Ninfale fiesolano/Parte seconda

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Parte seconda

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PARTE SECONDA




I.

Il sole era già corso in occidente,
     E sì nascoso che più non luceva,
     E già le stelle e la luna lucente
     Nell’aria cilestrina si vedeva;
     E l’usignuol più cantar non si sente,
     Ma cantan que’ che ’l giorno nascondeva
     Per lor natura, e scuopronsi la notte.

     Affrico giunse a casa a cotal’otte.

II.

Alla qual giunto, l’aspettante padre
     Con gran letizia ricevette il figlio,
     Siccome quel che temea che le ladre
     Fiere dato non gli avesser di piglio;
     E la pietosa e piangente sua madre
     L’abbracciava, dicendo: o fresco giglio,
     Ove se’ stato, o caro mio figliuolo,
     Che tu ci hai dato tanta pena e duolo?

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III.

E similmente il padre il domandava
     Ove stato era il dì senza mangiare:
     Affrico sopra sè alquanto stava,
     Per legittima scusa a ciò trovare,
     La quale amore tosto gl’insegnava,
     Come far suol le menti assottigliare
     De’ veri amanti, ed al padre rispose,

     E una bugia cotal sì gli dispose:

IV.

Padre mio caro, egli è gran pezzo ch’io
     In questi poggi i’ vidi una cerbietta,
     La qual tanto bell’era al parer mio
     Che mai non credo che una sì eletta
     Se ne vedesse; e veramente Iddio
     Colle sue man la fe’ si leggiadretta:
     E nell’andar come grù era leve,

     E bianca tutta come pura neve.

V.

Sì n’invaghii ch’io la seguii gran pezza
     Di bosco in bosco, credendo pigliarla,
     Ma ella tosto de’ monti l’altezza
     Prese, perch’io di più seguitarla
     Sì mi rimasi con molta gravezza,
     E in cuor mi posi d’ancor ritrovarla,
     E con più agio seguirla altra volta,
     Così a casa tornando diedi volta.

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VI.

Io mi levai stamane, a dire il vero,
     Veggendo il tempo bel, mi ricordai
     Della cerbietta, e vennemi in pensiero
     Di lei cercare, e mi deliberai:
     Così mi misi su per un sentiero,
     Che non m’accorsi ch’io mi ritrovai
     A mezzo il poggio, quando il sol già era

     A mezzo il ciel con la lucente spera.

VII.

Quando sentii e vidi menar foglie
     Di quercioletti freschi, ond’io più presso
     Mi feci alquanto dietro a alcune scoglie
     Tacitamente per veder fui messo,
     Vidi tre cerbie gir con pari voglie
     L’erbe pascendo, perchè in fra me stesso
     Avvisaimi pigliarne una pian piano,

     Ver lor n’andai con un po’ d’erba in mano.

VIII.

Ma com’elle mi vider, si fuggiro
     Suso al monte senza punto aspettarmi,
     E io di questo alquanto me n’adiro,
     Veggendo quivi beffato lasciarmi:
     E così dietro loro un pezzo miro
     Poi a seguirle, senza avere altr’armi
     Che ora i’ m’abbia, infin che di veduta
     Non me le tolse la notte venuta.

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IX.

Or sai della mia stanza la cagione,
     O caro padre, e di questo sii certo.
     E ’l padre, ch’avea nome Giraffone,
     Gli parve intender quel parlar coperto;
     E ben s’avvide, e tenne opinïone,
     Siccome savio e di ta’ cose esperto,
     Che ninfe state doveano esser quelle,

     Che dicea ch’eran cerbie tanto belle.

X.

Ma per non farlo di ciò mentitore,
     E non paresse che se ne accorgesse,
     E per non crescergli il disio maggiore
     Di più seguirle, ed ancor se potesse
     Far che lasciasse da sè questo amore,
     E senza palesargli giù il ponesse,
     Ciò che ha detto fa vista di credirgli,

     Poi cominciò in tal guisa a dirgli.

XI.

Caro figliuolo e dolce mio diletto,
     Per Dio, ti prego, ti sappi guardare
     Da quelle cerbie che tu hai or detto,
     Ed in mal’ora via le lassa andare,
     Che sopra la mia fede io ti prometto
     Che di Dïana sono; a diportare
     Si van pascendo su per questi monti,
     L’acqua bevendo delle fresche fonti.

