Leonardo da Vinci/Note

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Capitolo 10 - Leonardo scrittore

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NOTE1




(1) Andrea Verocchio nacque in Firenze nel 1488, e morì in età di 56 anni. — Questo celebre artista possedeva vari talenti, e riuscì in tutte le arti del disegno. Egli era valente pittore, scultore in marmo ed in bronzo, architetto, modellatore, geometra, orefice, intagliatore. — Inoltre, possedeva l’arte di fondere e di colare i metalli, e di più era abilissimo nella musica. Colpiva a maraviglia la somiglianza delle cose; fu inventore e mise in voga la maniera di fare l’effige in forma di gesso dei morti e dei vivi per cavarne i ritratti, arte che dava la certezza della somiglianza, non potendo essere più precisa. Nello scolpire in bronzo, il Verocchio fu considerato al pari del Ghiberti e del Donatello.

Egli molto studiava, e quasi in tutto riusciva egregiamente, sussidiato da un ingegno esteso, pieghevole, versatile. I critici trovano una certa qual durezza nei suoi dipinti, e non felice il colorito, ma dotto e corretto è il suo disegno; disegnava con grazia e venustà le teste, principalmente quelle di donne. Moltissime ne disegnò a penna, la quale maneggiava con franchezza ed assai bene. Sommamente stimati sono questi disegni, e gareggiano con i più corretti e diligenti dei disegnatori del secolo d’oro della pittura.

Il Verocchio non contentavasi della somiglianza delle cose, voleva approfondirle, quindi spesso, a quest’uopo, faceva esperienze matematiche. Siccome egli benissimo eseguiva cavalli, e maestro era nell’arte, come dicemmo, di fondere e di colare metalli, i Veneziani vollero servirsi dell’opera sua, per erigere una [p. 44 modifica]statua equestre di bronzo, a Bartolomeo Coleone di Bergamo, al quale erano debitori dei successi delle loro armi. Questa statua, che fu l’ultima opera dell’autore, trovasi in Venezia nella piazza dei Santi Giovanni e Paolo. Verocchio ne fece il modello di cera in grande; ma, un altro artefice essendogli stato preferito per fondere l’opera, ne concepì tanto dispetto che ruppe la testa e le gambe al suo modello e se ne fuggì. Il Senato di Venezia lo fece inseguire inutilmente. La voce essendosi sparsa, che se lo si prendeva gliene costerebbe, egli fece rispondere a questa minaccia, che se a lui fosse troncato il capo, sarebbe impossibile fargliene un altro, in vece che poteva facilmente fare al modello del suo cavallo una nuova testa più bella ancora della prima. Questa risposta fece fare la pace, ma non ebbe il piacere di porre il cavallo al suo posto, poichè avendo preso un riscaldo nel fonderlo, gli sopravvenne una ploresia, di cui morì nel 1544. Onorarono l’arte e la memoria del Verocchio i suoi celebri allievi Leonardo da Vinci e Pietro Perugino, i quali ebbero dal loro maestro i mezzi di superarlo.

Anche Agostino Caracci fu uno di quei genii universali che la sola Italia sembra avere il privilegio di produrre. Oltre quello della pittura, egli possedeva tutti i talenti. Una delle sue principali occupazioni era il comporre delle poesie, le quali non la cedevano in merito a quelle dei più stimati poeti suoi contemporanei. Sarebbe troppo lungo lo annoverare tutti gli artisti italiani che hanno saputo tenere in pari tempo il pennello e la lira. Leonardo e Raffaello alcune volte, onde sollevarsi dai loro serii e faticosi lavori, sacrificavano alle Muse; scrissero pure classiche poesie il Buonarotti, Lorenzo Lippi, Leon Battista Alberti, Benvenuto Cellini, Salvatore Rosa; e parecchi altri grandi artisti si distinsero anco come poeti; ma già la poesia è pure una pittura.

(2) Pietro Perugino pittore di molto merito, fu pure discepolo dello stesso Andrea Verocchio; sarebbe in più alta stima, se non si fosse trovato in rivalità di talento con il Vinci e se non fosse stato ecclissato dal talento e dal genio di Raffaello, di cui ebbe l’onore di essere il primo maestro.

(3) Ciò rammenta le novelle fantastiche degli Alemanni, degl’Inglesi ed ultimamente degli Americani, e sopratutto il Genio di Socrate, e le Visioni del Tasso.

A tale proposito, ne piace di qui discorrere della vivace, ardente e possente fantasia di un pittore inglese chiamato Blake, [p. 45 modifica]la cui biografia fu pubblicata perciò in una enciclopedia di cui ebbi l’onore di essere uno de’ collaboratori, descrivendo gli uomini e le cose risguardanti la Francia e l’Italia (1832). Con questa mia versione dall’inglese, del frammento in cui è descritta l’azione veramente straordinaria dell’immaginazione del Blake, accenniamo anche ai fisiologi un curioso ed interessante fenomeno.

Sarebbe d’uopo di volumi se si volesse raccogliere tutte le conversazioni in prosa che Blake ebbe con i demonii, e quelle ch’ebbe in versi cogli angioli. Egli in buona fede credeva alla realtà di queste visioni; di più il suo entusiasmo era sì contagioso, che persone di buon senso e d’ingegno, udendolo parlare con calore e convinzione, scuotevano il capo, e figuravansi che Blake era un uomo straordinario, e che qualche cosa di vero eravi in ciò che diceva.

Uno dei suoi colleghi alquanto rinomato, sovente l’impiegava a disegnare i ritratti di coloro che Blake vedeva nelle sue visioni. Il momento più favorevole a queste visite di angioli era dalle nove ore della sera alle cinque del mattino, e questi immaginarli modelli erano sì docili alle sedute, che lo facevano al minimo desiderio dei suoi amici. Però succedeva di quando in quando, che l’ombra che voleva dipingere facevasi aspettare lungo tempo; — egli allora se ne rimaneva pazientemente seduto, davanti la sua carta, colla matita alla mano, e gli occhi vaganti nello spazio. Ad un tratto incominciava la visione; egli si accingeva all’opera come se fosse invaso dallo spirito.

Il di lui confratello gli ordinò il ritratto di sir William Wallace; Blake ne fu incantato, perchè ammirava questo eroe. — William Wallace! egli sclamò, lo veggo in questo momento là, là! Quanto egli ha l’aria nobile! Recami le mie matite! — Dopo avere qualche tempo lavorato con la mano e con l’occhio, con tanta attenzione come se lo stesso modello gli fosse innanzi, Blake si fermò ad un tratto dicendo: — Non posso terminarlo! Il re Edoardo I viene a porsi fra lui e me. — ‘Per mia fe’, questa è una fortuna, disse l’amico, poichè abbisogno pure del ritratto di Edoardo. — Blake prese un altro foglio di carta, e schizzò i lineamenti di Plantagenet; dopochè, Sua Maestà sparì gentilmente, lasciando l’artista terminare la testa di Wallace. — Ditemi, vi prego, signore, chiese un gentiluomo che udiva l’amico di Blake raccontare questa storia, sir William Wallace aveva egli veramente l’aria di un eroe? ed il re Edoardo quale specie di uomo era egli? — Signore, rispose l’amico, voi li vedete inquadrati ed appesi [p. 46 modifica]a quel muro in fondo, siatene giudice voi stesso. — Vidi in effetto, racconta l’incognito, due teste di guerrieri grandi al vero. Quella di Wallace era nobile e marziale, — quella di Edoardo dura e crudele. La prima era di un Dio, e l’altra di un Diavolo.

