Per la storia della cultura italiana in Rumania/III. Per la fortuna del Teatro Alfieriano in Rumania/3. La "Biblioteca Universala" e le traduzioni pubblicate in Rumania delle tragedie di Vittorio Alfieri

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III. Per la fortuna del Teatro Alfieriano in Rumania - 3. La "Biblioteca Universala" e le traduzioni pubblicate in Rumania delle tragedie di Vittorio Alfieri
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3. La „Bibliotheca Universală“ e le traduzioni publicate in Rumania delle tragedie di Vittorio Alfieri.


a) La „Biblioteca Universală".

Il 25 maggio del 1846, I. Heliade-Rădulescu pubblicava nel suo Curier de Ambe Sexe (Periodul V, de la 1844 pînă la 1847) un Inceputu de Bibliothecă Universală, col quale si obbligava a dar fuori ogni anno 3 volumi di Storia, 3 di Filosofia, 3 di Giurisprudenza, 2 di Politica, 1 di Economia politica, 2 di Scienze naturali, 1 di Belle arti, 1 di Retorica o Poetica, 2 di [p. 313 modifica] Poesia e 3 di Letteratura amena narrativa1. In tutto 21 volume all’anno. La lista che precede il caldo, patrottico, commovente appello (Chiemare) di Heliade a’ suoi concittadini, comprende, ripartite nelle categorie suddette, non meno di 230 traduzioni da varie lingue, compresa naturalmente2 l’italiana, che figura nell’elenco con 26 opere, numero non piccolo, quando si consideri, che, tra quei volumi, trovan posto quasi tutti i maggiori classici greci e latini e un grandissimo numero di traduzioni dal francese, lingua fin d’allora assai diffusa in Rumania e veicolo importantissimo di cultura in Oriente3.

Da Dante a Galileo, dall’Ariosto e dal Tasso al Filangieri e al Beccaria, dal Metastasio e dall’Alfieri al Manzoni e al Pellico, tutti i più grandi d’Italia vi son sufficientemente rappresentati; ma una cosa che non può non arrecarci meraviglia, si è il trovare nella sezione dei tragici, accanto ai più grandi delle letterature classiche e moderne, ben cinque rappresentanti della poesia drammatica italiana, il che potrebbe valere a consolarci in certo modo di quel tal quinto serto, di cui ci parla l’Alfieri nel suo ben noto sonetto, della cui fronda sì radamente i poeti del bel paese han saputo cingersi le tempie. [p. 314 modifica]

I cinque tragici italiani, che avrebbero dovuto trovare ospitalità nella collezione vagheggiata da Heliade, sono i seguenti:

La Ricciarda del Foscolo non ce la saremmo certo aspettata, pochissimo conosciuta com’è anche in Italia; ma ben altre particolarità ed omissioni presenta tutto l’elenco, perchè possiamo meravigliarci del Foscolo entrato in Rumania colla Ricciarda, piuttosto che con i Sepolcri e le Grazie. Del resto, per questa volta tanto, la chiave dell’enigma mi par d’averla trovata, ed ecco come. Probabilmente, ho pensato, quelle tragedie dovevano esser tutte comprese in un sol volume posseduto da Heliade o da qualche altro dei promotori della Biblioteca: un volume italiano, o francese, o magari greco, ma insomma tale da poter esser considerato come una specie di antologia del teatro tragico italiano dell’ottocento. Ebbene il volume c’è, tanto è vero ch’è saltato fuori alle prime ricerche che ho intraprese sui traduttori francesi delle tragedie in questione. È intitolato: Théâtre italien moderne e comprende la traduzione delle seguenti tragedie:


[Arminius, tragèdie de Pindemonte;— ]
[C. Gracchus, Monti;— ]
Le Comte de Carmagnola, Manzoni;
Ricciarda, Ugo Foscolo.


Il volume fa parte della Collezione Chefs-d’oeuvres des théâtres étrangers pubblicata a Parigi dal libraio Ladvocat, che ne affidò l’esecuzione a quel medesimo Auguste Trognon4 che il 1819 aveva tradotto in francese le Ultime lettere di Iacopo Ortis e più tardi, il 1824, incominciò anche la pubblicazione di certo suo Résumé de l’Histoire d’Italie, che però sembra non andasse [p. 315 modifica] oltre il primo volume5. Non sarà inutile aggiungere, giacchè, ci siamo e la notizia può giovarci, che a suo fratello Alphonse Trognon l’Italia va debitrice d’una delle prime6 e meno peggio traduzioni in francese delle tragedie di V. Alfieri; sicchè è da credere che questa coppia di fratelli filo-italiani non dovesse sfuggire del tutto a quell’altro gran filo-italiano, ch’era Heliade, che potè far su di essi assegnamento per la sezione tragica di quella sua Biblioteca Universale, alla fondazione della quale s’era accinto con tanto patriottico ardore. Fatto sta che, se ne togliamo l’Arminio del Pindemonte e il Caio Gracco del Monti, che Heliade ebbe le sue buone ragioni7 di escludere o di sostituire, tutte le altre tragedie, che si contengono in codesto volume, compaiono nello stesso ordine pur nell’elenco delle future traduzioni da accogliersi nella Biblioteca. Quando avremo [p. 316 modifica] aggiunto che, pur dopo fallito il tentativo di Heliade, la Francesca del Pellico e il Caio Gracco del Monti, trovarono rispettivamente i loro traduttori nei signori Simeon Marcovici (1846) e Virgiliu Popescu (1852), ne avremo abbastanza per conchiudere, che, eccezion fatta del solo Arminio del Pindemonte, del quale pure ho l’impressione d’aver letto non so più dove8 un ricordo, le tragedie comprese nel volume francese furon tutte, un po’ prima o un po’ dopo, conosciute in Rumania; sicchè, non potendo attribuire al caso, che proprio quelle fra tante abbiali goduto di un tal privilegio, non credo punto arrischiato il concluderne, che, in tutta questa faccenda, il volume del Trognon debba esserci entrato in qualche modo.

Ma torniamo all’Alfieri, dal quale non ci siamo allontanati che in apparenza.

Da quanto apprendiamo dal citato appello di Pleliade, il volume (o forse i volumi) che avrebbero dovuto contenere la traduzione del teatro9 alfieriano, non trovan posto fra quelli che sarebbero dovuti uscire nel primo anno di vita della Biblioteca. D’altronde, quando già i volenterosi compagni di Heliade si erano messi al lavoro, si era impiantata un’officina tipografica con 10 torchi e più di 2000 tipi e s’erano già stampati circa 2000 esemplari di traduzioni da Omero, Dante, Erodoto, Guizot, Chateaubriand, Georges Sand; scoppiò la rivoluzione del 9 giugno 1847, cui tenne dietro una feroce reazione, durante la quale l’ira, non dei boieri (che erano in genere favorevoli al progresso e alla rigenerazione del paese), ma dei ciocoii (parvenus) si scagliò contro quella povera tipografia, sorta quasi per miracolo dall’entusiasmo di pochi spiriti progrediti e amanti della patria, e la Bibliotheca Universală rimase non più che un nobile tentativo. „Per circa due anni” — ci fa sapere Heliade10 — „tutti i salumai, [p. 317 modifica] gli speziali e i rivenduglioli di Bucarest venderono la loro merce avvolta nelle pagine di Omero, Erodoto, Dante, Molière, Lord Byron”.

La traduzione dell’Alfieri dovette dunque la sua salvezza al non essere compresa fra le pubblicazioni che avrebbero dovuto veder la luce in quell’anno.

b) Traduzioni.

Accennate brevemente le condizioni nelle quali sorse la prima idea di tradurre in rumeno le tragedie alfieriane, passiamo ad esaminarne le traduzioni, che in diverse epoche (dal 1819 al 1847) se ne fecero sì in greco che in rumeno e contribuirono a render noto in Rumania il nome di questo nostro poeta, che, se non avesse scritto il Misogallo e non avesse affettato tanto classico e aristocratico disdegno per il teatro francese, c’è da scommettere che sarebbe apprezzato come merita, o, ad ogni modo, assai più di quanto ora non sia, specie fuori d’Italia. Fortunatamente per lui, all’epoca in cui le sue tragedie furon rappresentate in Rumania l’influenza francese era, almeno nel campo letterario, contrabilanciata dall’italiana, sicchè non riscosser che lodi, e lodi entusiastiche anche, che raggiunsero talvolta la potenza dell’inno. Ora... ora non saprei se un autore italiano così mal giudicato in Francia potrebbe conquistarsi le simpatie del pubblico rumeno, come allora, grazie ad Heliade, Aristia, Negruzzi ed Asaki potè conquistarsele l’Alfieri!

α) Traduzioni greche: il „Filippo“ e „l’Oreste“.

Riscontrando dunque i cataloghi della Bibliotheca Academiei Române, mi sono imbattuto in tre traduzioni delle tragedie di V. Alfieri, la prima delle quali, in greco moderno, si deve a quanto pare a un Χριστόφορος κρατερός che non sappiamo bene chi fosse e si riconnette alle rappresentazioni del Filippo e dell’Oreste avvenute sulle scene della Fontana Rossa (Cișmeaua roșie) rispettivamente il 1819 e il 1820; le altre due in rumeno sono rispettivamente del 1836 e del 1847 ed appartengono: [p. 318 modifica] la prima (Saul e Virginia) a Costache Aristia, la seconda (Filippo e Oreste) a Simeon Marcovici11.

Ecco alcune indicazioni bibliografiche, che possono riuscir utili a chi si proponesse di studiar la fortuna dell’Alfieri e delle sue tragedie fuori d’Italia.

1. [Bibliotheca Academiei Române, G. 1232].

ΦΙΛΙΠΠΟΣ. | ΤΡΑΓῼΔΙΑ | Συγγραφεῖσα παρὰ τοῦ | ΒΙ´ΚΤΩΡΟΣ (sic) | ΑΛΦΙΕΡΟΥ, | Καὶ ἐκ τὴς (sic) Ἰταλικῆς μεταφραστεῖσα εἰς τὴν | καθομιλουμένην ἡμῶν διάλεκτον. || Παρεστάθη εἰς τὸ ἐν Βουκουρεστίῳ Θέατρον | πρώτην φορὰν κατὰ τὸν Μάϊον τοῦ 1820. || Ἐκ τοῦ ἐν Βουκουρεστίῳ νεοσυστάτου Τυπογραφείου. | 1820.


ΟΡΕΣΤΗΣ | ΤΡΑΓῼΔΙΑ. | Συγγραφεῖσα παρὰ τοῦ | ΒΙΚΤΩΡΟΣ ΑΛΦΙΕΡΟΥ, | Καὶ ἐκ τῆς Ἰταλικῆς μεταφραστεῖσα εἰς | τὴν καθομιλουμένην ἡμῶν διάλεκτον. || Παρεστάθη εἰς τὸ ἐν Βουκουρεστίῳ Θέατρον | πρώτην φορὰν, τὴν 21 Νο- | εμβρίου τοῦ 1819. || Εκ᾽ (sic) τοῦ ἐν Βουκουρεστίῳ νεοσυστάτου Τυπογραφείου. || 1820.