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XII.

Dïana le più volte va con esse
     Con le saette e l’arco micidiale,
     E se per tua sventura s’avvedesse
     Che tu le seguitassi, con lo strale
     Morte ti donerebbe, come spesse
     Volte ell’ha fatto a chi vuol far lor male:
     Sanza ch’ell’è grandissima nimica

     Di noi, e della nostra schiatta antica.

XIII.

Oimè, figliuol, che a lacrimar mi muove
     La morte del mio padre sventurato,
     Tornandomi a memoria il come e ’l dove
     Fu da Dïana morto e consumato:
     O figliuol mio, così m’aiuti Giove,
     Com’io dirò il ver del suo peccato,
     Che, come sai, ebbe nome Mugnone

     Il padre mio, siccom’io Giraffone.

XIV.

La storia sarie lunga a voler dire
     Ogni parte del suo misero danno;
     Ma per tosto all’effetto pervenire,
     Per questi monti andava, come vanno
     I cacciator per le bestie fedire,
     E così andando, dopo molto affanno
     ’N una piaggia sopra un fiume arrivoe,
     Il qual per lui Mugnon poi si chiamoe.

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XV.

E quivi giunto ad una bella fonte,
     Trovò una ninfa star tutta soletta,
     La qual vedutol, tutta nella fronte
     Impallidío, e su si levò in fretta,
     Oimè, oimè dicendo, e su pel monte
     Si fuggìa paurosa e pargoletta;
     Il volonteroso padre a pregarla

     Incominciò, e poi a seguitarla.

XVI.

O miser padre, tu non t’avvedevi
     Che tu correvi dietro alla tua morte,
     E i lacci tuoi, tapin, non conoscevi,
     Dove preso tu fusti con ria sorte!
     Gl’ Dii volesser, che quando correvi
     Dietro alla ninfa sì veloce e forte,
     Diana l’avesse in uccel trasmutata,

     O in pietra, o in erba l’avesse piantata.

XVII.

Ella non era al fiume giunta a pena,
     Che la raccolta e sottil sua guarnacca
     Tra le gambe le cadde, e già la lena
     Del correr perde, e di dolor si fiacca:
     Lo sciaurato Mugnon gioia ne mena,
     Avendola già giunta per istracca,
     E presa la teneva infra le braccia,
     Donando baci alla vergine faccia.

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XVIII.

Quivi usò forza, e quivi violenza,
     Quivi la ninfa fu contaminata:
     Quivi ella non potè far resistenza.
     Oh misero garzone, o sventurata
     Ninfa, quanta dogliosa penitenza
     Divise amendue voi quella fïata!
     Dïana di sopra ’l soprastante monte

     Abbracciati gli vide a fronte a fronte.

XIX.

Ella gridò: miseri, quest’è l’ora
     Che insieme n’anderete nello inferno;
     Voi sarete oggi d’esto mondo fuora
     Senza veder di questa state il verno:
     E’ nomi vostri faranno dimora
     Nel fiume dove sete in sempiterno:
     E poscia l’arco tese con grand’ira,

     Facendo de’ due amanti una sol mira.

XX.

A un’otta giunson l’ultime parole
     E la freccia che insieme gli confisse:
     O figliuol mio, io non ti dico fole,
     Così volesson gli Dei ch’io mentisse,
     Che per dolore ancora il cor mi dole,
     E’ convenne ch’ognun di lor morisse:
     Un ferro tenea fitti que’ due cori,
     Così finiron quivi i loro amori.

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XXI.

Il sangue del mio padre doloroso
     Il fiume tinse di rosso colore,
     E corse tutto quanto sanguinoso,
     E manifesto fe’ questo dolore,
     E ’l corpo suo ancor vi sta nascoso,
     Che mai non se ne seppe alcun sentore,
     Nè dove s’arrivasse poi, o il come,

     Salvo che ’l fiume ne ritenne il nome.

XXII.

Dissesi che Dïana ragunoe
     Il sangue della ninfa tutto quanto,
     E ’l corpo insieme con quel tramutoe
     In una bella fonte, dall’un canto
     Allato al fiume, e così la lascioe,
     Acciocchè manifesto fosse quanto
     Ell’è crudele e forte e dispietata

     A chi l’offende solo una fïata.

XXIII.