L’amico che ci ha procurato questi aneddoti, vedendo l’interesse che vi prendevo, mi disse: — Molte ne so intorno a Blake; fui suo camerata durante nove anni. Alcune volte rimasi presso di lui, dalle dieci ore di sera sino alle tre del mattino, talora assopito e talora svegliato; ma Blake non dormiva mai. La carta e la matita alla mano, aspettava, e mi disegnava i ritratti dì coloro che più desideravo. Vi mostrerò parecchi suoi lavori. — Prese un grande portafoglio pieno di disegni, l’aprì, e continuò: — Osservate lo slancio poetico di cui brilla questo viso; gli è Pindaro vincitore ai giuochi olimpici. Questa incantevole testa è quella di Corinna che ottiene il premio della poesia ai medesimi giuochi. Questa cortigiana che vedete, è odiata con tutta l’impudenza che caratterizza il suo mestiere. Ella venne a situarsi fra Blake e Corinna, ed egli fu obbligato di fare il di lei ritratto, onde sbarazzarsene. E quest’altra testa di genere diverso, sapete chi è? — Di qualche furfante, senza dubbio! — Precisamente, ed ecco una grande prova dell’esattezza di Blake. Gli è la testa di uno scellerato. Tale è quest’altra, potete voi immaginarlo? — Probabilmente nulla di buono. — Avete ragione, poichè dessa è il demonio; rassomiglia, in modo che colpisce, a due uomini che mi asterrò di nominare. La prima è un grande avvocato, e l’altra.... Vorrei nominarlo. Gli è un fabbricante di falsi testimoni. — Ed ora, questa testa? — Ella parla da sè stessa. Gli è quella di Erode. Come rassomiglia a quella di uno dei primi uffiziali dell’esercito! — Chiuse il suo libro, e, prendendo un piccolo quadro da uno scaffale particolare: — Eccovi tutto ciò che vi mostrerò, disse egli, ma è il più curioso. Rimarcate la ricchezza del colorito, ed il carattere originale del soggetto. — Vedo, gli dissi, una figura nuda, un corpo pieno di vigore ed un collo cortissimo; — occhi ardenti che chiedono lagrime, ed un viso degno di un assassino; tiene una coppa di sangue in cui sembra bramar dissetarsi. — Non vidi mai nulla di più strano, e gli è la prima volta che vedo un colorito sì ricco e sì curioso; gli è una specie di verde brillante e di oro scuro ricoperti da una magnifica vernice; ma vi prego caldamente di dirmi che è questo. — Gli è un’ombra; l’ombra di una pulce, — di una pulce spiritualizzata. Blake mi disse averla veduta altra [p. 47 modifica]volta in una visione. Vi dirò tutto ciò che ne so. Passai una sera da Blake, ed il trovai più animato del consueto. Mi disse avere veduto una cosa sorprendente, — l’ombra di una pulce! Potreste voi disegnarla? gli domandai. Veramente no, riprese egli; vorrei averlo già fatto, ma lo farò se dessa ricomparirà. Gettò uno sguardo inquieto verso un canto della stanza, dicendo: Eccola, datemi l’occorrente, non voglio perderla di vista. Il fantasma si avvicina, la lingua alterata lambe le sue labbra; tiene in mano una coppa, onde raccoglie il sangue. Gli è coperta di una pelle di scaglie d’oro e verdi. — Il suo disegno era conforme alla sua descrizione.

Questi racconti sono appena credibili, però la loro autenticità non è dubbia. Un altro amico, la cui sincerità è per me del più gran valore, si recò una sera da Blake e trovollo occupato a disegnare un ritratto, con tutta l’apparenza di un uomo importunato di dover dipingere un modello difficile. Guardava, e disegnava, disegnava, ma niun essere vivente vedevasi nella sala. Non mi disturbate diss’egli con voce bassa, un tale è in seduta. — In seduta, rispose il visitatore, ov’è egli, chi è desso? Nulla veggo.Ma lo veggo io, signore, rispose Blake sorridendo; eccolo, il suo nome è Loth. Voi avete letto la sua avventura nella Bibbia. Egli è in seduta pel suo ritratto... (Fin qui il biografo inglese).

Potrebbesi caratterizzare di fantastico, il colorito di Rembrandt. Le sue ombre sembrano scaldate al bitume; il fisico delle sue figure, abbenchè robusto, forte, ed avente alcunchè di pesante, non hanno perciò meno anima. Questi personaggi sono disegnati e coloriti con una energia, un’arditezza ed una facilità che colpiscono; hanno del sovrumano. Per lo più agiscono in località di un’ardente oscurità, e presentano contrasti di grande effetto, i quali scuotono come quelli dei Caravaggio, del Calabrese, di Salvator Rosa, dello Spagnoletto. L’impasto de’ colori del Rembrandt è più immaginoso che ricercante i veri colori degli oggetti. Il suo fare è quello di un pittore che ha per iscopo di presentare eccentricità, più che verità, perchè quelle colpiscono e sorprendono di più. I dipinti di questi artisti hanno del magico; è lo stile delle leggende nordiche, e di tutte le fantasticherie degli scrittori d’oltremonte: tra’ quali distinguonsi Hoffmann, Dickens e vari altri, loro imitatori i Francesi.

(4) Lo studio delle matematiche illumina la mente e la sviluppa. Fra tutte le scienze che parlano alla ragione, gli elementi [p. 48 modifica]delle matematiche, esposti convenevolmente e con chiarezza, ponno essere agevolmente capiti dalla generalità, e penetrare facilmente nell’intelletto. Dessi danno ordine, rettitudine e precisione alle idee. Esercitandoli, tutto si misura, si paragona, si analizza, si apprezza, tutto si fa con giusta proporzione, esattezza, e riesce chiaro, semplice, intelligibile e sicuro. Tutte le verità, tutti i fatti, sono immediatamente dimostrati e provati, o non lo sono. Si può considerare la geometria come l’A B C delle matematiche, ed i nostri sensi sono, in geometria, i nostri primi maestri, ed hanno sempre una grande autorità in tutto il nostro ragionare. Le matematiche sono adattatissime a dare consistenza alle nostre idee ed a mantenerle nella sola via che devono percorrere esponendo e spiegando il solo oggetto che ci occupa, e ciò, costantemente senza mai confonderlo con altri, e così deviare e diminuire l’attenzione di coloro ai quali dirigiamo il nostro discorso, o le nostre operazioni. Da ciò s’impara la più eccellente di tutte le dialettiche, la stessa dialettica messa in opera. La miglior via onde imparare a ragionare, è di sempre ragionare con esattezza, come si fa in geometria. Operando matematicamente, si va al sicuro, al positivo, a ciò che veramente è. La scienza delle matematiche non dipende assolutamente nè dalle convinzioni degli uomini, nè dai loro pregiudizi, di qualunque natura sieno; con questa scienza si determinano i rapporti di tutti gli esseri che ne sono sensibili; ella è scienza infallibile. Perciò vediamo gli antichi artefici porvi un grande studio, studio utilissimo a cui furono debitori del loro perfezionamento, e delle molte e varie cognizioni che li resero quasi enciclopedici nelle arti e nelle scienze. Forse potrebbesi raccomandare in alcuni collegi lo studio degli elementi delle matematiche, e considerarlo come un ramo dell’insegnamento generale, e ciò per le ragioni anzidette. Si può dire della scienza delle matematiche, quello che un pensatore francese disse della scienza in generale, cioè: la science est l’æil et la lumière, qui font discerner avec justesse et clareté tous les objets au milieu desquels on se meut. (Volney).

La scienza consiste nella cognizione di moltissime cose utili, o piacevoli, o curiose. Tutto, nella natura, merita osservazione e studio.