Questi i titoli delle tragedie. Quanto all’ordine in cui le troviamo, c’è da osservare che l’Oreste, rappresentato il 21 novembre 1819, avrebbe dovuto precedere nella stampa il Filippo, rappresentato nel maggio dell’anno seguente. Insieme poi colle due tragedie alfieriane troviamo in principio del volume anche la traduzione del Bruto di Voltaire12, rappresentato a Bucarest lo stesso anno del Filippo, ma nel mese di marzo (precisamente [p. 319 modifica]la sera del 17), anzichè, come il Filippo, nel mese di maggio. Le tre tragedie sono comprese sono comprese sotto il titolo comune di:


ΣΙΛΛΟΓΗ | διαφορῶν | ΤΡΑΓῼΔΙΩΝ, | ὅσαι παρεστάθησαν εἰς τὸ θέατρον | τοῦ Βουκουρεστίου. | Μεταφρασθεῖσαι εἰς τὴν κοινὴν ἡμῶν | γλῶσσαν, καὶ ἐκδοθεῖσαι διὰ συνδρο- | μῆς τῶν φιλογενῶν καὶ φιλο- |μουσῶn. || ΤΟΜΟΣ ΠΡΟΤΟΣ || Eκ᾽ τοῦ ἐν Βουκουρεστίῳ νεοσυστάτου | Τυπογραφείου. || 1820


Per quante ricerche abbia potuto fare, non mi è riuscito trovare altri tomi di questa Silloge; ma uscirono poi? Ne dubito assai. Per quanto il primo fosse dedicato ΠΡΟΣ ΤΟΝ | ΕΥΓΕΝΕΣΤΑΤΟΝ | ΓΕΩ´ΡΓΙΟΝ ΛΕΒΕΝΤΗ´Ν | ΔΙΕΡΜΗΝΕΥΤΗΝ ΤΟΥ ΕΝ ΒΟΥΚΟΥΡΕΣΤΙῼ | ΡΟΣΣΙΚΟΥ | ΚΟΝΣΟΛΑΤΟΥ, nel quale l’autore sembra confidar molto; la Silloge non dovette andare oltre il primo volume messo insieme con molta fretta e disordine, come appare dal turbato ordine cronologico e da qualche sintomo di progressiva rilassatezza che avviene di scorgere qua e là.

Un’ultima osservazione. Molte pagine di questo volumetto sono state piegate da un lettore non privo di gusto e di sentimenti romantici. È assai probabile si tratti di un lettore contemporaneo o quasi dell’autore, perchè oggi da per tutto si grida l’oraziano: Quaerenda primum pecunia est: virtus post nummos, e, malgrado virtù e romanticismo non sian davvero la stessa cosa, oggi potrebbe sembrare virtù anche un ritorno a certi entusiasmi romantici. Ad ogni modo, e tanto per non fare il laudator temporis acti, chi leggerebbe ora in Rumania un libro scritto in greco? E allora, visto che l’autore di quelle piegature è uno di quei simpatici rumeni del buon tempo antico, non è vero che è interessante curiosare dove abbia posto quei segni? Ci servirà, nella peggiore delle ipotesi, a farci un’idea della traduzione, nella quale, intorno al 1820-21, si leggevano in Rumania le tragedie dell’Alfieri!

Il primo segno lo troviamo nel Filippo alla seconda scena del primo atto e precisamente alle parole:

ΙΣΑΒΕΛΛΑ.

Αἴ, τί;

ΚΑΡΟΛΟΣ

Ὑπήκοος, υἱὸς ἀπολύτου δεσπότου, ὑπέφερα, ἐσιώπησα, ἔκλαυσα, ἀλλ´ εἰς τὴν καρδίαν μου εἶχα νόμον ἀπαράβατον τὴν θέλησίν του· ὅθεν [p. 320 modifica]καὶ σ´ ἐνυμφεύθη· ἐγώ τὸ ἠξεύρω, πόσον ἐφρύαττον σιωπῶν καὶ ὑπακούων· διὰ μίαν τοιαύτην ἀρητὴν (ναι ἀρητὴ, καὶ ὐπὲρ ἄνθρωπονδύναμις ἦτον) ἐφαίνουμουν μεγαλόφρων ἐνταὐτῷ καὶ κατηφής· κάθε κα´ῆκόν μου μοὶ ἐφαίνετο πάντοτε δεινὸν, καὶ ἂν ἤμουν ἔνοχος καὶ μέχρι λογισμοῦ, τὸ ἠξεύρει ὁ οὐρανὸς, ὅστις βλέπει τὰ πάντα, καὶ τπὺσ πλέον ἐνδομύχους διαλογισμούς μας· ἔχυνα δάκρυα τὴν νύκτα· ἀλλὰ τί ὄφελος; ὄσον αὔξανεν ἡ λύπη εἰς τὸ στῆθός μου, τόσον καὶ τὸ κατ´ἐμο῀ῦ μῖσος εῖς τὴν ἀσπλάγγων καρδίαν τοῦ πατρός.

ΦΙΛΙΠΠΟΣ
(ΠΡΑΞΙΣ Α´, ΣΚΗΝΗ Β´).
Op cit., p. 7.


Oggi forse nessuno segnerebbe queste parole, che restan belle anche nell’inesatta traduzione; ma allora dovettero piacere soprattutto per quel contrasto fra la passione e il dovere, che fu uno dei capisaldi dell’estetica romantica. Ho riletto da poco le tragedie dell’Alfieri e ci ho trovato ben altro da ammirare: una verità di sentimenti e una profondità di analisi psicologica, che forse i contemporanei non ci videro, e pregi tali da farci desiderare con impazienza un commento estetico, che, prescindendo da qualsiasi preconcetto e mettendo da parte i paragoni, sempre odiosi, col teatro francese, ci metta finalmente in grado di apprezzar come si conviene l’arte di questo grande poeta, troppo severamente e sommariamente giudicata in Italia e fuori.

Un secondo segno lo troviamo alla scena IV dell’atto II, terribile e potentissima scena. Le battute di dialogo comprese nella pagina segnata sono le seguenti:

ΣΚΗΝΗ Ε´
ΦΙΛΙΠΠΟΣ, ΓΟΜΗΣΙΣ.

ΦΙΛΙΠΠΟΣ.

Ἥκουσες;

ΓΟΜΗΣΙΣ.

Ἤκουσα.

ΦΙΛΙΠΠΟΣ.

Εἶδες;

ΓΟΜΗΣΙΣ.

Εἶδα. [p. 321 modifica]

ΦΙΛΙΠΠΟΣ.

Ὤ λύσσα! λοιπὸν ἡ ὑποψία; . . . . .

ΓΟΜΕΣΗΣ.

. . . . . Εἶναι βεβαιότης πλέον.
               κ. τ. λ.

(ΠΡΑΞΙΣ Β´, ΣΚΗΝΗ Ε´)
Op cit. p. 32.


Da principio ho supportato che il lettore conoscesse una delle tante caricature del verso alfieriano:

A. Sailo?
B.               Sollo.
A.                              Sassi per tutta Atene:


ma poi... no! sarebbe stato un far torto all’Alfieri. In quella sua spezzata brevità, quella scena è veramente potente: il nostro vecchietto l’avrà segnata per questo.

Non poteva mancare un segno alla scena II dell’atto V:

ΚΑΡΟΛΟΣ.

Τί βλέπω; σὺ βασιλίσσα τίς σ´ ὡδήγησεν ἐδῶ; ὤ! τί σὲ παρακίνησεν; ἔρως, καθῆκον; εὐσπλαγχνία; πῶς ἔλαβες τῆς ἄδειαν; κ. τ. λ.

(ΠΡΑΞΙΣ Ε´, ΣΚΗΝΗ Β´),
Op cit. p. 67.


L’Oreste, se non è rimasto intonso, non ha certo interessato di molto il lettore. Ad ogni modo, perchè si abbia il modo di giudicare dell’abilità del traduttore, che non mi pare eccessiva, daremo, qui un estratto anche dell’Oreste:

ΣΚΗΝΗ Τελευταία.
ΟΡΕΣΤΗΣ, ΠΥΛΑΔΗΣ, ΗΛΕΚΤΡΑ.

ΟΡΕΣΤΗΣ.

῀Ω διατί λυπημένος, φίλτατέ μου; δὲν ἡξεύρεις, ὅτι ἔσφαξα, ἐκεῖνον τὸν κακοῦργον; ἀκόμη στάζει αἴμα τὸ ξίφος μοῦ· ἰδέ. ἀχ, σὺ δέν ἔγινες κοινωνὸς τοῦ φόνου! ἂς κορτάσουν κἂν ἃ μάτια σου ἀπ´ αὐτὴν τὴν Θέαν.

ΠΥΛΑΔΗΣ.

῀Ω θέα! — Ὀρέστη, δός με αὑτὸ τὸ ξίφος. [p. 322 modifica]

ΟΡΕΣΤΗΣ

Διατί;

ΠΥΛΑΔΗΣ

Δόσμετο

ΟΡΕΣΤΗΣ

Λάβετο

ΠΥΛΑΔΗΣ

Ἀκουσέ με. - ἡμεῖς δὲν ἠμποροῦρεν πλέον μείνωμεν εἰς αὐτον τὸν τόπον· ἔλα...

ΟΡΕΣΤΗΣ

Ἀλλά τί;...

ΗΛΕΚΤΡΑ

Ἄ! ὁμίλησε· ποῦ εῖναι ἡ Κλυταιμνήστρα;

ΟΡΕΣΤΗΣ

Ἄφεστην· τώρα ἴσως καίει τὴν πυρὰν τοῦ προδότου συζύγουτης.

ΠΥΛΑΔΗΣ

ὑπερεκπλήρωσες τὴν ἐκδίκησιν· τώρα ἔλα μὴν ἐξετάζῃς περισσότερον

ΟΡΕΣΤΗΣ

῀Ω! τί λέγεις;

κ. τ. λ.

(ΠΡΑΞΙΣ Ε´, ΣΚΗΝΗ ΙΓ´).
Op cit. p. 90.



