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Relazione della fuga in Francia d'Enrico di Borbone

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Guido Bentivoglio

XVII secolo Indice:Bentivoglio, Guido – Memorie e lettere, 1934 – BEIC 1753078.djvu storia Relazione della fuga in Francia d’Enrico di Borbone Intestazione 22 luglio 2021 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Memorie e lettere (Bentivoglio)
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II

RELAZIONE DELLA FUGA DI FRANCIA
D’ENRICO DI BORBONE

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Relazione della fuga di Francia d’Enrico di Borbone prencipe di Condé, primo prencipe del sangue reale di Francia, e di quello che ne seguí sino al suo ritorno a Parigi.

Godeva la Francia un’alta pace e tranquillitá negli ultimi anni d’Enrico quarto, re de’ maggiori e piú memorabili che mai avesse avuti quel regno; quando all’improviso sul fine dell’anno 1609 nacque un accidente gravissimo, che turbò tutte le cose in un subito, e che terminò all’ultimo nell’atroce morte del re medesimo. Aveva Enrico acquistata grandissima gloria fra l’armi, in sí lungo tempo ch’egli, prima eretico e poi cattolico, era stato costretto d’adoperarle contro i nimici domestici e forestieri che gli facevano impedimento a quella corona. Alla quale pervenuto, e posate l’armi poi dentro e fuori di Francia, aveva egli conseguita, dopo, non minor gloria in aver fatto fiorir molti anni quel regno con somma quiete e prosperitá. Onde le sue lodi risonavano maravigliosamente per ogni parte dell’universo, e correva una general costante opinione che da gran tempo non si fosse veduto re di piú chiara fama, e nel quale per governare in pace ed in guerra concorressero maggiori e piú sublimi ornamenti. Solo pareva ch’in qualche modo venisse oscurato il suo nome dall’essersi egli mostrato, e dal mostrarsi tuttavia, troppo dedito agli amorosi piaceri. Né l’aver egli avuta una moglie di rara virtú, e di singolar bellezza e feconditá, era stato freno bastevole a ritenerlo da questa in lui si dominante passione. Anzi, per lo piú fatto sazio di quel diletto che godeva senza contrasto, [p. 262 modifica] non lasciava di trattar nuovi amori e di trapassare da questo a quello, secondo le occasioni di nuovi oggetti che l’invaghivano. Di varie donne il re avea avuti molti figliuoli, e della regina molti altri; onde egli era circondato ordinariamente da buon numero di legitimi e di naturali. Né perciò l’amor de’ legitimi aveva forza ch’egli facesse maggior parte di sé alla moglie, né il rimorso de’ naturali che si mescolasse meno con altre donne. Non molto prima ch’egli morisse, avea cominciato a spuntare in Parigi una nuova bellezza ch’aveva tirati a sé gli occhi di tutta la corte, e piú cupidamente di tutti gli altri quelli del re. Fioriva questa bellezza in Margherita di Memoransi, figliuola del gran contestabile di Francia; e da’ primi compiacimenti che se ne svegliaron nel re, s’accese egli dopo sí fieramente di lei, che non potendo tenere occulta la fiamma che gli ardeva nel petto, la venne a palesare in molti modi con molte dimostrazioni esteriori, finché fu fatta publica e manifesta ad ognuno. Era nipote del re per via d’un suo primo cugino il prencipe di Condé; il quale nato e nudrito eretico aveva poi nella sua fanciullezza abbracciata la fede cattolica, né si può dire con quanto applauso del regno, per l’amor che gli concigliava e l’eminenza del grado e la vivacitá che si scorgeva in lui dello spirito. E perché niun altro del sangue reale toccava in grado piú prossimo il re, perciò tutti i parlamenti di Francia aveano riconosciuto Condé per legitimo successore alla corona, prima che il re pigliasse la seconda moglie e avesse figliuoli. Assicurata poi ch’ebbe il re la successione sua propria, era restato a Condé il luogo di primo prencipe del sangue, luogo di sublime prerogativa in Francia, e che seco porta conseguenze grandissime. Di giá si trattava di dargli moglie, e parve a proposito la sopranominata figliuola del contestabile. Era allora Condé giovane di ventidue anni, e non ignorava egli punto la nuova amorosa passione del re. Ma parendogli che per frenarla fosse per esser bastante rimedio il divenir Margherita sua moglie, passò inanzi nel matrimonio e si celebrarono solennemente le nozze. Trovossi però egli presto ingannato. [p. 263 modifica]