(5) Girodet, esaminando in tutto Leonardo, cita i suoi lavori dell’Adda: «Que dirons-nous enfin du précurseur du divin Raphaël, de cet immortel Léonard, que la nature avait également doué de la grace qu’il savait allier au grandiose de Michel-Ange, [p. 49 modifica]sans en avoir l’austérité barbare; dont le génie investigateur, trop vaste pour se renfermer dans les limites de l’art de peindre, s’élance dans les abstractions des théories les plus trascendantes; tantôt lisant dans les cieux plus loin même que les savants de son siècle, et y signalant des astres inconnus avant lui; tantôt forçant les flots désordonnés de l’Adda de restituer leurs usurpations, de se renfermer, dorénavant plus sages, dans le lit qu’il leur avait creusé, et de ne plus couler désormais que pour la salubrité et l’ornement de sa patrie? Et c’était ce même homme qui, favori de Polymnie, de Terpsichore et d’Uranie, avait, nouveau Mercure, créé une lyre nouvelle, et reçu du dieu des vers la révélation de ses secrets!

«En nous élevant par la pensée à la hauteur de ces hommes sublimes, ne nous semble-t-il pas voir dominer au-dessus de nos têtes, les géants des premiers àges du monde?»

(6) Ad un dettato del signor P. Lanzi (1841), intorno alla Storia degli Italiani che precedettero la scoperta di Daguerre, togliamo i seguenti cenni:

« Noi lamentiamo continuamente la sfortuna di vederci rapito il vanto delle scoperte, quando ne abbiamo primi trovato i germi. Abbenchè assai frequente sia fra noi così fatta doglianza, non si potrebbe dirla però sempre giusta, quando si pensi che il merito di un trovato sta forse meno talvolta nel vedere il primo lampo d’una verità e lasciarla negletta, che nel perseguirla, raggiungerla e svilupparla compiutamente; nel che senza dubbio è riposto l’utile che ne deriva alla società.

» Gli avanzamenti delle scienze e delle arti, come di tutte le cose, procedono da rigoroso progressivo metodo d’osservazione, che esamina i fatti, li coordina, li paragona, e sulla loro conoscenza e su i confronti delle loro relazioni, si eleva a generali principii, indaga e scopre le leggi fondamentali che insieme li comprendono e li rannodano, e deduce poi quelle sì vaste e quasi non credibili applicazioni di cui tanto si gloriano i nostri tempi. È di tal modo che la teoria tende alla pratica; è in tale filosofico procedimento che è racchiuso il segreto del rapido ed incessante progresso a cui muovono ogni dì più le arti e le scienze. Le quali, chiamando a nuovo esame i fatti e le osservazioni de’ nostri padri, fecondano colla luce di tante recenti dottrine i primi germi delle antiche scoperte, cui l’incompleto ordinamento delle scientifiche discipline aveva resi inutili e dimenticati.
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» Così avvenne di quel prodigioso trovato che levò a tanta fama il nome del francese Daguerre. Da quasi due secoli era già stata conosciuta in Italia la potenza chimica della luce sovra alcune sostanze, ed eransi fatti non inutili tentativi per valersi dei raggi solari nelle arti del disegno. Ma in quell’età la scienza chimica ed ottica non erano distenebrate come al presente da tante luminose teorie; in quell’età nè conoscevasi la natura dei metalloidi, nè fra questi immaginavasi l’esistenza dell’iodio; in quell’età, le leggi delle chimiche combinazioni e decomposizioni a cui oggidì son dovuti i miracoli di Daguerre, non erano pur sospettate.

» E fu appunto in quel secolo che diede alle scienze un’epoca sì tenebrosa, fu nel secolo XVI, che il nostro italiano Giovanni Battista Della Porta, fondatore in Napoli dell’Accademia dei Segreti e della scienza fisionomica, inventò la famosa Camera oscura; ingegnosissimo ritrovato in cui allora niuno avrebbe pensato che stessero le basi di una delle più sublimi scoperte, che doveva empire il nostro secolo di meraviglia. Fu egli il primo che raccogliendo i raggi riflessi dagli oggetti in una cassetta armata di lente convessa mostrò che se ne dipingevano le immagini sopra un vetro appannato.

» Emulo quasi di Della-Porta, un altro italiano, Marco Antonio Cellio, fu il primo che in Parma, al cospetto dell’illustre Accademia fisico-matematica dei Lincei, nel dì 4 agosto del 1686 fece solenni esperimenti a comprovare un nuovo suo metodo di trar disegni dai raggi solari, e primo il Cellio pubblicava poco dopo una breve Memoria intitolata: Descrizione di un nuovo modo di trasportare qual siasi figura disegnata in carta, mediante i raggi riflessi solari in un altro foglio di carta da chi che sia benchè non sappia di disegno, inventato da Marco Antonio Cellio e dimostrato nell’Accademia fisico-matematica romana, tenuta il 4 agosto 1686.

» Fu Cellio che applicò la Camera oscura a questo ramo dell’arte pittorica, e il metodo del Cellio, e il suo strumento rendono bensì l’abbozzo delle immagini, ma però talmente imperfette ne’ loro contorni, che è mestieri che dappoi si ritocchino da chi è pratico dell’arti del disegno.

» Fu un italiano, il professore Moricchini, che scoprì nel raggio violetto la potenza di magnetizzare il ferro; scoperta importante, e che i fisici sanno quanto proficua dovesse riuscire a Daguerre, per calcolare colla maggiore esattezza la forza della luce.

[p. 52 modifica]Monumento a LEONARDO DA VINCI
eretto in Milano il 4 Settembre 1872.
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» Certo che chi volesse oggi raffrontare i metodi di Della-Porta e di Cellio a quello di Daguerre, non troverebbe tal rispondenza da chiarire la derivazione di questo da quelli; si grande è la novità delle nostre dottrine chimiche ed ottiche a petto delle informi teorie di quei tempi. Quindi, mal reggerebbe il disparato confronto.

» Ma nello scopo di Della-Porta e di Cellio, nella prima idea di questi illustri italiani, non si può non ravvisar l’embrione della prodigiosa scoperta del celebre francese, non si può non vedere lo stesso pensiero isterilito allora dal manco di cognizioni e di mezzi opportuni, lo stesso germe che per la forza dei tempi morì nel suo nascere. Ma quella prima scintilla che sventuratamente fu spenta per noi, e della quale Daguerre trasse poi con tanto merito si viva luce di gloria.... —

» Se Daguerre risuscitasse, sarebbe ben sorpreso de’stupendi progressi della fotografia, fatti in questi ultimi anni, progressi dovuti agl’indefessi studi ed ingegno degli artisti nostri e d’oltre Alpi. Daguerre ebbe in premio della sua scoperta, dall’Istituto di Francia, 10,000 franchi.»


Lettera dì Gianfrancesco Rambelli a D. Domenico Maria Ferri, intorno alle Scoperte di Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci.

Congiungo due sublimi ingegni che non solo ottennero fama immortale nelle belle arti che professarono, ma valentissimi com’erano nelle lettere e nelle scienze furono fecondi di molti ritrovamenti. Sia prima Leon Battista Alberti ristoratore celeberrimo dell’archittetura. Fu questi inventore di uno strumento per iscandagliare la profondità del mare nelle varie situazioni; e per aiutare a’ naufraghi insegnò un metodo affine di sciogliere e ricomporre in un istante le tavole d’una nave; ed un altro ne rinvenne per sollevar quelle navi che si fossero affondate. Di questo ci diede un felice esperimento innalzando i varii pezzi di una nave, che dicevasi sommersa fin sotto l’impero di Traiano2. Quanto rumore non han menato gli stranieri per non pensati metodi di salvare da’ naufragi, e quanto non era antico per noi quello dell’Alberti? E’ trovò pure una dilettevole macchina che corrisponder sembra al nostro Mondo Nuovo, giacché in essa, alla [p. 56 modifica]magia della pittura i prestigi dell’ottica accoppiando, a produr veniva nuovi ed inauditi spettacoli. L’anonimo scrittore della sua vita, così ci descrive tali maraviglie3: «Ei le aveva racchiuse in una piccola cassa, e le mostrava per mezzo di un piccolo foro. Tu avresti ivi veduti altissimi monti e vaste provincie intorno al mare e più da lungi paesi così lontani, che l’occhio non ben giungeva a vederli... Due sorta ne avea, altre diurne, altre notturne. Nelle notturne vedevasi Arturo le Plejadi, Orione, ed altre stelle splendenti; rimiravasi sorger la luna dietro alle cime de’ monti, e distinguevansi le stelle che precedevan l’aurora. Nelle diurne, vedevasi il Sole che per ogni parte spargeva i suoi raggi, ecc. E che l’Alberti dimostrasse nell’ottica un acume superiore del suo secolo, ne lo provano alcune idee newtoniane che riscontransi nel suo Trattato della Pittura; e che quindi sarebbono sorte in Italia due secoli prima che in Inghilterra. Conobbe egli infatti, che grandissima affinità vi avea tra i colori ed i raggi della luce: che il bianco ed il nero non erano colori, ma piuttosto alteratori di colori4. «Maxima (sono sue parole De Pictura, lib. I.) idcirco inter colores et lumina cognatio; neque aspernor eos philosophantes qui de coloribus ita disputant ut colorum species statuant numero septem. Pictor satis persuaderi posset album et nigrum minime esse colores, sed colorum alteratores

