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Ninfale fiesolano/Parte settima

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Parte settima

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Parte sesta Ninfale fiesolano
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PARTE SETTIMA




I.

Dïana a Fiesole in quel tempo venne,
     Come usata era sovente di fare:
     Grande allegrezza pe’ monti si tenne,
     Sentendo di Dïana il ritornare,
     E ciascheduna ninfa festa fenne,
     E cominciarsi tutte a ragunare,
     Come usate eran con lei molto spesso,

     Tutte le ninfe da lungi e da presso.

II.

Mensola sentì ben la sua venuta,
     Ma comparir non volle innanzi a lei
     Per non esser da lei mal ricevuta,
     Dicendo: s’io v’andassi, io non potrei
     Tener celata la cosa ch’è suta,
     E grande strazio di me far vedrei:
     E fu da Sinedecchia consigliata
     Di non v’andar, ma stessesi celata.

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III.

Avvenne adunque in questi giorni un die,
     Ch’alla caverna sua Mensola stando,
     Per tutto il corpo doglie si sentie,
     Perchè la Dea del parto allor chiamando,
     Un fantin maschio quivi partorie,
     Il qual Lucina di terra levando
     Gliel mise in collo, e disse: questi fia

     Ancor gran fatto, e poi quindi sparia.

IV.

Come che doglia grande e smisurata
     Mensola avea sentita, come quella
     Ch’a tal partito mai non era stata,
     Veggendo aversi fatta una sì bella
     Creatura, la pena fu alleggiata,
     E subito gli fece una gonnella
     Com’ella seppe il meglio, e poi lattollo,

     E mille volte quel giorno baciollo.

V.

Il fantin era sì vezzoso e bello,
     E tanto bianco, ch’era maraviglia:
     Il capo com’or biondo e ricciutello,
     E in ogni cosa il padre suo simiglia
     Sì propriamente, che pare a vedello
     Affrico ne’ suoi occhi e nelle ciglia,
     E tutta l’altra faccia sì verace,
     Che a Mensola per questo più le piace.

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VI.

E tanto amore già posto gli avea,
     Che di mirarlo non si può saziare:
     A Sinedecchia portar nol volea
     Per non volerlo da sè dilungare,
     Parendo a lei, mentre che ’l vedea,
     Affrico veder proprio, ed a scherzare
     Cominciava con lui e a fargli festa,

     E con le man gli lisciava la testa.

VII.

Dïana avea più volte domandato
     Quel che di Mensola era le compagne:
     Fulle risposto, da chi l’era allato,
     Che è gran pezzo che ’n quelle montagne
     Veduta non l’aveva in nessun lato.
     Altre dicean, che per certe magagne,
     E per difetto ch’ella si sentia,

     Davanti a lei con l’altre non venia.

VIII.

Perchè un dì, di vederla pur disposta,
     Perchè l’amava molto e tenea cara,
     Con tre ninfe sen gì a quella costa
     Dove la sventurata si ripara,
     E giunte alla caverna senza sosta,
     Dinanzi all’altre Dïana si para,
     Credendola trovar, ma non trovolla,
     Perchè a chiamar ciascuna incominciolla.

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IX.

Ell’era andata col suo bel fantino
     Inverso il fiume giù molto lontana,
     E ’l bel fanciul trastullava al caldino,
     Quando sentì la voce prossimana
     Chiamar sì forte con chiaro latino:
     Allor mirando in su vide Dïana
     Con le compagne sue che giù venieno,

     Ma lei ancor veduta non avieno.

X.

Sì forte sbigottì Mensola quando
     Vide Dïana, che nulla rispose,
     Ma per paura tuttavia tremando
     In un cespuglio tra’ pruni nascose
     Il bel fantino, e lui solo lasciando,
     Di fuggir quivi l’animo dispose,
     E ’nverso il fiume ne gì quatta quatta,

     Tra quercia e quercia, fuggendo via ratta.

XI.

