare il debito.
- Str.
- Per Giove, perche non sapeva anchora Fidippide, ch’io havesse una parola inespugnabile.
- Cre.
- Et hor per questo fai tu conto di negarmi?
- Str.
- Che cosa mò altra adoperarei di quello che hò imparato?
- Cre.
- Et per queste cose mi vorai giurare falso i dei, à quai ti citaro?
- Str.
- Quali dei?
- Cre.
- Giove, Mercurio, Nettuno.
- Str.
- Per Giove, mi metterei anche sopra un quattrino à giurare.
- Cre.
- Postu adunque morire per esser cosi sfaciato anchora.
- Str.
- Questa parola se havesse un poco di sale, valerebe.
- Cre.
- Penso che mi sbeffi.
- Str.
- Sei vasi tenerei, et li farei capire.
- Cre.
- Non per Giove grande, & per gli dij mi sbatterai di sotto.
- Str.
- Maravigliosamente d’i dei mi sono alegrato. et Giove giurato si ride di che lo sà giurare.
- Cre.
- In verità verrà tempo che patirai la pena. ma ò se mi pagarai i debiti, ò nò, mandami la risposta.
- Str.
- Hor stà cheto, che subito ti risponderò chiaramente.
- Cre.
- Che ti pensitu di fare?
- Il test.
- Tu pensi d’essere pagato.
- Str.
- Ov’è costui, che mi domandi danari? dì. che cosa è questa?
- Cre.
- Che cosa è questa? uno cassone.
- Str.
- Poi domandi danari essendo si fatto? non ne darei un bagattino, à chi chiamasse cassone, la cassa.
- Cre.
- Non mi pagarai dunque?
- Str.
- Non, per quanto posso vedere. non t’affretti punto, però tosto fugirai da la porta.
- Cre.
- Vò via, ma sapi che porrò le buone mani, ò che piu non viverei.
- Str.
- Le gittarai via adunque apresso à le dodeci. niente di meno non voglio che tu patisci questo. che hai stoltamente di te chiamato il cassone.
- L’altro creditore.
- Oime, oime.
- Str.
- O là, chi è questo che si lamenta? hà forsi alcuno de i dei parlato qualche cosa di Carcino?
- Cre.
- Che cosa? ciò che sono io, volete sapere? io sono un’huomo sventurato.
- Str.
- Voltati à te medesimo.
- Cre.
- O fortuna aspra, ò disgratie che hanno guasto i carri de mei cavalli, ò Minerva in che fogia mi hai rovinato?
- Str.
- Mò che male t’hà mai fatto Tlepolemo?
- Cre.
- Non mi dir villania ò tu, ma comanda à tuo figliuolo che mi renda la roba, che hà ricevuto, altramente, dirò che hà fatto male.
- Str.
- Che sorte di danari?
- Cre.
- Che egli hà tolti impresto.
- Str.
- Male veramente adunque tu gli havevi, a’l mio parere.
- Cre.
- Cacciando i cavalli son caduto, per gli dij.
- Str.
- Che zancitu adunque, quasi che tu sij cascato giu d’un’asino?
- Cre.
- Ciancio. Se io voglio scuotere i danari.
- Str.
- Non gli è ordine che tu sij sano.
- Cre.
- Perche?
- Str.
- Tu mi pari quasi esser mosso di cervello.
- Cre.
- E tu per Mercurio da me sarai citato, se non mi pagarai.
- Str.
- Dimi, pensitu che sempre Giove facia piovere da ogn’hora fresca aqua? ò che’l Sole à se tiri di sotto via un’altra volta quella medesima aqua?
- Cre.
- Non so io già di queste due cose quale si sia, ne anche me ne curo.
- Str.
- Come hai tu adunque ragione di scuotere i danari, se niente sai de le cose di sopra?
- Cre.
- Ma se n’hai bisogno rendimi a’l meno la usura de i danari.
- Str.
- Et questa sarà l’usura una bestia.
- Cre.
- Che cosa altra che secondo il mese, et secondo il dì, piu piu sempre accrescono i danari, volando il tempo.
- Str.
- Tu parli bene. che pensitu dunque che adesso il mare piu grande sia, et piu pieno, che non era in prima?
- Cre.
- Non per Giove, ma uguale, perche non è giusta cosa ne ragionevole che piu pieno sia.
- Str.
