Elogio del principe Raimondo Montecuccoli
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E se la virtù, qualunque ella sia, di qualunque età, di qualunque nazione, ha diritto di essere ammirata sempre, ed imitata, par nondimeno che ella prenda un maggior grado di forza e di energia, quando più da vicino ne appartiene, sia per ereditaria ragione di famiglia, sia per pubblico titolo e comune di patria2. Utilissimo fu adunque il provedimento decretato a quest’annua celebrità de’ nostri Studii, di reiterarsi con solenne encomio la memoria e le gesta degli uomini insigni, che qui fiorirono; e la sapienza del consiglio venne ancor più commendata dalla opportunità del luogo, che è Modena, di cospicui cittadini fra le italiche città doviziosissima, e dalla opportunità del tempo, che è il regno di Francesco III3, al quale le antiche lodi di queste provincie non son men care, perchè quelle del felicissimo suo secolo pur le abbiano vinte e trapassate: il cui genio magnanimo, sollecito al pari di richiamare tra noi l’antica virtù militare e la letteraria, si compiacerà certamente della immagine di un chiarissimo vostro cittadino, nel quale in eccellente grado convennero il valore e la scienza, i pregi della penna e della spada, Raimondo Montecuccoli4. Io non oratore, e della milizia imperito, diffidandomi di aggiugnere e a quella sublimità di stile, che le lodi di tanto uomo richieggono, e a quella profondità di dottrina, che la materia desidera, vi supplico, ascoltatori, non imputarmi a biasimo, se in questa cattedra serbata alla più squisita erudizione, e alla più adorna e splendida eloquenza, verrà per me sostituita l’ingenua e nuda verità. La verità, della quale io vi prometto fedelmente servare le tracce, la verità vi parrà in sè stessa così grande ed elegante, che non mi saprete malgrado, se io degli esterni, e non suoi fregi non l’avrò rabbellita; e la grand’anima del Montecuccoli non isdegnerà forse l’umil suo lodatore, se come lui di ogni artifizio nemico, lo rappresenti con quella semplicità stessa, colla quale ei visse, e colla quale ei narrò modestamente le sue vittorie.
Raimondo Montecuccoli5, Principe del S.R.I., Signore di Hoen-Eg, Gleiss, ed Handorff, Consigliere privato di S.M. Cesarea, Cavaliere del Toson d’oro, Presidente al Consiglio di Guerra, Camerlengo, Luogotenente-generale, Generale di artiglieria, e Governatore di Raab, nacque l’anno di nostra salute mdcviii in Montecuccolo, castello di sua famiglia, ed ebbe in genitori Galeotto Montecuccoli e la dama ferrarese Anna Bigi.
Una famiglia da sei secoli chiara e poderosa nella provincia Modonese: l’aspetto delle rocche minacciose sopra i più ardui gioghi dell’Appennino: le sale guernite d’armi, non per inutile apparato di dignità, ma per necessaria guardia e difesa contra le insidie ognora preste e veglianti: le stesse arme vittoriose, quando a soccorso della Repubblica Modonese, quando a servigio de’ signori Estensi ne’ tempi gravi e difficili: la memoria degli antichi meriti perpetuata nelle magnifiche ricompense degli onori e de’ privilegii: la lode presente di un padre chiarissimo per la virtù militare, di due zii, l’uno egregio capitano, l’altro sublime politico; tali furono gli oggetti che a Raimondo ancor fanciulletto si offerivano: tali gli eccitamenti che suscitarono in lui l’amor della gloria colla prima luce della ragione: tali le scintille, che scossero in lui ancor tenero quel genio magnanimo, che nella maturità tutta doveva empiere di terrore e di stupore l’Europa, rassicurare i Monarchi sui lor troni, e preservare la Cristianità dal giogo degli infedeli6.
Raimondo corse le migliori scuole d’Italia7 con somma lode d’ingegno e di diligenza; non differì di condursi alle bandiere di Cesare, dove lo affrettavano e la militar Gloria, ed Ernesto suo zio8. Quell’Ernesto Montecuccoli, che frenò gli Svedesi, quando il vittorioso lor impeto minacciava di eterno giogo l’Alemagna, e l’Impero; che mise all’estremo di lor salute gli Olandesi non debellati da un Farnese, da uno Spinola, e condotti da un Maurizio: quell’Ernesto, che avrebbe nella Italia onor pubblico di monumenti e di simulacri, se la Italia soverchiamente ammiratrice delle lodi straniere non fosse delle proprie spesso ignara, e sempre negligente.
La virtù non consentendo a Raimondo, che ei si obbligasse di alcun benefizio alla fortuna, facilmente lo persuase ad incominciare la sua carriera dagl’infimi gradi9, semplice ed ordinario soldato, discepolo di Ernesto, e nella sublime scuola delle guerre di Fiandra. Ivi gli Spagnuoli e i lor confederati trattavano colle arme la causa della religione, e gli Olandesi quella della libertà; forti quelli per la fermezza delle loro fanterie, per l’abitudine di vincere, per la copia de’ veterani; questi animosi della stessa lor povertà, pieni di quell’orrore della servitù, che tanto è forte nelle nascenti repubbliche, invincibili nell’asilo delle native lor paludi, espertissimi in tutte quelle arti di guerreggiare, che riparano colla sagacità dove la forza non corrisponde. Ivi si eran dati il convegno quanti aveva l'Europa di valorosi soldati, e di maturi capitani: le frequenti fortezze tardavano ad ogni passo con lunghi assedii e travagliosi: le vaste pianure ed illimitate richiedevano nelle battaglie l’estremo del valore e della scienza, e le pianure stesse attraversate da’ larghi fiumi e profondi mettevano spesso, ancor dopo le vittorie, indugii gravi e sanguinosi al progresso de’ vincitori10.
Che in così vario e vasto campo il giovinetto Raimondo meditasse in silenzio le parti sublimi della guerra, non ne dubiterà chiunque ha cognizione de’ genii rari ed inusitati, de’ quali è proprio tutto vedere, tutto investigare, e da’ minimi effetti estendere le conghietture fino alle supreme cagioni. Ma per avventura non era ancor tempo che si manifestasse capitano, quando la privata sua condizione unicamente richiedeva ch’ei fosse valoroso. Soldati, che di animo generosi, vi lagnate della oscurità vostra, persuasi che la fama, per quanto ne siate meritevoli, non degnerà riguardarvi tra la plebe e la moltitudine, apprendete che un uomo solo e privato può talvolta essere di momento a tutti, e che talvolta, siccome si narrò di antichissimi eroi, può da un sol braccio pendere la somma delle cose, e la fortuna delle nazioni. Osservate il Montecuccoli all’assalto del Nuovo-Brandemburgo. Osservatelo11 primo a salire le infedeli scale, e primo a porre il piede sul muro inimico: il ferro, il fuoco, e la disperazione de’ difensori lo rispingono con tutti gli estremi sforzi della ferocia: la morte lo minaccia ad ogni passo, e ad ogni passo gli convien reiterare nuova battaglia: ei nondimeno penetra vittorioso nella città; ne acquista le chiavi; per la porta dischiusa agevola l’ingresso agli assalitori, e la città che combatte al di fuori, interiormente, non avveggendosi, si rimane vinta ed espugnata. Raimondo le conquistate chiavi offre al Generale Tillì, e il vecchio condottiero stupisce della impresa inopinatamente fornita: stupisce di un valore, del quale non è forse l’esempio, se non si cerchi o tra le splendide favole de’ poeti, o tra i rimoti fasti de’ Greci e de’ Romani. Egli il vincitore, l’espugnatore di una città addita a’ circostanti capitani; essi all’esercito: pari egualmente è in tutti il plauso e la maraviglia, e l’universal plauso gli tien vece della corona murale e del trionfo.
Così per tempo si manifestò nell’Eroe modonese quella virtù tutta propria e particolare degli uomini eccellenti, che moltiplica a misura degli ostacoli, e, quando nella opinione di tutti è spenta la speranza, trova per non avvertiti modi la via della salute e della vittoria. Di questo carattere siccome furono tutte le posteriori imprese sue, così nemmen le prime ne erano dissimili; e la storia che tanto ebbe di che spaziare negli anni suoi provetti e maturi, non affatto dimenticò i freschi e giovenili. E veramente non potevasi tacere, senza biasimo di colpevole negligenza, come egli nell’assalto di cinque città ebbe la miglior parte del merito, e come, resistendo all’esercito Kaiser-Lautern forte luogo dell’Alsazia, ei tolse ogni difficoltà, conducendovi cinquecento corazzieri divenuti all’eccitamento ed esempio suo, ad onta della diversa milizia, e della grave armatura, fermi fanti ed espediti. Nè la storia, che annovera fra le celebri giornate quella di Wistoch, può dimenticare che, fidata al Montecuccoli la cura del retroguardo, ei campò i fuggitivi da quella irreparabile rovina, che loro minacciava l’insuperbito nemico incalzando con continua battaglia. E il giovine guerriero celebre nell’esercito, presto il divenne a tutta la Europa, e presto ebbe fama di capitano quando ancor tale non si intitolava di nome. E veramente niun capitano fu mai sì grande che non se gli dovesse ascrivere a somma onorificenza tale impresa, siccome fu quella di Nemeslau, città della Silesia, la quale assediata dagli Svedesi, e deliberata di cedere dove temerario era il contendere, venne da lui soccorsa opportunamente, non facendogli ostacolo gli occulti ed impraticati sentieri, non la enorme disparità delle forze, non l'esperienza e il valore del rinomato Torstedon12; e la città fu libera, e il nemico precipitosamente fugato, e la vittoria stessa nobilitata dell’utile trofeo degli equipaggi, e della illustre preda delle artiglierie.
Ma il valore degli uomini ha una fatal misura dalla necessità e dalla forza, e Montecuccoli astretto a combattere nuovamente cogli Svedesi, sopraffatto da troppo maggior numero, e inutilmente tentate quante eran le vie di vincere o di morire, ebbe finalmente a rimanersi loro prigione13. Cattività felice nondimeno e degna di esser comparata a quella di Regolo, se all’estrinseco splendore di una costanza orgogliosa vuolsi adeguare una modesta pazienza, che si giovò della servitù per agevolarsi la via delle imprese e de’ trionfi. Le scienze consolatrici della sua solitudine e dell’esilio, lo erudirono compiutamente di quanto gli rimaneva a sapere perchè ei fosse perfetto capitano; e tale egli uscì, meditando, della sua prigionia, qual già Lucullo14 della sua nave. Euclide lo instruì della geometria, Tacito della politica, Vitruvio della architettura; le quali scienze celeremente percorse e penetrate, gli avanzò tempo, tanta era in lui la misura di usarlo, perchè ei si erudisse della filosofia, della medicina, e della giurisprudenza, ed anco ebbe valore di sollevarsi co’ teologi nella contemplazione della Divinità. Dotto di tante scienze, versato in tanti idiomi, per la dimistichezza delle storie a tutte le età presente, e a tutti i fatti memorabili, secondo il suo secolo non inelegante poeta, non ignaro in qualunque genere di erudizione. Io non veggo qual titolo a lui manchi, perchè come non si dubitò di annoverarlo tra i sommi condottieri, così non se gli nieghi luogo tra i sommi letterati. Le quali cose tutte io non oserei narrare dinanzi una assemblea di sapienti, che sanno quanto di tempo e di sussidii richiegga una sola facoltà, e non oserei credere che in un uomo in tanti negozii occupato, avesse potuto capire tanta e sì vasta dottrina, se l’aureo libro delle sue Memorie non ne additasse i semi luminosamente, e se tuttodì non ne venisse ricordato quel Cesare, il quale colla mano stessa che soggiogò Roma, stese i commentarii, calcolò i periodi dell’anno, e prescrisse le leggi della latina eleganza16. Libero di sua cattività, parve che la fortuna volesse riconciliarsi seco, offerendogli quella occasione, della quale niun’altra poteva essergli più cara e desiderata, di servire util cittadino alla Patria, e al Sovrano17. Consultate, o Modonesi, gli annali vostri, ed essi vi ricorderanno la vicina Nonantola stretta di assedio, e Modena minacciata: Francesco I, magnanimo principe in lega con discordi confederati, che il lascian solo contra l’urto delle arme Pontificie; le sue genti piene di quel valore che loro spirava tal Sovrano, ma troppo disuguali al bisogno, e appena il terzo delle nemiche; le nemiche forti per la copia, e non vili per la qualità; il paese libero ed aperto; gli animi insuperbiti de’ prosperi successi, e rialzati a grandi speranze dalle esortazioni di un legato che recava l’apparato sublime della religione in mezzo la militar dignità delle artiglierie e degli stendardi. Dalle rimote provincie della estrema Alemagna, e dalle bandiere di Cesare, per quella unica volta nobilmente abbandonate, corse Raimondo al vostro pericolo, e le Estensi milizie a lui fidate, presero tosto il cuore e la forza di grandi eserciti. Bastò loro mostrar la fronte, perchè dall’assedio si desistesse; bastò loro assalire, perchè la battaglia incominciata colla spada si terminasse col disordine, e lo spavento corresse co’ fuggitivi nelle vicine lor terre, che si rassicuravano di rivederli vittoriosi.