Quanto piú crebbero dalla parte di Margherita gli ostacoli, tanto piú s’aumentò l’ardore dalla parte del re. Coprí egli per alcun breve tempo il suo fuoco, ma fatto piú intenso dall’essere stato piú chiuso, proruppe finalmente in altissimo incendio. E sentendosi egli ormai impotente a resistere a se medesimo, cominciò con diversi mezzi e con varie pratiche a cercar di pervenire a’ suoi fini. Stava attento Condé. Ed agitato da diversi pensieri, finalmente gli parve che il miglior rimedio per assicurare il suo onore fosse il levar dalla corte la moglie; onde la condusse ad un suo luogo distante alcune leghe da Parigi verso la Piccardia. Venuto ciò a notizia del re, se ne commosse maravigliosamente. All’amore s’aggiunse in lui subito un fiero sdegno. Onde prima sotto coloriti pretesti, e poi finalmente con aperte minaccie, fece dire a Condé, il quale scorreva spesso a Parigi, che rimenasse alla corte la moglie; e fra tanto non potendo egli piú lungamente soffrir la lontananza di lei, un giorno (come fu publica fama) travestito, con pochi cavalli, corse molte leghe per vederla in una parte dov’ella era per trovarsi con occasione di certa caccia. Finse Condé astutamente d’esser disposto a far quello che il re desiderava, ed a questo fine mostrò di trasferirsi a trovar la moglie, ma con risoluzione ferma nel suo segreto di volerla levar di Francia. Né fu piú lungo l’indugio. Apparecchiate le cose necessarie alla fuga piú tosto che alla partita, la mise in esecuzione in questa maniera: si pose egli con la moglie e due sole donne in una carrozza tirata da otto cavalli; e fattosi seguitar da alcune chinee e da tre o quattro soli servitori suoi piú fidati, s’incamino improvisamente verso le frontiere di Fiandra dalla parte d’Artois, ch’era il lato di quei paesi a lui piú vicino. Staccati i cavalli della carrozza, si posero egli e la moglie sulle chinee. Metteva l’ali ed aggiungeva stimoli pungentissimi alla celeritá di Condé non solo il pericolo dell’onore, ch’egli molto prima s’era figurato nella sua mente, ma quel della vita ch’ora di nuovo gli era posto inanzi agli occhi dal considerare l’ardente sdegno del re. Ond’egli mai non si fermò, sin che giunto in Landresi, piazza [p. 264 modifica] considerabile di quella frontiera d’Artois, gli parve di poter trattenersi quivi sicuramente. Da Landresi mandò egli subito un suo gentiluomo a complire e a participare i suoi accidenti con l’arciduca Alberto, il quale si ritrovava allora per ricreazione insieme con l’infanta sua moglie a Marimonte, luogo pur situato verso la frontiera di Francia; e lo pregò insieme a permettergli che potesse egli medesimo andare a trovarlo. Parve all’arciduca che si sarebbe riputato offeso di ciò il re di Francia; onde con buon termine ricusò di riceverlo, e si lasciò ancora intendere che non avrebbe consentito ch’egli si trattenesse dentro a’ suoi stati, per li quali però avrebbe potuto passar liberamente volendo trasferirsi a qualch’altra parte. Escluso Condé dagli stati dell’arciduca se n’andò subito a Giuliers, dove si trovava allora l’arciduca Leopoldo, mandatovi dall’imperatore per occasione delle differenze che s’erano mosse intorno alla successione degli stati del duca di Cleves, il quale era mancato senza figliuoli. Quindi se ne passò egli a Colonia, e da quella cittá, conforme all’inveterata libertá che godono le terre imperiali della Germania, ottenne un amplissimo salvocondotto per potervisi trattenere. Questa era stata l’occasione, questo il successo ch’aveva avuto la fuga del prencipe di Condé. Ma il re di Francia, intesa la risoluzione ch’aveva pigliata Condè, pieno di sdegno ardentissimo contro di lui, diede subito molti ordini perché egli fosse con ogni possibil celeritá seguitato e preso. Infiammavalo non solo il dispiacer che sentiva nel vedere allontanata dalla corte la principessa, ma il conoscere che da questa azione del prencipe avrebbono potuto soprastar molte novitá pericolose al suo regno, considerata massimamente la sua grave etá, e quella de’ figliuoli sí tenera. Tormentato dunque il re da sí potenti e sí fiere passioni, aveva usate, come ho detto, varie diligenze per far giunger e ritenere Condé. Aveva egli spedito fra gli altri il signor di Pralin, uno de’ capitani delle sue guardie, con ordine che non potendo arrivarlo si trasferisse incontanente a trovar l’arciduca, verso le cui frontiere si sospettava ch’avrebbe dirizzata la fuga, e facesse ogni piú efficace offizio [p. 265 modifica] per ritenere Condé. Riuscite vane a Pralin, come agli altri ancora, le speranze di giungerlo, andò egli subito, insieme con l’ambasciator francese residente in Brusselles, ad esporre all’arciduca l’instanza del re. Accumularono grandissime querele contro il prencipe, e con termini molto acerbi parlaron contro la sua persona. Dissero: ch’erano stati finti i pericoli sospettati da lui intorno all’onor della moglie, e finta ogni altra paura con la quale s’era da lui colorita la sua fuga di Francia. E come aver’egli potuto aspettar violenza alcuna dal re? Prencipe alieno dall’usarla per se medesimo, e che molto meno l’avrebbe usata poi col nipote. La sua ambizione e leggerezza piú tosto, con l’instigamento e mali consigli d’altri, averlo portato ad una sí strana e sí inaspettata risoluzione, la quale non poteva tendere ad altro ch’a perturbar la Francia con qualche novitá ordita per questo fine. Promettersi perciò fermamente il re dalla buona vicinanza e dalla sincera amicizia, che professava con l’arciduca, ch’egli fosse per far ritenere Condé quando si trovasse tuttavia in Fiandra, e per facilitar con ogni mezzo il ritorno suo in Francia. Ambidue pregarlo di ciò in nome del re con ogni efficacia maggiore. Considerasse la qualitá di questo successo; e finalmente si ricordasse che tali incontri non erano mai tanto propri d’un prencipe solo che non si stendessero con l’esempio eziandio a tutti gli altri.