Così di molti te ne potre’ dire
     Che ’n questi monti sono fonti e uccelli,
     Quali in albero ha fatti convertire,
     E così ha disfatti i tapinelli:
     Ancor del sangue tuo fece morire
     Anticamente due carnal fratelli:
     Però ti guarda, per l’amor di Dio,
     Dalle sue mani, o caro figliuol mio.

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XXIV.

Posto avea fine al suo ragionamento
     Il vecchio Giraffone lacrimando;
     Affrico ad ascoltarlo molto attento
     Istava, bene ogni cosa notando,
     E come che alquanto di spavento
     Avesse di quel dir, pur fermo stando
     In sua opinïon, al padre disse,

     Deh non temer cotesto a me avvenisse.

XXV.

Da ora innanzi le lascerò andare,
     Se egli avvien ch’io le trovi più mai.
     Andianci, padre, omai a riposare,
     Ch’io sono stanco, sì m’affaticai
     Oggi per questi monti, per tornare
     Di dì a casa, che mai non finai,
     Ch’io son qui giunto con molta fatica;

     Sì ch’io ti prego che tu più non dica.

XXVI.

Giti a dormir, non fu sì tosto giorno
     Ch’Affrico si levava prestamente,
     E nelli usati poggi fe’ ritorno
     Dove sempre tenea ’l core e la mente,
     Sempre mirandosi avanti ed intorno
     Se Mensola vedea poneva mente,
     E come piacque a Amor giunse ad un varcoFonte/commento: OPAL
     Ov’ella gli era presso ad un trar d’arco.

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XXVII.

Ella lo vide prima che lui lei,
     Perchè a fuggir del campo ella prendea:
     Affrico la sentì gridare omei,
     E poi guardando fuggir la vedea;
     E infra sè disse, per certo costei
     È Mensola, e poi dietro le correa;
     E sì la prega, e per nome la chiama,

     Dicendo, aspetta quel che tanto t’ama.

XXVIII.

Deh, o bella fanciulla, non fuggire
     Colui che t’ama sopra ogn’altra cosa.
     Io son colui che per te gran martire
     Sento dì e notte senza aver mai posa:
     Ch’i’ non ti seguo per farti morire,
     Nè per far cosa che ti sia gravosa,
     Ma solo Amor mi li fa seguitare,

     Non nimistà nè mal ch’io voglia fare.

XXIX.

Io non ti seguo come falcon face
     La volante pernice cattivella,
     Nè ancora come fa lupo rapace
     La misera e dolente pecorella,
     Ma sì come colei che più mi piace
     Sopr’ogni cosa, e sia quanto vuol bella.
     Tu se’ la mia speranza e ’l mio disio,
     E se tu avessi mal sì l’avre’ io.

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XXX.

Se tu m’aspetti, o Mensola mia bella,
     Io ti prometto e giuro per gli Dei
     Ch’io ti torrò per mia sposa novella,
     Ed amerotti sì come colei
     Che se’ tutto il mio bene, e come quella
     C’hai in balìa tutti i sensi miei:
     Tu se’ colei che sol mi guidi e reggi,

     Tu sola la mia vita signoreggi.

XXXI.

Dunque perchè vuo’ tu, o dispietata,
     Esser della mia morte la cagione?
     Ed esser vuoi di tanto amore ingrata
     Verso di me, senza averne ragione?
     Vuo’ tu ch’io muoia per averti amata,
     E ch’io n’abbia di ciò tal guiderdone?
     S’io non t’amassi dunque che faresti?

     So ben che peggio far non mi potresti.

XXXII.

Se tu pur fuggi, tu se’ più crudele
     Che non è l’orsa quand’ha gli orsacchini,
     E se’ più amara che non è il fiele,
     E dura più che i sassi marmorini.
     Se tu m’aspetti, più dolce che mele
     Se’, o che l’uva ond’esce i dolci vini;
     E più che ’l sol se’ bella e rilucente,
     Morbida, bianca, angelica e piacente.

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XXXIII.

Ma i’ ben veggo che ’l pregar non vale,
     Nè parola ch’io dica non ascolti,
     E di me servo tuo poco ti cale,
     Nè mai indietro gli occhi non hai volti;
     Ma come egli esce dell’arco lo strale,
     Così ten vai per questi boschi folti,
     E non ti curi di pruni o di sassi

     Che graffian le tue gambe, e de’ gran massi.