La quale impresa siccome nelle eterne pagine della storia vien giustamente annoverata fra le illustri del secolo, e della scienza militare; così, credo io, che quanti ha Modena egregi e leali cittadini, tutti in cuor loro si dolgano di non vederla dalla patria gloria, e dalla patria gratitudine elevata in perpetuo e cospicuo monumento, affinchè meglio apprendano gli stranieri che alla colonia romana non mancarono anime romane, e che il Panaro, egualmente che il Tebro, si nobilitò di un suo Manlio, di un suo Camillo.
Se la fortuna, nimica di nostra nazione da lungo tempo, non avesse disgiunto dal più prode de’ Principi18 il migliore de’ condottieri, non è da dubitare, che le arme italiane non fossero tosto ritornate all’antica eccellenza, e l’Estense famiglia all’antica grandezza. Ma l’Austria, lontano Montecuccoli, non poteva riputarsi lungamente sicura, il perchè dall’Italia, ove rapidamente venne, e rapidamente vinse, con pari celerità si ricondusse nell’Alemagna. Era l’Austria allora travagliata dalla implacabil nimicizia de’ Francesi e degli Svedesi19, nazioni cupidissime di quella stessa signoria, che fu per alcun tratto da lei sovra l’imperio germanico esercitata; poderosi i Francesi per la natural forza del lor reame, prodi per vivacità di sangue e per una certa dimestichezza di combattere contratta nelle civili guerre, e favoriti da’ piccioli stati di Alemagna per l’invidia de’ maggiori; gli Svedesi conquistatori sotto Gustavo Adolfo, e freschi ancora di quella nobilissima scuola, nati sotto militar costituzione, come i Romani, e, come i Romani, agricoltori a vicenda e soldati, e tanto più certi di opprimere l’imperio, quanto che per la Pomerania vi erano domiciliati, e quanto che ne contenevano i Principi sotto il freno di una simulata protezione; e quasi per gli accennati nemici non fossero abbastanza mal condotte le cose austriache, si aggiugnea il terrore de’ Turchi, sempre sull’arme, e sempre, quando palesemente non nuocevano, intenti ad assecondare la ribellione, che impunemente inalberava nella Ungheria il suo stendardo fra le acclamazioni de’ popoli, cui pareva esser liberi, quando si mutava titolo e nome della loro suggezione.
Gli affari di Cesare per tante forze congiurate ridotti a miserabile stato e luttuoso, furono a Raimondo confidati, a quell’unico forse tra gli uomini che fosse capace di riordinarli: le prime imprese ch’ei fece, non ismentirono l’opinione che si era divulgata di lui20. Gli Svedesi rotti in battaglia, frenati nella Franconia, nella Silesia e nella Moravia, esclusi da tanti luoghi forti, donde signoreggiavano l’Alemagna, conobbero che l’arte loro era da miglior arte combattuta. Invano a’ Francesi congiunti agli Svedesi riuscì di valicare il Reno e il Danubio, rompere l’Holtzapel in fiera giornata e sanguinosa, e ridurre le speranze e le difese degli Austriaci alle reliquie di un esercito fuggitivo. L’esercito fuggitivo implorò il genio di Raimondo, e il valore e la scienza sua tennero vece delle schiere, che mancavano alla necessità. Ella intratteneva l’inimico di que’ lievi combattimenti che preservano il campo da’ grandi ed universali; riparava a’ luoghi angusti e difficili, i quali, senza moltiplicar l’arme, moltiplicano la forza e la difesa; riduceva in salvo le fanterie di continuo insidiate, e le ricoverava, dove, potendo non molestate aspettare i rinforzi, le cose nella primitiva loro integrità si restituissero.
L’ozio che si godè per la pace, non fu riposo a colui, cui niuno istante di tempo correva vuoto ed inutile, e di alcuna sua particolar lode non illustrato21. Vago di nuova erudizione, ei la procacciò dai viaggi, i quali sono appunto scuola feconda di utili ammaestramenti, ed efficacissima a procacciare quella pratica conoscenza degli uomini, dalla quale deriva la scienza di ben governarli. Trascorse, o, a meglio dire, misurò con occhio filosofico la Germania, sede di tanti dominii, e maravigliosa repubblica di Stati, che sussiste per la contraddizione medesima de’ suoi principii. Esaminò la Fiandra, region militare, della quale, per così dire, ogni sasso è monumento di alcuna battaglia. Vide la Olanda, sede della libertà, e portento della industria e del commercio; e finalmente approdò alla Svezia, alla patria di Gustavo e di Cristina: di quella immortal donna, che allora conduceva sul trono di una bellicosa nazione la pacifica sapienza, e che di poi, per amor della sapienza e della verità, osò magnanimamente ricoverarsi nella tranquillità della vita privata.
Il desiderio di osservar nuove genti e nuove cose, e la immensità della distanza non rattennero Raimondo, che non ponesse ad effetto il pensier suo di rivedere la patria, ed ei la rivide per l’ultima volta22. Non vi sia grave, se io non ve lo rappresento invincibil giostratore nell’arena del torneo, e così degno della palma olimpica, come dell’alloro di Marte; e permettetemi che io tenga silenzio di quella sua funesta vittoria, ch’ei detestò finchè visse, e di quella fatal lancia, che, scossa dall’irresistibile impeto del suo braccio, ritornò a lui tinta del sangue di un amico. E nemmen vi sia molesto, se volto ad oggetti lieti, io non ve lo addito, quando ambasciatore23 a Monarchi, ed ammirato, siccome colui, nel quale si congiungeva alla fortezza d’Achille la non men pregiata facondia d’Ulisse, e quando trascelto al supremo onore di condurre all’imperial talamo, e al trono della Polonia spose reali. E siami ancor concesso di tralasciare, come la fama del suo nome, e l’amabilità della sua persona furono ampiamente ricompensate dal possedimento di Margherita principessa di Diechtristein24 sua sposa, fiore della Corte Cesarea, e inimitabil modello così della somma bellezza, che della somma virtù. La gloria che non gli lasciò riposo, se non breve ed interrotto, non consente che il lodator suo si allontani da quel teatro di guerra, ch’ella nuovamente e con tanto strepito dal settentrione gli dischiudeva.
Gli Svedesi, non meritevoli di un re filosofo, ebbero in vece di Cristina, Carlo Gustavo25, principe turbolento, della quiete nimico, perturbatore dei vicini, ed avidissimo di dilatare i termini del suo reame, estimando men del dovere la equità, e forse più del giusto la propria potenza. Il perchè, colto il tempo che la Polonia era perturbata dalla ribellione de’ Cosacchi, e combattuta da’ Moscoviti, ei non differì di volgersi sopra quel reame, sperando, quando era messo in tumulto, non temeraria la impresa di assalirlo, e non difficile di soggiogarlo. La Polonia, stato aristocratico, al quale i nobili, che fieramente vi presiedono, si proponevano per oggetto l’oppressione del popolo, alla cui rovina bastava un solo, e alla salute si richiedeva il raro consentimento di tutti, non avrebbe lungamente combattuto per la sua libertà, se la pietà di Cesare non la soccorreva, non perchè nell’ottimo suo re Casimiro non fosse animo e cuore, non perchè alla Nazione mancassero combattenti; ma non era nel re tanta autorità da contenere i grandi nella osservanza de’ suoi decreti, e nella fede alla patria, e non era nelle milizie alcuna disciplina e alcun uso di obbedire all’imperio di un solo condottiero. Ricorderanno i polacchi, se la memoria de’ benefizj duri nelle Nazioni, e la invidia verso gli stranieri più facilmente non la cancelli, come essi furono della loro salvezza principalmente al Montecuccoli debitori; quando ei dapprima resse la cavalleria, di poi tutto l’Esercito, quando ei ruppe e disfece il transilvano Ragotzi congiunto a Gustavo, quando ei battè più volte per la campagna gli Svedesi, gli discacciò di Cracovia, gl’inseguì fino a Thorn, e privi di asilo e di sussistenza, gli astrinse ad abbandonare e lasciar vacuo delle arme loro quel regno, che poc’anzi corso ed occupato, quasi tra le provincie loro si annoverava.
Ma l’impeto di Carlo Gustavo rotto e respinto nella Polonia, inopinatamente si gittò sopra la Danimarca, la quale non preparata, vide gli Svedesi correre vittoriosi ogni parte di lei, infino a che la somma della guerra si ridusse intorno le mura della capitale, unico ed estremo asilo di una nazione quasi debellata. Pareva giunto il momento che la Svezia vendicasse con perpetua servitù l’antico giogo, che ella aveva portato degli odiati Danesi; pareva il tempo che la vasta Scandinavia servisse ad un sol re, e si adunasse in una sola monarchia; pareva quasi che l’Europa inorridita ne presagisse da’ Goti più poderosi e men barbari quelle invasioni, delle quali dura tuttavia la memoria in tanti magnifici vestigii di rovine e di devastazione.
Non era la Danimarca meno oppressa, e meno sbigottita, che la Italia dopo il fatal giorno di Canne, e alla Danimarca non mancò Scipione, se lecito è di un medesimo nome intitolare due sommi capitani, ne’ quali fu tanta somiglianza della virtù, e delle imprese.
Raimondo avanti di procedere alla nuova guerra, trasse a collegarsi con Cesare quel Sovrano di Brandemburgo, che la Posterità distinse col nome di grande, nè fu difficile ch’ei lo persuadesse con parole, dove precorreva tanta persuasione di fatti. E aggiunta colla energia del suo genio nuova e inusitata celerità all’esercito, per lunghissimo cammino pervenne alla Danimarca non intempestivo. I primi passi furon vittoriosi, e l’isola d’Alsen, ponte quasi e tragitto alle isole maggiori, e munita del presidio di quattromila Cavalli, e della fortezza di Neoburg e Federiscöde, antemurale della Jutlandia medesima, vennero in podestà de’ confederati, estenuandosi e dimezzandosi in brevissimo tratto le conquiste dell’inimico. Ma questi ed altri progressi non riuscivano a molta utilità, quando l’esercito svedese accampava nella Fionia, isola troppo opportuna a contenere un reame non molto esteso, e tutto marittimo. Non pareva scampo alla Danimarca, se gli Svedesi non si assalissero nelle nelle loro trincee: la stessa impazienza che trasse i Pompejani nell’irreparabile sconfitta di Farsaglia, quella stessa animava i confederati: uno era in tutti il desiderio di combattere, e la fiducia di trionfare: tutti, come sicuro ed espedito termine delle fatiche loro, la Fionia riguardavano. Consiglio più assai generoso che prudente, nel quale convenendo il maggior numero, non valse che Raimondo dissentisse. Ad onta del mar procelloso, e colla scorta di nocchieri che abborrivano dalle mete ove le navi si dirigevano, pur si pervenne a quell’isola male augurata, nè si volsero addietro le vele, perchè ella apparisse aspra, terribile, minacciosa, dove chiusa di acuti scogli ed inaccessibili, dove munita di batterie, torreggiante di fortezze, e difesa dall’esercito ferocemente ordinato a combattere; esercito florido, preparato all’assalto, e condotto dall’Ammiraglio Wrangel, il miglior capitano d’una nazione, dove rari non erano gli eccellenti. Pur si provocarono, tanta era l’alacrità, pericoli maggiori di ogni forza umana, e si provocarono da genti inesperte all’orrore de’ marittimi cimenti. La spiaggia fulminava sugli ignudi fianchi delle navi: le navi, fendendosi in molti lati, si approssimavano verso gli abissi aperti ad ingojarle: i lor colpi debilmente rispondevano, percuotendo sulla invincibil rupe, o sulla impenetrabil trincea. Tinte erano l’onde di molto sangue, e sullo sparso sangue non però si agevolava la via della discesa.