La risposta dell’arciduca fu: ch’egli stimava d’avere adempite col re le sue parti, non avendo voluto ricever Condé; ch’a prencipe di tal condizione non sarebbe stato giusto negare il passo; di giá essersi trasferito altrove; ma se in qualche maniera egli coi suoi offizi potesse indurlo a tornare in Francia, esser disposto a fargli, ed a mostrar in ogni altro modo quanto da lui fosse desiderata e la sodisfazione particolare del re e la tranquillitá publica del suo regno.

Trovavasi in quel tempo medesimo il prencipe d’Oranges in Bredá sua terra poco distante da Anversa insieme con la principessa sua moglie, sorella di Condé.

Venne egli perciò subito con la moglie a Brusselles cosí pregatone da Condé, il quale per andar piú spedito a Colonia, [p. 266 modifica] presa altra piú breve strada, aveva fatta venir la principessa sua moglie a Brusselles per trattenersi ivi appresso della sorella sino ad altra risoluzione. Aveva la principessa di Condé allora sedici anni, e parve a giudizio comune che la sua bellezza corrispondesse alla relazione che n’aveva portata inanzi la fama. Era bianchissima, piena di grazia negli occhi e nel volto; piena di vezzi nel parlare ed in ogni suo gesto, e tutta naturalmente si commendava per se medesima la sua bellezza, perché non l’aiutava alcun donnesco artifizio. Tornarono poco dopo l’arciduca e l’infanta a Brusselles. Dall’arciduca fu visitata subito la principessa, e dall’infanta le furono fatte molte cortesi offerte. Intanto di quel ch’era succeduto nelle cose di Condé a Marimonte con l’arciduca, avevano avuto notizia i ministri spagnuoli piú principali ch’allora non s’eran trovati appresso la sua persona. Avevano essi giudicata poco generosa risoluzione quella che l’arciduca aveva pigliata, e nell’escluder di Fiandra Condé e nel mostrar di volere attribuir tanto alla sodisfazione del re di Francia. Ma sopra tutti se n’era commosso il marchese Spinola, per le cui mani principalmente passavano in Fiandra le cose del re di Spagna, e mostrava egli di non poter tolerare che l’arciduca si fosse lasciata fuggire sí bella occasione di trar qualche frutto da’ travagli del re di Francia.