Ma non potè si coperto fuggire,
     Che Dïana fuggendo pur la vide;
     E poi cominciò quel fanciullo a udire,
     Il qual’alto piangea con forte stride.
     Dïana cominciò allora a dire
     Inverso lei con grandissime gride:
     Mensola, non fuggir, che non potrai,
     Se io vorrò, nè il fiume passerai.

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XII.

Tu non potrai fuggir le mie saette,
     Se l’arco tiro, o sciocca peccatrice.
     Mensola già per questo non riflette,
     Ma fugge quanto può alla pendice:
     E giunta al fiume dentro vi si mette
     Per valicarlo: ma Dïana dice
     Certe parole, ed al fiume le manda,

     E che ritenga Mensola comanda.

XIII.

La sventurata era già in mezzo l’acque,
     Quando i piè venir meno si sentia:
     E quivi, siccome a Dïana piacque,
     Mensola in acqua allor si convertia:
     E sempre poi a quel fiume si giacque
     Il nome suo, che ancor tuttavia
     Per lei quel fiume Mensola è chiamato:

     Or v’ho del suo principio raccontato.

XIV.

Le ninfe ch’eran con Dïana veggendo
     Come Mensola era acqua diventata,
     E giù per lo gran fiume va correndo,
     Perchè molto l’aveano in prima amata,
     Per pietà tutte dicevan piangendo:
     O misera compagna sventurata!
     Qual peccato fu quel che t’ha condotta
     A correr sì com’acqua a fiotta a fiotta?

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XV.

Dïana disse lor che non piangessono,
     Che quel martir molto ben meritava:
     E perchè ’l suo peccato elle vedessono,
     Dove il fanciul piangeva le menava.
     Poi disse loro ch’elle lo prendessono,
     Traendol di que’ pruni ov’egli stava:
     Allor le ninfe sel recaro in braccio,

     E ’l trasson del cespuglio molto avaccio.

XVI.

Molta festa le ninfe gli facieno
     Vedendol tanto piacevole e bello,
     E raccettarlo volentier vorrieno
     Con esso loro, e in que’ monti tenello:
     Ma a Dïana dirlo non volieno,
     La qual comandò lor che tosto quello
     Fantin portato a Sinedecchia sia,

     E con loro ella ancor si mise in via.

XVII.

Giunta Dïana a Sinedecchia, disse:
     Com’ella aveva quel fantin trovato
     In un cespuglio, ove Mensola il misse,
     Per celato tenere il suo peccato:
     Ma ella dopo questo poco visse,
     Che fuggendo ella, e volendo il fossato
     Di là passare, il fiume la ritenne,
     E com’io volli allora acqua divenne.

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XVIII.

Mentre Dïana dicea ta’ parole,
     La vecchia ninfa per pietà piangea,
     Tanto il caso di Mensola le duole,
     E quel fantino in braccio ella prendea,
     Ed a Dïana disse: o chiaro sole
     Di tutte noi, altro ch’io non sapea
     Questo peccato, che a me sola il disse,

     E tutta nelle mie man si rimisse.

XIX.

Poi ogni cosa a Diana ebbe detto,
     Come Mensola stata era sforzata,
     E ’l come e ’l dove da un giovinetto,
     E in che modo da lui fu ingannata:
     E disse poi: o Dea, io ti prometto
     Sopra la fè ch’io t’ho sempre portata,
     Che, s’io non era, morta si sarebbe,

     Ma io non la lasciai, sì me n’increbbe.

XX.

Da poi che tu l’hai fatta diventare
     Acqua, ti prego ch’almen tu mi doni
     Questo fanciullo, ch’io ’l vorrò portare
     Di qui lontano assai ’n certi valloni,
     Ov’io ricordo anticamente stare
     Uomini con lor donne a lor magioni:
     A loro il donerò, che car l’avranno,
     E me’ di noi allevare il sapranno.

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XXI.

Quando Dïana ta’ parole intende,
     Come Mensola stata era tradita,
     Alquanto del suo mal pietà le prende
     Perchè l’amava assai quand’era in vita:
     Ma perchè l’altre da cotai faccende
     Si guardasson, mostrossi incrudelita,
     E disse a Sinedecchia, che facesse

     Di quel fantin quel che me’ le paresse.