Furono, non vuol negarsi, rispinti i confederati. Ma colui che non ebbe parte all’errore, egli ne meditava il riparo, rivolgendo in suo cuore uno di que’ consigli, che, nati in mente degli uomini grandi, contengono in se stessi un non so che di portentoso e di divino, cui pare che la forza medesima non abbia efficacia di resistere, e la indocile fortuna non osi disubbidire. Conobbe Scipione, che Roma, minacciata nel Lazio, non altrove meglio sarebbesi difesa che nell’Affrica; e l’emulo ed imitator suo opinò che la Fionia si dovesse vincere nella Pomerania. La qual provincia, trascorsa da’ confederati quasi a un tratto e conquistata, implorò soccorso, nè parve agli Svedesi conveniente di abbandonarla. Ma le divise forze nè bastarono a difendere il proprio, nè ad offendere l’altrui. Allora l’ingresso nella Fionia fu agevolato, e le arme cesaree, opportune e prossime nella Jutlandia, vi tragittarono impunemente. Invano gli Svedesi, all’avvicinarsi dell’esercito, ripararono sotto i bastioni e le mura di città forti e poderose: l’impeto degli assalitori non si ritenne per ostacolo, ed essi, provocati a giornata, lasciaron sul campo il fiore delle lor genti, e, alla eccezion di due, tutti i generali. Copenhaguen fu libera e sciolta dal lungo assedio, che già stancato aveva il valore de’ più forti: la gloria di una bellicosa nazione depressa eternamente salvo il trono danese, e per la mano del Montecuccoli rassicurato.
Che se coloro tra gli uomini son meritatamente celebrati, che gli hanno beneficati maggiormente, e meglio per la pubblica utilità si sono adoperati; se il valor de’ guerrieri è degno de’ plausi della fama e dell’immortalità, allor solamente che ei per la giustizia combatte, e dalla violenza e dalla oppressione i conculcati diritti protegge della umanità e delle nazioni: io non veggo che alcuno antico o nuovo titolo di lode possa anteporsi a questa lode del Montecuccoli, aver potuto egli privato preservare al soglio due monarchi, e due reami alla libertà: aver vendicata la Europa, rivolgendo le procelle della dissensione sul capo a coloro, che da tanto tempo si erano malignamente compiaciuti di suscitarle.
Ma le procelle sopite nel settentrione, risorsero dall’oriente più gravi e più minacciose, e Cesare provocato a guerra da’ Turchi, ebbe presto a sperimentare quelle angustie stesse, ond’altri era uscito poc’anzi per la sua beneficenza.
L’austriaca monarchia, alla quale oggi giorno il magnanimo genio di Maria Teresa e dell’augusto suo figlio hanno restituito, se non i dominj, certo l’antica forza ch’ella godeva all’aureo per lei secolo di Carlo V, languiva allora malferma nelle fondamenta, e debilitata dal peso stesso della propria grandezza26. L’oro, primo argomento di tutte le imprese, mancava agli erarj, e gli erarj spesso larghi alle profusioni, erano sempre angusti alle necessità: quindi appena le frontiere munite di presidj: gli eserciti levati al bisogno, e poi disarmati, e niuna stabilità di difesa: gli eserciti stessi adunati in gran parte degli stranieri sussidj dell’imperio, armi sempre nuove, e non mai volontarie: quindi i popoli gravati dall’intrattenimento de’ soldati, e per occulta avversione nimici de’ loro molesti ed importuni difensori. Al contrario ne’ Turchi erano, siccome molti vizj di natural barbarie, così il compenso di molte virtù27. Sempre apparecchiati di armamenti e di munizioni, sempre guardati da un esercito di giannizzeri perpetuo per costituzione, per necessità veterano: le leve non forzate, non tumultuarie, ma spontanee, ma scelte: la profession militare appresa per iscuola dalla fanciullezza, contenuta dalla atrocità de’ castighi, rialzata dalla larghezza de’ premj, e sola che alle dignità conducesse: un dogma che toglie l’orrore alla morte, e la morte de’ valorosi rallegra di lusinghiere ed immortali promesse: un erario perenne che non teme impoverire: una potenza illimitata, difficile a stancarsi per avversità, ed attissima a stancare anco i vittoriosi.
Niuno imperio fu mai così vicino a perire come l’Austriaco a quella occasione, avvegnachè tanta fosse la sua strettezza, che a centomila nimici potè appena contrapporre seimila Combattenti28. E qual uomo senza nota di temerità avrebbe potuto della salute dell’Austria non disperare, salvo un Montecuccoli, al quale fidata l’avea l’ordine eterno della Providenza, e la superior tutela della Cristianità? La storia narrerà per qual modo con sì tenui forze,che ancor più tenui divennero, tenesse fronte a tanto nimico l’intero tratto di una campagna, e la verità, non dubito, prenderà faccia di favola e di esaggerazione. Narrerà come, lasciando che i barbari spaziassero per ampio paese, ei le anguste forze in angusto territorio restrinse; come accampò, dove nè per moltitudine poteva circondarsi, nè per alcuna parte venire esplorato, dove come a cenno li riferiva a Città forti e munite, e per navi signoreggiando il Danubio, non potevansi al campo proibire i sussidii e le vettovaglie. Narrerà la storia minutamente dove di ogni minuta azione grandissima era la utilità, com’egli, facendo fronte alle ripe de’ fiumi, acquistò tempo, indugiandone i passaggi, e come finalmente egli intrattenne il Turco lentissimo in un assedio, in fino a che la rigida stagione lo ritraesse ai quartieri, e all’ozio inoperoso del verno.
Nel qual tratto di riposo ebbero le armi cesaree tempo e spazio di ristorarsi, e alla imminente ruina dell’Austria non mancò di sussidii la Francia e l’Alemagna29. Già il Raab angusto fiume è il sol limite che separi le due Nazioni, e tutto lo sforzo e il furore di quella lunga guerra, e gli animi e l’attenzione dell’Asia e dell’Europa, i timori, le speranze, la libertà, la gloria di cristianità sono ridotti a quel varco, utilissimo a’ Turchi se lo tragittino, fatale a’ Cesarei se nol difendano. Fida il Visir nella moltitudine e nel barbarico lusso delle artiglierie, e de’ cavalli, fidano i cristiani nella fermezza, e nell’ordine. Le prime lor linee son munite delle picche, le estreme de’ moschetti, mescolamento di arme opportunissimo, aprendo quelle la via coll’urto, queste sgombrandola col fuoco. Riempiono il centro le genti nuove e collettizie dell’Imperio, e le ale, luoghi da non iscompigliarsi impunemente, son tenute da’ Veterani. Son prima gli Ottomani ad assalire: condotti dal Visir varcano il fiume, si gittan sul centro de’ Cesarei, e il centro si rompe, si disordina. Vince il condottiero il panico timore nato fra’ suoi di quel primo assalto, gridando magnanimamente, nulla doversi paventare, quando ancor non si era tratta la spada, e raccolte genti dalle riserve, percuote di fianco i barbari, e li rispigne nel fiume. Ma la moltitudine supplendo a’ difetti della minor disciplina, somministra nuovo esercito a’ nimici, e la battaglia in un luogo fornita, ripullula nell’altro più fiera, e più sanguinosa. Non giova resistere, e servare il campo, quando, gli infedeli fermi a’ luoghi occupati, non si rimuovono; intanto che la sollecita opera de’ guastatori li ripara col presidio delle trincee; intanto che interminabili squadroni di Cavalli tragittano il guado, e poco manca a’ cristiani che non sien chiusi e circondati, terribil situazione, dove dubbio è l’uscire e certo il perdere. La timida prudenza de’ confederati consiglia che si suoni a raccolta, e la generosa prudenza del Condottiero non vede scampo che nella spada e nella vittoria. Si ricurva a foggia d’arco l’esercito cristiano, e con generale battaglia, di assalito assalitore, investe il nimico per la fronte e per li fianchi: il furor suo vien lungamente ributtato dal maggior furore de’ giannizzeri e degli albanesi, e lungamente dubbiosa è la sorte del cimento: ma le migliori arme prevalgono alle molte, prevalgono alle stesse trincee. Finalmente il Visir si delibera di retrocedere, e ricoverarsi sull’altra ripa: ma dato il segno di ritirarsi, le genti, rotto ogni ordine, misti cavalli e fanti, si addensano al letto del fiume troppo angusto a tanta moltitudine: impacciati nè posson rispondere al fuoco de’ Cristiani, nè salvarsi col nuoto, e i gorghi del Raab, traendoli a fondo, compiono quella vittoria, che le spade non avevano ancor pienamente maturata. Tal fu l’esito della giornata di S. Gottardo, così detta dal luogo del combattimento, giornata illustre, ed eternamente memorabile, se, considerati i pericoli, le difficoltà, e le conseguenze, ella fu alla Cristianità quello che Zama ai Romani, quello che Maratona agli Ateniesi.
Felice Cristianità, se la pace conseguita per tanto valore, non si fosse perturbata dalla cupidità della Francia, e del suo giovine Monarca, il quale troppo della propria possanza era lusingato, perchè egli inorridisse del sangue, e delle disavventure che deturpano il lauro de’ conquistatori. Io mi veggio pur condotto, dove forse il desiderio vostro da lungo tempo mi affrettava, a quella memorabile stagione, quando l’Europa, quasi di ogni altro pensiero dimenticata, stette attonita e sospesa ad osservare la fortuna dubbia in egual virtù fra’ due maggiori capitani del secolo, Montecuccoli e Turenna31. La sublime scuola del guerreggiare non ha forse alcun tratto più eccellente, nè più fecondo di ammaestramenti, siccome quella campagna; ed io non dubiterò di reputarla maravigliosa, quando ella parve tale all’oracolo della scienza militare, a Federigo, quel Grande che nobilita il Trono e l’età nostra, o se colla spada eserciti l’arte di vincere, o se la insegni colla penna e colla lira. Posso io tacere, com’egli, agguagliando Raimondo al vincitore di Pompeo, inviti i giovani guerrieri a riguardarlo sul Reno, o se per la scelta del campo ei preserva l’Alemagna, o se mutando spesso di luoghi, dovunque è presente a’ Francesi, dovunque rende infruttuosi i loro progressi, o se, antiveggendo sempre, le azioni sue misura colle intenzioni del nimico, se animoso approssima, se cauto retrocede, se, accennando sempre nuovi disegni, i disegni dell’avversario debilita ed interrompe? Per tali atti di incomparabile prudenza si conduceva il sagacissimo Italiano, quando la morte immatura e momentanea del Turenna cangiò di aspetto le cose, e il pubblico giudizio, che pendeva dallo sperimento di una battaglia, si rimase incerto a qual de’ due competitori convenisse aggiudicarsi la preferenza.
Certificato della morte dell’avversario, Raimondo lo pianse con lagrime sincere e generose, parendogli che non potesse giammai bastevolmente deplorarsi la perdita del maggiore degli uomini, siccome ei si espresse, e di colui che parve nato per onore dell’uman genere: parole, nelle quali è il senso del più ampio elogio, e più facondo, e delle quali può nascer dubbio se maggiormente il lodato onorino o il lodatore: parole piene di equità, che non furono con pari gratitudine dagli scrittori francesi ricambiate32. Certo coloro che non temerono di asserire essere allora il Turenna pervenuto al vantaggio, ed aver la morte sua preservato il Montecuccoli dal rossor di soccombere, hanno dimenticato il Montecuccoli nell’anterior campagna espugnatore in faccia a’ nimici della munitissima città di Bona, il tragitto del Reno lungamente conteso, e nobilmente superato, e l’emulo suo condotto alla necessità di una battaglia: hanno dimenticato che il francese assalitore, e deliberato di spaziare largamente per l’Alemagna, fu represso nella frontiera e contenuto nell’angusto circolo di poche leghe: hanno dimenticato che l’Italiano egregiamente sostenne le parti della difesa che erano le sue per allora, di che ne seguita che ei potè meritamente arrogarsi quel titolo di vincitore, che si compete a colui che ha soddisfatto all’intento, al quale ai guerreggiava.