- Et poi ogni modo (ò mala ventura) esso niente cresce di piu, ben che i fiumi dentro vi cadano, ma tu cerchi di fare il tuo argento di piu. non ti torai tu di quà fuor di casa? portami la bacchetta.
- Il test.
- Di queste cose sono io buon testimonio.
- Str.
- Partiti. che stai à fare? non lo iscacij ò samfora?
- Cre.
- Questo non è ingiuria, et oltragio?
- Str.
- Andarai tu? me ne salto, et ti pungo, sotto a'l culo che porti la catena di ferro. fugitu? certo io ti voleva far movere, con le tue proprie ruote et giovi.
- Coro.
- Gran cosa è i desiderare le cose cattive. per ciò che questo vecchio disideroso de la ingiustitia, non vuol rendere i danari che hà tolto impresto, et non vi si può rimediare, che hoggi non pigli la cosa, che lo farà sofista di quelle cose che hà incominciato à dir pervillania, e che subito qualche mal ne pigli. ond’io penso ch’egli subito trovarà quello che già atre volte cercava d’havere, un figlio grave, et dotto, ne’l dire le sententie contrarie à le giuste, à vincerle tutte, in quali fosse prattico, et se dira ogni cosa trista, et cattiva, forsi forsi vorà anch’esso essere mutolo.
- Str.
- Oime, oime, ò vicini, et parenti, et ò citadini aiutatemi che son battuto con ogni inganno, oime sventurato ne la testa, et in una massella. ò forca tu batti tuo padre?
- Fid.
- Sì ò padre.
- Str.
- Vedete ch’egli stesso confessa, che mi batte?
- Fid.
- Sì.
- Str.
- O sciagurato et del tuo padre ucciditore et ladro.
- Fid.
- Un’altra volta dopo queste, dine anchor de le cose magiori. certo tu sai che m’alegro, molti mali udendo.
- Str.
- O bardassa.
- Fid.
- Spandilo con molte rose.
- Str.
- Tu batti il padre!
- Fid.
- Et faroti vedere per Giove, che giustamente t’hò battuto, et perche lo meriti.
- Str.
- O sciaguratissimo, et à che modo puo stare che tu batti il padre con ragione?
- Fid.
- Io te lo mostrarò pur, et dicendo ti vincerò.
- Str.
- Questo tu vincerai?
- Fid.
- Sì, et facilmente, elegiti poi qual parola de le due tu vuoi, à dire.
- Str.
- De quali parole?
- Fid.
- La migliore, ò quella da manco.
- Str.
- T’hò pur insegnato per Giove, ò tristo, à contradire à le cose giuste, se pur sei per credere che giusto, et honesto sia, che’l padre da i figliuoli sia battuto.
- Fid.
- Anzi penso pur, che tu lo debi credere. Sì che ne tu havendo sentito, niente contradirai.
- Str.
- Et non di meno ogni cosa che dirai voglio udire.
- Coro.
- A te appertiene ò vecchio considerare, quando vincerai l’huomo. che costui se in qualche cosa non fosse stato persuaso, non saria cosi stranio, et senza governo, ma è che ardisce qualche cosa manifesta per un’altra cosa, la superbia è de l’huomo, ma fin da l’hora che in prima s’incominciò à contendere, gia dir bisogna a’l coro: et ogni modo questo farai.
- Str.
- Et non di meno io dirò, donde prima habiamo incominciato à vituperarlo et dirli villania, che poi che mangiavano come sapete, primamente ad esso io comandai che pigliasse la lira, et sonasse la canzone di Simonide, il montone come è stato toso. et egli incontanente diceva che molto vecchio era il citarizare, et cantar bevendo à guisa d’una donna che pisti orzo.
- Fid.
- Non era mò di bisogna à l’hora che subitamente fossi battuto et calcato, comandandomi sonare, come se mangiassi cicale?
- Str.
- Sifatte cose però et à l’hora diceva di dentro, come à desso: et diceva che Simonide era un malo poeta. et io à pena insieme primamente mi ritenni, ma poi gli comandai (tolto su il mirto) che mi dicesse qualche cosa di quelle d’Eschilo, et egli poi subito disse: io tengo bene il primo frà i poeti Eschilo, pieno di strepito, instabile, abondante di parole, arduo. et come pensate che il mio cuore n’habia voglia? non di meno mordendomi l’animo dissi: et tu dunque dimi qualche cosa di queste nuove, che pur sono dotte queste. et egli incontanente cantò un detto d’Euripide, che il fratello moveva, ò mal cosa da dire, una sorella nata da una medesima matre. et io questo non tollerai, ma à un tratto à un trato lo disturbo et levo da molti mali et dishonesti: et poi di quì come era’l dovere, havemo contenduto di parola in parola. poi costui m’assalta adosso, et poi mi pistava, et batteva, et suffocava, et consumava.
