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Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli (1920)/I. Rustico Filippi

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I. Rustico Filippi

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Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli (1920) II. Ser Iacopo da Leona
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I

RUSTICO FILIPPI

I

Schernisce l’arroganza dei guelfi fiorentini riammessi in patria
dopo la battaglia di Benevento.

A voi, che ve ne andaste per paura:
sicuramente potete tornare;
da ch’e’ ci è dirizzata la ventura,
ormai potete guerra inconinzare.
E piú non vi bisogna stare a dura,
da che non è chi vi scomunicare;
ma ben lo vi tenete ’n isciagura,
ché non avete piú casgion, che dare.
Ma so bene, se Carlo fosse morto,
che voi ci trovereste ancor casgione;
però del papa non ho gran conforto.
Ma i’ non voglio con voi stare a tenzone,
ca lungo temp’è, ch’io ne fui accorto
che ’l ghibellino aveste per garzone.

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II

Rappresenta ad un compagno di parte l’arrabbiato antighibellinismo
di un avversario politico.

Fastel messer, fastidio de la cazza,
dibassa i ghebellini a dismisura,
e tutto il giorno arringa in su la piazza
e dice che gli tiene una ventura.
E, chi ’l contende, nel viso gli sprazza
velen, che v’è mischiato altra sozzura;
e si la notte come ’l di schiamazza:
— Ci menovasse or Dio quella sciagura! —
Ond’io ’l ti fo saper, dinanzi assai
ch’a man vegni de’ tuo’ nemici guelfi,
s’è temp’e se vendetta non ne fai.
Ma tu n’avrai merzé, quando il vedrai!
Fammi cotanto: togligli Montelfi;
cosí di duol morir tosto il vedrai.

II

Ad un grave messere, di cui son note le pervertite relazioni
con un giovinastro.

A voi, messere Iacopo comare,
Rustico s’accomanda fedelmente:
e dice, se vendetta avete a fare,
che la fará di buon cuor lealmente.
Ma piaceriagli forte che ’l parlare
e rider vostro fosse men sovente;
ché mal perdere uom, che guadagnare,
suole schifare piú la mala gente.
E forte cruccia di madonna Nese,
quando sonetto udi di lei novello;
e credei dimostrar tosto in palese.
Ma troppo siete cónto, di Fastello,
infin tanto ch’egli ha danar da spose:
ond’e’si crede bene esser donzello.

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IV

Per una ragazza, ch’è diventata troppo magra.

Su, donna Gemma, con la farinata
e col buon vino e con l’uova ricenti:
che la Mita per voi sia argomentata,
4ch’io veggio ben ch’ella ha legati i denti.
Non vedete com’ell’è sottigliata?
Maravigliar ne fate tutte genti;
donna Filippa assai n’è biasimata
8da tutti i suoi amici e da’ parenti.
Or accendete il foco, e si cocete
cosa, che spesso in bocca la si metta;
11se non, per certo, morir la farete.
Ché la gonnella, che si l’era stretta,
se ne porian far due, ben lo vedete:
14cosí è fatta magra e sottiletta.

V

Sul medesimo argomento.

Se non l'atate, fate villania,
però ch’io dubbio non sia intiSichita;
di belle tortellette le faria:
4ché vedete che non ha de la vita!
Oi lasso me, coni’eli’è gita via!
Per Dio, pensate come sia guerita:
ché, non ch’a voi, a me ne’ncresceria;
8piú rangola dovreste aver di Mita.
E ispiate qual fosse la casgione,
ond’ell’ha si perduto il manicare:
11ché si suole si atar per ficcazone!
E, quando fosse sopra al vendemmiare,
non si tenea le man sotto il gherone:
14ed or s’è si lasciata dimagrare!

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VI

Di due cognate, che non mandano troppo buon odore.

Volete udir vendetta smisurata,
c’ha fatta di sua donna l’Acerbuzzo?
La barba lunga un mese n’ha portata,
4orando che dovea far Giovannuzzo.
Dio, com’bene le stette a la sciaurata,
quand’ella sofferia cosí gran puzzo!
Per quella via ne vada la cognata,
8s’altra vendetta non è di Cambiuzzo.
Dunque, bene n’andrá per quella via:
ché ’nmantenente fue passato il duolo,
11ch’e’ la dissotterrò, per che putta.
Almen faccia vendetta del figliuolo!
Ma per quel, ch’io ne spero che ne sia,
14per un fiorin voglio esser cavigliuolo.

VII

Pare rivolto ad una delle due cognate del sonetto precedente.

Non riconoscereste voi l’Acerbo,
ancor che voi il vedeste molto a sera?
Si fareste, ché non fue da Viterbo
4non è ancora una semana intera.
Del compagno noi dico, ché ’I mi serbo,
ché troppo arrosserebbe ne la céra;
in pasto il tegno e tuttavia lo nerbo,
8ché verrá or con via maggiore schiera.
Non ch’io v’aprisse, monna leonessa,
si gran lezzo vi vien per la quintana:
11ch’altri avrá quella peverada spessa.
Molto vi mostravate piemontana;
fatta siete reina, di contessa:
14Frián v’aspetta quest’altra semana.

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VIII

Di due donzelli terribilmente uggiosi.