XXII.

Poi si parti colla sua compagnia,
     E a Sinedecchia quel fanciul lascioe,
     La qual, poscia che vide andata via
     Dïana, tostamente s’invioe
     Con esso in collo, e ’n quelle parti gìa
     Ove Mensola bella l’acquistoe,
     Che ben sapea per tutto ogni riviera,

     Tanto tempo in que’ monti usata v’era.

XXIII.

E già aveva da Mensola udito
     Come avea nome quel che la sforzone,
     E più da lei ancora avea sentito,
     Quando partissi, in qual parte n’andone;
     Perchè considerato ogni partito,
     Estimò troppo ben che quel garzone
     In quella valle stesse, ove sedeva
     Una casetta che fumo faceva.

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XXIV.

Laggiù n’andò, non con poca fatica,
     E per ventura trovò Alimena,
     Alla qual disse: o carissima amica,
     Grande è quella cagion che a te mi mena,
     Ed è pur di bisogno ch’io tel dica:
     Però ti prego che non ti sia pena
     D’ascoltare una gran disavventura,

     E come è nata questa creatura.

XXV.

PoiFonte/commento: ed. 1477 ogni cosa le venne narrando,
     Com’un giovine ch’Affrico avea nome
     Sforzò una ninfa, il dove, e ’l come e ’l quando
     A parte a parte disse, e poscia come
     Ell’era ita gran pezzo tapinando,
     Poi partorì quel bello e fresco pome;
     E poi come Dïana trasmutoe

     La ninfa in acqua, e dove la lascioe.

XXVI.

E come quel fantino avea trovato
     Dïana tra molti pruni, e come a lei
     Con altre ninfe poi l’avea donato:
     Ma mentre che cotai cose costei
     Raccontava, Alimena ebbe mirato
     Nel viso a quel fantino, e disse, omei!
     Questo fanciul propriamente somiglia
     Affrico mio, e poi in braccio il piglia.

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XXVII.

E lacrimando per grande allegrezza,
     Mirando quel fantin, le par vedere
     Affrico proprio in ogni sua fattezza,
     E veramente gliel pare riavere;
     E lui baciando con gran tenerezza,
     Diceva: figliuol mio, gran dispiacere
     Mi fia a contare il grandissimo duolo,

     La morte del tuo padre e mio figliuolo.

XXVIII.

Poi cominciò alla vecchia ninfa a dire
     Del suo figliuol per ordine ogni cosa,
     E come stette gran tempo in martire,
     E della morte sua tanto angosciosa:
     E stando questo Sinedecchia a udire
     Venne del caso d’Affrico pietosa,
     E con lei insieme di questo piangea,

     E Giraffon quivi tra lor giungea.

XXIX.

Quand’egli intese il fatto, similmente
     Per letizia piangeva e per dolore,
     E mirando il fanciul, veracemente
     Affrico suo gli pare, onde maggiore
     Allegrezza non ebbe in suo vivente;
     Poi facendogli festa con amore,
     E quel fantin quando Giraffon vide
     Da naturale amor mosso gli ride.

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XXX.

Sì grande fu l’allegrezza e la festa
     Che fer costor, che in buona veritade,
     Che se non fusse che pur lor molesta
     Il core de’ due amanti la pietade,
     Nessuna ne fu mai simile a questa.
     Ma poi che Sinedecchia l’amistade
     Con loro ebbe acquistata, sen vuol gire

     Alla montagna, e da lor dipartire.

XXXI.

Giraffon mille grazie le ha renduto,
     E Alimena similmente ancora,
     Del buon servigio da lei ricevuto,
     E molto quivi ciaschedun l’onora.
     Ma poi che Sinedecchia ebbe il saluto
     Renduto lor, senza far più dimora
     Alla spelonca sua si ritornava,

     E il fantino a costor quivi lasciava.

XXXII.