Io però, lasciate a miglior senno del mio queste contese, non dissentirò al tutto dalla opinione di chi reputò essere stati fra que’ due chiarissimi condottieri i lineamenti della più evidente somiglianza. Amendue nipoti di due grandissimi capitani, l’uno del Principe Maurizio, l’altro di Ernesto e loro discepoli; amendue dagli infimi gradi pervenuti a’ supremi: amendue di elevato ingegno, di rettissimo giudizio, e non alterabili per alcuna passione: valorosi abbastanza, perchè niuna nota di timidezza li contaminasse, e abbastanza moderati, perchè non fosse loro rimproverato giammai alcuno eccesso di temerità. Assuefatti a combattere e a vincere per istudio, reggendosi tutti per la ragione e nulla per la fortuna: solleciti dell’esito e della pubblica salute molto più che della privata lor gloria: solleciti del sangue de’ lor soldati e delle ricompense, e degnissimi dell’egregio titolo di padri dell’Esercito. Tali sono i rapporti comuni, a’ quali siami lecito per amor della verità contrapporre alcune dissimiglianze. La predilezione dei soldati, moderata nel Montecuccoli, spesso diveniva eccedente nel Turenna, al quale insolito non era rallegrare l’esercito delle sostanze de’ popoli disarmati ed innocenti. La severità, virtù funesta, ma tra l’arme necessaria, nel Turenna qualche volta prese colore di inumanità, e non sono, per così dire, affatto spente le fiamme del Palatinato, dell’Alsazia e della Lorena, e si odono tuttavia con ribrezzo della storia gli scherni, ond’egli rispondeva alle strida de’ popoli, e alle querele de’ Principi33. Turenna finalmente cessò di giovare alla patria, dacchè ei cessò di vivere, e Montecuccoli, perpetuando nelle auree sue Memorie la dottrina ch’ei praticò con tanta lode ed utilità, potè freddo e taciturno dalla tomba ancor vincere e preparare all’Austriaco Imperio la sua futura grandezza34.
Se la vasta e fertile Ungheria più non geme sotto il giogo degli Ottomani, se la effrenata potenza loro si contien ne’ limiti della moderazione, se l’Austria prese consiglio di rimanersi sempre armata e difesa, se le frontiere dell’Imperio suo munite di validi presidii più non temono l’impeto delle subite e non prevedute irruzioni, altro non è tutto ciò, se non gli insegnamenti di quell’aureo volume posti ad effetto, e religiosamente adempiuti. L’arte della guerra ebbe in esso quelle istituzioni di nuova scienza36, che le nuove arme da tanto tempo desideravano, ebbe il fondamento di semplici ed innegabili principii, e in mezzo i dubbii delle conghietture, il certo lume degli aforismi. Ammiravano le Memorie del Montecuccoli non meno i militari, che i letterati. I militari, fra’ quali non si tace di un Duca di Lorena, di un Principe di Anhalt, e dello stesso celebre nome del gran Condè, non pur riconobbero l’arte ordinata, ma di nuovi e insigni documenti accresciuta.
La militare architettura, nata in Italia37, e dagli Italiani geometri ridotta a forma d’arte, e qualità di scienza, assai prima che la illustrasse il facil metodo e il sublime disegno di un Coheorn, e di un Vauban, vi è considerata con quella ragione, che si conveniva a tanto senno, congiunto a così lunga e ponderata sperienza. Le artiglierie, delle quali era allor l’uso incerto e difficile per la soverchia varietà delle forme furono primieramente dal Montecuccoli condotte a quella utile semplicità, dalla quale la moderna Scienza Militare non si è giammai dipartita. La sussistenza degli eserciti, spesso di que’ tempi avventurata al caso, fu per aurei documenti assicurata sopra sagacissime cautele. L’arte di accampar con vantaggio, salute de’ piccioli eserciti, vi fu dimostrata sottilmente; e i Capitani appresero vie meglio a ricoverarsi in quelle fortezze, che tra’ monti, fiumi e foreste delineò la stessa natura. Piacque a’ letterati la nitidezza del metodo, e nella immensità delle materie la brevità prodigiosa, lo stile non inculto, e non soverchiamente ornato, libero de’ vizii del secolo, e tanto eloquente di cose da negliger volentieri la splendidezza delle parole. Parve maravigliosa la erudizione sparsa per tutto il libro, la quale, raccogliendo in un prospetto la sperienza nuova ed antica delle bellicose nazioni, le lodi, i biasimi, le virtù, gli errori, i chiari fatti, gli illustri capitani, mai non degenera nel lusso, e mai non trapassa i limiti della opportunità.
Un uomo elevato di tanto intervallo sopra gli altri uomini del suo tempo, e della sua professione, doveva a un tratto eccitare e la ammirazione nel pubblico, e la invidia nella Corte38. Quella invidia, che Camillo e Scipione liberatori della lor patria, che il prode Xantippo, e il giusto Aristide trasse a tristo ed oscuro esiglio, quella stessa più volte intentò gravi ed acerbe molestie al liberatore dell’Imperio e della Cristianità. La invidia che prendendo colore di zelo, scusa sotto il titolo della sincerità la calunnia e la frode: che moltiplica le lodi, dove elle sono superflue e inopportune, per meglio riserbare alle opportunità i biasimi e le censure: che ammaestrata di tutte le vie sotterranee, per le quali si nuoce alla virtù, vegliante sempre con guardia gelosa al passaggio delle anticamere e de’ gabinetti per allontanare dal Trono la paventata verità, umile e pronta a qualunque mezzo, ancorchè turpe ed indecoroso, dove giovi a conciliar favore, superba dopo l’intento, e fiera a conculcar l’oppresso merito: quella invidia stessa poco mancò che non deprimesse il Montecuccoli, che non potesse ella sola quello, che nè gli indomiti Svedesi, nè gli impetuosi Ottomani, nè la scienza e l’accorgimento del gran Turenna avevano potuto. Pur la luce e la forza del merito di Raimondo fu così splendida e vigorosa, che le armi della invidia non produssero lungo effetto e durevole, cosicchè egli, a malgrado de’ colleghi suoi, trionfò assai volte nel campo, trionfò similmente, ad onta degli emuli, alla Corte; dove, quando la sua persona dalle ferite, da’ disagi e dagli anni debilitata, non gli permetteva di condurre eserciti, ei nondimeno dalla prima sede del consiglio di guerra ne fu legislatore e giudice supremo. Nel qual grado, non mai disgiunto dal suo signore Leopoldo Cesare, ei morì, seguendolo in Lintz l’anno del secolo ottantesimo primo, e della età sua settantesimo terzo.
Il suo sepolcral monumento si illustrò di tanti titoli, quanti mai possono adunarsi in un privato, se privato può dirsi quegli, che il sublime Collegio dell’Imperio annoverò tra’ suoi Principi. Su la sua tomba pianse la Milizia un Capitano, nel quale convennero la prudenza di Fabio, la fermezza di Scipione e la celerità di Cesare: la religione l’osservator più leale del suo culto e de’ suoi decreti: la civil società il più gentil cortigiano, e il più culto cavaliero: la filosofia il cuor più fermo alle avversità, e nelle prosperità il più modesto: le lettere non meno il coltivator loro, che il lor protettore munificentissimo. Sulla sua tomba la Germania armata ricorda il suo liberatore, e il maestro degli eserciti suoi: la Germania erudita ricorda la promossa per lui filosofica Società de’ Curiosi della natura, e con essa il moltiplicato patrimonio delle scienze39. Sulla sua tomba l’Italia si riconforta delle ingiurie del tempo e del ferro, dell’imperio perduto, e de’ suoi lunghi e crudeli infortunii, quando periti tutti gli argomenti della romana grandezza, tanto ancor le avanza della romana virtù.
Note
- ↑ Dall’edizione di Parma fatta nel 1775.
- ↑ [p. 51 modifica]È stabilito che, in vece della consueta Orazione inaugurale, si reciti all’aprimento annuo delle Scuole della Università di Modena l’Elogio di alcun soggetto illustre Modanese, o dello Stato. P.
- ↑ Le opere di Sovrano così glorioso non sono da restringersi in una nota; senza che oggimai superfluo sarebbe il novellarle, dove tutta l’Europa ne è consapevole ed ammiratrice. La povertà ricoverata nel grande albergo, e nello spedale, Modena quasi riedificata, la difesa dello stato provveduta d’arme copiose, il commercio agevolato per ampie vie sulle più ardue montagne, la pubblica felicità stabilita nelle ottime leggi, le lettere soccorse e colla doviziosissima biblioteca, e colla università grandiosamente creata, ed infiniti altri benefizii procacciati dal suo governo, son tali vanti, che vogliono essere compiutamente noverati, e descritti da uno storico, e debbonsi tacere quando non è permesso che di accennarli. Nota dell’A.
- ↑ [p. 51 modifica]Il Principe Montecuccoli visse in un tempo, nel quale assai men rare erano le azioni generose e segnalate, che gli scrittori capaci di degnamente raccontarle. E’ stato dunque bisogno ricorrere a’ libri brevi, disordinati, e spesso ancor non del tutto veritieri, e questi raffrontare colle storie del tempo, e delle varie nazioni, [p. 52 modifica]colle quali il Montecuccoli ha combattuto, affine di riconoscere i fatti più al minuto, e di separare la verità dalla menzogna. L’Autore non sarebbe venuto a termine di questa sua fatica, se l’altrui soccorso non gliela avesse agevolata, procurandogli, ed additandogli gli opportuni materiali. Egli dee moltissimo a S. E. il signor Marchese Gherardo Rangone, consigliere intimo attuale di stato di S. A. S., riformatore nel dicastero degli studii, e ciamberlano delle LL. MM. II. e RR., cavaliere pieno di erudizione di ogni genere, non men profondo nelle più sublimi facoltà, che dotto in moltissime lingue, cui le scienze debbono assaissimo per la sua generosa sollecitudine di proteggerle, e cui dovranno assai più, se egli, in vece di promoverle coll’opera altrui, elegga piuttosto di usare la propria. Il chiarissimo signor abate Gabardi, uno de’ prefetti della ducale biblioteca, ha pure additati all’Autore parecchi reconditi documenti intorno la persona del Principe Montecuccoli, nascosti a tutt’altri, e noti alla sua grande ed infaticabile erudizione. Il dotto non men che cortese signor avvocato Lodovico Ricci con liberalità spontanea ha comunicate all’Autore parecchie lettere originali dello stesso Montecuccoli, ed altri rari e pregevoli documenti, che a lui si riferiscono. P.
- ↑ [p. 52 modifica]Il Moreri ed altri scrittori non italiani dicono che il Montecuccoli fosse stato investito dal Re di Spagna del ducato d'Amalfi. Io non prenderò nè a negarlo, nè ad asserirlo, non parendomi di avere riscontri abbastanza sicuri su tal fatto. Ben potrebbesi facilmente essere preso equivoco con Ottavio Piccolomini, sanese, generale anch’egli di Cesare, e antecessore del Montecuccoli, il quale veramente era Duca d’Amalfi. Fu il Montecuccoli dichiarato Principe dell’imperio l’anno 1678. P.