Sappiamo che il Filippo e l’Oreste furono tradotti per le rappresentazioni del 1819-20 da Iacovachi Rizo in collaborazione con un tal Monti13; ma, per quante ricerche abbaimo fatte, non ci è riuscito scovare il disgraziato copione andato a finire Dio sa dove. La traduzione, della quale ci siamo occupati, sembrerebbe a prima vista appartenente a un tal Χριστόφορος Κρατερός, se l’appellativo di ἐκδότης, dal quale questa indicazione è preceduta, non ci facesse nascere il sospetto che il buon Cristoforo non ne fosse che semplicemente l’editore. Ad ogni modo è proprio lui che dedica l’opera πρὸς τὸν εὐγενέστατον Γεώργιον Λεβεντήν interprete (greco) presso il consolato russo di Bucarest. [p. 323 modifica] Un suo compatriota dunque, e, a quanto è lecito supporre dall’aver egli accettata la dedica di un’opera di tal genere, affiliato a quella Ἐταιρία, che, largamente diffusa nei Principati danubiani, vi sparse i primi germi delle idee di libertà e di indipendenza al tempo stesso che preparava la riscossa della Grecia dal giogo secolare impostole dalla potenza mussulmana. Un certo odore di Ἐταιρία spira invero assai chiaramente dalle parole che seguono della dedicatoria: Ὅυχι σήμερον πρώτην φορὰν Φιλογενέστατε ΓΕΩΡΓΙΕ, ἐπληρωσες τὸ πρὸς τὴν πατίδα χρέος Σοῦ. Μάρτυρες τῶν λόγων μου εἶναι οἳ παρὰ Σοῦ τρεφόμενοι μαθηταὶ, καῖ οἱ σταλθέντες νέοι εἰς τὴν φωτισμένην Εὐρώπην, διὰ νὰ πολλαπλασιάσωσι τὰ φῶτα εἰς τὸ γένος. Ἔργα τῷ ὄντι γενναῖα καὶ πατριωτικά!„14

Di che patria intendeva parlare il buon Χριστόφορος? A mio vedere egli si riferiva alla Grecia, il che ad ogni modo non toglie, che, con la presentazione di quell’opera così bene accolta sulle scene di un teatro rumeno, egli non intendesse compiacersi col compatriota dei buoni successi, che l’Ἐταιρία aveva cominciato a ottenere nei Principati danubiani15. [p. 324 modifica]

β) Traduzioni rumene.

La seconda traduzione in ordine di tempo — e la migliore di tutte per gli alti intendimenti d’arte propostisi dal suo autore — è quella del Saul e della Virginia, che C. Aristia pubblicò a Bucarest il 1836, l’anno stesso della loro rappresentazione. Eccone il titolo preciso:

[Bibliotheca Academiei Române, S. 789].

DIN OPERILE | LUI | ALFIÉRI | tomul I | ΤρaΔυcε Δε K. ARISTIA. | BUKUREȘTI. | In tipografia luĭ Eliad. | 1836.

Segue una Precuvântare [Prefazione] manifestamente aggiunta dall’autore dopo che il volume era già stampato, per difendersi dalle critiche rivoltegli da Gh. Asaki nell’Albina Românească [L’Ape rumena] del 21 settembre 183916; poi una dedicatoria La prieten meu [Al mio amico] (I. Heliade-Rădulescu); quindi il Saul, infine la Virginia, dedicata Domnului marelui Logofăt, I. Vacărescul [Al Signor Gran Segretario I. Văcărescu].

Della breve polemica, sfuggita finora agli occhi degli studiosi, sia perchè non esplicita, sia perchè nessuno aveva osservato che quelle due paginette di prefazione sono state aggiunte a libro stampato, daremo notizia nelle pagine che seguiranno. Ora preferiamo riportare qualche brano della traduzione di Aristia, in modo che, in seguito, il lettore sappia a chi dar ragione: [p. 325 modifica] a Costache Negruzzi, che intorno ad essa scrive (1836) da Iași una lettera entusiastica alla Gazeta teatrului [La Gazzetta del teatro]; o a Gh. Asaki, che, tre anni dopo, nel foiletonul [appendice] dell’Albina Românească [L’Ape Rumena], insieme con alcune lodi che sembrano un po’ fatte a denti stretti, le rivolge delle critiche abbastanza severe, ed anche, se vogliamo, parecchio ingiuste. Riporteremo dunque il principio della tragedia e due o tre passi delle canzoni di Davide, che son quelli che maggior difficoltà offrivano al traduttore e sui quali in ispecial modo s’appuntan le critiche di Asaki.

SAUL.


ACTUL I

Scena I.

David.

Aci să ’mi opresc cursul, unde m’a ’mpins chiar mâna ’ți
E voea ta prea ’naltă, prea puternice Doamne?
Eu dar voiu sta aicea. — Văz munțiĭ Gelboé,
Pă ei tabără astăzi, stă frunte Israil
La spurcata Filistă — Măcar d’aș putea astăzi
Să ’ntîmpin aci moarte de sabie vrăjmașă!
Dar asta mi s’așteaptă numaĭ dela Saul.
A crude Saul, suflet prea nemulțumitor!
Prin peșterĭ și prin rupe daĭ nencetat năvală
Gonind tu p’al tău reazăm făr aĭ maĭ da răpaos.
                      ș. c. l.;

Da questi pochi versi, si potrà rilevare sì l’esattezza della traduzione quasi letterale, sì l’industria del traduttore rumeno di conservare per quanto gli riesca possibile, qualcosa almeno dell’armonia che hanno in italiano i bei versi dell’Alfieri. Richiamo sopra tutto l’attenzione del lettore sulle due spezzature così opportunamente conservate dei versi 3 e 5, nell’ultima delle quali l’emistichio la spurcata Filistă corrisponde perfettamente, anche per ciò che riguarda la posizione degli accenti, con quello del testo: sta dell’empia Filiste. Certo, nè: Văz munții Gelboè traduce bene: di Gelboè son questi i colli, nè l’efficacia e la passione di quel magnifico verso: Ahi crudo, dispietato Saul (con quei due aggettivi che s’incalzano per [p. 326 modifica] confondersi da ultimo in un sol grido d’invocazione disperata insieme ed affettuosa) son conservate nella traduzione rumena: A crude Saul, suflet prea nemulțumitor!

Ma questi son nèi che facilmente si perdonano, quando si conoscono le altre traduzioni e la difficoltà di trasportare in una lingua, che è senza dubbio la più povera e la meno letteraria di tutte le altre sorelle, i versi di un poeta come l’Alfieri, nutrito della più classica poesia italiana e latina, ammiratore del Petrarca, rifuggente da ogni facile armonia, originale sempre pur nelle volute durezze.

Ma dove Aristia si mostra traduttor scrupoloso fin nel rendere i più lievi particolari e incontentabile artista, è nella traduzione dei brani lirici, che formano una delle attrattive e degli ornamenti migliori di questa che va meritamente fra le tragedie più elette dell’Alfieri. Qui le difficoltà eran davvero non poche e Aristia ha saputo, a mio vedere, felicemente superarle. Vedremo in seguito quanto ci possa essere di giusto nella critica di Asaki. Leggiamo ora il brano seguente che corrisponde a quello che nella tragedia dell’Alfieri incomincia: Pace si canti, e rendiamo giustizia al traduttore rumeno, che è dei pochissimi, che si sian resi conto in Rumania dei doveri i quali s’impone e delle difficoltà cui va incontro chiunque voglia accingersi alla traduzione d’un classico italiano (specie se poeta e poeta grande come l’Alfieri) in lingua rumena, quando, s’intende, voglia preoccuparsi delle ragioni dell’arte e non si contenti di dare a’ suoi connazionali, come anche oggi purtroppo avviene assai di frequente, un’idea troppo invero languida e sbiadita delle bellezze del testo.


David.


                       Noĭ pace să cântăm.
Viteazu luĭ Dumnezeu, ostenit și înncetat,
La pârâul cel dorit pe mal șade răsturnat,
Il mângâe fiul său, de povara lui oftând,
Și se ’ncântă mulțumit întoarcerea sa văzând,
S’aude fiește care
De o bucurie mare
                      Lacrămi nencetat vărsând.
Una scumpa fiĭcă sa coiful fulgerând îĭ ia;
Soția sa, mult iubind, se grăbește a ’l săruta.

[p. 327 modifica]

Alta pulverea, sudorĭ dupà fruntea luĭ ștergând
Mirezme ’ĭ varsă cu lor mâna ’ĭ dulce sărutând
Alerg toate să ’l sărute,
Prea miloase să ’l ajute,
                      A se ’ntrece cugetând.
Dar fecioriĭ, neam maĭ bun, la alt lucru maĭ răvnos,
Unul va lume a ’ndrepta, șterge paloș singeros
Altu strigă: când s’ajung să mă fac si eu yoĭnic
Suleța ast’a repezi, căci acuma sûnt nimic!
Altu iar dxilce glumește
Cu pavăza se ’nvălește
                      Și se bucură ’l maĭ mic,


  Că Saul el este suflet
La neamul său, el o știe;
Iată ’n lacrăme se ’mmoaie
Dă nespusă bucurie.

  Frumoasă este pacea,
E dulce lăcuința
Colo, unde credința
Și prea curat amorul
In preajma ta s’a pus.

  Dar soarele apune,
Și ori ce zefir tace!
In liniște și ’n pace
Doarme ’mpăratul dus.

A mostrar gli erculei sforzi del traduttore per ridare tutte le bellezze della tragedia alfieriana (anche quelle che le derivano dall’armonia del verso e della strofe) basterebbe invero questa sola citazione; voglio ad ogni modo riferire a titolo di curiosità, un brano della canzone seguente, dove le rimalmezzo rendono più che mai difficile una traduzione ritmica17.

I versi che riporteremo corrispondono a quelli bellissimi dell’Alfieri, che incominciano: Veggio una striscia di terribil fuoco:

     Văz o volvoare grozav întinde focul,
Puterea-i e locul — pizmașelor scadroane.
Negre batalioane — de sânge vopsite

[p. 328 modifica]

Arme Israilite. — Praștia svâcnește
Piatra năpădește — cât este de rece
Ca trăsnet petrece — dar maĭ iute sboară
Sabia omoară— când o mânuește
Cel ce biruește. — Pajărea cea mare
A domnuluĭ prea tare — pe globu se ’ntinde
Pămîntul coprinde — stinge, prăpădește
Pe ceĭ ce orbește — la Zeĭ sa ’nchinară,
Ce eĭ înălțară. — P’acest viteaz foarte
Urmez de departe.
Filisteul isgonesc,
Îl sosesc, îl răspândesc,
Îl dobor mort la pământ;
Dovedesc că ’n câmpul nostru
Numai două săbiĭ sunt.


La scena di geloso furore che tien dietro a queste parole un po’ arrischiate di David, è ridata assai bene nella traduzione rumena, tanto che leggendola ho sentito invadermi dal medesimo brivido di commozione, che ho sempre provato quando l’ho letta nel testo. Forse, confrontando parola per parola, e frase per frase i versi rumeni con quelli italiani, si finirà pure col trovar parole ed espressioni che non rendono abbastanza felicemente le bellezze del testo alfieriano; ma è chiaro che, seguendo un tal metodo, non c’è traduzione che non offra il fianco alle critiche più acerbe, mentre un tal genere di lavori va giudicato piuttosto dal punto di vista dell’impressione complessiva, che non da quello della perfetta coincidenza dei particolari. Del resto, la traduzione di Aristia parve addirittura un miracolo a qualcuno, che di lingua, letteratura e versificazione rumena s’intendeva pure un pochino: voglio dire a Costache Negruzzi, uno cioè dei fondatori della prosa rumena, poeta non disprezzabile, conoscitore di teatro, autore drammatico egli stesso, ed in grado perciò di poter apprezzare meglio di ogni altro il coraggioso tentativo del traduttore del Saul. Troviamo infatti nel n. 12 della Gazeta teatrului național dell’anno 1836, due lettere del Negruzzi piene della più entusiastica ammirazione per l’opera condotta a termine da Aristia.