XXXIV.

Or poi che di fuggir se’ pur disposta
     Colui che t’ama, secondo ch’io veggio,
     Senza fare a’ miei preghi altra risposta,
     E par che per pregar tu facci peggio,
     Io prego Giove che ’l monte e la costa
     Ispiani tutta; questa grazia chieggio,
     E pianura diventi umíle e piana,

     Ch’al correr non ti sia cotanto strana.

XXXV.

E prego voi, Iddii, che dimorate
     Per questi boschi e nelle valli ombrose,
     Che se cortesi fuste mai, or siate
     Verso le gambe candide e vezzose
     Di quella ninfa, che voi convertiate
     Alberi e pruni e pietre e altre cose,
     Che noia fanno a’ pie’ morbidi e belli,
     In erba minutella e praticelli.

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XXXVI.

E io per me omai mi rimarroe
     Di più seguirti, e va’ dove ti piace,
     E nella mia mal’ora mi staroe
     Con molte pena senza aver mai pace;
     E senza dubbio al fine io mi morroe,
     Ch’io sento il cor che già tutto si sface
     Per te, che ’l tieni in sì ardente foco,

     E mancagli la vita a poco a poco.

XXXVII.

Correa la ninfa sì velocemente
     Che parea che volasse, e’ panni alzati
     S’avea dinanzi per più prestamente
     Poter fuggire, e aveasegli attaccati
     Alla cintura, sì che apertamente
     Di sopra a’ calzerin ch’avea calzati
     Mostra le gambe e ’l ginocchio vezzoso,

     Ch’ognun ne saria stato disïoso.

XXXVIII.

E nella destra man teneva un dardo,
     Il qual quand’ella fu un pezzo fuggita
     Si volse indietro con rigido sguardo,
     E diventata per paura ardita
     Quel gli lanciò col suo braccio gagliardo,
     Per ad Affrico dar mortal fedita;
     E ben l’avrebbe morto, se non fosse
     Che in una quercia innanzi a lui percosse.

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XXXIX.

Quando ella il dardo per l’aria vedeva
     Zufolando volare, e poi nel viso
     Guardò del suo amante, il qual pareva
     Veracemente fatto in paradiso,
     Di quel lanciare forte le doleva,
     E tocca da pietà lo mirò fiso,
     E gridò forte: oimè! giovane, guarti,

     Ch’io non potrei di questo omai atarti.

XL.

Il ferro era quadrato e affusolato,
     E la forza fu grande, onde e’ si caccia
     Entro la quercia, e tutto oltre è passato,
     Sì com’avesse dato in una ghiaccia:
     Ell’era grossa sì che aggavignato
     Un uomo non l’avrebbe con le braccia;
     Ella s’aperse, e l’Fonte/commento: Milano, 1974asta dentro entroe,

     E più che mezza per forza passoe.

XLI.

Mensola allor fu lieta di quel tratto,
     Che non aveva il giovine fedito,
     Perchè Amor già le aveva del cor tratto
     Ogni crudel pensiero e fatto unito;
     Ma non però ch’aspettarlo a niun patto
     Pur lo volesse, o pigliasse partito
     D’esser con lui, ma lieta sarie stata
     Di non esser da lui più seguitata.

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XLII.

E poi da capo a fuggir cominciava
     Velocissituamente, poichè vide
     Che ’l giovinetto pur la seguitava
     Con ratti passi e con preghi e con gride;
     Perch’ella innanzi a lui si dileguava,
     E grotte e balze passando ricide,
     E ’n sul gran collo del monte pervenne,

     Dove sicura ancor non vi si tenne:

XLIII.

Ma di là passò molto tostamente
     Dove la piaggia d’alberi era spessa,
     E sì di frondi folta, che niente
     Vi si scorgeva dentro; perchè messa
     Si fu la ninfa là tacitamente,
     E come fosse uccel, così rimessa
     Nel folto bosco fu, tra verdi fronde

     Di be’ querciuol che lei cuopre e nasconde.

XLIV.

Ora torniamo ad Affrico, che quando
     Vide il lanciar che la ninfa avea fatto,
     Alquanto sbigottì, ma poi ascoltando
     Il gridar, guarti, guarti, con un atto
     Assai pieteso, verso lui mostrando
     Con la luce degli occhi, che in un tratto
     Gli ferì il core, e fecel più bramoso
     Di seguitarla, e più volonteroso.