Due donze’ nuovi ha oggi in questa terra,
c’hanno si vinti ciascun fiorentino,
che piú non pòssor soffrire la guerra:
4l’un è l’Acerbo e l’altro è Guadagnino.
Questi due ci hanno messi a si gran serra,
che ne ripiace molto Bonfantino:
e quinci si raccorga, s’alcun ci erra,
8che macine non son giá di molino.
Ch’elle non hanno fondo, ma stranezza
iianno di peso, si che lo palmento
11n’andria giú in perfondo, per gravezza.
Ché di piombo è ciascun lor reggimento:
chi gli bestemmia, molto abbia allegrezza,
14e chi non, si gli basti esto tormento.

IX

Di un altro seccatore pesantissimo.

Colui, che puose nome al Macinella,
al mio parer, non fue stròlago fino:
ché, dico questo a voi non per novella,
4ch’egli ’l dovea serbar per ser Laino.
Ché qual cavallo il porta in su la sella
non vuole esser puledro né ronzino:
ch’e’ vela gli occhi, e si grave favella;
8che ’l mar passi per esser saracino!
Ched egli avanza e passa ogn’altro grave,
che fosse o sia o possa essere al mondo;
11e di ciò porta ben seco la chiave.
Ed haccene un, che non ha il capo biondo,
che ’n mar vorria che fosse con lui in nave,
14per ch’ambendue n’andassero in profondo.

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X

A messer Lambertuccio Frescobaldi, motteggiandolo per la sua avarizia.

Messer Bertuccio, a dritto uom vi casgiona
che Fazo non guardate del veleno;
e ciascun fiorentin di ciò rasgiona,
4ch’e’ non va ben sicuro a pallafreno.
Un gran distrier di presgio hae a Chermona,
che mille livre il dice in tutto ’l meno:
fate che vegna per la sua persona;
8non siate scarso in sua guardia, né leno.
E questo dico e vo’ che sia sentenza,
credendo il me’ di voi dicer, per vero:
11messer Bertuccio il guardi per Fiorenza,
ché de lo ’ngegno suo sta cavaliero;
e ’l Chiocciolo gli deggia far credenza:
14non ch’io ne dótti, tant’ha il viso (èro.

XI

Apologia di una moglie onesta, vittima delle calunnie della gente.

Oi dolce mio marito Aldobrandino,
rimanda ormai il farso suo a Pilletto:
ch’egli è tanto cortese fante e tino,
4che creder non dèi ciò, che te n’è detto.
E non star tra la gente a capo chino,
che non se’ bozza, e fòtene disdetto;
ma, si come amorevole vicino,
8con noi venne a dormir nel nostro letto.
Rimanda il farso ormai, piú noi tenere,
ché mai non ci verrá oltre tua voglia,
11poi che n’ha conosciuto il tuo volere.
Nel nostro letto giá mai non si spoglia!
Tu non dovei gridare, anzi tacere:
14ch’a me non fece cosa, ond’io mi doglia.

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XII

In lode d’un guerriero oltremodo valoroso.

D’una diversa cosa, ch’è apparila,
consiglio ch’abbian guardia i fiorentini;
e qual è que’, che vuol campar la vita,
4si mandi al Veglio per suoi assessini:
ché ci ha una lonza si fiera ed ardita,
che, se Carlo sapesse i suo’ confini
e de la sua prodezza avesse udita,
8tosto n’andrebbe sopra i saracini.
Ma chi è questa lonza, or lo sacciate:
Paniccia egli è; che fate, o da Fiorenza,
11ch’oste non istanziate o cavalcate?
Ché, s’e’seguisce innanzi sua valenza,
com’egli ha fatt’a dietro, si gli date
14sicuramente in guardia la Proenza.

XIII

Ritrae un Pirgopolinice fiorentino del Dugenlo.

Una bestiuola ho vista molto fèra,
armata forte d’una nuova guerra:
a cui risiede si la cervelliera,
4che del legnaggio par di. Salinguerra.
Se ’nsin Io mento avesse la gorgiera,
conquisterebbe il mar, non che la terra;
e chi paventa e dótta sua visèra,
8al mio parer, non è folle néd erra.
Laida la céra e periglioso ha ’l piglio,
e burfa spesso a guisa di leone;
11torrebbe ’l tinto a cui desse di piglio.
E gli occhi ardenti ha via piú, che leone:
de’ suoi nemici assai mi maraviglio,
14sed e’ non muoion sol di pensasgione.

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XIV

Descrive una curiosa creatura plasmata da Dio in un momento d’ozio.

Quando Dio messer Messerin fece,
ben si credette far gran maraviglia:
ch’uccello e bestia ed uom ne sodisfece,
4ch’a ciascheduna natura s’appiglia.
Ché nel gozzo anigrottol contraffece,
e ne le ren giraffa m’assomiglia,
ed uom sembia, secondo che si dece,
8ne la piagente sua céra vermiglia.
Ancor risembra corbo nel cantare,
ed è diritta bestia nel savere,
11ed uomo è somigliato al vestimento.
Quando Dio il fece, poco avea che fare,
ma volle dimostrar lo suo potere;
14si strana cosa fare ebbe in talento.

XV

Di un tale, che ha una vociaccia spiacevole.