La novella fu subito saputa
     Per tutti i monti, ed a ciascun palese
     Come Mensola era acqua divenuta,
     E a molte ninfe gran pietà ne prese:
     Ma dopo alquanto Dïana si muta
     Da questi luoghi, e in altro paese
     N’andò com’era usata, e primamente
     Ammonì le sue ninfe parimente.

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XXXIII.

Rimase adunque le ninfe in tal mena,
     Sempre quel fiume Mensola chiamaro.
     Torniamo a Giraffone ed Alimena,
     Che quel fantin con il latte allevaro
     Del lor bestiame, non con poca pena,
     E per nome Pruneo e’ lo chiamaro,
     Perchè tra’ pruni pianger fu trovato,

     E così sempre fu dipoi chiamato.

XXXIV.

E crescendo Pruneo, venne sì bello
     Della persona, che se la natura
     L’avesse fatto in pruova col pennello,
     Non potea dargli sì bella figura:
     E’ venne destro più ch’un lioncello,
     Arditissimo e forte oltra misura,
     E tanto proprio il padre era venuto,

     Che da lui non sariesi conosciuto.

XXXV.

Gran guardia ne faceva Giraffone
     Ed Alimena ancor la notte e ’l die,
     E più volte gli disson la cagione
     Siccome Affrico suo padre morie,
     Perchè paura n’avesse il garzone,
     Di mai volere andar per quelle vie,
     E della madre sua i grievi danni;
     E così stando, venne a’ diciott’anni.

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XXXVI.

Passò allora Atalante in questa parte
     D’Europa con infinita gente,
     E per Toscana ultimamente sparte,
     Come scritto si trova apertamente,
     Apollin vide, facendo su’ arte,
     Che ’l poggio Fiesolan veracemente
     Era ’l me’ posto poggio e lo più sano

     Di tutta Europa di monte e di piano.

XXXVII.

Atalante vi fece edificare
     Una città, che Fiesole chiamossi:
     Le genti cominciarono a pigliare
     Di quelle ninfe che lassù trovossi,
     E qual potè dalle lor man campare,
     Da tutti questi poggi dileguossi;
     E così fur le ninfe allor cacciate,

     E quelle che fur prese, maritate.

XXXVIII.

Tutti gli abitator di quel paese
     Atalante gli volle alla cittade.
     Giraffon, quando questo fatto intese,
     Tosto n’andò con buona volontade,
     E menò seco il piacente e ’l cortese
     Pruneo, adorno d’ogni dignitade,
     Ed Alimena, e comparì davante
     Con riverenza al signore Atalante.

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XXXIX.

Quando Atalante vide il vecchio antico,
     Graziosissimamente il ricevette,
     E presel per la man sì come amico,
     E ta’ parole inverso lui ha dette:
     O vecchio savio, intendi quel ch’io dico,
     Che la mia fede ti giura e promette,
     Che se tu in questa terra abiterai,

     De’ miei maggiori consiglier sarai:

XL.

E meco abiterai nella mia rocca
     Insiememente con questo tuo figlio.
     Giraffon ta’ parole inver lui scocca:
     O Atalante, sempre il mio consiglio
     Fia apparecchiato a quel che la tua bocca
     Comanderà: ma io mi maraviglio,
     Ch’avendo teco uomin tanto savi,

     Più ch’io non sono, a far questo mi gravi.

XLI.

Tu di’ vero ch’i’ ho meco savia gente,
     Atalante rispose: ma perch’io
     Veggio ch’esser tu dei anticamente
     Stato in questo paese, al parer mio,
     E saper debbi tutto il convenente
     Di questi luoghi, quale è buono o rio,
     In molte cose mi potra’ esser buono
     In questi luoghi ov’arrivato io sono.

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XLII.

Giraffon disse, lagrimando quasi:
     Oimè, Atalante, che tu parli il vero,
     Ch’io sono antico, e’ miei gravosi casi
     Manifestano il fatto tutto intero;
     E’ non è molto tempo ch’io rimasi
     Sol con la donna mia ’n questo sentiero,
     Se non che poi costui mi fu recato,

     Ch’è figliuol d’un mio figlio sventurato.