- ↑ [p. 53 modifica]Aveva in animo l’Autore di riepilogare in una nota la storia della famiglia Montecuccoli, affinchè nulla mancasse di ciò che poteva illustrare la vita del gran Raimondo. La vastità della materia, e la brevità del tempo non lo hanno permesso. E veramente superfluo quasi sarebbesi giudicato in un secolo, che non molto si compiace delle genealogie, diffondersi su la storia di una famiglia così cospicua, e così dovunque conosciuta. Le vite del conte Raimondo pongono tutte, che la famiglia sua fosse nobile da sei secoli. Non lo hanno asserito senza ragione. Perchè, lasciando le tradizioni, che la dicono venuta di Germania fino dall’anno 860, e la opinione di Gasparo Sardi, nella storia Ferrarese, che la crede venuta in Italia l’anno 1014, abbiamo nelle cronache Modonesi che un Gherardo Montecuccoli, signore di Montevelli, giurò di condurre a sue spese le sue genti a benefizio del comune di Modena l’anno 1170. Una famiglia così potente nel duodecimo secolo dee presumersi di una origine anteriore al secolo stesso. P.
- ↑ [p. 53 modifica]Studiò in Modena, in Perugia e in Roma. P.
- ↑ [p. 53 modifica]Girolamo fu primo ministro di stato del Tirolo. Ernesto pervenne al grado di generale delle artiglierie di Cesare, e fu veramente uno de’ maggiori capitani del secolo. Nelle guerre di Fiandra ei si diportò per modo che Grozio ebbe a dire: Nunquam res ordinum pejori loco visæ, quam cum Ernestus Montecucculus Bataviam premeret. Il signor di Voltaire avendo fatta menzione di lui negli annali dell’Imperio, anno 1598, così riflette: Ceux qui ont porté ce nom (Montecuccoli) ont été destinés à combattre heureusement pour la maison d’Autriche. P.
- ↑ [p. 53 modifica]Ristringerò qui la carriera militare del conte Raimondo. Entrò volontario. Militò nella fanteria ora colla picca, or col moschetto; nella cavalleria or dragone, [p. 54 modifica]or corazziero, praticando così tutte le arme che erano in uso al suo tempo. Servì alfiere nella compagnia del colonnello Wrangler. Ebbe una compagnia di corazze nel reggimento del conte Ernesto suo zio. Fu fatto sergente-maggiore nello stesso reggimento. Fu tenente-colonnello nel reggimento Fiston. Passò nello stesso grado nel reggimento del principe D. Annibale Gonzaga. Nel 1635 ebbe il reggimento di cavalleria del principe Aldobrandini, morto nella battaglia di Nordlingen. L’anno 1642 fu promosso al grado di sergente-generale di battaglia. Per la guerra di Castro, Francesco I Duca di Modena lo dichiarò Maresciallo generale delle sue armi. Cessata quella guerra ritornò in Germania, e l’Imperadore lo creò nell’anno 1644 tenente-maresciallo. Poco dopo ebbe il comando supremo delle armi nella Franconia, in assenza del generale Hatzfeld. Ebbe il comando delle armi similmente nella Silesia, e lo ebbe della cavalleria, sotto l’Arciduca Leopoldo, nella Ungheria. Ebbe il comando supremo contra i Francesi nell’anno 1672, e di poi nella stessa guerra del 1674. Lo aveva avuto anteriormente pur nella Ungheria nelle guerre del Turco. Nel 1665 fu dichiarato presidente al consiglio di guerra. P.
- ↑ [p. 54 modifica]Un uomo nato per le armi non poteva desiderare scuola migliore delle guerre di Fiandra. Non vi ha esempio di altre, che egualmente durassero. La religione ne fu il pretesto; ma le vere cagioni bisogna dedurle dalla acerbità di Filippo II Re di Spagna e del cardinale di Granvela suo ministro, il quale, promulgati editti che distruggevano i privilegii e il commercio della nazione, puniva come di fellonia qualunque rappresentanza. Dall’altre parte Maurizio di Nassau, mettendosi a capo de’ malcontenti, mostrando di proteggere e la setta di essi, quasi tutti protestanti, e la [p. 55 modifica]pubblica libertà, tendeva a signoreggiare in quelle provincie. Il sanguinario duca d’Alba compiè l’opera colla crudeltà, e non vi fu più chi amasse il governo spagnuolo, dopo che furono decapitati i due maggiori signori della nazione, il conte di Horn, e il conte di Egmont. Nulla giovò che il moderato e savio commendatore di Requesens tentasse la via della conciliazione. I tre sommi capitani, Gioanni d’Austria, Alessandro Farnese, Ambrogio Spinola, preservarono dalla alienazione dieci delle diciassette provincie. Gli Spagnuoli erano i migliori soldati dell'Europa; ma le provincie unite avevano il vantaggio di esser soccorse dai protestanti di Alemagna e di Francia, e dalla Inghilterra; avevano il benefizio di una situazione bassa e paludosa, la quale ad arte si poteva sommergere; finalmente poco potevasi sperare dal valore degli Spagnuoli, i quali spesso non erano pagati: il possessor dell’oro e dell’argento del Messico e del Perù spesso non aveva di che pagare l’esercito, e gli avversarii suoi, poveri e deboli, non deponevano le arme per alcuna avversità. Se le guerre di Fiandra potessero aver paragone nell’antichità, parmi che considerata e la ostinazione reciproca, e le varie vicende, e la sceltezza de’ soldati, e la virtù de’ capitani, fossero da compararsi alla guerra del Peloponneso. L’anno 1606 fu riconosciuta la indipendenza delle sette provincie. Liberi appena, quei nuovi repubblicani furono aggressori della Spagna, e l’anno 1629 erano all’assedio di Bois-le-Duc, e vicini a conquistare il Brabante. In quella occasione l’Imperadore Ferdinando II mandò soccorso agli Spagnuoli, e ne ebbe il comando il Conte Ernesto Montecuccoli, il quale in quella guerra appunto si condusse seco il giovinetto Raimondo. P.
- ↑ [p. 55 modifica]Era Raimondo capitano di quel tempo, e conduceva la vanguardia. Il fatto è narrato concordemente da tutti [p. 56 modifica]gli scrittori della sua vita. La storia pure narra che veramente egli ebbe la maggior gloria nella presa di cinque città, tre delle quali son nominate, cioè Calbe, Anesleben, Stasfort. Alla battaglia di Lipsia, innoltrato troppo addentro, dagli Svedesi ne fu circondato e preso. Per quella volta rimase prigione sei mesi, e venne secondo l’uso di quel tempo riscattato a danaro. P.
- ↑ [p. 56 modifica]Il conte Lionardo Torstedon succedette all’illustre Banner, e venne riputato uno de’ maggiori capitani della nazione Svedese, e de’ migliori discepoli di Gustavo Adolfo. P.
- ↑ [p. 56 modifica]Stette il conte Raimondo prigione degli Svedesi la seconda volta per ben due anni, parte a Wismar, parte a Stettino, e fu liberato col cambio dello Slang, preso dal Piccolomini. P.
- ↑ [p. 56 modifica]Cum Totum iter (Lucullus) et navigationem consumpsisset, partim in percontando a peritis, partim in rebus gestis legendis, in Asiam factus Imperator venit, cum esset Roma profectus rei militaris rudis. Cicero Acad. quaest. lib. i. P.
- ↑ Le cure del signor Foscolo, e quelle perpetue che ho consacrato alla presente edizione, onde ridurla alla sua vera e genuina lezione, ridaranno al Montecuccoli l’onore di scrittore esatto, e severo.
- ↑ [p. 56 modifica]Nulla di esagerato sulla letteratura del Montecuccoli. Le sue Memorie manifestano che ei possedeva la lingua latina, la francese, la spagnuola, e non è da dubitare della teutonica. Quanto alla propria non si può negare che egli non ne avesse fatto studio su buoni autori, e segnatamente su Niccolò Machiavelli. Gli strani e sconci vocaboli, che si scontrano alle volte nelle Memorie, debbonsi imputare più verosimilmente a sbaglio dell’editore, che era tedesco, e che per alcuni suoi saggi dimostrò di posseder poco l’italiano. Aggiungasi che l’edizione ne fu postuma, che il libro andava attorno manoscritto, e da amanuensi non italiani. Sicchè a torto alcun forse ha tacciato di barbaro il nostro Montecuccoli. Resta anche un argomento, che mi pare [p. 57 modifica]senza risposta, a dimostrare, ch’ei non ebbe colpa nei falli della sua edizione, ed è che in alcuni luoghi manca il senso gramaticale. Può egli sospettarsi tal difetto in tal uomo, e in un’opera, che vedesi scritta con somma posatezza e maturità15?
Ch’ei fosse versato nella teologia lo attesta l’abate Pacichelli nelle sue lettere. Egli connobbelo di persona, usò seco famigliarmente, e racconta che passava le intere notti nella sua scelta biblioteca, che disputava volentieri, e che aveva sempre fra le mani la teologia del padre Gonet.
Della poesia si dilettò similmente. Un suo saggio lascierà luogo a giudicare come ei vi fosse disposto, e come vi sarebbe riuscito, se fosse vissuto in altro secolo, e avesse avuto ozio di esercitavirsi.
Ecco un suo sonetto in morte della sua sposa Margherita di Diechtristein:
D’una perla, cui pari in Oriente
Fra’ tesori eritrei non mai s’è visto,
Fecemi fido Amor far ricco acquisto,
Onde tutte mie voglie eran contente.
Ahi morte! impoverito di repente
M’hai tu, e al mio dolce ogni tuo assenzio hai misto:
Ahi mondo! in un momento e lieto, e tristo:
Nate appena le gioje, eccole spente.
Qual fluttua voto a sera, e va ramingo
Legno, che pien di merci era il mattino,
Tal’io, tutto pur dianzi, or nulla stringo.
Segneranno il mio misero destino,
Estatici pensier, viver solingo,
Neri panni, umid’occhi, e viso chino. P. - ↑ [p. 58 modifica]Nel secolo passato l'Italia fu teatro di continue guerre, delle quali, combattendosi fra piccioli eserciti, e non riuscendo a niuna conseguenza, pochissimo ha parlato la storia. Una di tali guerre fu quella di Castro, la quale però avrebbe potuto produrre grandi mutazioni negli stati. Odoardo Farnese, Duca di Parma, osò invadere lo stato pontificio con tremila cavalli. Entrato senza contesa, ebbe gran fatica ad uscirne salvo. Il Pontefice armato avrebbe potuto privarlo de’ suoi dominii, se la necessità di tener equilibrio nell'Italia non gli avesse procacciato difensori. Però la Repubblica Veneta, il gran duca di Toscana, e Francesco I, duca di Modena, si collegarono a favor del Farnese, dopo avere inutilmente tentato tutte le vie della pace. Seguirono alcune zuffe sul territorio Ferrarese, delle quali non si terrà gran conto nella storia militare. Fatto si è che i pontifizii, dopo alcuni piccioli vantaggi, invasero il Modonese. Il Duca si trovò con quattromila uomini soli. Forse dodicimila erano i nimici, condotti dal signor di Valencé e dal Mattei, sperimentati capitani, e di non ignobil fama. Posero assedio a Nonantola, che per sè stessa non si poteva difendere. Dava grandissimo animo alle milizie il cardinale Antonio Barberini, legato a latere. Il conte Raimondo fece sciogliere l’assedio, e venne a battaglia. È certo ch’ei fece dugento prigionieri, e trovo scritto che rimanessero sul campo ottocento morti; il che non oserei assicurare per vero. Certo è che i pontifizii fuggirono precipitosamente nelle terre ecclesiastiche. Il cardinale ebbe il cavallo ucciso. Pochi cardinali hanno avuto il coraggio di arrischiarsi tanto in un fatto d’arme, ma niuno è fuggito mai con la velocità del Barberini. La vittoria fu compiuta per ogni titolo, e non le mancò, siccome osserva uno scrittore contemporaneo assai giudiziosamente, che maggior [p. 59 modifica]teatro per farlo risapere alla pubblica fama come una delle maggiori prodezze di fortuna, e di valor militare (Vita ed azioni del conte Montecuccoli). P.