Riproduciamo per intero la prima di queste lettere, nella quale il Negruzzi si mostra, fra l’altro, abbastanza informato della lingua e della letteratura italiana, che del resto intorno a quell’epoca Heliade aveva messo di moda in Rumania: [p. 329 modifica]

Signor mio!

Giorni sono ho avuto il piacere di sentir leggere ad una soirée letteraria alcuni brani della tragedia Saul tradotta dal signor Aristia. Incaricato da alcuni amatori (del teatro) di farmi presso il sig. Traduttore interprete dei loro sentimenti di riconoscenza per aver arricchito la nostra letteratura di questo gioiello, credo mio dovere comunicarle l’opinione dei moldavi intorno a quest’opera e di unir la mia voce a quella di tutti coloro che sentono che cosa è il bello, per tributare al talento del sig. Aristia la lode che gli spetta.

Un favolista, non ricordo più quale, afferma che la traduzione sta all’originale come la luna al sole. Può darsi che in un certo senso egli abbia ragione, quando intenda di quelle traduzioni, i cui autori, per pigrizia o ignoranza, trasportano col dizionario alla mano ad una ad una le parole da un dialetto all’altro (per Negruzzi che seguiva la teoria italianizzante di Heliade, il rumeno non era che un dialetto dell’italiano) senza darsi pensiero dello stile e degli idiotismi e fanno un pasticcio ch’essi soli son buoni a capire. Ma — per lo iddio Apollo! — altro è scrivere pappagallescamente armato d’un dizionario, altro ridar nella propria lingua le idee e il senso di un autore straniero.

Il sig. Aristia, scrivendo nello stile più acconcio e armonioso, ha tradotto il Saul come lo stesso Alfieri non avrebbe saputo far meglio, se avesse conosciuto il rumeno e avesse voluto fare ai Rumeni il dono delle sue tragedie. Noi compiangiamo Saul tanto sventurato sotto la sua porpora; Saul frenetico, dal quale s’è allontanata la mano del Signore; ci commuove la giovinezza di Micol; ci rapisce l’amicizia di Gionata; amiamo la mansuetudine di David! Quanta pietà in quella risposta:

A dargli gloria il nomo.....

Chi non si è sentito tremare il cuore (di commozione) a queste pindariche strofe:

Bella è la pace! ecc., ecc.

In una parola, leggendo Aristia, noi leggiamo Alfieri medesimo, e se nel testo italiano la tragedia dell’Alfieri sembra più [p. 330 modifica] bella, gli è perchè la lingua del Tasso è forse più dolce e grata all’udito che non sia la rumena sua sorella, perchè non è andata soggetta alle invasioni che hanno snaturata quest’ultima, prendendo da essa alcune voci e costringendola ad accettarne delle altre repugnanti alla sua natura! Pure essa non muore, anzi

Come il fuoco
In chiuso loco
Tutto mai non cele (sic) il lume....,


comincia a far risplendere la sua luce, attraverso le fessure stesse del suo carcere di ferro, ed Heliade ed Aristia intrecciano le fresche corone, delle quali adornano le trecce d’oro della musa Daco-rumena.

Il piacere che ci ha procurato la lettura del Saul, ci fa aspettare con impazienza altri nuovi lavori del sig. Aristia.

Ho l’onore ecc.

k. negrutzi.


Questa lettera del Negruzzi è tale, che merita — o m’inganno — un po’ di commento. Rileviamo da essa, in primo luogo, ch’egli non esprime soltanto delle opinioni sue, ma si fa interprete presso Heliade e i lettori della Gazeta teatrului dell’ammirazione se non di tutti i moldavi (com’egli dice esagerando un pochino) di quegli amatori del teatro, ch’erano stati presenti alla lettura, di cui ci parla in sul principio. Sia pure che il Negruzzi esageri qua e là per ragioni di scuola e di lotta (eran quelli i giorni in cui Heliade combatteva le sue più ardenti battaglie a prò dell’italianismo, assecondato appunto dal Negruzzi), sia pure che convenga perciò fare un po’ di tara alle lodi che il letterato moldavo largisce alla traduzione del Saul; una cosa è certa, che, quando un uomo come il Negruzzi ci parla di essa come di un vero „gioiello”, del quale Aristia ha adornato la letteratura rumena, e giunge fino al punto di affermare, che, „scrivendo nello stile più acconcio e armonioso”, Aristia „ha tradotto il Saul come lo stesso Alfieri non avrebbe saputo far meglio, se avesse conosciuto il rumeno e avesse voluto fare ai Rumeni il dono delle sue tragedie”; una traduzione simile deve pur rappresentare qualcosa di ben importante e di ben raro [p. 331 modifica] a quei tempi, sì dal punto di vista della fedeltà, che da quello dell’arte.

Quando infatti il Negruzzi ci parla di traduttori, che, „o per negligenza o per ignoranza, muniti del loro bravo dizionario, trasportan meccanicamente una per una le parole da una lingua in un’altra, senza darsi pensiero dello stile o farsi scrupolo d’usar ogni sorta d’idiotismi, manipolando un pasticcio ch’essi solo son buoni a digerire“; mette disgraziatamente il dito sulla piaga. Ben diversa era la traduzione di Aristia! Leggendola „noi siamo tratti a compiangere il povero Saul tanto sventurato sotto il suo manto di porpora; Saul frenetico, dal quale s’è allontanata la mano del Signore; ci commuove la giovinezza di Micol; ci rapisce l’amicizia di Gionata; amiamo la mansuetudine di David! “Quel favolista, non ricordo più quale, che affermò la traduzione stare all’originale come la luna al sole, può aver avuto ragione se ha inteso parlare di quei tali traduttori all’ingrosso, dei quali abbiamo parlato poco fa; torto marcio nel caso presente. „Se c’è qualcosa infatti in questa traduzione che possa far desiderare il poeta italiano piuttosto che il traduttore rumeno, ciò dipende”, secondo il Negruzzi, „unicamente dalla maggior dolcezza della lingua italiana (la lingua del Tasso dice lui) in confronto della sorella sua: la rumena, che, da circostanze storiche e politiche, si vide costretta ad inquinare il suo fondo latino con voci e costrutti d’origine diversa“.

Così pensa il Negruzzi e termina con delle parole, che sono una vera e propria professione di fede nel tentativo di Heliade (e di Aristia) di sostituir gradatamente le parole d’origine slava con altrettante italiane rumenizzate.

Conchiudendo, e fatta la debita tara alle lodi, è fuor d’ogni dubbio che la traduzione del Saul di Aristia fu, per quei tempi, un vero e proprio avvenimento letterario, tanto più che, a traduzioni eseguite con tanta diligenza ed ispirate a un così alto ideale artistico, non si era avvezzi davvero. Lo stesso Heliade, che passava allora per il più gran conoscitore della lingua e della letteratura italiana, abborracciava un pochino, e, non di rado, fraintendeva addririttura il suo testo. Gli altri non facevan di meglio: imitavano e localizzavano, piuttosto che tradurre, e, spesso, non citavan neppure l’autore, dal quale prendevan le mosse. Ciò non per mala fede o perchè credessero di plagiare, [p. 332 modifica]ma perchè al loro scopo, ch’era assai meno la fama individuale, che la propaganda politica e letteraria, importava assai poco lo spiattellare che si trattava di una traduzione dal tale e dal talaltro autore straniero, il che poteva in certi casi togliere persino efficacia agli scritti che pubblicavano, e nuocere al fine che si proponevano di raggiungere. Eran quelli momenti di una febbrile attività politica, patriottica e letteraria: tutto era da fare, di tutto bisognava gettar le fondamenta. Basta dare uno sguardo al programma della Bibliotheca Universală per farsi un’idea della fatica gigantesca, che Heliade e i suoi compagni si erano assunta. La Bibliotheca rimase un sogno, ma l’attivittà incredibile di quelli che l’avevano promossa seppe fare di più e di meglio. Come per una tacita intesa, le traduzioni dal’italiano, dal francese, dal tedesco, dall’inglese, persino dallo spagnolo piovvero da ogni parte, accolte con entusiasmo da Heliade nel suo Curier de Ambe Sexe, nel Curierul românesc, e persino nella Gazeta teatrului, dove appunto vide per la prima volta la luce la traduzione del Saul. In breve il popolo rumeno ebbe a sua disposizione una piccola enciclopedia di capolavori letterari e scientifici, di cui potersi servire per educare lo spirito alle prossime feconde lotte civili. Naturalmente tutta questa produzione letterario-politica a scopo divulgativo (non escluse le traduzioni che n’erano anzi pars magna) fu necessariamente altrettanto scadente di qualità, quanto abbondante in quantità. Non è strano perciò che la bella traduzione di Aristia suscitasse degli entusiasmi, che potrebbero persino sembrarci eccessivi. Tutti son rimasti incantati” — scrive in un’altra sua lettera ad Heliade il Negruzzi — „dell’eleganza de’ versi del signor Aristia. — I canti o salmi di David cacciavan lo spirito maligno che affliggeva Saul....“18. Ed era vero, chè troppo la traduzione di Aristia differiva dalle solite altre19 di carattere puramente divulgativo, per pregi d’arte, di [p. 333 modifica] stile, di fedeltà, imponendosi col suo valore, tutt’altro che apparente, al rispetto e alla stima di quelli stessi che la criticavano.

Alludo ad Asaki. La sua critica mira infatti piuttosto ad Heliade e all’indirizzo italianizzante, che ad Aristia e alla sua traduzione del Saul; non gli si può dar torto, in quanto tende a mostrare tutte le disastrose conseguenze di quell’artificioso ideale linguistico che vegheggiava Heliade; ma non si può non sorridere, vedendo la sua prosa tutta piena di quelle medesime parole italianizzanti contro le quali parte in guerra con tanto patriottico ardore20. Stringi stringi, la sua critica si riduce alle innovazioni metriche introdotte dal suo connazionale per conservare il più che gli fosse possibile persin l’armonia de’ versi italiani e all’eccessivo scrupolo di mantenersi fedele al testo dal quale traduceva e del quale apprezzava degnamente sì la nobiltà [p. 334 modifica] dell’intento che lo splendore della forma. Del resto Asaki, non solo riconosce l’enorme difficoltà dell’impresa con tanto coraggio affrontata da Aristia, ma, e nel tono sereno e garbato dell’articolo, e nelle lodi che pur rivolge al traduttore, mostra abbastanza chiaramente di stimarne l’ingegno e d’ammirare l’altissimo fine artistico che si proponeva raggiungere.

Riassumo brevemente l’articolo di Asaki, citando delle sue parole solo quanto mi sembra necessario a mettere il lettore in grado di convincersi, che proprio a lui intende alludere Aristia nella prefazione aggiunta alla sua traduzione della Virginia e del Saul.