XLIII.

Poi gli contava il fatto com’era ito
     D’Affrico suo e Mensola sua amante:
     E poscia di Mugnon, che fu fedito
     E morto da Dïana, e tutte quante
     Le sue sventure disse, e poi col dito
     Gli dimostrava didietro e davante
     I fiumi, e i loro nomi gli dicea,

E la cagion perchè sì nome avea.

XLIV.

E poi ad Atalante si voltoe,
     Dicendo: io vuo’ fare ogni tuo comando:
     Atalante di questo il ringrazioe:
     E poi inverso Pruneo rimirando,
     E piacendogli molto, lo chiamoe,
     E poscia inverso lui così parlando
     Disse: io vuo’ che tu sia mio servidore
     Alla tavola mia, per lo mio amore.

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XLV.

Così Atalante fece Giraffone
     Suo consigliere, e ’l giovane Pruneo
     Dinanzi a lui serviva per ragione,
     E tanto bene a far questo imprendeo
     Ch’era a vederlo grande ammirazione;
     E oltre a questo la natura il feo
     Ardito e forte tanto, che non trova

     Nessun che ’l vinca a fare alcuna prova.

XLVI.

E d’ogni caccia maestro divenne,
     Tanto che fiera non potea campare
     Dinanzi a lui, tant’ottimo e solenne
     Corridore era, e destro nel saltare,
     E sì ben l’arco nelle sue man tenne,
     Che vinto avria Dïana a saettare:
     Costumato e piacevole era tanto,

     Ch’io non potre’ giammai raccontar quanto.

XLVII.

Atalante gli pose tanto amore,
     Veggendo ch’era sì savio e valente,
     Che siniscalco il fe’ con grande onore
     Sopra la terra e sopra la sua gente,
     E di tutto il paese guidatore;
     Ed e’ ’l guidava si piacevolmente,
     Ch’era da tutti amato e ben voluto,
     Tanto dava ad ognuno il suo dovuto.

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XLVIII.

E già venticinque anni e più avea,
     Quando Atalante gli diè per mogliera
     Una fanciulla, la qual Tironea
     Era il suo nome, e figliuola sì era
     D’un gran baron che con seco tenea:
     E diégli ancor tutta quella rivera
     Ch’in mezzo è tra Mensola e Mugnone,

     E questa fu la dota del garzone.

XLIX.

Pruneo fe’ far dalla chiesa a Maiano,
     Un po’ di sopra, un nobil casamento,
     Dond’egli vedea tutto quanto il piano,
     Ed afforzollo d’ogni guernimento;
     E quel paese, ch’era molto strano,
     Tosto dimesticò, sì com’io sento,
     E questo fece sol pel grande amore

     Ch’al paese portava di buon core.

L.

Ivi gran parte del tempo abitava,
     Dandosi sempre diletto e piacere:
     Diceasi che sovente a’ fiumi andava
     Della sua madre e del padre a vedere,
     E che co’ loro spiriti parlava,
     Dell’acque uscendo voci chiare e vere,
     E piene di sospiri e di pietate,
     Le cose rammentandogli passate.

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LI.

Giraffon ristorato de’ suoi danni
     Gran tempo visse; ma poi che sua vita
     Ebbe finita e’ suoi lunghissimi anni,
     Di questo mondo facendo partita,
     Alimena lasciò con molti affanni:
     La qual, poichè l’età sua fu finita,
     Con Giraffon fu messa in un avello

     Nella città, qual’era molto bello.

LII.

Pruneo rimase in grandissimo stato
     Colla sua Tironea, della qual’ebbe
     Dieci figliuoli, ognun pro’ e costumato,
     Tanto che maraviglia ciascun n’ebbe:
     E poi ch’egli ebbe a ciascun moglie dato,
     In molte genti questa schiatta crebbe,
     E sempre a Fiesol furon cittadini

     Grandi e possenti sopra i lor vicini.

LIII.