Quando egli apre la bocca de la tomba,
per dir parole, messer Casentino,
si nel gozzo la boce gli rimbomba,
4che diserta le donne e guasta ’l vino.
E Baldanza si dorme, quando tromba;
ed hai per gica messere Ugolino:
ma quest’è il gran fastido, che colomba
8si crede che ver’sé fosse Merlino.
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11.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
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14.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    

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XVI

Elogia le virtú di messere Ugolino.

Chi messere Ugolin biasma o riprende,
per che non ha fermezza né misura
e per che sua promessa non attende,
4non è cortese, ch’e’l’ha da natura.
Ma fa gran cortesia chi ’l ne difende:
ch’è si gentil, che non ne mette cura,
e poco pensa se manca od offende,
8e, se vuol ben pensar, poco vi dura.
Ma i’ so ben che, se fosse leale,
ch’egli è di si gran presgio il suo valore,
11che men se ne poria dir ben, che male.
Ed ama la sua parte di bon core:
se non ch’a punti ben non gliene cale,
14e ben non corre a posta di signore.

XVII

Ma delle promesse di quel messere non può campare la famiglia del poeta.

Le mie fanciulle gridano a vivanda,
e non finaro sera né mattino;
e stanno tutte spesso in far domanda:
4— Or non è vivo messere Ugolino? —
Però ciascuna a voi si raccomanda;
ed in ischiera v’è Lippo e Cantino,
che non temon che lor botte si spanda,
8ché, s’han del pane, il pozzo è lor vicino.
Ond’io vi priego ancor, ché la speranza
daria per men di due fiorili lo staio;
11ma le ’mpromesse attendo ad abbondanza.
Clra me penna non vai né calamaio,
né me’ venir né far far ricordanza,
14néd esser ricco piú, che Min di Ciaio.

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XVIII

Ritrae un bel tipo di poltrone freddoloso.

Io fo ben boto a Dio: se Ghigo fosse,
ser Cerbiolin, che l’hai tanto lodato,
per pilliccion di quella, c’ha le fosse,
4non si riscalderia, tant’è gelato.
Non vedi che di mezzo luglio tosse,
e ’l guarnel tien di sotto foderato?
E dicemi che fuoco anche noi cosse;
8e par figliuol di Bonella impiombato.
Ché tutto il giorno sol seco si siede,
onde’mbiecare ha fatte molte panche:
11se non eli’a manicare in casa riede.
Maraviglia, che non gli cascar Tanche!
Ché, se grande bisogno non richiede,
14da la sua casa non si pardo anche.

XIX

Interpella un compare sullo stesso protagonista del sonetto precedente.

Se tu sia lieto di madonna ’l ana,
Azzuccio, dimmi s’io verta ti dico;
e, se tu non la veggi ancor puttana,
4non ci guardar parente néd amico.
Ch’io metto la sentenza in tua man piana
e di neiente non la contraddico;
per eli’ io son certo che la drai certana,
8non ne darei de l’altra parte un fico.
Ch’egli è piú freddo, che detto non aggio;
non vedi come ’l naso il manofesta?
11Ché redir non saprebbe di Cafaggio.
E spesse volte duolegli la testa;
credo che stesse a bália nel rimaggio:
14tant’è salvoggio, — pare una tempesta.

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XX

I vari odori di un uomo lercio e schifoso.

Ne la stia mi par esser col leone,
quando a Luttieri son presso a un migliaio,
ché pute piú, che ’nfermo uom di pressione
4o che nessun carname o che carnaio.
Li suo’ cavegli farian fin buglione,
e la cuffia faria ricco un oliaio;
e li drappi del lin bene a rasgione
8sarian per far panel di quel massaio.
E’ sente tanto di vivarra fiato,
e di leonza e d’altro assai fragore:
11mai nessun ne trovai si smisurato!
Ed escegli di sopra un tal sudore,
che par veleno ed olio mescolato;
14la rogna compie, s’ha mancanza fiore.

XXI

E quelli di una vecchia lurida.

Dovunque vai, con teco porti il cesso,
oi buggeressa vecchia puzzolente:
ché qualunque persona ti sta presso,
4si tura il naso e fugge inmantenente.
Li denti e le gengie tue ménar gresso,
ché li taseva l’alito putente;
le selle paion legna d’alcipresso
8inver’lo tuo fragor, tant’è repente.
Ch’e’par che s’apran mille monimenta
quand’apri il ceffo; perché non ti spolpe,
11o ti rinchiude si, ch’om non ti senta?
Però che tutto ’l mondo ti paventa;
in corpo credo figlimi le volpe,
14tal lezzo n’esce fuor, sozza giumenta!

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XXII

Ecco un popolano avaro e ingordo, che s’industria come può

Al mio parer, Terriccio non è grave,
ma scarso il tegno ismisuratamente;
e ben cavalca de la man soave,
4quando d’avere utolitá ne sente.
E con tale usa, e vanno insieme ’n nave,
che boce glien’è corsa di mordente;
non so se ’l fa: ma ’l suo si serra a chiave,
8ch’él medesmo, che ’n tórre è si saccente,
non credo che del suo potesse avere;
ché’n questo è fermo il suo intendimento:
11del suo non dare, altrui tórre a podere.
E, se per rima fosse il suo lamento
de’ nuovi danni, che stima d’avere,
14sollazzi n’averemmo il giorno cento.