Asaki dunque comincia col rilevare, come dopo un lungo intermezzo (1836-38), durante il quale, l’abbiam visto, non s’erano rappresentate che opere in francese; finalmente, il 16 settembre 1839, la lingua rumena fosse tornata a partecipar degli onori del palcoscenico con gran soddisfazione di quanti s’interessavano alle sorti del teatro nazionale. Dopo un breve giudizio intorno alla tragedia alfieriana divenuta ormai la bandiera di combattimento dei patrioti rumeni, — non mi pare indifferente che le rappresentazioni in lingua rumena cessate col Saul il 1836, fossero col medesimo Saul riprese a Iași tre anni dopo —, Asaki passa ad occuparsi della traduzione di Aristia, della difficoltà che presentava, di come Aristia le abbia superate, del metro prescelto, che gli sembra confarsi poco all’indole della versificazione rumena. Ecco le sue parole: „Ora, poi che la poesia di Alfieri è tanto sublime, adorna ed eccellente, senza paragone, direi, nella lingua italiana; alquanto difficile è dovuto riuscire al traduttore rumeno il cercar di produrre i medesimi effetti che l’autore (italiano) si riprometteva di produrre. Non crediamo che il problema sarebbe stato impossibile a risolvere, se alle difficoltà dell’originale il sig. traduttore, pieno di buona volontà, non ne avesse aggiunte delle altre, accingendosi alla fatica assolutamente erculea di tradurre il testo (anzi le sillabe) della tragedia alfieriana dal verso italiano in quello rumeno“. Il primo appunto di Asaki è dunque che Aristia, quasi non gli bastassero le difficoltà gravissime che gli offriva il testo alfieriano, avesse voluto accrescerle, proponendosi una fedeltà eccessiva. Non occorre dire che di ciò noi gli facciamo un merito. Ognuno sa come il serbar certe particolarità metriche giovi nelle traduzioni [p. 335 modifica]poetiche. Uno infatti dei principali difetti della traduzione rumena della Divina Comedia intrapresa dal Gane è appunto quello di aver rinunziato al tentativo (che io ritengo possibilissimo) di riprodurre in rumeno la terzina21; uno dei pregi migliori della buona traduzione che ci ha dato il Chini di Mirejo è d’averle conservato il suo caratteristico metro. Ma non anticipiamo e soprattutto non divaghiamo. Ecco degli altri appunti alla traduzione del Saul che riguardano più da vicino la versificazione e la metrica: ,,La scelta del metro ci pare infelice. Tutti sanno che la versificazione delle lingue derivate dal latino ha per fondamento la rima, e che il verso eroico in rumeno è di 16 sillabe. I versi giambici, trocaici, dattilici, sia del tipo italiano, sia di quello francese, non piacciono al nostro orecchio (di rumeni) e son troppo corti perchè possano esprimere completamente un’idea. Di modo che chiunque si propone (da noi) di servirsi d’una qualsiasi di queste forme metriche straniere, viene a porsi sul collo un giogo troppo grave, che, invece di farlo camminare a passo (ritmicamente), lo costringe a zoppicare, anzi, talvolta, a far dei salti per giungere in tempo alla fine (del verso). Perciò è costretto a far uso troppo frequente di contrazioni e di elisioni che rendono oscure e incolori le idee più belle, mentre l’orecchio, ferito da tante cacofonie, non riconosce più l’armoniosa sorella (della nostra lingua): la lingua italiana”. Qui francamente non si capisce bene che cosa intenda Asaki rimproverare ad Aristia. L’uso di un verso troppo corto? Ma un verso di 14 sillabe, di tipo giambico, non si può dir corto davvero, e non era neppure una novità. Sta bene che il verso eroico rumeno sia alquanto più lungo (16 sillabe); ma, francamente, non so vedere come mai due sole sillabe di meno possano produrre tutti quei guai che Asaki attribuisce all’uso d’un metro troppo corto. Non [p. 336 modifica]perderemo altre parole a confutare la curiosa teoria dell’Asaki, secondo il quale i versi corti sul tipo italiano e francese metterebbero il poeta rumeno in grande imbarazzo. Anche quest’affermazione è contraddetta dai fatti. Durante l’imperversare della procella romantica, s’imitarono in Rumania con successo ogni sorta di metri — di corti e di lunghi — italiani, francesi e persino spagnuoli, senza che ne risultassero tutti gli inconvenienti che lamenta il critico dell’Albina românească, senza dire che, prima ancora che il Romanticismo richiamasse sull’Italia e la sua letteratura l’attenzione dei letterati rumeni e prima che s’iniziasse il movimento italianizzante promosso da Heliade, un antico poeta e diplomatico rumeno vissuto a lungo alla corte di Vienna (Ienăchiță Văcărescu) aveva composto — come abbiam visto — canzonette metastasiane e rolliane un po’ svenevoli, un po’ insipide, ma impeccabili addirittura per ciò che riguarda la riproduzione del metro22. Dunque? Dunque seguitiamo per ora a riassumere [p. 337 modifica] le critiche di Asaki e poi conchiuderemo. Dopo un lungo paragone non privo di virtuosità letterarie, che posson anche piacere, ma ad ogni modo non ci riguardano, fra la lingua rumena, che molti vorrebbero costringere a prendere atteggiamenti che non le si convengono e una bella contadinotta della quale un innamorato cittadino si sia fitto in capo di fare, da un momento all’altro, un modello d’eleganza parigina; Asaki (che in fondo era anche lui un italianizzante, e aveva sulla coscienza non pochi sonetti arcadicamente petrarcheschi ed altre bazzecole scritte in italiano) conchiude che molto più saggio gli sembrebbe se l’innamorato si consigliasse di portarsi prima in città la sua contadinotta vestita de’ suoi abiti campagnuoli, e, solo quando la vita e il nutrimento della città l’abbiano alquanto trasformata „dai primi sembianti”, incominciasse, adagio adagio, a vestirla degli abiti alla moda. „Un simile sistema mi sembra maggiormente adatto alla coltivazione della lingua rumena, che da pochi anni è entrata a far parte della società delle dame europee e che un rapido e sproporzionato sviluppo, congiunto con le storpiature (delle quali si è parlato), potrebbero render deforme per tutta la vita. Un Saul rumeno redatto secondo tali principii, sarebbe forse riuscito un po’ più lungo, ma, con ogni probabilità, anche più intelligibile, più armonioso e non si sarebbe contaminato di parole corrotte. Ciò non ostante, non possiamo revocare in dubbio che il traduttore, dopo essersi lasciato adescare dall’idea di un’impresa grandiosa, avrebbe posseduto anche l’ingegno necessario per condurla felicemente a termine, se si fosse lasciato guidare da principii meno pretenziosi”.

Alla buonora dunque! C’intendiamo perfettamente. Le accuse di oscurità e di durezza non ci son nuove, ma sappiamo che riguardali l’Alfieri, sicchè possiamo assolverne Aristia! Quanto all’aver usate nella sua traduzione parole „spurcate” abbiam visto che Aristia avrebbe potuto rispondergli: Medice, cura te ipsum. Aggiungeremo che „cuvinte spurcate” allora ne [p. 338 modifica] usavano tutti, che la Rumania ha come l’Italia la disgrazia di possedere anch’essa una questione della lingua, che, incominciata coi primi vagiti letterarii, dura ancora; che non è poi vero che Aristia usi troppi barbarismi nella sua traduzione del Saul. Le critiche dunque cadono l’una dopo l’altra davanti all’evidenza dei fatti che le contraddicono; restan le lodi, fatte, è vero, un po’ a denti stretti, ma che, appunto per ciò, acquistano un valore più grande.

E dire che Asaki avrebbe potuto meglio di ogni altro darci dell’opera compiuta da Aristia un giudizio equanime e sereno! Egli che era stato in Italia quasi tre anni (1809-11), che conosceva a menadito la lingua e la letteratura italiana, che aveva preso parte attiva nella vita letteraria romana, che custodiva nel cuore come una gemma l’amore per una italiana (Bianca Milesi) ferventissima ammiratrice dell’Alfieri ed in relazione colla contessa d’Albany, egli che si era trovato in Italia nei momenti di maggiore entusiasmo alfieriano, e, (se non altro per averne sentito parlare dalla sua Bianca), doveva meglio di ogni altro in Rumania conoscere l’Alfieri; egli che avrebbe potuto scrivere un ottimo e utilissimo articolo biografico e critico e confrontar la traduzione di Aristia coll’originale italiano; egli non fa nulla di tutto ciò e preferisce arrampicarsi agli specchi, per trovarvi delle mende, che, anche se ci fossero, non iscemerebbero il valore di un’opera letteraria, che in fin dei conti egli stesso è costretto ad ammirare Probabilmente le lodi, non direi certo esagerate ma un po’ troppo rumorose, tributate ad Aristia da Heliade e Negruzzi dovettero urtare un tantino contro il carattere alquanto scontroso e caustico di Asaki. Coloro che l’han conosciuto lo descrivono un po’ come invaso dello spirito di contraddizione, acuto e tagliente nei giudizii, se non proprio un po’ cattivo come pure un illustre studioso di cose rumene me lo definiva. Niente di strano dunque che le due lettere del Negruzzi, e specie la seconda in cui si diceva che tutti a Iasi eran rimasti incantati della bellezza dei versi di Aristia, avesse provocato in lui quella specie di reazione anche a una certa distanza di tempo. Non se ne meravigli il lettore, o mostrerebbe di non sapexe di che sia capace la bizza in un letterato!

Del resto è lecito supporre che in quei giorni, a proposito della réprise moldovana del Saul, le lodi tributate al traduttore [p. 339 modifica] della tragedia alfieriana dopo la rappresentazione del ’36, fossero un po’ sulle bocche di tutti, si ricordassero le due lettere del Negruzzi, nelle quali s’informavano i lettori della Gazeta teatrului degli entusiasmi prodotti tre anni prima da una semplice lettura della traduzione di Aristia, e Asaki intendesse buttare un po’ d’acqua sul fuoco, sembrandogli (e non possiamo in questo dargli torto) che il Negruzzi avesse in quelle sue lettere esagerato alquanto quegli entusiasmi.

Quel che più dovette dar sui nervi ad Asaki, moldovano puro sangue e come tale un po’ geloso delle tradizioni letterarie della sua terra, dovette essere l’atteggiamento assunto dal Negruzzi di farsi portavoce dell’opinione pubblica non solo di Iași, ma di tutta la Moldova, mentre, in fin dei conti, non aveva sentito leggere che solo „alcuni frammenti” della traduzione di Aristia, e questi in una riunione letteraria, cui necessariamente dovette assistere un pubblico assai limitato d’intervenuti.

Con tutto ciò, il tono dell’articolo è interamente sbagliato, le critiche insussistenti e talvolta puerili, le lodi fatte a denti stretti. Aristia dovette tanto più aversene a male, quanto più appariva manifesto, che il suo critico non era in buona fede, quando gli faceva colpa di ciò ch’era invece il merito maggiore della sua traduzione: la fedeltà all’originale dell’Alfieri23.