Morto Pruneo, con grandissimo duolo
     Di tutta la città fu seppellito:
     Così rimase a ciascun suo figliuolo
     Tutto il paese libero e spedito,
     Che Atalante donato avea a lui solo,
     E bene l’ebbon tra lor dipartito;
     E sempre poi la schiatta di costoro
     Signoreggiaron questo tenitoro.

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LIV.

Ma poi che Fiesol fu la prima volta
     Per li Roman consumata e disfatta,
     E poi che a Roma la gente diè volta,
     Que’ che rimason dell’affrica schiatta,
     Alla disfatta fortezza raccolta
     Tutti si fur, che Pruneo avea fatta,
     E quivi il me’ che seppon s’alloggiaro

     Facendo case assai per lor riparo.

LV.

Poi fu Firenze posta pei Romani,
     Acciocchè Fiesol non si rifacesse,
     Pe’ nobili e possenti Fiesolani
     Ch’eran campati, ma così si stesse:
     Per la qual cosa in molti luoghi strani
     Le genti fiesolane si fur messe
     Ad abitar, come gente scacciata,

     Senza aiuto o consiglio abbandonata.

LVI.

Ma poi ch’uscita fu l’ira di mente
     Per ispazio di tempo, e pace fatta
     Tra li Romani e la scacciata gente,
     Quasi tutta la gente fu ritratta
     Ad abitare in Firenze possente,
     Tra’ quai vi venne dell’affrica schiatta,
     E volentier vi furon ricevuti
     Da’ cittadini, e ben cari tenuti.

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LVII.

E per levar loro ogni sospicione,
     Sed e’ l’avesser, d’essere oltraggiati,
     E anche per dar lor maggior cagione
     D’amar la terra, e d’esser anche amati,
     E fatto fosse a ciaschedun ragione,
     Sì furo insieme tutti imparentati,
     E fatti cittadin con grande amore,

     Avendo la lor parte d’ogni onore.

LVIII.

Così moltiplicando la cittade
     Di Firenze, in persone e in gran ricchezza,
     Gran tempo resse con tranquillitade;
     Ma come molti libri fan chiarezza,
     Già era in essa la cristianitade
     Venuta, quando, presa ogni fortezza,
     Fu da Totile infin da’ fondamenti

     Arsa e disfatta, e cacciate le genti.

LIX.

Poi fece il crudel Totile rifare
     Ogni fortezza di Fiesole e mura,
     E pel paese fece un bando andare:
     Che qual fosse che dentro alla chiusura
     Di Fiesole tornasse ad abitare,
     Ogni persona vi fosse sicura,
     Giurando prima di far sempre guerra
     Con i Romani, e con ogni lor terra.

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LX.

Per la qual cosa la schiatta affrichea
     Per grande sdegno tornar non vi volle,
     Ma nel contado ognun si riducea,
     Cioè nel loro primaio e antico colle,
     Ove ciascuno abitazione avea,
     Facendo quivi un forte battifolle
     Per lor difesa, se bisogno fosse,

     Da’ Fiesolani e dalle lor percosse.

LXI.

Così gran tempo quivi dimoraro,
     Insin che ’l buon re Carlo Magno venne
     Al soccorso d’Italia, e a riparo
     Della città di Roma, che sostenne
     Gran novità. Allor si ragunaro
     L’affrichea gente, e consiglio si tenne
     Con gli altri nobil che s’eran fuggiti

     Per lo contado, e preson tai partiti:

LXII.

Che si mandasse a Roma al padre santo,
     E al re Carlo Magno un’ambasciata,
     Significando il fatto tutto quanto,
     Come la lor figliuola rovinata
     Giaceva in terra, e’ cittadin con pianto
     L’avean per forza tutta abbandonata;
     E perchè avean de’ Fiesolan paura,
     Non vi potean rifar case nè mura.

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LXIII.

Ma perchè altrove chiara questa storia
     Si trova scritta, fo con brevitade.
     Tornando al papa Firenze a memoria,
     Per l’ambasciata, gli venne pietade:
     Ma poi che Carlo Magno ebbe vittoria,
     Passò di qua per le nostre contrade,
     E sì rife’ la città di Fiorenza,

     La qual crebbe ogni dì la sua potenza.