XXIII

La sciocca profezia di Cristofauo intorno alla fortuna di un buon padre,
che ha due figliuole da maritare...

Poi che guerito son de le mascelle,
io non rido, ancor eli’ i’ smanio e canto,
che si sconciar per rider di novelle,
4che mi contò Cristofan, dritto santo:
cui non bisogna colla e manovelle,
cosí le ti sciorina ad ogni canto;
e chi non si rallegrerá di quelle,
8in paradiso avrebbe doglie e pianto.
Oi Cion del Papa bene avventuralo,
lasciati andar di man de lo steriino;
11credi a Cristofan che non è donato!
Per Dio, soccorri quel gentil Bandino,
eli’e’sia, per te, di morte suscitato:
14e, ne le scritte, conte paladino.

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XXIV

... e le vede giá chieste da una sfilata di pretendenti...

Buono inconincio, ancora fosse veglio,
v’ebbe il valente messere Ubertino;
vostra grandezza va di bene in meglio,
4ch’a voi ne viene il buon conte Bandino.
Quel da Romena, ch’è segnor del Peglio,
v’intende, so, casgion de lo steriino:
e saccio ben, se moglie non ha il Veglio,
8che gli assessini ha messi nel cammino,
per domandar la Diana o sua sorella;
ché quel da Senno non è tanto ardito,
11ch’egli oggi addomandasse la fancella.
E Tanuccio n’è molto isbigottito,
e non ha piú speranza in sue castella;
14né ’l Cardinal, secondo ch’aggio udito.

XXV

... mentre anche i maschi faranno nozze non meno cospicue.

Il giorno avesse io mille marchi d’oro,
che la Dianuzza fia contessa Diana,
e sanza grande isfólgor di tesoro:
4e non cavaleressa né cattana!
È fermo piú, che ’l genovese moro,
lo detto di Cristofano in Toscana;
e poi appresso, sanza gran dimoro,
8farem, de l’altra, orrevol marchisciana.
Fra gli altri partiremo li casati:
Donati ed Adimar sian del Capraccia;
11di Donaton, Tosinghi e Giandonati.
Se piú ve n’ha, che non sian maritati,
dean la parola lá, ove piú lor piaccia:
14e, se rilievo v’ha, sia degli Abati.

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XXVI

Di una certa prodezza d’una donna libidinosa.

Da che guerra m’avete incominciata,
paleserò del vostro puttineccio,
de la foia, che tanto v’è montata,
4che non s’attuteria per pai di leccio.
Non vi racorda, donna, a la fiata,
che noi stemmo a San Sebio in tal gineccio?
E, se per moglie v’avesse sposata,
8non dubbiate ch’egli era un bel farneccio
Ché foste putta il die, che voi nasceste
ed io ne levai saggio ne la stalla,
11ché ’l culo in terra tosto percoteste.
E, sed io fosse stato una farfalla,
maraviglia saria, si mi scoteste:
14voi spingate col cui, quando altri balla.

XXVII

Profferte falliche ad una femmina, che non è zitella.

A voi. Chierma, so dire una novella:
se voi porrete il culo al colombaio,
cad io vi porgerò tal manovella,
4se non vi piace, io non ne vo’ danaio.
Ma tornerete volontier per ella,
ch’ella par drittamente d’un somaio;
con tutto che non siate si zitella,
8che troppo colmo paiavi lo staio.
Adunque, Chierma, non ci date indusgio,
ché pedir vi farabbo come vacca,
11se porrete le natiche al pertusgio.
Tutte l’altre torrete poi per acca:
si vi rinzafTerò col mio segusgio,
14che parrá eh Arno v’esca de la tacca.

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XXVIII

Descrive l’orgasmo d’un erotomane.

Quando ser Pepo vede alcuna potta,
egli annitrisce si come distriere;
e non sta queto: innanzi salta e trotta,
4e canzisce, che par pur un somiere.
E coni’ baiardo ad ella si raggrotta,
e ponvi il ceffo molto volontiere:
ed ancor de la lingua giá non dótta,
8e spesse volte mordele il cimiere.
Chi vedesse ser Pepo incavallare
ed annitrir, quando sua donna vede,
11che si morde le labbra e vuol razzare!
Quelli, che dipo par, non si ricrede:
quando v’ha ’l ceffo, si la fa sciacquare,
14si le stringe la groppa, ch’ella pede.

XXIX

Consigli alle donne sul modo d’usare uno specifico,
che un tale fa vantare con pubblico bando.

E1 Muscia si fa dicere e bandire:
qual donna non avesse buon marito,
ch’aggia picciol dificio da servire,
4che vada a lui, cad e’ n’è ben fornito.
Ed ancor questo fa nel bando dire:
ch’è sedici once, sanza il rimonito:
e dice ben, se non la fa pedire
8a ogni tratto, che vuol perder lo ’nvito.
Ma, se se ne atterranno al mio consiglio,
innanzi il proveranno ver’di mezzo,
11que’, c’ha la schiena bianca e ’l co vermiglio;
e poi, quando verrá colá ’l da sezzo,
darannovi con ambo man di piglio:
14ch’a ben ripalleggiarlo egli è un vezzo.