Il volume, è vero, era stampato fin dal 1836, ma probabilmente ad Aristia rimanevano quasi tutte le copie, giacchè gli avvenimenti di quell’anno, e soprattutto la chiusura del Teatro Nazionale, determinata appunto dai sospetti cui aveva dato [p. 340 modifica] luogo l’inatteso strepitoso successo della tragedia alfieriana; dovettero consigliar prudenza a chi l’aveva tradotta, non meno che agli altri promotori del Teatro Nazionale. Abbiamo già visto che il Principe Ghica, che pure da principio se n’era dichiarato sostenitore, per non essere coinvolto nello scandalo e non destar sospetti nel governo russo, finì col ritrarsi e negare l’aiuto pecuniario concesso alla Società Filarmonica, onde è a credere, che, se di prudenza stimò in quell’occasione doversi armare il Principe, tanto più dovè ritenere doversene armare Aristia, che pensò differire la pubblicazione del volume a tempi migliori. Solo così, penso, si può spiegare, a distanza di tre anni, l’inserzione del foglietto, in cui, a mo’ di Prefazione e senza neppur accennare ad Asaki, Aristia si difende dalle critiche dell’Albina24 .

A quei tempi la Prefazione del Quijote era conosciuta in Rumania. Heliade l’aveva tradotta nel suo Curierul românesc ed era, com’è naturale, piaciuta. Niente di strano dunque che quella di Aristia ne risentisse, almeno in quanto, a lui timoroso che l’opera sua non incontrasse, un amico dava incoraggiamenti e consigli che lo facevano risolvere ad affrontare il giudizio del pubblico.

Fin dalle prime parole, l’intenzione di ribatter le critiche dell’Albina appare evidente. Asaki infatti, dopo aver fatto le lodi più ampie e più entusiastiche della tragedia dell’Alfieri, ne aveva tratto come naturai conseguenza, che una poesia come quella del Saul doveva presentare al traduttore rumeno delle difficoltà addirittura insormontabili, specie quando avesse la pretesa di non discostarsi dal suo originale e tradurre il testo alfieriano sillaba per sillaba in versi rumeni.

Ed Aristia a difendersi: — „Il compito che mi sono assunto è, questo è verissimo, tutt’altro che facile, ma non è poi [p. 341 modifica] impossibile a disimpegnare“, „Muncă ’ndrăzneață ’mi am propus a traduce pe Alfieri; incă nu și zadarnică”.

E, continuando: „Limba rumânească ’mi e dragă, este priimitoare de noutăți, precum este iubitor de stremi și rumânul”. Queste parole sarebbero assolutamente strane, qualora non si riferissero alle critiche dell’Albina. Chi infatti poteva mai dubitare di cose tanto evidenti? Ma Aristia era stato accusato nientemento che di svisar l’indole della versificazione rumena, e d’aver introdotto parole „spurcate” nella sua traduzione del Saul. Ecco dunque la necessità di difendersi. — „Voglio bene anch’io alla mia lingua; solo non la ritengo cristallizzata al punto da non poter assumere nuovi atteggiamenti. Al contrario, anzi. Come in generale il rumeno è ospitale cogli stranieri, così anche la lingua rumena accoglie facilmente le novità — La difesa non è troppo abile, tanto è vero che difenderci è difficile anche quando le colpe apposteci non abbian neppur l’ombra della verisimiglianza! Anche meno ci convincono le righe seguenti, in cui Aristia vorrebbe darci a intendere, che nessun’altra lingua si presti meglio della rumena a ridar tutte o quasi le bellezze di un testo italiano in genere e alfieriano in particolare! Povero Aristia! Lui che aveva compiuto davvero uno sforzo erculeo a tradurre in versi rumeni la più finita delle tragedie alfieriane, eccolo, per difendersi dagli attacchi di Asaki, a dimostrare che quanto ha fatto non è che la più facil cosa del mondo! Sentitelo: „Lo stile alfieriano si confà alla lingua rumena meglio che ad ogni altra lingua. I costrutti robusti, la misura, l’esattezza, la cadenza son tutte cose la cui bellezza non si può conservare traducendo dal greco antico, dall’italiano e da altre lingue, come si riesce a conservarle in rumeno tali quali sono nell’originale”. E a prova di quanto afferma, cita le numerose traduzioni in versi e in prosa dal greco antico, dall’italiano e dal francese in greco moderno, che non si azzarda ancora a pubblicare, perchè (dobbiam credere) non gli finiscono di persuadere. Che il greco moderno, e specialmente quello parlato di cui intende dire Aristia, si presti meno del rumeno a chi si proponga tradurre dall’italiano o dal francese o da qualunque altra delle lingue neolatine non saremo noi a negare; ma che lo stesso si possa dire per chi si proponga di tradurre dal greco antico, non ci sentiremmo di affermare. Ci son poi le altre lingue che Aristia [p. 342 modifica]dimentica, dopo averle posposte alla rumena: la francese per es. e la spagnuola, che assai meglio della rumena si prestano a tradurre dall’italiano. Ma insomma il nostro scopo non è di discutere le opinioni di Aristia intorno al rumeno, ch’è per lui la lingua ideale de’ traduttori; ma di mostrare come il poveretto cerchi difendersi colle mani e coi piedi dagli assalti di Asaki; che, assai più abile di lui in artificii polemici, da una verità indiscussa come quella della difficoltà enorme che ad un traduttore rumeno offrono certi testi italiani, trae la conseguenza che Aristia, proponendosi di tradurre in versi anche le sillabe del Saul, abbia temerariamente accresciute quelle difficoltà già gravi di per sè stesse, facendo sì che la sua traduzione, per tenersi stretta all’originale, perdesse ogni sapore di buona lingua rumena.

Gli accenni ad un critico malevolo s’incalzano nelle righe che seguono: L’autore si rivolge al lettore e fra l’altro gli dice: „I Greci dicono: „Ἀνδρὸς καρακτὴρ ἐκ λόγου γνωρίζεται“: il carattere dell’uomo si conosce dalla parola. Scusami se dico anch’io: „Κάλαμος φιλολόγου κριτικὴν ἀποφαίνει“ la penna del letterato conferma la critica. Altro è parlare, altro prender la penna e mettersi in pubblico a condannar gli altri e raccomandare sè stesso. Io desidero correggermi (di quanto ci possa essere di errato) in questo mio lavoro, come ho fatto per gli altri, nei quali ho seguito il consiglio di uomini che han rinunziato ad ogni piacere per l’utile comune”. A questo punto interviene l’amico, che, a dargli coraggio, lo esorta a non darsi pensiero di certe critiche dettate dal malanimo o dallo spirito di contraddizione di chi in vita sua non ha imparato che a maledire e a criticare, facendoci un così vivo per quanto esagerato ritratto sì morale che fisico di Asaki da toglierci ogni dubbio, se mai ce ne rimanesse qualcuno, intorno all’intenzione di Aristia di ribattere nella prefazione aggiunta al Saul le critiche mossegli sull’Albina dal letterato moldavo. „Non tender l’orecchio“ — mi dice un amico — „a quanto potresti udire da quelli che non hanno mai appreso in vita loro a dire una parola di bene, non fissare lo sguardo su quei che guardan bieco con gli occhi infossati in un cranio di delinquente, non affliggerti quando ti vedi contraddetto con consigli accompagnati da sorrisi amari’, ecc.”. Potremmo continuare, chè l’amico non si tace così presto [p. 343 modifica] come qualcuno potrebbe pensare, ma, nelle poche righe che abbiamo riferite, l’espressione del volto e, più ancora, dello sguardo di Asaki, quale lo conosciamo dai ritratti e dalle fotografie riprodotte nella bella memoria del Dott. Istrati25, si rispecchia così al naturale (coloro che guardano bieco, con gli occhi infossati in un cranio di delinquente) e, d’altra parte, l’accenno ai consigli accompagnati da sorrisi amari si attaglia così bene al tono e alla sostanza dell’articolo dell’Albina; che non crediamo doverci spendere un maggior numero di parole.

Ai conforti dell’amico, Aristia naturalmente riprende coraggio e si decide a pubblicare la sua traduzione: „Con queste parole il mio vero amico mi ha riscaldato il cuore, mentre mi sentivo un sol pezzo di ghiaccio, ecc.”.

Insomma: Ende gut, Alles gut. A marcio dispetto di tutti gl’invidiosi, di tutti i malevoli e delle critiche piuttosto aspre che no, contenute nell’articolo di Asaki, la traduzione del Saul condotta a termine da Aristia, non solo, come abbiam visto, riscosse allora le lodi generali degl’intenditori di poesia e di teatro, ma, quel che più importa, va annoverata anche oggi fra le traduzioni migliori, che di autori italiani abbiamo in lingua rumena. Che anzi, mentre regge benissimo il confronto con la traduzione francese del Trognon, che è la migliore ch’io conosca delle tragedie dell’Alfieri, è indubbiamente superiore sì alla traduzione greca del Filippo e dell’Oreste del Kρατερός, che all’indegno raffazzonamento del Pétitot, che pur godette di tanta diffusione.

Citerei volentieri qualche brano della Virginia che Aristia tradusse con egual cura del Saul in versi rumeni che a me sembrano impeccabili, per quanto si possa scommettere che ad Asaki avrebbero fatta diversa impressione; ma oramai incomincio a temere di stancare sul serio con l’attenzione anche la pazienza del lettore e passo senz’altro a esaminar la terza e ultima traduzione in ordine di tempo, cioè quella del Filippo e dell’Oreste, pubblicata a Bucarest dal Marcovici il 1847.

È un elegante volumetto in-16 piuttosto grande, rilegato alla bodoniana, con la copertina azzurra e il taglio in oro, [p. 344 modifica]stampato con caratteri cirillici assai nitidi e dedicato „Prea cinstitului Dumnealui Domnului | Marelui Logofăt | Ioan Dimitrie Bibescu, |Cavaler, ş. c. l.”.

Eccone, in lettere latine, le indicazioni precise:

[Bibliotheca Academiei Române, A. 12211].

FILIP ŞI OREST | Doă tragedii | compuse în Limba italiană | de | ALFIERI,| şi traduse slobod în cea românească | de | SIMEON MARCOVICI. | BUCUREȘTI. | Tipografia luǐ K. A. ROSETI ȘI VINTERHALDER.| 1847.

Per quanto il Marcovici protesti (nella dedicatoria a I. Bibescu) d’aver tradotte le due tragedie di V. Alfieri „liberamente dall’italiano”, crediamo poter affermare che anche questa volta ci troviamo innanzi a una traduzione eseguita colla più scrupolosa esattezza, e, quel che più importa, direttamente dal testo. Ce ne persuadono due e tre passi erroneamente interpretati dal Trognon (del Pétitot crediamo non doverci neppure occupare) e dal Κρατερός, che invece il nostro intende e traduce come realmente vanno intesi e tradotti.

Mettiamo a fronte un paio di questi passi perchè il lettore se ne convinca da sè:


Alfieri.

Carlo.