E venendo all’altro. Un gran nome è Leonardo da Vinci; ma non minori delle lodi che gli si danno per le opere di pennello, son quelle che merita per la sua sapienza e pe’ celebri suoi trovati. Considerando la vasta ed acuta mente di lui, la discesa de’ corpi gravi combinata colla rotazione della terra, ne dedusse il movimento assai prima del Copernico. Avea poi compresa sì bene la legge dell’inerzia ne’ movimenti, che la sua idea è la medesima di quella d’oggidì per intendere possibilmente l’oscillazione de’ pianeti da un apside all’altra delle loro orbite. Esaminando lo stato antico della terra, dall’osservare i depositi conchiliacei che trovansi nei monti, ne ricavò che la maggior parte de’ continenti attuali fossero un giorno un fondo di mare. E si fa ad ispiegare il fenomeno in tal modo che dà a vedere ch’egli aveva un’idea bastantemente vasta intorno al meccanismo della gravitazione, e niun filosofo moderno ha saputo ancora dare una spiegazione più sod[p. 57 modifica]disfacente della sua. Scoprì appresso che la scintillazione delle stelle non era nelle stelle medesime, e che la luce cenericcia della luna procedeva dalla riflessione della terra; scoperta che due secoli dopo venne attribuita a Keplero. Pensò ancora, il calore del sole causare l’elevazione dell’acqua del mare sotto l’equatore, e che il suo movimento sia circolare; principio che Halleyo applicò a movimenti dell’atmosfera per ispiegare i fenomeni dei venti alisei5. Il Musschenbrock e gli altri fisici posteriori non attribuivano all’aria altra influenza sulla fiamma che quella di comprimere il calorico su le materie che bruciano, e di spazzarne le ceneri; oggi la chimica ha provato ciò che Leonardo avea già penetrato e commesso alla penna, e che il Majou e l’Hook avevano solo sospettato sul finire del secolo XVII6

La spiegazione del lume, secondario, della luna che fu creduta dell’alemanno Mostlin, non era frutto della mente di Leonardo fiorito un secolo prima?7

La formazione del così detto color bianco, non vien pure ascritta a Leonardo?8.

E non aveva egli scorta, benchè in confuso, la possibilità d’un artificio adattato a correggere la diminuzione dell’immagine negli oggetti lontani, e non aveva un’idea, comecchè imperfetta, della camera ottica? Nella statica vide la teoria della leva obliqua e del piano inclinato, ed il principio generale delle celerità virtuali; nell’idraulica le cause che fanno variare la quantità d’acqua uscente da un canale per una data apertura. Bello ed ardito ritrovamento doveva essere quello con cui assicurava di poter sollevare in Firenze il tempio di S. Giovanni e sottomettervi le scale senzachè patisse danno alcuno. Nell’architettura militare molto seppe, e quindi veggonsi ne’ suoi disegni tutte sorta di fortificazioni anche de’ tempi posteriori, il che lo mostra ingegnere a que’ dì superiore ad ogni altro. I bastioni di Verona costrutti dal Sammicheli, morto Leonardo, non sono dissimili alle figure disegnate dal Vinci, il quale perciò è da reputarsene il vero in[p. 58 modifica]ventore. Fra trovati di questa scienza che debbonsi a lui celebre è quello delle bombe9, cui dà il nome di passavolanti descrivendole esattamente in una Memoria diretta al duca Lodovico Sforza suo mecenate. E che di tale invenzione ci sia vero ancora lo provano i suoi disegni10 pubblicati in Milano, in uno dei quali (Tav. 38) è delineato il mortaio, che coll’artificio semplicissimo d’una vite perpetua, e di una semiruota dentata, riceve tutti i gradi di elevazione di cui abbisogna, secondo le circostanze; ed ivi pure veggonsi in aria le palle di bomba, le quali giunte ad una data altezza scoppiano, e da alcune veggonsi uscire piccole palle e razzi di fuoco. Trovandosi ne’ manoscritti del Vinci descritti il compasso di proporzione, l’igrometro a corda, lo strumento da pescare le perle, ed il bilanciere degli orologi, si ha chiara prova che il trovato di tali strumenti è a lui anteriore, quando alcuno di essi non fosse frutto del suo ingegno. A lui dobbiamo ancora due processi chimici: il primo è la composizione del fuoco greco ch’ei chiama fiammata: il secondo la maniera di trarre l’olio dalle noci per la dipintura, in modo che non irrancidisca facilmente e che riesca purissimo. Non piccola lode poi viene a Leonardo dall’aver tenuto assai prima di Bacone, che sola interprete della natura fosse l’esperienza: (V. Essai, ecc. § XV) eccone le parole: «Mai da lei non ricevesi inganno. Bensì il giudizio nostro s’inganna aspettando effetti ai quali l’esperienza rifiutasi. Questa dunque è mestieri consultare mai sempre e ripeterla e variarla per mille guise sino che ne abbia tratto fuori le leggi universali; imperocché la sola esperienza può provederci della notizia di tali leggi.» E in altro luogo: «Tratterò tale argomento,ma dianzi farò alcuni esperimenti, avendo io per principio di citar prima i fatti sperimentali, e poi dimostrare donde nasce che i corpi sono costretti operare in certa guisa o in cert’altra. Ed io credo che questo metodo sia sempre da seguitarsi in ogni ricercamento di fenomeni.»

(7) Questa penisola fu, di quando in quando, perseguitata e tormentata da codesta nazione, e sempre ingiustamente, barbaramente e con forze superiosissime alle sue. Per maggiore sciagura, gl’Italiani sempre divisi municipalmente e politicamente, [p. 59 modifica]ed anche dagl’intrighi dei Papi ambiziosi, furono, malgrado i loro patriottici ed eroici sforzi, signoreggiati dai Principi-Sovrani delle loro città, dagli stranieri e dalla Roma papale. Quanto sangue sparso, quanti massacri per impedire ad una nobile nazione di essere! — Carlo V, dopo avere scacciato i Francesi da quasi tutta l’Italia, e fatto prigioniero Francesco I, adirato contro papa Clemente VII perchè unitosi al monarca francese contro di lui, recossi a Roma, e fece mettere dal Conestabile di Borbone (Carlo duca di Borbone), la città a sacco; — fu un vero vandalismo, nulla si risparmiò, e molti monumenti e preziosi oggetti di arti furono la preda delle fiamme e delle armi della sfrenata soldatesca comandata dal feroce Borbone.

Questo Carlo di Borbone fu uno dei famosi briganti militari che rovinarono l’Italia. Dapprima egli fu Vice-re del milanese, le cui popolazioni non poco ebbero a soffrire da questo uomo orgoglioso e prepotente. Nel passare dalle città, onde recarsi ad assediare Roma, dava a’ suoi soldati il sacco della città, perchè si provvedessero di ogni cosa.