- Fid.
- Giustamente adunque, che non laudi Euripide sapientissimo?
- Str.
- Colui sapientissimo? ò che ti debo dire, ma un’altra volta di fresco sarò battuto.
- Fid.
- Per Giove meritamente.
- Str.
- Et à che modo giustamente, ò senza vergogna ch’io t’hò allevato accorgendomi che ogni cosa balbettavi ciò che intendevi. per ciò che se tu dicevi bruon, io intendendo ti dava bevere: et se tu domandavi mamma, io veniva à portarti del pane. et di cacare non sapevi dire, et io pigliandoti fuori ti portava et ti teneva avanti, tu mò hora soffocandomi, chiamando et gridando che havessi voglia di cacare, non hai sofferto menarmi fuora ò tristo. lasciami andar fuora, ma suffocato et oppresso qui hò fatta la cacca.
- Coro.
- Penso che i cuori d’i giovani ballino ad ogni cosa ch’ei dirà, per ciò che costui facendo tai cose, parlando sarà ubidito. pigliando una pelle di quelle che sono piu vecchie, ma ne anche de’l cecere, ò tu che muovi et cacci le novelle, à tè appertiene cercare qualche persuasione, per parere dire cose giuste.
- Fid.
- Molto suave cosa è et dolce poter manegiare cose nuove et commode, et rifiutare le legi statuite. per ciò che io quando à la cavallaria sola haveva il cervello, ne ancho trè parole dire poteva, che non peccasse: hor poi che questo medesimo m'hà cessato da queste cose, mi verso et in sottili sententie, et in dire, et in cogitare. penso insegnare, che cosa giusta è et meritevole punire il padre.
- Str.
- Cavalca mò per Giove, che a me è pur meglio mantener cavallo à la carretta, che esser battuto et consumato.
- Fid.
- Et là vado, donde m'hai rotto il parlare. et prima addomandaroti questo. quando io era fanciullo mi battevi tu?
- Str.
- Io sì, con buon animo havendo di te studio et cura.
- Fid.
- Mò dimi, non è giusto che anchor io habia buono animo similmente di te havendo cura, et batterti, poi che questo è un buono animo il battere? à che modo dunque questo tuo corpo bisogna essere innocente di battiture, e'l mio nò? sono pure anchora io nasciuto libero. i figliuoli piangono, pensitu poi che'l padre non deba piagnere? dirai tu di pensare, che questo sia cosa da fanciullo? et io ti dirò'l contrario, che i vecchij sono due volte putti, et tanto piu stà bene et conviene che i vecchij piangano, che i giovani, quanto è manco giusto che essi pecchino.
- Str.
- Ma in niuno luogo si statuisce, che'l padre patisca questo.
- Fid.
- Non era adunque huomo colui, che prima fece questa lege, come tu, et io? et dicendola l'hà fatta credere à gli antichi? che cosa è dunque minore s'è licito ancora à me mettere una nuova lege un'altra volta da quì inanzi, che i figliuoli ribattino i padri? et quante botte havemo havuto avanti'l mettere de la lege, le lasciamo, et diamole la dote da essere tagliata. Considera un poco i galli, et questi altri animali, che puniscono i padri, et non di meno quelli da noi niente sono differenti, se non che non scrivono sententie.
- Str.
- Perche cosa adunque, poi che imiti in ogni cosa i galli et le galline, non mangij anchora lo sterco, et non dormi su le legne?
- Fid.
- Questo non è una cosa medesima ò tu, ne anchor cosi pareria à Socrate.
- Str.
- Apresso di questo, non battere, ma se altramente fai, in ultimo te istesso accusarai.
- Fid.
- Et à che modo?
- Str.
- Perche io hò ragione à punirti: tu poi tuo figliuolo, se n'havrai.
- Fid.
- Se non haverò poi, in darno mi piangerà: et tu gridando ne morirai con la bocca aperta.
- Str.
- A mè ben pare ò huomini del mio tempo ch'egli dica le cose giuste et meritevoli. et le cose buone et decenti à queste, à me parono concedere et darmi luogo: che gli è cosa giusta et conveniente che noi piangiamo, se non faciamo cose da huomo da bene et giuste.