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XXX

È grato ad Amore, perché lo privilegia su tutti gli altri amanti

Amor fa nel mio cor fermo soggiorno,
e quindi non si parte né va fòri;
ma manda li suo’ messi spesso intorno,
4cercando e provvedendo gli amadori.
E’ntende le rasgion ciaschedun giorno:
a tal dá gioia, a tal dona dolori;
ma’l meo segnore ha me in tal loco adorno,
8ch’io passo tutti gli altri intenditori.
Oi core orrato piú di nessun core,
per ch’ami la megliore e la piú gente;
11orrato, poi che torna teco Amore!
Cortese ed amoroso meo segnore,
di cui mi credo star leal servente,
14non vi so graze far di tanto onore.

XXXI

La sua donna è superiore a tutte le altre.

Tutte le donne, ch’io audo laudare,
parmi che lor non aggiano bieltate;
quando posso la mia donna membrare,
4son neiente le laude, che son date.
Ma’ che vorria ch’Amor tanto in parlare
mi desse graza, ch’io con veritate
savesse a tutta gente addimostrare
8com’è somma de l’altre donne nate.
Deo, ché maraviglia sembreria
a dir tanta smisura di bellezze,
11quante son quelle di madonna mia!
Per ch’io non posso dir le grand’altezze;
io non so se m’avvèn per gelosia,
14ch’io non oso nomar le sue adornezze.

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XXXII

È molto lieto, per gelosia, che la gente stia lontana dalla sua donna.

Come puote la gente sofferire,
donna amorosa, standovi lontana?
Chi vive, come si puote partire
4da la vostra gioiosa céra umana?
Ben me ne maraviglio, a lo ver dire,
ché de le donne siete la sovrana,
come si trova in lor tanto fallire,
8ched a lor non istate prossimana!
Eo noi dico, madonna, che mi doglia
di questo fallo, che la gente face:
11paremi cosí grande maraviglia.
E so ben che non fora vostra voglia,
e me dismisuratamente piace:
14tanta di gelosia TAmor m’appiglia.

XXXIII

Il suo cuore dimora sempre fuor del corpo, in balia dell’ainata.

I’aggio inteso che sanza lo core
non pò l’om viver né durar neiente:
ed io vivo sanz’esso, e Io colore
4però non perdo, né saver né mente;
ma solo per la forza del segnore,
che’1 n’ha portato, ch’è tanto potente,
lo diparti dal corpo: ciò fue Amore; *
8e 1 ha miso in balia de l’avvenente.
Lo cor, quando dal corpo si partio,
disse ad Amor: — Segnore, in quale parte
11mi meni? — E que’ rispose: — Al tuo disio. —
In tale loco è, che giá mai non parte;
insieme sta il meo core e’l disir mio:
14cosí vi fosse il corpo in terza parte!

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XXXIV

Perché il poeta si trattenga dal suicidio.

Madonna, quando eo voi non veggio in viso
tant’è forte e dogliosa la mia pena,
che’n su la morte mi conduce e mena:
4ma non m’aucide e tènemi conquiso.
E quando eo sto da voi, bella, diviso,
languisco, se l’Amor non mi rimena:
e ’l vostro bel riguardo mi dá lena,
8e mi ritien ch’io non mi sono auciso.
Volete audire, amor, gentil penzèro,
per ch’io donare a me morte non voglio?
11Ché dico: — Coni’ vedrei poi ’l viso clero?
E, sed io noi vedesse coni’io soglio,
come faria? — Però non mi dispero.
14Amor, merzé, ché tanto aggio cordoglio!

XXXV

Piangendo chiede pietá alla sua donna.

Dovunque eo vado o vegno o volgo o giro
a voi son, donna mia, tuttor davanti;
e, s’eo con gli occhi altrove guardo o miro,
4lo cor non v e*, poi ch’io faccio i sembianti.
E spesse volte si forte sospiro,
che par che ’l cor dal corpo mi si schianti;
allor piango e lamento, e non m’adiro,
8ma li ilici occhi bagno tutti quanti.
E dolzemente faccio mio cordoglio,
tuttor, mia donna, a voi merzé chiamando,
11umile-mente piú, quant’eo piú doglio.
Durar non posso piú disiderando;
non aggio ili voi quello, eh aver soglio;
14morrò per voi piangendo e sospirando.

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XXXVI

La sua felicitá è nelle mani dell’amata.

Merzé, madonna, non mi abbandonate,
e non vi piaccia eli’io stessi m’aucida;
poi che venne da voi questa amistate,
4dovetemi esser, donna, porto e guida.
Durar non posso piú, se mi tardate;
convèn per ben la morte si conquida:
oi amorosa somma di bieltate,
8piacciavi ch’io diporti e giochi e rida.
In voi è la mia morte e la mia vita:
oi donna mia, traetemi di pene;
11se noi fate, la vita a mort’è gita.
E, se di me, madonna, a voi sovvène,
la mia faccia dogliosa e scolorila
14ritornerá ’n istato di gran bene.

XXXVII

Amore vuol che il poeta viva languendo, non che muoia.