La Repubblica francese dell’89, e le conquiste di Bonaparte, arricchirono la Francia di circa 3000 dipinti e sculture. Vi erano quadri di ogni genere de’ migliori pittori, statue, busti, bassi-rilievi, disegni, medaglie, incisioni, pietre preziose, cammei antichi e moderni. In numero di 12,000 erano i libri rarissimi, i manoscritti, le stampe, senza calcolare i frammenti di antichità, intieri musei particolari, e gabinetti di storia naturale. Se a ciò si aggiunge lo spogliamento delle ricchezze di ogni genere e delle rarità preziose appartenenti alle chiese, facile sarà il vedere che questi immensi tesori sarebbero stati sufficienti ad arricchire i musei di Europa.

(8) fu un pessimo re, ma si meritò il nome di Padre delle lettere. Allorché volle farle fiorire nel suo reame, fece venire dall’Italia gli uomini più capaci per adempiere il suo glorioso progetto. Vi erano più italiani alla sua Corte che a quella di Carlo V, abbenchè questi fosse allora padrone di una grande parte dell’Italia. Difatti, gl’Italiani erano in quel tempo i soli depositari dell’umano scibile; possedevano scienziati, letterati, ’artisti che insegnavano a tutta l’Europa, e che l’incivilivano.

Quei grandi monumenti di architettura, che avevano sotto gli occhi, li facevano naturalmente architetti. Le belle statue dei Greci e dei Romani li rendevano eccellenti statuari, e queste due arti unite popolarono l’Italia di pittori di primo ordine. In [p. 60 modifica]quanto alle scienze, se questa nazione vi fece progressi, ella ne fu unicamente debitrice al suo ingegno, che sì bene seppe mettere a profitto gli avanzi dei Greci dopo la presa di Costantinopoli. Fa d’uopo riconoscere le cure benefattrici di alcuni principi generosi ed amanti delle arti e delle lettere, i quali, per le ricompense che prodigarono a’ letterati ed agli artisti, meritarono di vederle fiorire presso di loro e trarne onore più che nel rimanente dell’Europa. Di questo numero furono in tutti i tempi quelli dell’immortale famiglia dei Medici.


«Florence! noble asile où la magnificence
     S’est plu à réunir tant de chefs-d’euvre épars,
     Des Côme, des Laurent, mécènes des beaux-arts,
     Adore les bienfaits et les heureux prodiges.
     L’architecture ici déployant ses prestiges,
     Noble et grave, éleva ces palais somptueux,
     Dont la peinture orna les murs majestueux;
     Et le ciseau, jaloux d’en accroître le lustre,
     A l’égal du pinceau voulut s’y rendre illustre.
     Du divin Raphaël les savans précurseurs,
     Ici, de l’art naissant préparaient les splendeurs;
     Ici, sombres, profonds, tous deux d’une âme ardente,
     Michel-Ange sculptait, comme chantait le Dante;
     Et l’élégant Vinci, favori de l’amour,
     Savant, peintre, poéte et galant troubadour,
     Dans les nobles beautés que son pinceau fit naitre,
     Rivalisait Pétrarque et surpassait son maitre:
     Fils ainés d’Apollon, invincibles géans,
     Patriarches des arts, rois dans tous les talens.
     Qui maniaient, au gré de leur docte délire,
     Le ciseau, le compas, les pinceaux et la lyre!
     Tel fut ce Ghiberti, génie universel,
     Qui, moderne Vulcain, fit les portes du ciel,
     Portes du ciel! ainsi les nommait Michel-Ange:
     D’un chef-d’æuvre sublime admirable louange!»

                                                                                                    Girodet.

Appunto dall’augusta famiglia Medicea, come tutti sanno, uscì Leone X, che fece rinascere a Roma l’aureo secolo delle lettere, come poi successe in Francia sotto Luigi XIV, seguendo l’impulso dell’esempio del grande Pontefice.

F. de Neufchateau, altro coscienzioso critico oltr’alpe, scrisse:

«Mais quel astre nouveau s’est levé sur Florence,
Et quels sont ces marchands11 dont la riche splendeur

[p. 61 modifica]

Semble effacer les Rois par une autre grandeur?
La flamme des Beauxx-Arts, long-temps ensevelie,
Se rallume avec gloire au sein de l’Italie,
Qui vit naítre, à la fois cent chefs d’œuvre dixers,
Ses enfans plus hardis, parcourant l’Univers,
Réalisent au loin ce qu’on crut chimérique
Reconnaissent la Chine, et trouvent l’Amérique.»

Dutreillis, imitando Pope, tratteggia nel seguente modo, l’immortale secolo: «Voyez sous Léon X, briller un nouvel àge d’or, les Muses revenir de leur évanouissement, et recommencer à cultiver les lauriers flétris. De dessus les ruines de Rome, se releva son ancien génie, et secouant la poussiére, il fit paraìtre de nouveau sa tète respectable. On vit renaìtre la sculpture et les beauxarts, ses aimafeles sæurs; les pierres prirent forme, et des blocs de marbre commencérent à respirer. Les temples riédiflés retentirent de sons plus harmonieux; Raphaël peignit et Vida écrivit. Immortel Vida, sur le front honorable du quel croit le laurier du poéte et le lierre du critique; Crémone vanterà à jamais la gioire de ton nom, aussi peu éloigné de Mantoue que peu inférieur à sa renommée.»

Il figlio di Racine, nel suo poema sulla Religione, accennando al grande secolo italiano ed ai suoi uomini illustri, dice di Galileo:


Tout change: par l’arrèt du hardi Galilée,
La terre loin du centre est enfin exilée;
Dans un brillant repos, le soleil à son tour,
Centre de l’Univers, roi tranquille du jour,
Va voir tourner le ciel et la terre elle-mème.
En vain l’inquisiteur croit entendre un blasphème,
Et six ans de prison forcent au repentir
D’un systéme effrayant l’infortuné martyr;
La terre, nuit et jour, à sa marche fidelle,
Emporte Galilée, et son juge avec elle.»

Frammento di una lettera di Pascal diretta ai Gesuiti, intorno allo stesso soggetto:

«Ce fut en vain, que vous obtintes contre Galilée, ce décret de Rome, qui condamnait son opinion touchant le mouvement de

[p. 62 modifica]la terre. Ce ne sera pas cela qui prouvera qu’elle demeure en repos; et si l’on avait des observations constantes qui prouvassent que c’est elle qui tourne, tous les hommes ensemble ne s’empêcheraient pas de tourner, et ne s’empêcheraient pas de tourner aussi avec elle. Ne vous imaginez pas de même, que les Lettres du pape Zacharie pour l’excommunication de S. Virgile, sur ce qu’il tenait qu’il y avait des antipodes, ayent anéanti ce nouveau monde; et qu’encore qu’il eût déclaré que cette opinion était une erreur bien dangereuse, le roi d’Espagne ne se soit pas bien trouvé d’en avoir plutôt cru Christophe Colomb qui en venait, que le jugement du pape qui n’y avait pas été.»

Senza risalire ai grandi uomini dell’antica Roma, nè ai Greci di Siracusa o di Taranto, egli fu nel seno dell’Italia che si videro dapprima rinascere le scienze e le belle arti, dopo la deplorabile lor decadenza. Sicchè quella contrada della terra era già dotta e luminosa, mentrechè il resto dell’Europa viveva ancora in una specie di barbarie. Al certo i Francesi furono, dopo gl’Italiani, i primi a coltivare le scienze ed a dirozzarsi; ma essi appunto sono stati in tutti i tempi i più gelosi della gloria italiana, e lo saranno sempre. Virgile. sur ce qu’il tenait qu’il y avait des Antipodes.