                    Suddito e figlio
Di assoluto signor, soffersi, tacqui,
Piansi, ma in core; al mio voler fu legge
Il suo volere: ei ti fu sposo: e quanto
Io del tacer, dell’obbedir fremessi,
Chi ’l può saper com’io?


Traduz. del Trognon.

Carlos.

Sujet et fils d’un maitre absolu, je suffris et je me tus; je pleurai, mais ce fut dans mon coeur; sa volonté fut la loi de la mienne: il devint ton époux; et combien je frèmis de me taire et d’obéir! Qui peut le savoir comme moi?

Traduz. del Κρατερός

ΚΑΡΟΛΟΣ.

Ὑπήκοος, υἱὸς ἀπολύτου δεσπότου, ὑπέφερα, ἐσιώπησα, ἔκλαυσα, αλλ´ εἰς τὴν καρδίαν μου εἶχα νόμον ἀπαράβατον τὴν θέλεσιν του. ὅθεν καὶ σ´ ἐνυμφεύθη. ἐγώ τὸ ἠξεύρω, πόσον ἐφρύαττον, σιωπῶν καὶ ὑπακούων.

Traduz. del Marcovici.

Carol.

Supus și fiu al unuĭ Domnu absolut, suferiĭu, tǎcuiu, plânseiu, dar in inima; voința luĭ fu lege la a mea voințǎ; el îțĭ fu soț; şi cine poate ști ca mine, câtă turburare, și ce răscoală au adus in pieptu ’mi tǎcerea și supunerea?

[p. 345 modifica]

Dei tre traduttori è chiaro che solo il rumeno rende col pensiero anche la frase dell’Alfieri. Il Κρατερός, poco curandosi del punto e virgola dopo core, interpreta come se l’Alfieri avesse scritto: „piansi, ma, nel mio cuore, tenni come legge inviolabile la sua volontà”; il Trognon inserisce un ce fut che guasta ogni cosa. Peggio ancora: le parole che seguono: ...„quanto — Io del tacer, dell’obbedir fremessi, — Chi ’l può saper com’io?”, forse per colpa dell’iperbato, diventa nella traduzione greca un banalissimo: ἐγώ τὸ ἠξεύρω, πόσον ἐφρύαττον σιωπῶν καὶ ὑπακούων, mentre in quella francese del Trognon son barbaramente spezzate da un punto ammirativo che c’entra come il cavolo a merenda e che il povero Alfieri non si sognò nè mai si sarebbe sognato di metterci.

Il traduttore rumeno invece intende bene e l’uno e l’altro passo, e, se non rispetta l’iperbato, gli è solo perchè, in buona prosa rumena, l’uso dell’iperbato è proibito più delle pistole corte.

Nella dedicatoria si dà lode al Bibescu di esser sempre stato fra i primi a incoraggiare ogni specie di lodevoli iniziative specie nel campo della nascente letteratura rumena; sicchè l’autore, „essendo partecipe di questi favori”, sente l’obbligo di offrire a lui prima che ad ogni altro le due tragedie „intitolate: Filippo e Oreste, che ha liberamente tradotte dall’italiano, in cui furono scritte dal defunto Conte Alfieri, principe de’ tragici italiani”.

Riportiamo qui per agevolare il lettore nei confronti e dargli il mezzo di controllare le nostre opinioni la medesima II Scena dell’Atto I, di cui abbiamo già a suo tempo riportato la versione greca del Κρατερός:

Izabela.

Și ce?

Carol.

Supus și fiu al unui Domnu absolut, suferiiu, tăcuiu, plânseiu, dar în inima; voința luĭ fu lege la a mea voința; el îți fu soț; și cine poate ști, ca mine, câtă turburare, ce răscoală au adus în pieptu ’mĭ tăcerea și supunerea? De o asemenea virtute, și virtute erà, ba încă maĭ presus de orĭ ce silință omenească) mă făleam în sinemĭ, de și mă întristam intr’aceiaș vreme. Orĭ ce datorie serioasă stă totdeauna înaintea ochilor mieĭ, și de mă voiu fi învinovățit, măcar cu cugetul, o cunoaște cerul, care vede cele maĭ din lăuntru gândurĭ: zilele în lacrămi, lungile nopțĭ iarăș în lacrămĭ le petreceam: ce folos? ura creștea în inima părintelul, pre cât durerea într’a mea.

(Op. cit., p. 13).

Note

  1. Curier de Ambe Sexe (Periodul V de la 1844 pînò la 1847), Bucuresci, 1862, p. 245. — [Corriere d’Ambo i Sessi (serie 5-a dal 1844 fino al 1847), Bucarest, 1862, p. 245]. Nelle citazioni da questo e altri giornali anteriori alla riforma ortografica dell’Accademia Rumena conservo l’ortografia del tempo.
  2. Heliade fu, come abbiamo avuto occasione di accennare, uno dei più fervidi innamorati dell’Italia e della sua letteratura, al punto da farsi iniziatore di un movimento filologico e letterario, che fu detto italianismo. È quindi naturalissimo che, nella Bibliotheca Universală, le traduzioni dall’italiano abbondassero, così come abbondano nel Curier de Ambe Sexe [Corriere d’Ambo i Sessi] e nel Curierul românesc [Il Corriere Rumeno] e s’infiltran persino nella Gazeta teatrulul [La Gazzetta del Teatro] a testimoniare una simpatia, che, per volger di stelle, non venne mai meno nel cuore di chi fu detto con ragione il „padre della letteratura rumena”.
  3. Cfr. le due belle monografie di Pompiliu Eliade, De l’influence française sur l’esprit public en Roumanie (Paris, Leroux, 1898) e Histoire de l’esprit public en Roumanie au dix-neivième siècle (Paris, Soc. nouv. de Librairie, 1905). Un notevole contribuito alla storia dell’influenza francese in Rumania porta anche il già ricordato volume di N. I. Apostolescu, L’influence des romantiques français sulla poesie roumaine, Paris, Champion, 1909, su cui cfr. un mio articolo recensivo nella Cultura del 1-o aprile 1910. Un’opera infine che può agevolare di molto lo studio dei rapporti letterarii franco-rumeni è la diligentissima Bibliographie franco-roumaine di G. Bengesco, Bruxelles, Lacomblez, 1895.
  4. Cfr. Bibliographie moderne de la France, art. Trognon (Auguste).
  5. Fa parte della collezione pubblicata dal libraio Brissot-Thivars (Paris, 1822-23) e intitolata Répertoire des théâtres étrangers. Cfr. la Bibl. moderne de la France pocanzi citata, sotto Trognon (Alphonse).
  6. La prima, del 1802, si deve a Claude-Bernard Petitot (1772-1825), autore egli stesso di tragedie, una delle quali (Laurent de Médicis) d’argomento italiano. Tradusse, oltre le tragedie, anche la Vita del nostro Alfieri, ma senza porvi il suo nome. Non va confuso con suo fratello Alexandre Petitot, ch’ebbe però anche lui la parte sua nella traduzione del teatro alfieriano, e l’aiutò in quella delle Novelas ejemplares del Cervantes. Più che una traduzione, questa del Petitot è un rifacimento e un adattamento al gusto francese delle tragedie alfieriane. Non saprei infatti spiegarmi diversamente di così, la libertà che il traduttore si prende d’inserir frasi intere di suo capo, di sopprimerne delle altre, di abbreviare i dialoghi, riuscendo a darci un curiosissimo travestimento dell’Alfieri. Chi glielo avesse detto al buon Vittorio, che si scalmanava tanto per sottrarsi ad ogni possibile influenza (anche a quella dello Shakespeare!) che potesse sminuire l’originalità della sua concezione tragica, che il Petitot gli avrebbe racinizzate le tragedie?
  7. L’Arminio è chiaro che fu dovuto scartare da Heliade soprattutto perchè l’argomento dovette sembrargli, com’era in realtà, adatto piuttosto a un tedesco che volesse destar nell’animo de’ suoi connazionali sentimenti d’odio contro la civiltà e la potenza latina, che non a lui rumeno (e come tutti i rumeni, geloso e fiero della sua discendenza romana), che si proponeva uno scopo assolutamente diverso, se non proprio diametralmente opposto. Inoltre il poco valore letterario della tragedia e la necessità in cui Heliade si trovava di non eccedere i limiti propostisi e di serbar le proporzioni nella distribuzione di una materia non meno abbondante che varia, dovettero consigliarlo a metterla da parte. Quanto ella sostituzione dell’Aristodemo al Caio Gracco, essa non può farci alcuna meraviglia. L’Aristodemo poteva non destare sospetti rivoluzionarii, il Caio Gracco non poteva non destarne.
  8. Forse nella Istoria lit. romînesci în secolul al XIX-lea del Iorga, ma non mi è riuscito di pescarcelo più.
  9. Dico teatro, perchè il trovar nell’elenco il nome dell’Alfieri senza alcuna indicazione delle tragedie prescelte, lascia supporre che Heliade intendesse accoglierle o tutte o in gran parte nella sua Bibliotheca. Anche il titolo della traduzione di Aristia, Din operile lui Alfieri lascia supporre che non intendesse limitarsi solo al Saul e alla Virginia.
  10. Cfr. Curier de Ambe Sexe, V, pp. 248-49: „Băcani, spițeri, lipscani, peste doi anni își vendimi maria învèlită în foi de Homeru, Herodot, Dante, Molière Lord Byron etc.”
  11. La traduzione di Aristia è quella che — come abbiamo già visto — andò in iscena al Teatro Nazionale la sera memorabile del 1-o dicembre 1836 e suscitò tanto entusiasmo, da provocar dopo una sola replica la chiusura del Teatro; quella del Marcovici non salì mai, ch’io sappia, agli onori del palcoscenico, malgrado il 1846 P. Teulescu consigliasse appunto la rappresentazione del Filippo, dell’Oreste e della Francesca da Rimini del Pellico tradotte dal medesimo Marcovici nella citata lettera al Curierul Român del 30 marzo 1846. Cfr. Ollănescu, op. cit., p. 143.
  12. ΒΡΟΥΤΟΣ. | ΤΡΑΓῼΔΙΑ, | παρὰ ΒΟΛΤΑΙΡΟΥ. | Μεταφραστεῖσα ἐλευθέρως διά στίχων | Ἰαμβικῶν. || Παραστάθη (sic) εἰς τὸ ἐν Βουκουρεστίῳ Θέατρον | πρώτην φορὰν κατὰ τὴν 17 Μαρτίου | τῦ 1280 ἔτους.|| Ἐκ τοῦ ἐν Βουκουρεστίῳ νεοσυστάτου Τυπο- | γραφείου κατὰ τοὺς || 1820.
  13. Cfr. Dimitrie C. Ollănescu, Teatrul la Români, in Analele Academiei Române, XX, p. 37.
  14. Συλλογὴ διαφορῶν τραγῳδιῶν.
  15. Cfr. Filimon, Ciocoii vechi si noui, Capitolul XXXI: Alexandru Ipsilant și Eteria grecească, pp. 283-84: „Planul acesteĭ revoluțiunĭ era să rescoale toate popoarele din Orient, și la zi hotărîtă să se arunce asupra Turcilor și să ’ĭ sdrobească deodată”. [„Il piano di questa rivoluzione era di sollevare tutti i popoli dell’Oriente, e a un giorno stabilito piombare (insieme) sopra i Turchi, e annientarli d’un colpo”]. Fra le persone scelte dal Comitato Rivoluzionario per dirigere il moto insurrezionale, si trovava Alessandro Ipsilanti. „El.... căta să treacă Dunărea prin România, ca să revolteze populațiunile slave din Turcia, și pus în capul lor să străbată Bulgaria, Tracia și Macedonia, spre a se uni cu Greciĭ din Elada, Epir și Thesalia, și a combate împreună și cu succes armatele otomane puse în confusiune prin această generală insurecțiune”. [„Egli.... si proponeva di passare il Danubio in Rumania, sollevare le popolazioni slave sottoposte alla Turchia, e, messosi alla loro testa, scorrere la Bulgaria, la Tracia, e la Macedonia, per quindi unirsi coi Greci dell’Ellade, dell’Epiro e della Tessaglia, e combattere insieme vittoriosamente gli eserciti ottomani storditi da questa generale insurrezione”]. Ciò si riferisce all’anno 1821, ma è chiaro, che, fin dal 1819-20, l’Ἐταιρία si proponeva un’azione combinata di tutte le popolazioni balcaniche contro la Turchia. Bisogna però avvertire che in Rumania i successi di questa società non furono troppi, almeno per ciò che riguarda l’accordo rivoluzionario coi Greci. Ciò per diverse ragioni, prima fra le quali il disprezzo che i Greci ostentavano per i Rumeni e le idee di pan-ellenismo che gli eteristi, assai poco prudentemente, non si facevano uno scrupolo al mondo di manifestare. Abbiam visto infatti che l’entusiasmo dei greci per le rappre entazioni alfieriane del 1819-20 non si estessero punto alla maggior parte della cittadinanza di Bucarest, che non andava certo a teatro per sentir rappresentar tragedie in una lingua che non capiva e che odiava; ma solo a pochi patrioti che seppero sfruttarlo a beneficio del loro paese.
  16. Che Aristia alluda alle critiche di Asaki, a me par cosa più che sicura. In fondo Asaki accusava il traduttore rumeno del Saul, di aver voluto trasportare nella versificazione rumena le caratteristiche proprie di quella italiana, e si scagliava perciò contro coloro, che, sotto il pretesto di arricchire o d’ingentilire la lingua rumena [leggi: Heliade e gli altri italianizzanti], le toglievano quel profumo di naturale ingenuità, che ne costituisce l’attrattiva migliore. Ed Aristia a protestare: „Limba românească ’mi e dragă, este primitoare de noutăți, precum este iubitor se streini și rumânul”. [„La lingua rumena mi è cara, ed è accoglitrice di novità, allo stesso modo come anche il rumeno è ospitale cogli stranieri”].
  17. La versione è tutt’altro che fedele, anzi, a farlo apposta, è questo uno dei pochissimi punti, nei quali Aristia non vede chiaro nel testo. Riportiamo dunque il brano al solo scopo di mostrare come il traduttore si proponesse di riprodurre alla meglio in rumeno le particolarità metriche della canzone di David.
  18. Gazeta Teatrului (1836), p. 93. La lettera s’interrompe a queste parole e l’originale è andato perduto. Probabilmente il Negruzzi intendeva paragonare i melodiosi versi di Aristia al suono dell’arpa di David.
  19. Oggetto non di rado di critiche acerbe e di pungentissimi epigrammi. Ne riporterò qui uno diretto da Grigore Alexandrescu (1810-1885), poeta rumeno dei migliori ed eccellente favolista, contro I. Heliade-Rădulescu e la sua traduzione (1831) del Maometto di Voltaire. Insieme con Heliade è anche preso di mira Vasile Pogor, la cui traduzione dell’Henriade Heliade aveva assai lodato nel suo Curier de Ambe Sexe (I. 265):