Amore, onde vicn l’acqua, che lo core
agli occhi senza mai rifinar manda?
Saria per tuo comandamento, Amore?
4Eo credo ben che mova a tua dimanda.
E’ pare a me che sargia di dolore,
e convien che con duol degli occhi spanda;
ché, se dagli occhi non uscisse lòre,
8lo cor morria: Amor non lo comanda.
Amor non vói ch’io moia, ma languendo
viva con si cortese segnoria;
11mi faccia Amor, po’ ch’io non mi difendo.
In quest’è tutti la speranza mia,
ché tanto le starò merzé cherendo,
14che sia pietosa piú sua segnoria.

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XXXVIII

Le sue pene amorose sono grandi fuor d’ogni paragone.

L’affanno e ’l gran dolor, ch’io meco porto,
mi dovria mille fiate avere auciso;
ma, per la dismisura, non son morto:
4ché men dolor m’avria morto e conquiso.
Ch’io son degli smarruti capo e porto,
si come d’ogni gioia paradiso;
adunque, chi ha pena e disconforto
8con meco in nullo logo sia commiso.
Per ch’io voglio esser de l’altrui mal miro,
e voglio a ciaschedun dar guerisgione,
11veggendo lo mio pianto e lo sospiro.
Non avran mai dolor né pensasgione,
tant’è lo male, ch’io con meco tiro:
14per che di meo morir non è stasgione.

XXXIX

Se il suo cuor dolente parlasse, per la pietá farebbe piangere Amore.

Tant’è lo core meo pien di dolore
e tant’è forte la doglia, ch’eo sento,
ca, se de la mia pena mi lamento,
4la lingua il dice si, che par dolzore.
A me fora mistier che lo mio core
parlass’e che mostrasse il suo tormento:
eo credo certo, sanza fallimento,
8ca di pietá ne piangerebbe Amore.
Oi core meo e occhi, che farete?
Cor, come sofferrai dolor cotanto,
11ed occhi, voi, che si spesso piangete?
Amor, merzé, ch’alleni lo mio pianto;
e voi per Dio, madonna, provvedete,
14ché lo dolor del cor ritorni in canto.

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XL

Mai non si estingue il fuoco, che lo abbrucia.

Similmente la notte come ’l giorno
io dormo e poso ed ho sollazzo e gioco;
e simile mi volgo e giro intorno,
4e sto, senza pensier doglioso, poco.
E spesse volte a pianger mi ritorno,
e quindi bagno l’amoroso foco;
e lo pensiero e ’l pianto è ’l mio soggiorno;
8oi lasso, ché tutto ardo e’ncendo e coco!
E nessun foco mai cangia calore,
o che faccia languire o tormentare,
11per certo non, com’fa il foco d’Amore.
Ché’l naturai ti fa poco durare;
ma quegli a vita, ca piú tosto more,
14a cui non vòle Amore allegro fare.

XLI

Confessa ad Amore che non può piú sopportare la sua pena.

Amore, a voi domando perdonanza,
si corno fin servente al suo segnore,
s’eo dico cosa, che vi sia pesanza,
4ché sofferir non pò la doglia il core.
Sacciate che segnor sanza pietanza
tanto non vai, com’s’ha pietoso il core.
Oimè, che dissi! Forse che fallanza
8terrá che ’nver’di lui dett’aggia, Amore.
Vengianza, se fallato aggio, ne prenda,
ché la pena ni’incalcia e dá conforto
11ch’io dica, e poco pensa ch’io misprenda.
Però perdón dovria trovar del torto:
ma prego la rasgion che mi difenda
14e de l’altezza mi conduca a porto.

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XLII

Cerca invano di sottrarsi, fuggendo, ad Amore.

Tutto Io giorno intorno vo fuggendo,
credendomi campar davanti Amore;
e, s’io trovo nessun, forte piangendo
4lo prego che mi celi al mio segnore.
Oi lasso, com’gran pene solTerendo
condotto ho me medesmo in questo errore?
Ché, quando i’ sono assai gito languendo,
8io trovo Amor, che m’è dentro dal core.
Cosi la pena, c’ho, mi mena e caccia,
che mi fa sofferir l’Amore amaro,
11che spesso il giorno il cor m’arde ed agghiaccia.
E non mi manca pena, ched io saccia;
lo mal m’è vile e’l ben m’è troppo caro:
14Amor, merzé, ch’io non so ch’io mi faccia.

XLIII

Invoca la morte, che lo liberi dai suoi affanni.

Amor, poi che del mio mal non vi dòle,
piú siete inver’di me fèro, che fèra;
Amor, guardate inver’le mie parole:
4s’aggio fallato, piacciavi ch’io péra.
E, s’io non ho mancato, come sòie,
lo mio cor ritornate a quella spera,
ch’è tanto, quanto guarda o gira il sole;
8piú doglioso di me merzé non chera.
Oi Morte, chi t’appella «dura Morte»,
non sente ciò, ched io patisco e sento:
11ché, se mi vuoli aucider, mi conforte.
Ché la mia vita passa ogni tormento;
oi Morte, perché l’arma non ne porte,
14e falle far dal secol partimento?

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XLIV

Ricorda alla donna come sia dovere di buon signore impedire che il servo muoia.

A nessun omo addivenne giá mai
ch’Amor prendesse altrui sanza veduta;
a meve è addivenuto: non pensai
4ca si forte pungesse sua feruta.
Ciré’ mi tormenta e dona pena assai,
se madonna amorosa non m’aiuta,
che m’ha in balia: ed io medesmo il sili,
8ché l’ho donato il cor sanza partuta.
Dunque mi dé’campare, ed a rasgione:
qualunque buon segnore a suo servente,
11che ’n lui ha messa tutta sua intenzone,
non dé’ soffrir che moia di neiente,
ché li sarebbe grande riprensione:
14questo fedel son io, donna valente.