S. Benedetto, avendo lasciato Roma, si ritirò al Monte Cassino. Egli rovesciò gl’idoli ed i boschi sacri dei pagani, e sopra queste rovine innalzò il famoso suo monastero, ove radunaronsi tanti dotti e degni discepoli di Gesù Cristo (Quest’uomo dabbene visse nel VI secolo.)

In quei secoli d’ignoranza, i monaci furono i soli che mostrassero buon gusto ed amore alle belle lettere. Tutto ciò che nei loro scritti si trova di rozzo e di barbaro devesi attribuire all’infelicità dei tempi in cui vivevano.

Il Monastero di Monte-Cassino fu la culla di quell’ordine sì celebre fondato da S. Benedetto, l’ordine dei Benedettini. In mezzo alle barbarie in cui l’Europa fu sepolta durante parecchi secoli, questi monaci coltivavano le lettere con amore e zelo. Ad essi benemeriti religiosi vanno debitori i dotti di quasi tutto ciò che noi abbiamo degli scritti degli antichi. Eterna deve essere la riconoscenza de’ moderni per questi incalcolabili servigi, servigi a cui tutto deve la nostra civilizzazione ed il nostro sapere.

L’insigne ed unica biblioteca del Monte-Cassino, degna degli uomini di merito che l’hanno formata e conservata, è ricchissima, e principalmente in manoscritti. [p. 63 modifica]Mons Cassinus, è una montagna nel regno di Napoli (città che merita di più l’epiteto di studiosa che quello di oziosa) alla cui cima è la celebre abbazia, chiamata collo stesso nome di Monte-Cassino. Il suo abbate è vescovo. — La chiesa fu magnificamente decorata dallo splendido e fecondo pennello di Luca Giordano e di Solimene. — I Romani chiamavano la città Cassinum.

Carlo Magno tolse dall’Italia e maestri e professori per darli alle scuole di Parigi. — L’esistenza dei Troubadours, i quali ebbero una certa influenza sui costumi, la civiltà e la poesia, non fu riconosciuta che nel XII secolo. — S. Tomaso d’Aquino andò a Parigi per insegnarvi, come maestro e professore, ogni dotto e sublime studio. S. Bonaventura, Brunetto Latini, Dante, Boccaccio, Petrarca, l’Ariosto, il Tasso, il Marini, furono oggetti della più alta ammirazione nella capitale della Francia, e non poco influirono sulle menti studiose di quel paese.

Il genio e le arti d’Italia inspirarono il secolo di Francesco I, e diedero alla Francia i modelli di ogni arte e di ogni scienza.

Anche nei tre secoli che durò la decadenza delle lettere, l’Italia ebbe sempre scrittori segnalati che conservavano il fuoco sacro della moderna Ausonia.

Le due regine di Francia, italiane, Caterina e Maria de’ Medici, ravvivarono le arti e le lettere nel paese ove regnavano, e contribuirono alla magnificenza di ogni cosa. Queste onnipotenti principesse, che, fuori degli affari di Stato, pochissima politica ebbero, aumentarono il numero de’ loro nemici nel favorire più i loro connazionali che i loro propri sudditi, perché li vedevano inferiori in talenti ed in ingegno agli Italiani. Questo ravvivava il malumore e la gelosia dei Francesi verso gl’Italiani.

Volgarmente si considera il XV secolo, come l’epoca del risorgimento delle arti in Francia. Il signor Brès fa prima osservare, che gli è mostrarsi troppo severo il considerare come non avvenute produzioni che ci sorprendono con le loro mosse e con il finito e la diligenza dei particolari; — in secondo luogo, egli vorrebbe che si dicesse: Nascita, invece di Risorgimento «Le mot Renaissance, dic’egli, suppose un haut degré de perfectionnement antérieur, que l’histoire de l'art en France ne signale point. — C'est en Italie, soggiunge il signor Brès, qu’il faut reconnaître une véritable renaissance des arts. Michel-Ange et Raphael, ainsi que leurs élèves, livrés à la contemplation des monuments de la première existence des arts dans l’empire romain, [p. 64 modifica]y puisèrent leurs inspirations, et en firent jaillir le feu d’une nouvelle vie pour la peinture, l’art statuaire et l’architecture. Par un hasard heureux, ces deux grands artistes cultivèrent tous les arts dépendants du dessein. En France, la sculpture obtint les premiers succès sanctionnés par le goût: l’architecture suivit bientôt l’art statuaire dans ses progrès; ce ne fut que dans le dix-septième siècle qu’on vit la peinture obtenir des triomphes aux yeux de l’Europe, tandis que la sculpture perdait de son éclat.»

(9) Il Rosso, pittore, nacque in Firenze nel 1496; fu chiamato ordinariamente Maestro Rossi. Egli non ebbe maestro nella pittura. Si apprese alle opere di Michelangelo e del Parmigianino, e volle farsi una maniera particolare. Fecondo era il suo ingegno, ed alquanto rozzo e feroce era il suo modo di disegnare, quantunque dotto. Molto operò in Roma ed in Perugia ai tempi di Raffaello.

Le sciagure da cui fu colpita la sua vita lo indussero a recarsi in Francia, ove Francesco I gli fece una pensione e gli diede la direzione dei lavori che allora facevansi a Fontainebleau. S. M. gli conferì pure un canonicato della Santa-Cappella, con ricca pensione, dimodoché l’affetto del re, ed il suo proprio merito, lo posero in grande reputazione. La grande Galleria di Fontainebleau, innalzata sul di lui disegno e dipinta di sua mano, attesta la sua somma abilità. Vi fece pure i bei fregi ed i ricchi ornati di stucco che l’abbelliscono. Il re, innamorato delle sue opere, colmollo di nuovi beneficii.

Ben fatto della persona era maestro Rosso, e coltivò il suo ingegno acquistando molte cognizioni, ma oscurò tutti i suoi rari pregi con la vergognosa morte che si procacciò da sé stesso. Avendo fatto arrestare Francesco Pellegrini, suo intimo amico, sopra il solo sospetto che gli aveva derubato una somma considerevole di denaro, lo mise nelle mani della giustizia, la quale dopo averlo applicato alla quistione, lo dichiarò innocente. Pellegrini, essendo libero, pubblicò un libello contro Maestro Rosso, il quale credendo di non poter giammai mostrarsi con onore, mandò a cercare a Melun del veleno, sotto il pretesto di farne della vernice, e lo prese a Fontainebleau, di cui morì lo stesso giorno, nel 1541. — Si hanno pure di questo rinomato artista moltissimi ritratti di un effetto incantevole.

Maestro Rosso poneva gran gusto ne’ suoi componimenti; riusciva a maraviglia nello esprimere le passioni dell’animo, dava [p. 65 modifica]un bel carattere alle sue teste di vecchi, e molta vivacità e dolcezza alle sue figure di donne. Possedeva bene l’arte del chiaroscuro. — Spesso lavorava a capriccio; poco consultava la natura ed era vago di caratteri bizzarri e straordinarii.

Il Rosso non possedeva un talento solo, essendo anche buon architetto, buon poeta e buon musico. Nel Palais-Royal, a Parigi, vedevasi un suo bel quadro rappresentante La donna adultera. Fu pure intagliatore; veggonsi ancora alcune sue tavole, e sono stati fatti intagli delle sue opere. Domenico Barbieri, valente artista, è uno dei suoi allievi.

Francesco Primaticcio, nacque in Bologna, nel 1490, di nobile famiglia, perciò anche chiamato, il Bologna. I suoi genitori vedendolo inclinato al disegno lo lasciarono andare a Mantova, ove dimorò sei anni sotto l’insegnamento di Giulio Romano. Però Innocenzo da Imola e Bagnacavallo, scolari di Raffaello, gli diedero i primi elementi; Giulio Romano lo perfezionò.