- ↑ [p. 59 modifica]Tra gli eroi della casa d’Este pochi agguagliano Francesco I, e niuno forse lo supera. Ei regnò a tempi duri e difficili. La Spagna, signora delle due Sicilie, della Sardegna, e del vasto e dovizioso ducato di Milano, dominava la maggior parte, e la migliore della Italia. I suoi Vicerè e Governatori usavano superbamente co’ Principi italiani. La Francia aveva anch’essa aderenti, e si sforzava di stabilirsi nella Lombardia. La emulazione delle due monarchie produceva due fazioni fra’ nostri Principi, e un continuo stato di diffidenza e di guerra, nel quale possibile non era durar neutrali. Francesco I, seguendo la necessità e la prudenza, fu lungamente collegato degli Spagnuoli. Condottiero supremo delle arme confederate, egli espugnò Valenza e Mortara, e sarebbe giunto forse a conquistare tutto il ducato di Milano, se la morte non lo rapiva a mezzo il corso de’ suoi trionfi. Fu gran capitano, e riuscì sempre felice, quando i suoi consigli furono posti ad effetto. Fu magnifico sopra ogni Sovrano del suo tempo. Niuno lo vinse nella benignità, nella liberalità, e nell’amore della giustizia. P.
- ↑ [p. 59 modifica]Sui primi anni dello scorso secolo gli Svedesi, nazione poco cognita, e nulla temuta, divennero gli arbitri della Germania. L’austriaco Imperadore Ferdinando II aveva quasi ridotti i protestanti agli antichi limiti, e tutto l’imperio era atterrito della sua potenza, e minacciato di servitù. La Francia gelosa dell’ingrandimento di Casa d’Austria, eccitò Gustavo Adolfo Re di Svezia a prender le parti de’ Principi protestanti, e gli somministrò danaro. Ei venne, e assunse il titolo di protettore della pubblica libertà. La battaglia di Lipsia [p. 60 modifica]dimostrò qual uomo ei fosse, e qual condottiero. Il Tillì, che comandava gli Austriaci, troppo superiori di numero, non si trovò preparato alla nuova tattica svedese, e fu compiutamente disfatto. La battaglia di Lutzen dimostrò qual nazione fossero gli Svedesi. Il Re loro morì: la sua morte si divulgò nel campo: tutt’altro esercito sarebbesi disordinato: essi si proposero di vendicarlo, ed egregiamente ne riuscirono. Gustavo fu dei maggiori uomini, che mai regnassero. Fiero e intrepido soldato, egli era benigno ed umano al medesimo tempo. Si dice, che geloso di non contravvenire alla giustizia, ei non movesse le arme, senza prima consultare il celebre trattato del Grozio sul diritto della guerra e della pace. Grozio, interpretato da lui, approvò ogni cosa, ed approvò anche, che egli occupasse a titolo di compenso la Pomerania vacante per la estinzione de’ suoi duchi. Nella minorità di Cristina, figlia di Gustavo, gli Svedesi, per consiglio del presidente conte d'Oxenstiern, continuarono nelle stesse imprese. Il valore e la scienza del gran Gustavo risorsero ne’ Banner, ne’ Torstedon, ne' Wrangel, ne’ Königsmark, co’ quali il Montecuccoli ebbe a guerreggiare assai volte. La Francia continuò sempre nella loro confederazione, soccorrendoli quando di danaro, quando di genti. Cessò la gloria e la potenza degli Svedesi nell’impero Germanico, quando la Francia ascesa al sommo della grandezza potè operare per se stessa, senza cercare sussidii dal settentrione. P.
- ↑ [p. 60 modifica]L’anno 1646 il maresciallo di Turenna erasi congiunto agli Svedesi e agli Hassiani. I primi penetrarono in Boemia. Al celebre Gioanni de Werth e al Montecuccoli fu commesso di discacciarli colle tenuissime forze di ottomila cavalli e duemila fanti. Gli Svedesi furono disfatti colla morte del loro generale Wrangel. [p. 61 modifica]Montecuccoli ebbe un cavallo ucciso, e fu ferito egli stesso. L’anno 1648 il Königsmarch e il Turenna passarono il ponte da lor gittato sul Danubio presso Laubinghen per andare ad Augusta. Il generale supremo Holtzapel prese in suo ajuto il Montecuccoli. Gli imperiali furon vinti, e morto in battaglia lo stesso Holtzapel. Il Montecuccoli comandò in sua vece, e in mezzo infiniti svantaggi e pericoli, che sempre si moltiplicavano, preservò quel poco che gli restava con gran lode degli alleati, e ammirazione dei nemici. P.
Sembra a noi troppo sommariamente toccata questa ritirata celebratissima anche dagli scrittori avversarii, e principio della fama guerriera del Montecuccoli. Il conte d’Holtzapel, conosciuto dagli storici di quel secolo sotto il nome di Pietro Melandro, perì nell’assalto datogli dal Turenna. Gl’imperiali fuggivano: il duca Ulrico di Wirtemberg, maggior generale dell’esercito, si trincerò sulla sponda del fiumicello Schmult a Zusmarhausen presso Augusta con sette squadroni e tre battaglioni: sostenne per un giorno intero le artiglierie del Turenna; vide intrepidamente perire mezze le sue schiere, e cangiò cinque cavalli uccisi sotto di lui. Per tanta costanza d’Ulrico, il Montecuccoli ebbe campo di riordinare le schiere sbaragliate e fuggiasche, e combattendo sempre con la sua retroguardia contro i Francesi e gli Svedesi vittoriosi, si ritirò con pochissimo danno sotto il cannone d’Augusta. L’eroismo del Duca, e la sapienza del Montecuccoli sono consegnati nella storia del Turenna, e nelle memorie, che questo eroe lasciò, ove parlando del capitano italiano, scrisse: On ne peut pas se mieux comporter qu’il faisoit dans cette retraite (Mem. lib. I, an. 1648). E un uffiziale francese testimonio oculare aggiunge: On loua [p. 62 modifica]beaucoup l’intrépidité de Montecuccoli et du duc de Wirtemberg qui essuyèrent trois combats dans un même jour, et perdirent leur général sans être effrayés ni par la difficulté de la retraite, ni par le nombre de leurs morts, ni par la perte de leur artillerie et de leur bagage (Memorie inedite citate dal cavaliere Ramsay nella storia del Turenna lib. ii). A torto l’oratore asserisce essere stati in quell’anno al Montecuccoli confidati gli affari di Cesare; perchè dopo la morte di Pietro Melandro, fu inviato comandante supremo a quell’esercito il principe Piccolomini, sanese; nè so che il Montecuccoli abbia comandato superiormente prima della guerra di Transilvania l’anno 1657. F. - ↑ [p. 62 modifica]Dopo la pace di Munster e di Osnabruk il conte Raimondo intraprese gli accennati viaggi, ed ebbe compagno il celebre conte Enea Caprara, uno anch’egli de’ grandi capitani del secolo. Ebbe onori e presenti dalla Regina Cristina, la quale tenne seco di poi corrispondenza, e fu uno di quelli, cui ella degnò prevenire confidenzialmente del suo pensiero di abdicare. La lettera stessa ne esiste, ed è inserita nelle memorie del signor La Beaumelle. Il Puffendorff nella sua storia di Svezia asserisce che il Montecuccoli venne a Stockolm non per diporto, ma in grado d’ambasciadore. P.
- ↑ [p. 62 modifica]» E perciocchè uno de’ pregi dell’Estense (Francesco I) era la magnificenza, trattenne egli per più giorni quell’illustre brigata (due arciduchi d’Austria) con sontuosi divertimenti di commedie, cacce, conviti e danze. Superbo specialmente riuscì un torneo a cavallo, fatto nella piazza del castello, per le ricche comparse, per la rarità delle macchine, voli e battaglie. Restò nulladimeno funestata sì allegra giornata da un sinistro accidente, cioè dalla morte di Gioanni [p. 63 modifica]Maria Molza cavalier modonese, il quale correndo colla lancia incontro il conte Raimondo Montecuccoli, miseramente ferito alla gola, perdè tosto la vita. Sì afflitto rimase per questa disavventura il Montecuccoli, perchè suo grande amico era il Molza, che non tardò a tornarsene in Germania, dove ecc.» Muratori Annali d’Italia, anno 1651. P.
- ↑ [p. 63 modifica]L’anno 1666 il Montecuccoli in grado di ambasciadore andò a ricevere al Finale di Genova l’infanta Margherita figlia del Re cattolico, e sposa dell’Imperadore Leopoldo. A quella occasione ebbe dal Monarca delle Spagne il rarissimo onore del toson d’oro. L’anno 1670 condusse a Czestokows in Polonia Eleonora Maria sorella dell’Imperadore, e moglie di Michele Wiesnowiski Re di Polonia. P.
- ↑ [p. 63 modifica]L’anno 1657 Raimondo prese in moglie Margherita figlia di Massimiliano principe di Diechtristein, maggiordomo maggiore dell’Imperadore Ferdinando III, e di Anna Maria de’ principi di Lichtenstein. Questa dama accoppiò a’ pregi di una rara bellezza le più ammirate doti dell’animo. Vi fu chi ne scrisse la vita diffusamente. Tenerissima pel marito, ne fu di egual tenerezza corrisposta. Ebbe il dolore di perderla l’anno 1676. Gli rimasero di lei tre figlie ed un figlio. Le figlie furon collocate in cospicui matrimonii, e il figlio corse la carriera del padre, e morì maresciallo di campo. P.
- ↑ [p. 63 modifica]Carlo Gustavo, venuto al trono per l’abdicazione di Cristina, pensò subito a muover guerra. Incerto se alla Polonia o alla Danimarca, antepose la prima, come la più facile a conquistarsi. Non s’ingannò. Vinti i Polacchi in varii scontri, fu necessitato il loro Re Casimiro a fuggire, quando i suoi lo avevano abbandonato. Accresciuti i nemici del regno colla venuta di [p. 64 modifica]Giorgio Ragotzi principe di Transilvania, il Re di Svezia corse tutta la Polonia, e non gli mancò che l’atto di coronarsi, il quale era prossimo e decretato. L’Imperadore soccorse quel Monarca fuggitivo. Montecuccoli ebbe il comando della cavalleria; di poi, morto il generale Hatzfeld, di tutto l’esercito. Gli Svedesi dovettero realmente, in grazia del valor suo, abbandonar le conquiste. Intanto il Re di Danimarca, geloso degli Svedesi emuli suoi, osò assalirli. Presto ebbe a pentirsene. Invasa la Danimarca, si venne all’assedio di Copenhaguen, e al dieci di febbrajo se ne tentò, benchè infelicemente, l’assalto generale. Gli Imperiali, i Brandeburghesi e i Polacchi per terra, e gli Olandesi per mare, andarono in ajuto di quello stato. Il primo passo fu di assicurarsi della fede del duca di Holstein, prendendo in ostaggio il castello di Gottorp. In seguito conquistarono moltissimo paese. Gli Svedesi si erano fortificati nella Fionia; bisognava discacciarli. Si tentò due volte lo sbarco inutilmente. Non piaceva agli Olandesi che riuscisse; però freddamente servirono, come è molto bene accennato nelle Memorie. Non è però credibile che eglino scaricassero i cannoni carichi a sola polvere. Tal fatto, narrato dal Puffendorff, si può riporre nel lungo novero delle menzogne stampate. Il parere della diversione nella Pomerania salvò la Danimarca. La pace intempestiva fu cagione che gli Svedesi non perdessero interamente quella provincia. Il conte di Erbestein sbarcò nella Fionia, e facilmente disfece i non molti Svedesi che vi accampavano. Seguì battaglia, e de’ generali svedesi non si salvarono che il principe di Sultzbach e il conte di Steinboch. È falso, quantunque asserito da chi scrisse la vita della contessa Montecuccoli, che il Conte conducesse egli stesso quell’ultimo sbarco. [p. 65 modifica]Ved. Memorie parte i, e Puffendorff de rebus Svecicis. P.
- ↑ [p. 65 modifica]Ferdinando II ebbe in arme cento cinquantamila uomini, senza altri trentamila che gli somministrò la lega cattolica. Tal forza andò così rapidamente declinando, che diminuita assaissimo negli ultimi anni dello stesso Ferdinando II, vie maggiormente si estenuò sotto Ferdinando III, e si annientò quasi sotto Leopoldo. Montecuccoli si trovò nella epoca della decadenza dell’Austriaca monarchia, sicchè ebbe quasi sempre a combattere con forze tenui ed inferiori. Le sue guerre furon sempre difensive, e non decorate di quell’esteriore apparato di gloria che è nel conquistare. P.