XLV

Soffre per colpa d’Amore, ma spera conforto dalla donna.

Unqua per pene, ch’io patisca amando,
lasso! giá non vorria disamorare;
omè, ché, per aver disiderando,
4ciò, ch’io sostegno, non poria mostrare.
Ché solo pur le lagrime, ch’io spando
sovente, fannomi maravigliare;
e quanto piú languisco e vo penando,
8allor si ferma il cor meo piú d’amare.
E, s’io ardisse d’incolpare Amore,
eo diceria ch’avesse di me torto,
11da poi che fuor di me non è dolore.
Se non che spero ancor d’aver conforto,
lá dov’è grande presgio e gran valore:
14sol è colpa d’Amor s’io pene porto

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XLVI

Chiede alla donna di volerlo campare.

Ispesse volte voi vegno a vedere
per sodisfare agli occhi ed a lo core;
ma, quand’eo parto, si mi stringe Amore,
4ch’io non saccio che via deggia tenere.
E di tornar mi sforza lo volere,
si m’ha ’nfiammato Amor del suo calore;
e poi, quando mi parto, Io dolore
8allor ritorna, e partesi il piacere.
Adunque, lasso! corno deggio fare?
Ch’io non posso tuttor, madonna mia,
11veder con gli occhi e ’l cor fare allegrare.
Gentile ed amorosa piu, che sia,
e’ sai in che guisa tu mi puoi campare:
14non péra sanza gioi’, ch’io non dovria.

XLVII

Vorrebbe star sempre vicino alla sua donna.

Si tosto com’da voi, bella, partuto
son, mantenente ritornar vorria,
e sentome mortalmente feruto:
4perdo la conoscenza e la balia.
Ma si non perdo, ch’io non speri aiuto
di voi, gentil piú, ch’altra, che mai sia:
ch’io son fedel d’Amor tanto vivuto
8a la speranza di voi, donna mia.
Si come il partimento mi dá noia,
amorosa e gentil donna piagente,
11cosí è ritornar somma di gioia.
E, se non fosse la noiosa gente,
la qual disia che doloroso moia,
14eo viveria per voi allegramente.

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XLVIII

L’altrui maldicenza gli toglie talvolta la vista del bel viso.

Io non auso rizzar, chiarita spera,
inver’voi gli occhi, tant’ho gelosia;
e feremi nel viso vostra spera,
4e gli occhi abbasso e non so lá, ove sia.
Oi amorosa ed avvenante céra,
non mi tardate la speranza mia:
ch’ad onta de la gente malparliera,
8mi riterrete in vostra segnoria.
Deo, come son lontan dal me’ pensiero
li falsi e li noiosi maldicenti,
11ché lá non volgo l’arco, ov’eo ne fero!
Ma tuttavia mi fan soffrir tormenti:
ché spesso l’amoroso viso clero
14s’asconde per li falsi parlamenti.

XLIX

Soffre, ma non può palesare il suo segreto d’amore.

Quant’io verso l’Amor piú m’umilio,
a me piú mostra (èra segnoria;
e piú monta e piú cresce il meo disio,
4e piú mi tien doglioso notte e dia.
Adunque, lasso! corno faraggio io,
se non mi soccorrete, donna mia?
Se mi tardate, bella, a lo cor mio
8durar non pò piú vita, anzi va via.
Ciascun mi guarda in viso e fa dimando,
veggendomi cangiato lo visaggio:
11ed io celo la doglia mia in parlando.
E non ardisco dir lo meo coraggio,
per ch’io l’ho da la mia donna in comando;
14oiinè lasso, ch’attendendo morraggio!

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L

La potenza del fuoco amoroso scusa certi falli di chi ama.

Tanto di cor verace e fino amante
i’ son, madonna, inver’ di voi stato,
che, quando fosse a voi, cor meo, davante,
4eo non pensava d’esservi incolpato.
E, s’io facea davanti altrui sembiante,
giá non credea di nulla esser guardato;
ond’io doglie ne porto e pene tante,
8che morte vita mi sarebbe, in grato.
Qual uomo ama di cor perfettamente,
non ha mai conoscenza né misura,
11tant’è lo foco de l’Amore ardente.
E, se per nulla cangiasi natura,
si fa per gli amador veracemente,
14tant’è lor condizion dogliosa e dura.

LI

Pur essendosi mutato l’animo della donna, spera nella forza del proprio amore.

Or ho perduta tutta mia speranza,
e non attendo mai gioi’ né diporto,
poi che madonna, ch’era il mio conforto,
4cangiata m’ha la sua bella sembianza.
E fatt’ha con l’Amore sua accordanza,
ch’io viveraggio assai peggio, che morto;
ahi dolce donna mia, pensa che torto
8hai di mia greve e dura malenanza!
Oi gentil donna, come faraggio eo?
Da poi che ver’di me cangiata siete,
11giá mai nulla allegranza non ispero.
Ma ’l fino amor, ch’io porto, viso clero,
in gioi’ mi tornerá come solete,
14si sarete pietosa, amore meo.