Si rese si abile, in questo spazio di tempo, che, sopra il disegno di Giulio, faceva delle battaglie di stucco in bassirilievi, ed in ciò sorpassava, come in pittura, gli altri allievi che erano in Mantova. Questi lavori si eseguivano nel palazzo del T. In tal modo egli lavorava ajutando Giulio Romano, nella esecuzione dei suoi disegni, allorché Francesco I avendo fatto chiedere, nel 1531, un giovane che fosse valente nelle opere di stucco, gli si mandò il Primaticcio. La fiducia che il monarca riponeva nel talenti di questo pittore, fece che S. M. l’inviò a Roma nel 1540 per comprarvi delle antichità. Egli riportò 124 statue, con grande quantità di busti, e fece gettare in forma, da Giacomo Baroccio da Vignola, la Colonna Trajana, e le statue di Venere, di Laocoonte, di Commodo, del Tevere, del Nilo e della Cleopatra di Belvedere, affine di gettarle in bronzo.

Dopo la morte di maestro Rosso, il Primaticcio fu provveduto della carica d’intendente generale delle fabbriche del re, in tutto il regno. In poco tempo terminò la Galleria che questo pittore aveva incominciata. Egli fece portare a Fontainebleau tante statue, o di marmo, o di bronzo, che questo luogo sembrava un’altra Roma. Nelle opere che fece di pittura e di stucco, si servì di Ruggiero di Bologna, di Prospero Fontana, di Giambattista Bagnacavallo, e sopratutto di Nicola da Modena, che chiamasi messer Nicolò, la cui abilità e diligenza sorpassavano quelle degli altri.

Il Primaticcio diede pure il piano del Castello di Meudon ed [p. 66 modifica]il disegno del deposito di Francesco I in San Dionigi. La stima che tutta la Francia concepì per il Primaticcio giunse a un tal punto, che niuna opera considerevole intraprendevasi senza prima consultarlo, e che ordinava pure tutto ciò che doveva farsi nelle feste, nei tornei, e nelle mascherate, solenni spettacoli, di un brio, di una sontuosità degni del re e dell’artista italiano, il quale in queste occasioni si mostrava architetto, scenografo e meccanico valentissimo. In ricompensa si ebbe, dal sovrano, l’abbadia di San Martino di Troyes.

Vivendo in un modo liberale e distinto, il Primaticcio non solo era considerato come un pittore abilissimo, ma come uno dei Grandi della Corte. Colmo di beni e di onori ricevuti dai sovrani, come un personaggio di alta importanza, la cui protezione agognavano gli artisti, verso i quali però era liberalissimo.

Egli e maestro Rosso recarono in Francia il buon gusto della pittura, poiché prima di loro, tutto ciò che facevasi nelle belle arti era da considerarsi per poco, ed era imitazione del gotico.

All’apparizione dei due celebri italiani avvenne una fortunata rivoluzione nelle belle arti. Si abbandonò la maniera gotica e barbara per istudiare la bella natura. Il Primaticcio era un buon colorista, componeva con ingegno, bene scelti sono gli atteggiamenti delle sue figure, — ma viene accagionato di avere soverchiamente sollecitato il lavoro, e di avere spesso dipinto di pratica, ciò che potrebbesi attribuire alle molte e continue ordinazioni che riceveva dal sovrano.

Il Primaticcio formò eccellenti allievi, fra i quali molto si distinse Nicolò di Modena; morì in Parigi nel 1570, e da tutti fu onorato come una delle splendide glorie del regno di Francesco I.

Benvenuto Cellini nacque in Firenze nel 1500. Anch’egli fu un artista di una mente enciclopedica, e riuscì particolarmente nella scultura, nell’architettura, nell’arte dell’oreficeria, l’incisione, e in tutte le arti del disegno. Se vi si fosse più applicato sarebbe stato anche un eccellente pittore. Era poeta e musicista, scrittore egregio e distinto scienziato.

Questi talenti ed il profondo suo sapere gli meritarono un posto nell’Accademia di Firenze. Fu stimato e ricercato da parecchi principi d’Europa. Francesco I lo colmò di benefìcii, ed il papa Clemente VII, colpito dall’eccellenza del di lui ingegno, non solo lo considerò come un artista celebre, ma anche come un grande uomo. In sua mano pose la difesa del castello di Sant’Angelo, ove il Cellini acquistò molta gloria con la sua prudente [p. 67 modifica]tattica ed il suo coraggio. In questa circostanza si mostrò ingegnere militare, capitano, artigliere, e guerriero. Da lui partì il colpo che nel 1527, all’assedio di Roma, uccise lo scellerato Borbone contestabile di Francia e ferì il principe d’Orléans.

Il Cellini morì nel 1570. Lasciò varii trattati sulla scultura e sull’oreficeria, e le pregiatissime Memorie della sua vita. Solo a Michelangelo, Benvenuto Cellini, soffriva essere inferiore.

(10) Avvi nella cattedrale di Firenze un dipinto sul legno, rappresentante Dante, vestito alla borghese ed incoronato dall’alloro, con una immagine della Divina Commedia, ed una veduta della città di Firenze. Questo quadro è attribuito all’Orgagna, ed è verisimile che i tre distici che vi si leggono sotto sieno di Bartolomeo Scala. Questo è l’unico monumento che la Repubblica di Firenze abbia eretto alla memoria di questo sublime ed illustre poeta la cui superba tomba è in Ravenna, ove morì in esilio. Niuno è profeta nel proprio paese, almeno durante la sua vita. — Il ritratto di Dante, dipinto dall’Orgagna, non è la cosa la meno curiosa ed interessante che ammirisi nel duomo di Firenze. — Alfieri, senza la principessa d’Albani non avrebbe avuto un monumento funebre.

L’autrice di Corinna, la Staël, l’ammiratrice dell’Italia, quella che in Francia fece generalmente conoscere la Terra Classica, la Terra del Genio, osserva, intorno al divino Allighieri: «Le Dante, ce grand maître en tant de genres, possèdait le génie tragique qui aurait produit le plus d’effet en Italie, si de quelque manière, on pouvait l’adapter à la scène; car ce poète sait peindre aux yeux ce qui se passe au fond de l’âme, et son imagination fait sentir et voir la douleur. Si le Dante avait écrit des tragédies, elles auraient frappé les enfants comme les hommes, la foule comme les esprits distingués. La littérature dramatique doit être populaire; elle est comme un évènement public, tonte la nation en doit juger

Allorchè Dante viveva, gl’Italiani rappresentavano in Europa e nei loro paesi un grande e terribile dramma, per cui non sarebbero mancati all’altissimo poeta soggetti tragediabili.

Virgilio dipinge come Michelangelo nel rappresentare Caronte e la testa della Gorgona:


«Portitor has horrendus aquas et flumina serva
Terribili squalore Caron; cui plurima menso
Canities inculta jacet. Stant lumina flamma.
Sordidus ex humeris vedo dependet amictus;

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Ipse ratem conto subigit, velisque ministrat;
Et ferruginea subiecta corpora cymba,
Iam senior, sed cruda Deo viridisque Senectus




Ægidaque horrificam turbata Palladis armas;
Certatim squammis serpentum auroque polibunt;
«Connerosque angues, ipsamque in pectora Divæ
Gorgona, defens vertentem lumina collo.»

Eneide.


Andra Chénier, nobile e coraggioso poeta, e patriota, in un’ode che indirizza a Carlotta Corday, così descrive la morte di questa eroina:


«Belle, jeune, brillante, aux bourreaux amenée,
Tu semblais t’avancer sur le char d’hyménée;
Ton front resta paisible et ton regard serein.
Calme sur l’échafaud, tu méprisas la rage
D’un peuple abject, servile et fécond en outrage,
Et qui se croit encore et libre et souverain.
La vertu seul est libre. Honneur de notre histoire,
Notre immortel opprobre y vit avec ta gloire;
Seule, tu fus un homme, et vengeas les humains!
Et nous, eunuques vils, troupeau láche et sans áme,
Nous savons répéter quelques plaintes de femme,
Mais le fer péserait à nos débiles mains.»