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XLV.

Ma come fa ’l tizzon ch’è presso spento,
     E sol rimasto v’è una favilla,
     Ma poi che sente il gran soffiar del vento,
     Per forza il fuoco fuor d’esso ne squilla,
     E diventa maggior per ogn’un cento;
     Tale Affrico sentì, quando sentilla
     A lui parlar con sì pietosa voce,

     Maggiore il fuoco che l’incende e coce.

XLVI.

E gridò forte: ora volesse Giove,
     Poi che tu vuoi, che tu m’avessi morto
     A questo tratto, acciocchè le tue prove
     Fusson compiute, avendomi al cor porto
     L’aguto ferro, il qual percosse altrove;
     E come che tu abbia di ciò ’l torto,
     Io pur sarei contento d’esser fuore,

     Per le tue man, delle fiamme d’amore.

XLVII.

Appena avea finito il suo parlare
     Affrico, quando Mensola giugnea
     In sul gran monte, e videla passare
     Dall’altra parte, e più non la vedea;
     Onde di ciò molto mal ne gli pare,
     Perch’ella innanzi a lui tal campo avea,
     Che temea forte che lei di veduta,
     Com’egli avvenne, non aver perduta.

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XLVIII.

E lassù giunto dopo molto affanno,
     Gli occhi a mirar di lei subito pone:
     E come i cacciatori spesso fanno,
     Quando levata s’è la cacciagione,
     E di veduta poi perduta l’hanno,
     Colla testa alta vanno baloccone,
     Correndo or qua or là, or fermi stando,

     E come smemorati dimorando:

XLIX.

Tale Affrico faceva in sul gran monte,
     Di lei mirando con alzato volto,
     E colle man si percotea la fronte,
     E di fortuna ria si dolea molto,
     Che già gli aveva fatte di molte onte;
     E poi ne giva verso il bosco folto,
     Poi ritornava indietro, e dicea: forse

     Ch’ella da questa mano il cammin torse.

L.

E tosto là correndo se n’andava
     Se veder la potesse in nessun lato;
     Poichè non la vedea si ritornava
     In altro luogo molto addolorato:
     E poi che andata fusse s’avvisava
     In altra parte, ma il pensier fallato
     Tuttavia gli venia, onde che farsi
     E’ non sapea, nè dove più cercarsi.

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LI.

E ben dicea fra sè; forse costei
     In questo bosco grande s’è nascosa,
     E s’ella v’è, mai non la troverei,
     Se menar non vedessi alcuna cosa;
     E più d’un mese a cercar penerei
     La piaggia tutta per le frondi ombrosa;
     E non ci veggio d’onde entrata sia,

     Nè fatta per lo bosco alcuna via.

LII.

Nè ’l cor giammai mi daria d’avvisare
     In qual parte sia ita, tante sono
     Le vie d’onde ella se ne puote andare;
     E se a cercar di lei pur m’abbandono,
     Per avventura il contrario cercare
     Potrei dov’ella fosse; onde tal dono
     Quanto aver mi parea perderò omai,

     Ond’io mi rimarrò con molti guai.

LIII.

Nè so s’io me ne vo, o s’io m’aspetti,
     Se riuscir la veggio in nessun lato,
     Benchè sì folti son questi boschetti
     Che vi staria a cavallo un uom celato
     Senza d’esser veduto aver sospetti.
     E pognam pur ch’ell’uscisse d’aguato,
     Più ch’un buon mezzo miglio di lontano
     Da me uscirebbe, ond’i’ correre’ invano.

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LIV.

E poi guardò il sol, che presso all’ora
     Di nona era venuto, ond’e’ diceva:
     Perchè io son d’ogni speranza fuora
     D’aver colei, la qual io mi credeva,
     Io non vo’ più quinci oltre far dimora,
     Tornandogli a memoria quel ch’aveva
     Raccontatogli il padre il dì davanti,

     Come fur morti insieme i due amanti.

LV.

Dall’altra parte Amor gli facea dire:
     Io non curo Dïana, pur che io
     Solo una volta empiessi il mio disire,
     Che poi contento sarebbe il cor mio;
     E se mi convenisse poi morire,
     N’andrei contento ringraziando Iddio;
     Ma di lei più che di me mi dorrebbe:

     S’ella morisse per me, mal sarebbe.