- Fid.
- Considera poi anchora un'altra sententia.
- Str.
- Che me ne muoro.
- Fid.
- Et forsi non ti dolerà patendo quello che hora hai patito.
- Str.
- Mò à che fogia? insegnami un poco in che cosa mi giovarai per questo.
- Fid.
- La madre batterò come hò fatto anchora tè.
- Str.
- Che cosa ditu mò? quest'altro anchora è magior male.
- Fid.
- Che sarà poi, se io hò la parola da manco, et ti vincerò dicendo, che egli è di bisogno battere la madre.
- Str.
- Che altro poi ne segue, se fai questo? niuna cosa ti vietarà tè istesso gettarti ne'l baratro del'inferno insieme con Socrate, et la parola che è da manco. Questo per voi hò patuto ò nebule, à voi lasciando lo incarico di tutti i miei travaglij.
- Coro.
- Tu sei però à te medesimo di queste cose stato cagione: tè istesso hai voltato in tristi et mali affari.
- Str.
- Perche non mi dicevate adunque à l'hora queste cose? onde havete inalzato, un'huomo rustico et vecchio.
- Coro.
- Sempre faciamo questo ogni volta che conoscemo uno che troppo desideri le cattive cose, fino à tanto che lo gettiamo in qualche adversità et disgratia, à questo fin ch'egli sapia haver timore de gli dei.
- Str.
- Oime male cose, ò Nebule, ma giuste, per ciò che mi bisognava rendere i danari, et la robba ch’haveva tolto à credenza. Hor dunque ò figliuolo mio carissimo vien meco, per rovinare il scelerato Cherefonte et Socrate, che tè et mè hanno ingannato.
- Fid.
- Mà non farei ingiuria à i maestri.
- Str.
- Sì, sì, tu hai vergogna del padre Giove.
- Fid.
- Ecco il paterno Giove, come sei vecchio, gli è mò un Giove?
- Str.
- Sì è.
- Fid.
- Non è quello, perche Dino regna havendo scacciato Giove.
- Str.
- Non l’hà scacciato, ma io questo teneva per questo Dino, che è turbine. oime meschino, quando anchora te per un dio hò tenuto che sei un vaso.
- Fid.
- Quì à te medesimo diventa pazzo, et ciancia.
- Str.
- Oime, di che pazzia son mi impazzito, che hò scacciato anche i dei per causa di Socrate. ma ò caro Mercurio non t’accorocciar meco per modo niuno ne mi consumare, ma habi compassione di mè ch’hò fallito ne la garrulità, et siami consultore, ò se spingo essi à la scrittura scrivendo, ò sia ciò che ti pare. giustamente tù ammonisci, non lasciando scrivere la pena, ma velocissimamente brusciare la casa d’i garruli. quà quà ò Xanthia piglia la scala, et esci fuora, et porta la zappa, et poi va su ne la scola, fin che gli getti adosso la casa, foragli il tetto, se voi bene a'l tuo patrone. à me poi alcuno mi porti una facella accesa. et io hoggi farò che uno de loro patisca la pena, quantunque molto siano superbi.
- Dis.
- Oime, oime.
- Str.
- A te appartiene ò facella mandare molto assai fiamma.
- Dis.
- Che fai tu huomo?
- Str.
- Che cosa fò? niente altro se non che me ne stò à guardare ne i travi de la casa.
- Dis.
- Oime, chi è quello ch'abbruscia la nostra casa?
- Str.
- Colui à chi havete tolta la vestimenta.
- Dis.
- Tu ne disfai, tu ne rovini.
- Str.
- Et voglio ben proprio questo, se la zappa non mi guasta la speranza, ò che piu presto io à qualche fogia mi soffocarò cadendo.
- Dis.
- Tu che fai, dì il vero, quì sotto a'l tetto?
- Str.
- Passegio per l'aere et stò à considerare il Sole.
- Soc.
- Oime meschino, sventurato mi soffocarò.
- Str.
- In che tu essendo dotto, hai fatto inguria à i dei.
- Cher.
- Et io anchora mal'aventurato sarò brusciato.
- Str.
- Et guardavate la sedia de la Luna. Spengi, gitta, batti per molti rispetti: et specialmente sapendo che io ingiuriava i dei.
- Coro.
- Andate fuora, che hoggi havemo assai bene ballato.
Il fine de le Nebule.
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