- ↑ [p. 65 modifica]Vedi Commentarii dell’Autore lib. iii. P.
- ↑ [p. 65 modifica]Non permetteva la necessaria brevità dell’Elogio d’indugiarsi sulle prime campagne della guerra d’Ungheria. La Transilvania, che il Turco voleva dipendente da se, e l’Imperatore libera, fu occasione che si venisse a manifesta rottura fra le due monarchie. Alcuni reggimenti cesarei, condotti alle frontiere della Transilvania dal Montecuccoli, avevano prevenuto qualunque movimento de’ Turchi. Ma un ordine della corte, obbligandolo a retrocedere, disfece quasi quel piccolo, ma sufficiente esercito, e lasciò esposta la Ungheria. I Turchi ne profittarono. Appresso le epidemie, la peste stessa introdotta nel campo cesareo; la mala fede degli Ungheri che negarono di ricever presidii e somministrar genti; l’alienazione de’ Transilvani; la discordia de’ generali imperiali, furono i motivi della non ottima fortuna della campagna seguente. Una falsa voce di pace divulgata da’ Turchi, e creduta dagli Austriaci, persuase Cesare a disarmare. I Turchi entrarono nella Ungheria con centomila uomini, e non si poterono opporre a tanta forza che seimila soldati appena, e [p. 66 modifica]questi anco in breve si ridussero a quattromila. Il Turco non fece altro in quella campagna che prendere Nehausel. Appresso vennero gli ajuti dell’imperio e della Francia, e così si potè combattere a S. Gottardo. La battaglia seguì il dì primo d’agosto dell’anno 1670. P.
- ↑ [p. 66 modifica]La battaglia durò sette ore. Il Capitano non ebbe meno a combattere col valore de’ Turchi, che colla diffidenza de’ proprii generali. La pace venne in conseguenza di sì segnalata vittoria. P.
- ↑ Raimondo non volle e per l’onor suo e per l’onore delle armi cesaree sottostare all’Elettore di Brandeburgo che presumeva di capitanare tutti gli alleati. Però senza sciogliersi palesemente dalla confederazione, comandava i proprii eserciti emancipandoli dal consiglio de’ Principi alemanni. Ma il Principe di Lobkowitz, ministro di Leopoldo I, vinto o da’ maneggi di Brandeburgo o dalla propria invidia, tentò di calunniarlo presso l’Imperadore: non riuscendo, foggiò una lettera col sigillo imperiale, ordinando al Conte di non combattere. Però il Montecuccoli si finse infermo, e dimorò a Paderbona finché dagli alleati, e da’ nemici che si maravigliavano di quell’ozio, fu costretto ad andare a Vienna. Si scoprì la frode del Lobkowitz: fu da prima punita, e poco dopo perdonata. Ecco le ragioni vere, memorate in tutte le storie delle guerre di Luigi XIV, per cui il Montecuccoli lasciò gli eserciti confederati — Frattanto, mentre Raimondo stava lontano dagli eserciti, gli eserciti comandati dal Duca di Lorena, e dal Conte Caprara, furono dal Turenna sconfitti a Sintzheim, nel Palatinato; poi comandati dal Duca di Beurnonville, furono dal Turenna battuti a Ensheim presso Strasburgo. Opposero finalmente al Turenna i Principi alemanni 60000 uomini; e il Turenna con un esercito di 30000 li costrinse a perdere il campo nelle pianure di Colmar, ed a ripassare il Reno. Dopo queste calamità dell’Impero germanico, molti Principi si sciolsero dalla lega, e la salute dell’Austria fu riposta in un piccolo esercito comandato dal Montecuccoli, che tornò dall’esilio come Camillo. F.
- ↑ [p. 66 modifica]Nella guerra de’ Francesi il Montecuccoli riuscì di ciò che più importava, della presa di Bona, la quale assicurava la libera comunicazione colle provincie-unite confederate di Cesare. Nondimeno gli alleati non furon contenti di lui, ed ei dovette dimettere il comando30.
La campagna seguente dimostrò qual fosse il pregio di tanto uomo, appunto a quel modo che il pregio
dell’aria si conosce nel vuoto Boileano, quando ella ne [p. 67 modifica]è estratta. I Cesarei in numero di settantaduemila al principio della stagione, erano appena ventimila accostandosi l’inverno. Nulla avrebbe salvato l’imperio, fuorchè un eccellente condottiero. Montecuccoli ritornò al comando, e gli affari si rimisero subito. Fu l’anno 1675 che seguì quella memorabile campagna, la quale i dotti militari reputano essere stata il sommo della loro scienza, e del valore, così per parte del Turenna che conduceva i Francesi, che del Montecuccoli che reggeva gl’imperiali. Il giudizio che io ne ho dato non è che una versione de’ giudizii de’ migliori maestri dell’arte militare. Udiamo Federico di Prussia:
Vous, Montecuccoli, l’égal de ce Romain,
Vous, sage défenseur de l’Empire et du Rhin,
Qui tintes par vos camps en savant capitaine
La fortune en suspens entre vous et Turenne,
Mes vers oublieroient-ils vos immortels exploits?
Ah! Mars, pour les chanter ranimerait ma voix.
Venez, jeunes guerriers, admirez la campagne,
Où ses marches, ses camps sauvèrent l’Allemagne,
Où se montrant toujours dans des postes nouveaux,
Il contint les Français, et brava leurs travaux; etc.Art de la guerre, chant II.
Non meno splendido è l’elogio di Folard, che pure suol essere parco lodatore degli uomini di guerra: La campagne de monsieur de Turenne de 1674 vaut bien une des plus belles de César. Celle de l’année suivante, qui fut la dernière de ce grand homme, fut son chef-d’oeuvre. Elle est comparable à celle d’Afranius. Décidons sans être trop hardis, elle est au-dessus, car cet [p. 68 modifica]Afranius, quoique fort habile, ne valait pas Montecuccoli. Celui-ci était digne d’étre opposé à Cesar, et non pas l’autre. Il le fut à monsieur de Turenne. Quelle campagne! Je n’en vois point de si belles dans l’antiquité. Il n'y a guère que les experts dans le métier qui puissent en bien juger. Combien d’obstacles réciproques à surmonter! Combien de chicanes, de marches, de contre-marches, de variations d’armes et de manoeuvres profondes et rusées! C’est en cela seul que l'on reconnaît les grands hommes, et non dans la facilité de vaincre, et dans le prodigieux nombre de troupes qui combattent des deux côtés. Folard sur Polybe tom. I, pag. 255.
Simile affatto è il sentimento dell’autore del Saggio generale di tattica, uscito ultimamente a luce, e reputato a quest’ora uno de’ classici libri della professione. Osserva il dotto autore fra le altre meraviglie di quella campagna, che i due eserciti stettero sempre in moto in uno spazio di paese lungo dieci o dodici leghe, e largo quattro o cinque.
Lo stesso Folard in altro luogo osserva, che »Il Montecuccoli era eccellente nell’arte de’ movimenti generali di ogni sorta. Le sue marcie erano chiare, semplici, piene di sapere, e le sue colonne disposte e distinte per modo, che da qualunque lato l’inimico si affacciasse, elle trovavansi sempre a un tempo stesso e d’uno stesso movimento poste in battaglia. Pochi si sono approssimati a lui in questa scienza». Ibid. lib. II, c. 6. P.
- ↑ [p. 68 modifica]Il paralello fra’ due capitani fu primieramente immaginato dal celebre padre Tournemine. Quel dottissimo scrittore si dimenticò nondimeno della scrupolosa equità che si poteva pretendere da lui quando conchiuse, che il Turenna era divenuto superiore, e che la sua [p. 69 modifica]morte risparmiò al Montecuccoli il rossore di esser vinto. Vedi Journal de Trevoux an 1707, mois de mai. Tal sentenza, uscita dalla penna di un grand’uomo, potrebbe sedurre coloro che non si avveggono essere ella una condiscendenza a favore della propria nazione, anziché un tratto di storica verità. Hanno tutti gli scrittori fino al presente, che io mi sappia, celebrata ed illustrata la campagna dell’anno 1675, accumulando i meriti di amendue i competitori. Io tenterò di separare quelli che sono proprii e particolari del nostro Italiano. Io gli ascrivo a merito proprio e particolare quanto egli ebbe di svantaggio per lo stato delle cose, e lo svantaggio non fu di poco momento. Il Turenna godeva dei benefizii della precedente campagna, per lui felicissima, ed incominciava vittorioso la susseguente; e il Montecuccoli si metteva a capo di un esercito sbigottito, e di affari sconcii e disordinati. Tutte le forze erano adunate nell'esercito francese, e tutto era in ordine; ma tardi si riunì l’austriaco, tardi se gli congiunsero parecchi reggimenti, che ne eran divisi per lontani quartieri. Il Turenna potè impunemente prevenire l'avversario, passare il Reno, e mettersi alle spalle il ponte di Strasburgo, acciò non gli servisse: gl’imperiali dovevano guardare un paese quasi aperto, e i Francesi avevano dopo di loro Brisac, Filisburgo, ed altre piazze fortissime. Finalmente il Turenna era vegeto e vigoroso, tutto visitava in persona, tutto vedeva cogli occhi proprii, e tutto per se medesimo eseguiva; dove l’altro, debilitato dalla vecchiaja e dalle infermità, doveva prevalersi de’ subalterni, e giudicar sui rapporti. V. Vie de Turenne tom. II, p. 135, 136; opera del sig. di Cavagnac, che conosceva di persona il Montecuccoli, e aveva servito sotto di lui nelle campagne di Ungheria. Indebolirebbe il merito di questi svantaggi, se fosse [p. 70 modifica]vero ciò che alcuni scrittori francesi affermano, che il Montecuccoli avesse avuto tre o quattromila uomini sopra il Turenna. Ma e gli Austriaci il negano (fra gli altri il padre Wagner scrittore assai diligente del regno di Leopoldo Cesare), e non par ragionevole il credere questa copia di soldati sul Reno, in un tempo che la casa d’Austria manteneva altri due corpi, quello che militava sulla Mosella, e quello che in Pomerania faceva fronte agli Svedesi. Se in quella campagna, almen sul fine, alcun de’ due emuli era superiore, parrebbe, ben ponderate le cose, che quello fosse appunto il Montecuccoli. L’esercito suo aveva vissuto in piena abbondanza di ogni cosa per la maravigliosa avvertenza del Generale di tener sempre aperta la comunicazione co’ fertili paesi della Svevia e del Palatinato, dove i Francesi erano stretti di provvigioni, massime per i cavalli, a tal che per parecchi giorni ebbero a pascersi delle foglie degli alberi. Le fanterie austriache erano da competere colle francesi. La cavalleria alemanna era superiore alla francese, almen per questo che la francese era notabilmente scemata e consunta per i recenti disagii. I generali austriaci, fra’ quali si nomina il principe di Lorena, il margravio di Baden, il conte Enea Caprara, il Dunevald, erano tutti uomini di sperimentato valore e capacità. La situazione del Montecuccoli era sicuramente la più vantaggiosa. Egli stesso piantò batterie, schierò l’esercito in battaglia, segno che voleva combattere; né egli avrebbe pensato ad avventurare la battaglia, se non avesse veduto vantaggio manifesto. Come adunque conchiudere, come inferire che egli era sull'atto di succumbere, e presso al momento di perdere? P.