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LII

La pietá, che gli mostra la donna, lo sorregge nelle ultime prove.

Lo vostro dolze ed umile conforto
ini dá sovente gioia ed allegranza;
ond’io però la vita in core porto,
4e per aver di voi ferma speranza.
Ma rea fortuna non mi lascia in porto
si tosto giugner, com’ho disianza:
ma tosto ch’andrá via il tempo torto,
8mi riterrá madonna in sua possanza.
Da che madonna dòl, quand’i’ aggio doglia,
dovria piú sofferente esser del male,
11poi che ’l mio ne saria ben per sua voglia.
Ed ò ben si cortese e tanto vale,
che spesso si lamenta e si cordoglio
14ed ha dolor di mia pena mortale.

LIII

Prima la donna, poi Amore l’assicurano ch’è ormai corrisposto.

— Poi che voi piace ch’io mostri allegranza, ’
madonna, ed i’ ’l foraggio volontiera.
— Meo sire, è tutta mia disideranza:
4allegra lo tuo core e la tua cera.
— O donna mia, merzed’e pietanza
dimando, se mostrat’ho doglia fèra.
— Meo sire, se rallegri tua sembianza,
8giá mai non cangerò disio né spera. —
— Merzede, Amor, ch’io non saccio che dire
ver’la mia donna, tanto m’è gioiosa:
11tu se’ il mio core, Amore, e ’l meo disire.
— Oi amador, di fin cor l’amorosa
lealmente ama senza mai fallire,
14però ch’ell’ama te sovr’ogni cosa. —

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LIV

I — MADONNA
Non gli fará molto attendere la gioia.

Oi amoroso e mio fedele amante,
amato piú di nuli’altro amadore,
se tu ti dòli, i’ aggio pene tante,
4ch’ardo tutta ed incendo per amore.
E, se lo core meo fosse diamante,
non doveria aver forza né valore;
e, se di doglia in céra fai sembiante,
8eo sono eo quella, che la porto in core.
Amore meo, cui piú coralmente amo,
ch’amasse giá mai donna suo servente
11e che non fece Tisbia Pirámo,
l’attender non ti sia disavvenente,
chéd io tanto del cor disio e bramo,
14che picciol tempo, amor, sera’ attendente.

LV

2 — POETA
È pronto a sopportare dolori senza farne mostramento.

Graza e merzé, madonna, a voi mi rendo,
ché io per neiente non son degno;
l’amoroso consiglio vostro prendo,
4isperando venir nel vostro regno.
E, s’io aggio fallato, al vostro ammendo
son di voi, donna, mio core e sostegno;
e, s’io lamento e doglio e non attendo,
8ormai di piú doler muto divegno.
La vostra doglia sia la doglia mia,
e la mia doglia metto’n ubrianza;
11piú pene sofferrò, ch’io non soffria.
Ma non, mia donna, che paia sembianza:
gentile ed amorosa piú, che sia,
14a voi rendo merzé d’esta inoranza.

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LVI

3 — MADONNA
Gli si chiarisce ardentemente innamorata.

Assai mi son coverta, amore meo:
oi lassa me, piú non posso soffrire;
cotanto forte d’Amor son presa eo,
4ch’io non aggio potenza, omè, di dire!
Ch’io non amo né temo tanto Deo,
quanto te, amoroso e dolze sire;
e vo’ ben che tu sacce e penzi ch’eo
8condotta son per te presso al morire.
E, se con gli ocelli piangi o ti lamente,
e’ son quella, che non trovo riposo
11lo di, ch’io non ti veggio, amor piagente.
E, se due giorni o tre mi stesse ascoso,
io n’anderei piangendo infra la gente,
14cherendo te, meo sir disideroso.

LVII

4 — POETA
È grato ad Amore d’averlo fatto innamorare e contraccambiare.

Gentile ed amorosa ed avvenente,
cortese e saggia con gaia sembianza,
ben aggia il giorno, che vostro servente
4Amor mi fe’, di voi, che simiglianza
non avete né pare, al mio parvente;
conforto e doglia m’è vostra pesanza,
pensandome ch’Amor veracemente
8vi stringa, dolce donna, per amanza.
Di ciò prendo conforto nel coraggio,
e dòlemi se voi doglia portate:
11ché, quando voi dolete, io gioi’ non aggio.
Ma, se di me vi pesa o se m’amate,
Amor ringrazo, che ’n suo segnoraggio
14ini tène, e voi, madonna, ha in potestate.

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LVIII

A BONDIE DIETAIUTI
Qual sia piú degno d’amore, tra un cavaliere savio e cortese e uno prode in armi.

Due cavalier valenti d’un paraggio
amati di core una donna valente;
ciascuno l’ama tanto in suo coraggio,
4ched avanzar d’amar saria neiente.
L’un è cortese ed insegnato e saggio,
largo in donare ed in tutto avvenente;
l’altro è prode e di grande vassallaggio,
8fiero e ardito e dottato da la gente.
Qual d’esti due è piú degno d’avere
da la sua donna ciò, che ne disia,
11tra quel, c’ha ’n sé cortesia e savere,
e l’altro, d’arme molta valentia?
Or me ne conta tutto il tuo volere;
14s’io fosse donna, ben so qual vorria.