LXIV.

Per la qual cosa que’ d’Affrico nati
     Con gli altri vi tornaro ad abitare:
     E come poi si sieno translatati
     Di grado in grado non potre’ contare,
     Nè d’uno in altro; ma in molti lati
     Son di lor gente scesi d’alto affare,
     Ed altri, che son di lassù venuti,

     Per loro gente non son conosciuti.

LXV.

Ma sia come si vuole omai la cosa,
     Io son venuto al porto disiato,
     Ove ’l disio e la mente amorosa
     Per lunghi mari ha gran pezza cercato:
     Omai donando alla mia penna posa,
     Ho fatto quel che mi fu comandato
     Da tal, cui non potre’ nulla disdire,
     Tanto sopra di me fatto è gran sire.

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LXVI.

Adunque, poich’io sono al fin venuto
     D’esto lavoro, a lui il vo’ portare,
     Il qual m’ha dato la forza e l’aiuto,
     E lo stile e l’ingegno del rimare:
     Dico ad Amor, di cui son sempre suto,
     Ed esser voglio, e lui vo’ ringraziare,
     E a lui recare il libro dov’egli usa,

     E poi dinanzi a lui porre un’accusa.

LXVII.

Altissimo signore, Amor sovrano,
     Sotto cui forza valore e potenza
     È sottoposto ciascun core umano,
     E contro a cui non può far resistenza
     Nessuno, sia quanto si vuol villano,
     Il qual non venga tosto a tua obbedienza,
     Pur che tu vuogli, ma pur più ti giova

     D’usar contro a’ gentili la tua prova:

XLVIII.

Tu se’ colui che sai, quando ti piace,
     Ogni gran fatto ad effetto menare,
     Tu se’ colui che doni guerra e pace
     A’ servi tuoi, secondo che ti pare;
     Tu se’ colui che li lor cuori sface,
     E che gli fai sovente suscitare;
     Tu se’ colui che gli assolvi e condanni,
     E qual conforti, e a qual’arrogi danni.

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LXIX.

Io sono un de’ tuoi servi, al quale imposto
     Mi fu per te, come a servo leale,
     Di compor questa storia, ed io disposto
     Sempre ubbidirti, come quegli al quale
     Una donna m’ha dato e sottoposto,
     Col tuo aiuto i’ l’ho fatta cotale
     Chent’è suto possibile al mio ingegno,

     Il qual i’ ho acquistato nel tuo regno.

LXX.

Ma ben ti prego per gran cortesia,
     E per dovere e per giusta ragione,
     Che questo libro mai letto non sia
     Per gl’ignoranti e villane persone,
     I quai non seppon mai chi tu ti sia,
     Nè di voler saperlo hanno intenzione,
     Che molto certo son che biasimato

     Saria da loro ogni tuo bel trattato.

LXXI.

Lascial leggere agli animi gentili,
     E che portan nel volto la tua insegna,
     Accostumati angelici ed umili,
     Ne’ cuor de’ quali la tua forza regna.
     Costor le cose tue non terran vili,
     Ma esser le faran di lode degna,
     Te’, ch’io tel rendo, dolce mio signore,
     Al fin recato pel tuo servidore.

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LXXII.

Ben venga l’ubbidiente servo mio,
     Quanto niun altro che sia a me suggetto,
     Il quale ha messo tutto il suo disio
     In recare a su fine il mio libretto:
     E perchè certo son ch’è tal qual’io
     Il disiava, volentier l’accetto,
     E nell’armario tra gli altri contratti

     Appresso il metterò de’ miei gran fatti.

LXXIII.

E ’l prego tuo sarà ottimamente
     Di ciò che m’hai pregato essaudito,
     Che ben guarderò il libro dalla gente,
     La qual tu di’ che non m’ha mai servito;
     Non perch’io tema lor vento niente,
     Nè perch’io sia per lor men’ubbidito,
     Ma perchè ricordato il nome mio
     Tra lor non sia; e tu riman con Dio.


IL FINE