      In iad, mai dăunăzi, câțiva răposați,
    Cari in viață treceau de ’nvățați,
    Dideseră jalbă, arătând că cer,
    Să se pedepsească jupânul Volter,
    Pentru câte rele de dânșii vorbià:
                    Atunci când trăiă.
    — „Domnilor”, strigă Volter mânios,
    „Jalba ce ați dat este de prisos;
    Ce pedeapsă — mi vreți? Ce rău îmi doriți?
    Eu vă socoteam destul mulțumiți,
    Când în Bucarești, după cum v’am spus,
    Doi vrăjamși ai mei,știți cum m’au tradus”.

    [Giorni sono, all’inferno, alcuni defunti che in vita passavano per dotti, han sporto querela, chiedendo si punisca mastro Voltaire, perchè quando era in vita parlava alquanto male dei fatti loro. „Signori”, gridò Voltaire adirato, „la votra querela è inutile. Che pena mi volete affibbiare? Che male mi volete? Io vi credevo ormai contenti, da quando a Bucarest, come v’ho detto, due nemici miei, lo sapete come m’han tradotto!. Cfr. N. Iorga, Ist. lit. rom. în veacul al XIX-lea, I, p. 255, e specialmente la bella monografia dell’amico mio E. Lovinescu, Grigore Alexandrescu: Viața și opera sa, București, Minerva, 1910, p. 35.

  20. Altre parole „cu adevărat spurcate pentru limba românească”, come p. es. „fantoame în loc de fantasme, ca amor pradosit, ca erculic, ca răsplătire în loc de răsbunare ș. c. l.” indica Heliade a p. 562 del Curierul românesc, dove nei nn. 158-59 risponde a longo (pp. 558-562) e per le rime alle critiche di Asaki, insistendo sopra tutto su due punti principali: la convenienza del metro scelto da Aristia per la sua traduzione e la lingua nient’affatto corrotta della traduzione medesima.
  21. In terzine l’ha infatti tradotta — e speriamo voglia presto darla alla luce — il più grande dei poeti rumeni contemporanei, Gheorghe Coșbuc, che all’ardua fatica s’è accinto con quindici anni e forse più di severi studi danteschi soprattutto filosofici e teologici. Il suo sistema ermeneutico cade forse nell’errore di dar soverchia importanza alla parte allegorica del poema; ma è frutto di lunghi e forti studii e di un tale amore per Dante da giunger fino al sacrificio della sua personalità. Da quando infatti il delicato e squisito poeta di La oglinda (Allo specchio), Nunta Zamfirei, (Le Nozze di Zamfira), Moartea lui Fulger (La Morte di Fulger) s’è dato agli studi danteschi, la sua musa si tace.
  22. Nell’articolo sopra citato del Curier românesc, Heliade, dopo aver mostrato i diversi tipi della versificazione rumena popolare, ricorda come, al tempo della venuta in Rumania dei Fanarioti, un bel gruppo di poeti, cioè Enache e Alecu Văcărescu, Fonseca, Iordache Slătineanu, Barac, Aaron ed altri sì di Muntenia che di Moldavia (ed in special modo Iancu Văcărescu) „pe lângă cadința cea veche cu religiozitate păzită în toate versurile sale, a însoțit și luxul rimei întru toată eleganța și curățenia ei; pare ca ar fi arătat, că limba Rumânească e priimitoare și de versificația italiană, ca una ce are același început, mai acea materie și mai acea gramatică; și ca una ce e mai asa de cântativă”. [.....all’antica cadenza religiosamente conservata in tutti i suoi versi, ha saputo accoppiare il lusso (l’ornamento) della rima in tutto lo splendore della sua eleganza, sicchè pare abbia voluto dimostrare che la lingua rumena è tale da potersi adattare (senza sforzo), alla versificazione italiana, come quella che ha avuto la medesima origine di questa, lo stesso lessico e la stessa grammatica, come quella infine che tanto bene si adatta al canto”]. Orbene il Văcărescu — lo abbiam visto poco sopra — riuscì a trapiantare in Rumania il metro della canzonetta metastasiana e rolliana, lusingando coll’armonia de’ suoi versi (cortissimi!) l’orecchio dei contemporanei, che lo paragonarono persino ad Anacreonte e non si accorsero affatto delle famose cacofonie e degli altri inconvenienti che Asaki riteneva inevitabili nell’uso de’ versi giambici, trocaici e dattilici del tipo italiano e francese. Il più curioso è, che tra le poesie d’Asaki non ne mancan di quelle, in cui egli stesso adopera gli odiati versi corti! Cfr. p. es. le numerose anacreontiche da lui composte sulla primavera ed altri soggetti arcadici, e per tutte quella che incomincia:

    Iata primăvara lină
    Dorul nostru au plinit,

    Și din sfera cea senină
    I au adus timp fericit.

    scritti, come si vede, in quartine di ottonarii a rima alternata, dei quali il 2-o e il 4-o tronchi. Cfr. Poezii | a lui | Aga. G. Asaki | Mădularĭu Academiei de Roma | Eșu | În tipografia Albinei | 1836, p. 74.

  23. Bene Heliade, p. 560, del suo lungo articolo polemico pubblicato nel Curierul românesc dell’11 ottobre 1839 (anno X, numero 159): „D. Criticul găsește greșală în traducere pentru ce să fie din vers italienesc în vers rumânesc! Găsește greșala pentru ce să semene Alfieri cu Alfieri, iar nu a un Bucureștian sau Iașan stricat, care nici numele de artă nu știe ce va să zică, și aceasta o numește scopos Erculic; dar cum gândenști, domnule? Ca traducătorul lui Saul sa ia un scopos și pas de pigmeu...? Erculan pas trebue; pas de bărbat erculeu ce ajunge departe...”. [„Il signor Critico considera come un difetto della traduzione che sia fatta in versi. Gli par difetto che Alfieri rassomigli ad Alfieri e non all’ultimo Bucarestino o Iasceno che dell’arte non sappia neppure il nome, tanto è vero che la chiama fatica d’Ercole. Ma che pensa Ella, signor mio? Forse che il traduttore del Saul assuma impresa e passo da pigmeo?... Passo erculeo ci vuole; passo virile, che porta lontano...”]. I puntini sostituiscono in questo brano delle espressioni di Heliade che ci sembrano un po’ troppo... vivaci all’indirizzo di Asaki.
  24. Che poi si tratti d’inserzione posteriore a me par evidente. Quelle due paginette di Prefazione, composte in caratteri di corpo assai piccolo e stampate su carta differente, non appaiono neppur comprese nella numerazione, che comincia a p. 6 e tien calcolo delle pagine precedenti non numerate, le quali, con la prefazione, son...sette, sicchè la prima pagina numerata dovrebbe portare il numero 8. Ora, visto che invece è segnata col numero 6, par chiaro che in origine le pagine non numerate non dovevan esser che cinque, il che significa che le due pagine della Prefazione furono aggiunte a stampa compiuta.
  25. Dr. C. I. Istrati, Din trecutul nostru, Una suta de ani de când G. Asaki s’a dus la Roma, București, 1909.