LVI.

Cotai ragionamenti rivolgendo
     Affrico in sè vi dimorò gran pezza,
     Nè che si far nè che dir non sapendo,
     Tanto amor lo lusinga e sì l’avvezza:
     Pur nella fine partito prendendo,
     Per non voler al padre dar gramezza,
     A casa ritornar contro sua voglia,
     Così si mise in via con molta doglia.

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LVII.

Così si torna Affrico mal contento
     Rivolgendosi indietro ad ogni passo,
     E stando sempre ad ascoltare attento
     Se Mensola vedea, dicendo, lasso,
     Oimè tapino! in quanto rio tormento
     Rimango, e d’ogni ben privato a casso!
     E tu rimani, o Mensola! chiamando

     Più e più volte, e indietro ritornando.

LVIII.

Molto sarebbe lungo chi volesse
     Le volte raccontar ched e’ tornava
     Indietro e innanzi, tant’erano spesse,
     Per ogni foglia che si dimenava;
     E quanta doglia dentro al core avesse,
     Ognuno il pensi, e quanto lo gravava
     Di partir quindi, ma per dir più breve

     A casa si tornò con pena greve.

LIX.

Alla qual giunto, in camera ne gìa,
     Senza da padre o madre esser veduto,
     E ’n sul suo picciol letto si ponìa,
     Sentendosi già al core esser venuto
     Cupido, il qual sì forte lo ferìa,
     Che volentieri avrebbe allor voluto
     Morendo uscir di tanta pena e noia,
     Vedendosi privato di tal gioia.

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LX.

E tutto steso in sul letto bocconi
     Affrico sospirando dimorava;
     E sì lo punson gli amorosi sproni,
     Che, oimè, oimè, per tre volte gridava
     Sì forte, che agli orecchi que’ sermoni
     Della sua madre venner, che si stava
     ’N uno orticello allato alla casetta,

     E ciò udendo in casa corse in fretta:

LXI.

E nella cameretta ne fu andata,
     Del suo flgliuol la voce conoscendo;
     E giunta là si fu maravigliata,
     Il suo flgliuol boccon giacer veggendo,
     Perchè con voce rotta e sconsolata
     Lui abbracciò, caro figliuol, dicendo,
     Deh dimmi la cagion del tuo dolere,

     E donde vien cotanto dispiacere.

LXII.

Deh dimmel tosto, caro figliuol mio,
     Dove ti senti la pena e ’l dolore,
     Sì che io possa, medicandoti io,
     Cacciar da te ogni doglia di fore:
     Deh leva il capo, dolce mio disio,
     Ed un poco mi parla per mio amore,
     Io son la madre tua che ti lattai,
     E nove mesi in corpo ti portai.

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LXIII.

Affrico udendo quivi esser venuta
     La sua tenera madre, fu cruccioso
     Perch’ella s’era di lui avveduta;
     Ma fatto già per amor malizioso,
     Tosto gli fu nel cor scusa venuta,
     E ’l capo alzò col viso lagrimoso,
     E disse: madre mia, quando tornava

     Istaman caddi, e tutto mi fiaccava.

LXIV.

Poi mi rizzai, e rimasemi al fianco
     Una gran doglia, ch’appena tornare
     Pote’ infin qui, e divenni sì stanco,
     Che sopra me non potea dimorare,
     Ma come neve al sol mi venìa manco,
     Perch’io mi venni in sul letto a posare:
     E parmi alquanto la doglia ita via,

     Che prima tanto forte m’impedia.

LXV.

E però, madre mia, se tu m’hai caro,
     Ti prego che di qui facci partenza,
     E per Dio questo non ti sia discaro,
     Che ’l favellar mi dà gran penitenza,
     Nè veggio alla mia doglia altro riparo:
     Or te ne va’, senza più resistenza
     Fare al mio dir, che per certo conosco
     Che ’l più parlar m’è velenoso tosco.

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LXVI.

E questo detto il capo giù ripose,
     Senza più dir, ma forte sospirando.
     La madre, avendo udite queste cose,
     Con seco venne alquanto ripensando,
     Dicendo: e’ mi s’accosta, che gravose
     E maggior pene gli fien favellando,
     Che forse gli rimbomba quella voce

     Dove la doglia nel fianco gli cuoce.