I mostri della rivoluzione fecero anche salire al patibolo il virtuoso repubblicano, tanto stimato da Alfieri.

Espressione del Gesto, potentissimo linguaggio dell’uomo, linguaggio del pittore e dello scultore. Altrove dicemmo: «Tallien, àme vraiment romaine, cachant un poignard sous son habit, osa concevoir l’audacieux projet d’immoler Robespierre en plein Sénat, s’il ne pouvait abattre ce tyran par la force de son éloquence, et qui fut son vainqueur en l’atteignant avec les seules armes de la parole. On n’a point assez recueilli les traits de l’éloquence véhémente et terrible de Tallien, dans ce moment décisif: jamais orateur n’a peut-être rassemblé autant de forces physiques et morales pour découvrir un abîme, et pour le faire entrevoir à ses auditeurs effrayés. Jamais impulsion plus rapide et plus terrible ne fut communiquée: sa voix, son geste, ses paroles entrecoupées, ses yeux étincelans de colére et d’horreur, un frémissement universel répandu sur tout son corps, tout annonçait le plus sublime effort de l’éloquence humaine; elle triompha; et quand elle n’aurait rendu que ce service à l’humanité, il [p. 69 modifica]faudrait en conserver le souvenir et publier éternellement ses bienfaits. — Il faudrait élever une statue à Tallien, à côté de celle de l’heroïque Charlotte Cordayx 1.

Ugo Foscolo, negli eleganti seguenti versi, delineando una delle Grazie, sembra essersi ispirato alla danza raffaellesca delle Ore:


«. . . . . . . . . . Ma se danza,
Vedila! tutta l’armonia del suono
Scorre dal suo bel corpo e dal sorriso
Della sua bocca; e un moto, un atto, un vezzo
Mandano agli occhi venustà improvvisa
Che diffondon le Grazie. Io la discerno
Per mille aspetti mille volte bella,
Pur chi pinger la può? Mentre a ritrarla
Porgo industre lo sguardo, ecco m’elude,
E la carola che lenta disegna
Alterna rapidissima e s’invola
Sorvolando sui fiori; appena veggo
Il vel fuggente biancheggiar fra’ mirti
Quasi nembo che un nume avvolge e fura.»

Uomini che più s’illustrarono nel secolo XIV: nell’Astronomia e nella Fisica: Paolo Dagomari, detto il Geometra, o Paolo dell’Abaco, perchè di questo, come degli almanacchi, fu riputato l’inventore; — Pietro d’Abano, che scrisse dell’Astrolabio, e Francesco degli Stabili detto Cecco d’Ascoli, che fu abbruciato dalla Santa Inquisizione, come Mago! — In quella pur s’ebbe l’invenzione degli occhiali, per Salvino Armato o degli Armati fiorentino, sebbene da alcuni s’attribuisca ad Alessandro Spina. — La lingua italiana, in quel medesimo secolo, da Fra Guittone d’Arezzo, da Guido Cavalcanti, da Cino da Pistoja, da Dante, dai tre Villani, da Ricordano e Matteo Malaspini, da Dino Compagni, dal Velluti, dal Ferreto, dal Passavanti, dal Cavalca, e principalmente dal Petrarca e dal Boccaccio, fu recata alla sua perfezione.

— Nella Giurisprudenza fiorirono Giovanni da Imola, Raffaello Fulgosio, Pietro d’Acarnano, Francesco Zabarella, Giovanni Campeggi, Giasone del Maino, Giacomo Leonessa, Bartolomeo Cipella.

— Nelle Lettere ebbero grido, oltre i sopradetti, Galvano Fiamma, Albertino Mussato, Giovanni da Ravenna, detto il Grammatico Ravennate, Zanobi da Strada, Colucci Salutato, Lorenzo dei Medici, Guarino il vecchio Veronese, Vittorino da Feltre, [p. 70 modifica]Gasparino Barzizio Bergamasco, Lionardo Bruni Aretino, Ambrogio de’ Traversari, detto il Camaldolese, Pier Paolo Vergerlo, Giacomo Angeli, Cristofano Castiglione, e più tardi, Flavio Biondo, Francesco Filelfo, il Poggio, e Antonio Beccadelli, detto il Panormita, ecc.

Di quei tempi furono pure s. Lorenzo Giustiniani, s. Bernardino da Siena, e s. Antonio, celebri non meno per teologica dottrina che per santità.

La filosofia però in questo secolo tuttavia si giacque nelle scolastiche tenebre.

Nel secolo XV era dato di risorgere alle scienze filosofiche. — Raimondo Lullo, Arnaldo da Villanova, Paracelso, Cardano e qualche altro, furono i precursori delle scienze positive.

  1. Estratto dal Traité de mimique et de déclamation, dell’autore di queste pagine. Riguardo all’arte del gesto e dell’espressione, veggasi pure: Le arti imitatrici la dissertazione intorno alle Grazie ed alla grazia, e L’uomo fisico, intellettuale e morale dello stesso scrittore.


  1. A pagina 56 di queste note, alla linea 20, si prega il lettore di ritenere finito il capoverso alla parola sempre, ed annullato il seguito: Virgile, ecc.
  2. Alberti, De Architect. 1, 5, 11, 12 — Flav. Biondo, ital. illustr., pag. 3.
  3. Muratori, Scrip. Rer. Ital., vol. 26, pag. 695, ecc. e Tirab. vol. XIV, pag. 334 (Mil. Fontana 1829) che ha tradotto il brano che reco.
  4. Giovio Co. Gio. Battista, Discorso sulla Pittura nota H. — Corniani, Secoli, ecc, vol. 2, pag. 185.
  5. Essai sur les ouvrages phisico-mathimatiques de Léonard de Vinci arec des fragmens tirès des manuscrits apportès de l’Italie lu à la première classe de l’Institut national, etc., par J. B Venturi (di Reggio), à Paris chez Ouport, an V 1797 — Corniani, Secoli, etc, v. p. 229.
  6. V.Contin. alla Bibl. del Tirab. vol 3; Reggio, tip. Torregiani, 1834. Vita di G. B. Venturi scritta dal ch. Gio de Brunhoff, pag. 231.
  7. Guglielmo G. B., Elogio di Leonardo Pisano p. 205, Nota (ecc.). Bol., per Giuseppe Lucchesini, 1813 — Venturi. Essai, ecc (come sopra).
  8. (4) Monti, Discorso, Del debito di onorare i primi scrittori del vero. Mil., tip. Sonzogno, 1802, p. 21.
  9. L’invenzione della bomba ascrivesi da alcuni a Sigismondo Pandolfo Malatesta, che morì nel 1457; pensano altri, che nel 1435 si usassero nel regno di Napoli, sotto Carlo VIII.
  10. Disegni di Leonardo da Vinci incisi e pubblicati da Carlo Giuseppe Gerli, in foglio, Milano 1784; sono tavole CO in rame.
  11. I Medici, da semplici particolari diventati principi, furono meno illustri, rapporto a questo titolo, che per le grandi qualità, la magnificenza ed il buon gusto che parecchi di loro spiegarono, e che valsero loro il singolare onore di dare il nome ad una delle quattro più belle epoche della storia. Questa celebre casa di Firenze, il cui innalzamento non data che dalla metà del XVI secolo, si glorifica di Cosimo, dì Lorenzo e di Leone; — il primo s’illustrò con delle qualità popolari che lo fecero chiamare il padre del popolo; — i due altri, perché protessero singolarmente le arti e le scienze La loro casa diede due regine alla Francia: Caterina sposa di Enrico II, e Maria, che lo fu di Enrico IV.