- ↑ [p. 70 modifica]Enrico de la Tour d’Auvergne, visconte di Turenna, nacque a Sedan l’anno 1611 di Enrico duca di Buglione, [p. 71 modifica]e sovrano di Sedan, e di Elisabetta di Nassau, figlia del principe Guglielmo di Oranges, e sorella del principe Maurizio. Non è mia intenzione, né di mio istituto ragionare di lui. Tutto sarebbe superfluo quanto io potessi dire in sua lode dopo un Fléchier e tanti altri dotti e facondi oratori, che lo hanno meritamente celebrato. A me basterà di averlo comparato al Montecuccoli, parendomi che tutte le lodi sieno in quest’unica riepilogate. Ei morì di una palla di cannone, mentre osservava un luogo per collocarvi una batteria. Non avendo comunicate le sue intenzioni ad alcuno, il conte di Lorges suo nipote, preso il comando dell’esercito, ripassò il Reno, e vi fu inseguito dal Montecuccoli, il quale poi pose assedio ad Haguenau, e a Saverne. Il principe di Condé, sopravvenuto al comando dell’esercito, lo necessitò a levare uno degli assedii, e gli ordini superiori della sua corte lo distolsero dall’altro. Poco appresso seguì la pace. I grandi avvenimenti producon sempre alcune novelle. Piacevolissima è quella che seriamente racconta madama de Sévigné alla occasione della morte del gran Turenna. «Si dice (così ella scrive) che il Montecuccoli, dopo aver certificato il signor di Lorges del suo rammarico per la perdita di sì gran capitano, gli fece pur sapere che gli lascierebbe ripassare il Reno, non volendo esporre la sua fama alla furia di un esercito inferocito, e al valore della gioventù francese, cui nulla nel primo impeto può resistere». Lettres de madame de Sévigné, lettre 2o3. P. Da un’altra lettera di madama de Sévigné appare quanto il Turenna reputasse il Montecuccoli: Quand Turenne eut fait passer à loisir ses troupes, il se trouva content, et dit à monsieur de Royes: «Tout de bon; il me semble que cela n’est pas trop mal, et je crois que monsieur de Montecuccoli trouverait assez [p. 72 modifica]bien ce que l’on vient de faire». Il est vrai que c'étaìt un chef-d’oeuvre d’habileté (Lettera 206 sul fine). F.
- ↑ [p. 72 modifica]Il Turenna lasciò alcune memorie, le quali non sono che una mera relazione delle sue campagne, scritta unicamente per conservare la ricordanza di quelle, e senza alcun apparato di scienza e di riflessioni. Le Memorie del Montecuccoli, libro scientifico, ed universale, sono tutt’altra cosa. P.
- ↑ Questo svantaggio della milizia moderna a paragone dell’antica è sparito, dacché i governi d’Europa, imitando gli antichi istessi, si posero ad ordinare milizie proprie e nazionali. Alcune altre disparità accennate dall'Autore sono parimente scomparse, dacché le scienze fecero maggiori progressi, e dopo che le guerre della rivoluzione francese abbreviarono di tanto gli antichi metodi, ed avanzarono grandemente l’arte militare.
- ↑ [p. 72 modifica]«Montecuccoli (dice il signor di Folard) è uno de’ nostri maestri e il Vegezio de’ moderni, o a dir meglio, è assai maggiore di Vegezio ..... È andato innanzi a tutti, e se tutto non vi si trova, bisogna considerare la strettezza che si è prescritta nell’opera sua, la quale altro non è che la idea d’un corso generale e compiuto dell’arte della guerra». Folard sur Polybe: Observations sur le passage du fleuve Achelous.
Aderendo al giudizio di tanto scrittore, e censore dell’arte della guerra, dico, che le Memorie del Montecuccoli sono alla scienza militare quello, che gli aforismi d’Ippocrate alla medicina, il risultato di innumerevoli osservazioni, che comparate insieme si riuniscono in alcuni principii certi ed universali. L’arte della guerra abbisognava di tal libro, che la riducesse a forma di scienza, che ne gittasse i fondamenti secondo l’uso delle armi moderne, perchè altri scrittori in seguito potessero, seguendo le molte diramazioni, ampliarla e trattarla difiusamente. Senza un Galileo non avremmo un Newton; senza un Montecuccoli non avremmo un Folard, un Puisegur, un Turpin, e forse non avremmo quello che ha condotto la tattica al sommo della perfezione, il gran Federico. Coloro che credono aver potuto bastare a ciò gli antichi maestri, non si sono avveduti, che i divarii del vecchio e del nuovo guerreggiare sono [p. 73 modifica]essenziali e non accidentali. L’invenzione della polvere ha indotto nel guerreggiare tanta diversità almeno, quanta ne ha prodotto la bussola nella navigazione. Mettiamo a confronto amendue le maniere: si vedrà somma semplicità nella guerra degli antichi, somma complicazione nella nostra. Dall’una parte catapulte ed arieti, dall’altra il vario e vasto apparato delle artiglierie, e tutto il
faticoso studio della balistica. Là gli archi e le fionde, qui i moschetti di lungo tratto, e che tutto assordan di rumore, e tutto involvon di fumo e di confusione: le spade, sole arme che ferisser daddovero, come avverte egregiamente Lucano:
Ensis habet vires, et gens quaecumque virorum est
Bella gerit gladiis;
le aste, i pili resi inutili, vani gli elmi e gli scudi, vana quasi la forza e la gagliardia. In vece di guerrieri inferociti che si scaglino sul nemico, e contendano corpo a corpo, e mescolino le arme e il furore; soldati che a passo misurato s’innoltrano, danno la morte con regola e con metodo, e con ugual pazienza l'aspettano a piè fermo, appena ritorcendo l’offesa: in vece delle torri e de’ merli, i bastioni, le cortine, e un labirinto di opere esteriori, varie sommamente all’aspetto, sommamente nell’oggetto analoghe ed uniformi: in vece degli scavamenti o cunicoli degli antichi, condotti senz’arte, e da uomini puramente meccanici, oggidì le mine, lavoro di astruso calcolo e di ben ponderate misure. L’arte degli assedii, arte di valore e di pazienza presso gli antichi, oggidì è somma speculazione, e tanto vasta quasi quanto è l’immenso circolo delle matematiche. Senza che, lasciate le considerazioni delle armi, non mancano altre insigni disparità. [p. 74 modifica]La diversa qualità de’ soldati, cittadini e spontanei una volta, di presente spesso stranieri, sempre mercenarii, e tutti forzati o dal governo o dalla fame35. L’accampar facile allora che si chiudevano nel vallo, dove rendevansi quasi inespugnabili, arduo oggidì che bisognano tante avvertenze alle situazioni, tante cautele contra le sorprese e le diserzioni: la cura de’ viveri agevole, quando i soldati si recavan seco le loro provvigioni, grave a’ dì nostri che ella è affidata a’ magazzini, e avventurata in quelli la somma delle cose. «Ecco (dice l’illustre autore del saggio generale sulla tattica) ècco gli errori e gli abusi che imbarazzano la scienza moderna, che moltiplicano le nozioni che la compongono, che rendono così rari gli ottimi condottieri nel tempo nostro». Cresce la difficoltà nella immensità degli eserciti. «Tale, il cui ingegno avrebbe abbracciate tutte le parti della scienza militare degli antichi, che avrebbe lodevolmente condotti quindici o ventimila Greci o Romani; tale che sarebbe stato uno Xantippo, un Camillo, non basta oggi per la metà delle cognizioni che compongono la scienza moderna». Essai général de tactique, discours préliminaire. Le Memorie del Montecuccoli hanno avuto, come Polibio, un diffuso ed erudito commentatore nel signor conte di Turpin de Crissé, brigadiere degli eserciti del Re Cristianissimo. Quel commentario non ha tanto per oggetto di illustrare il testo, quanto di far dissertazioni sui temi dal testo suggeriti. Il testo però bene spesso vi è scordato, e spesso [p. 75 modifica]censurato, e le ommissioni non si perdonano alla brevità. Il commentatore del MONTECUCCOLi non è del genere degli altri, troppo passionato pel suo autore. P. - ↑ [p. 75 modifica]I Francesi s’attribuiscono la gloria di aver creato essi la moderna architettura militare. Il mondo abbagliato da’ lor libri e dal nome di un Vauban, facilmente ha potuto persuadersene, difficile essendo che apparisse la virtù nascosta ne’ disusati libri degli inventori. Niuna nazione è stata più tarda ad illustrare questa scienza, come la francese, tanto è lontano ch’ella ne sia la creatrice. Il Barleduc, loro più antico autore, scrisse dell’anno 1620. Ventinove anni prima era uscita alla luce l'opera del tedesco Spekler, e del 1551 ne era già stampata alcuna cosa di fortificazione in Italia dal bresciano Niccolò Tartaglia. Poco tardarono altri autori più vasti ed estesi di lui. Il Lanteri, il Zancha, il Lupiccini, il Maggi, il Castriotto, il Cattaneo, l’Alghisi e il Tethi avevano dati a luce intieri trattati della moderna fortificazione, avanti che alcuno oltramontano ne avesse scritto. E non era ancor compiuto il decimosesto secolo, quando uscì l’opera vasta e rinomata del capitan Francesco Marchi, bolognese, nella quale tutte le parti della scienza son contenute, e dove chiaramente si scuopre l’illustre ritrovamento, del quale si è fatto onore al Vauban, le paralelle. La nazione che precede in una scienza co’proprii scrittori di considerabil tempo qualunque altra, ne è senza dubbio la istitutrice, senzachè quasi tutti i nomi delle fortificazioni sono italiani, e italiani per modo, che ritengono la forma della loro origine anche intrusi nelle lingue straniere. Per tutti i citati autori nostri vedesi veramente una successione d’invenzioni; ma l’invenzion fondamentale è dovuta al celebre architetto veronese Michele Sanmicheli. Il fondamento della nuova fortificazione consiste nella [p. 76 modifica]sostituzione de’ bastioni triangolari alle torri degli antichi. Il rimanente delle opere non è in sostanza che una riproduzione ed imitazione di quel primo disegno. Dileguata la opinione che ne attribuisce la prima invenzione o all’Ussita Ziska, o a’ Turchi d’Otranto, opinione nata per false descrizioni, è dimostrato per innegabili testimonianze, che ella appartiene al lodato Sanmicheli, che ne fece il primo sperimento nel recinto della sua patria. Egli fu, quanto all’operare, il Vauban de’ suoi giorni. Sono, per cosi dire, innumerevoli le fortezze che egli edificò o restaurò nello stato Veneto, nell'Ecclesiastico, nel ducato di Milano, nella Morea, in Candia, ed in Cipro. L’arte nata con lui, e da lui tanto esercitata, fece in breve tempo rapidi e insigni progressi. Questa compendiata storia della moderna architettura militare, non è che un epilogo breve ed imperfetto di una dissertazione dell’egregio ed eruditissimo signor conte Angelo Scarabelli, professore di architettura civile e militare nella università di Modena, premessa alle sue lezioni. Avrei potuto colla sua scorta parere erudito con poca fatica, ma ho preferito di esser breve. Bastami di asserire sulla fede indubitabile del lodato scritto, corredato di tutti gli argomenti della evidenza, che non rimane alcun dubbio, che gli Italiani siano gli inventori e creatori della nuova maniera di fortificare, comecché non vogliasi negar la lor lode ai Francesi, che l’hanno condotta a nuovi termini di perfezione. P.
- ↑ [p. 76 modifica]Se le azioni del MONTECUCCOLI fossero state scritte colla diligenza di quelle del Turenna, vedremmo troppe occasioni, nelle quali egli ebbe da contendere colla invidia e la emulazione. Nondimeno que'pochi documenti della sua vita che ci restano, dimostrano abbastanza quanto tentassero i malevoli e gl’invidiosi di oscurare [p. 77 modifica]la sua gloria. Si fece in modo che, dovendo guerreggiare contro i Turchi, ei mancasse di tutto: se gli diede biasimo ch’ei non frenasse le scorrerie de’ Tartari, quando non aveva che quattromila uomini. Si accusava ordinariamente di timidezza, e per questa accusa ei dovette l’anno 1675 rimoversi dal comando dell’esercito. La ragione e l’equità non sarebbero state forse bastevoli a giustificarlo, se l’esito per avventura non lo avesse fatto trionfare a malgrado degli emuli. P.
- ↑ [p. 77 modifica]Giorgio Volfango Wedelio, nel catalogo de’ patroni e colleghi dell’Accademia Leopoldina de’ Curiosi della Natura, posto al principio della decuria II per l’anno 1682, colloca a capo di tutti il Montecuccoli, aggiungendovi le parole seguenti: Qui quondam fuerat praeses nostri ordinis, eheu! serenissimus princeps ac heros dominus D. Raymundus sacri Romani Imperii comes de Montecuccoli, dominus in Hoen-eg, etc., col restante de’ suoi titoli,
Jam nunc aetherea sede beatus ovat. P.
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