LXVII.

E della camera uscì, e in sul letto
     Lasciò il figliuolo con molti sospiri:
     Il qual poi che si vide esser soletto,
     D’amor si dolea forte e de’ martiri
     I quai crescean nel non usato petto
     Con maggior forza, e più caldi i desiri
     Che prima non facien, dicendo: i’ veggio

     Ch’amor mi tira pur di mal in peggio.

LXVIII.

Io mi sento arder dentro tutto quanto
     Dall’amorose fiamme, e consumare
     Mi sento il petto e ’l cor da ogni canto,
     Nè non mi può di questo nullo atare
     Nè conforto donar poco nè quanto;
     Sol’una è quella che mi può donare,
     S’ella volesse, aiuto e darmi pace,
     E di me sol può far quanto le piace.

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LXIX.

E tu sola fanciulla bionda e bella,
     Morbida, bianca, angelica e vezzosa,
     Con leggiadro atto e benigna favella,
     Fresca e giuliva più che bianca rosa,
     E splendiente più ch’ogni altra stella
     Sei che mi piaci più che altra cosa;
     E sola te con desiderio bramo,

     E giorno e notte ad ogn’ora ti chiamo.

LXX.

Tu se’ colei ch’alle mie pene e guai
     Sola potresti buon rimedio porre:
     Tu se’ colei che nelle tue man’hai
     La vita mia, ne la ti posso torre:
     Tu se’ colei la qual se tu vorrai
     Me da misera morte potrai storre;
     Tu se’ colei che mi puo’ atar se vuoi,

     Così volessi tu, come tu puoi.

LXXI.

E poi diceva: oimè lasso, dolente!
     Che tu se’ tanto dispietata e dura,
     E tanto se’ selvaggia dalla gente
     Che hai di chi ti mira gran paura,
     E di mia vita non curi niente,
     La qual’in carcer tenebrosa e scura
     Istà per te, e tu, lasso, non credi
     Ch’io per te senta quel che tu non vedi.

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LXXII.

Poi sospirando a Vener si volgeva,
     Dicendo: o santa diva, la quel suoi
     Ogni gran forza vincer, che soleva
     Difesa far contra li dardi tuoi,
     E niun da te difender si poteva,
     Ora mi par che vincer tu non puoi
     Una fanciulla tenera, la quale

     La forza tua contra lei poco vale.

LXXIII.

Tu hai perduta ogni forza e valore
     Contra di lei, e l’ingegno sottile,
     Che suol’avere il tuo figliuolo Amore
     Contro ogni core villano e gentile,
     Perduto l’hai contro al gelato core,
     Il quale ogni tua forza tiene a vile,
     E sprezza l’arco e l’agute saette,

     Che solei far con esse tue vendette.

LXXIV.

Tu li credesti forse lei pigliare
     Agevolmente come me pigliasti,
     E nel gelato petto tosto entrare
     Co’ tuoi ingegni come nel mio entrasti:
     Ma ella fe’ le frecce rintuzzare
     Colle qua’ di passarla t’ingegnasti,
     E io tapin, che non fei difensione,
     Rimaso sono in eterna prigione:

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LXXV.

Nè spero d’essa giammai riuscire
     Nè pace aver nè tregua nè riposo,
     Ma bene aspetto che maggior martire
     Mi cresca ognor col pensiero amoroso,
     Il quale al fin farà del corpo uscire
     L’anima trista con pianto noioso,
     E gir fra l’ombre nere a suo dispetto,

     E questo fia di me l’ultimo effetto.

LXXVI.

E io ti chieggio morte, poichè dei
     Medicina esser di mia amara vita,
     Perchè contra mia voglia viverei,
     Se non mi dai nel cor la tua fedita,
     E sempre mai di te io mi dorrei,
     Ma se tu vien sarai da me gradita;
     Dunque vien tosto, e scio’ questa catena

     Con la qual son legato in tanta pena.

LXXVII.

Poi detto questo forte lagrimando
     Sì ricordò del dardo, il qual lanciato
     Gli avea la bella ninfa: e poscia quando
     Con pietose parole avea parlato,
     Ch’egli schifasse il dardo, che volando
     Venia per lui per l’aria affusolato:
     Quelle parole gli davan fidanza
     Alcuna di pietà con isperanza.