Con troppa facilitá — diceva egli — aver l’arciduca temuto, che solo per assicurar Condé in Fiandra, avesse il re di Francia a muover l’armi contro di lui. Non esser far guerra a’ cervi nelle foreste di Francia il farla con gli eserciti armati in campagna aperta, come sapeva il re meglio d’ogni altro. Dunque, essersi dovuto giudicare piú tosto, che in luogo di romper la guerra, egli fosse stato per tentar col negozio di riavere Condé in Francia, e di veder restituita alle sue speranze la principessa. Anzi, essersi dovuto credere che se fosse stato assicurato in Fiandra Condé, la pratica della sua riconciliazione avrebbe potuto generar molti profittevoli effetti, cosi nel render piú facili i matrimoni scambievoli de’ quali fra le due corone s’era di giá fatta piú d’una apertura, come in [p. 267 modifica] altre cose riguardanti il servizio lor proprio e quello di tutta la cristianitá unitamente. Avere la sua virtú ancora il sospetto fra i prencipi, e spesse volte operar piú in essi lo stimolo del timore che quello dell’amicizia. Ma in qualunque modo fosse restato Condé in mano del re cattolico e dell’arciduca, qual piú bella qual piú opportuna occasione si sarebbe potuta desiderare per mettere alcun freno alle cupiditá immoderate del re di Francia? Essersi egli fatto arbitro della tregua di Fiandra poco inanzi conclusa; volere che dal suo arbitrio dipendessero le differenze intorno alla successione della casa di Cleves; vantarsi d’aver questo titolo d’arbitro universale d’Europa, e d’esercitarne l’autoritá. E quale autoritá particolarmente dover essere men tolerata che questa, di voler egli impedire a prencipi sí grandi e sí giusti, come il re cattolico e l’arciduca, che non potessero usare il vero offizio della grandezza e giustizia loro in protegger gli oppressi? tali spezialmente come il prencipe di Condé? e per tale oppressione come la sua? lá dove egli, anche dopo la pace ultima fatta col re cattolico, teneva tuttavia assicurato in Francia Antonio Perez, ministro ch’era stato infidelissimo alla corona di Spagna; e non solo assicurato, ma gli dava particolare stipendio e gli faceva ogni onore negli occhi propri della sua corte. Quanto esser differente la qualitá di Condé? Quanto differente la causa, e come poter esser meglio giustificata la sua fuga di Francia? nata senza dubbio (che che si dicessero i ministri del re in contrario) per necessitá manifesta di salvar l’onor suo e d’assicurar la sua vita medesima.

In cosí fatte querele prorompeva il marchese Spinola, e seco tutti gli altri ministri spagnuoli. Né contentandosi delle sole querele, cercavano per tutte le vie possibili d’imprimer le medesime passioni nell’animo dell’arciduca prencipe moderatissimo, e che dopo tante difficoltá uscito pochi mesi inanzi per via della tregua di Fiandra de’ passati pericoli della guerra, non voleva dare occasione che ne avesse a rinascere una nuova e piú grave col re di Francia. Ma dall’altra parte era tale la subordinazione degli interessi dell’arciduca a quelli del [p. 268 modifica] re di Spagna, ch’egli finalmente si lasciò vincere dalle ragioni rappresentate di sopra; ancorché piú da quelle che potevano dargli speranza di negozio e di quiete, che da quelle onde si potessero temer nuovi disordini e turbulenze. Fu dunque invitato Condé a venire a Brusselles, per uomo espresso che gli mandò il marchese Spinola con sue lettere e dell’ambasciator cattolico, e ne fu preso cosí il pretesto. Aveva detto Villeroy, segretario di stato il piú principale del re di Francia all’ambasciator di Fiandra residente in Parigi, ch’era dispiaciuto grandemente al re che Pralin ed il suo ambasciatore residente in Brusselles non avessero potuto veder Condé per dargli quei consigli che convenivano, e coi quali forse egli si sarebbe risoluto di ritornarsene in Francia. Dal re medesimo era poi stato replicato l’istesso all’ambasciatore, con aperta significazione che gli sarebbe riuscito di gusto che si fosse fatto ritornar Condé in Fiandra. Mostrando dunque l’arciduca di far venir Condé affine che i ministri francesi potessero abboccarsi con lui e procurar d’accomodarlo col re, e offerendo se stesso per mezzano a procurare il medesimo accomodamento, consentí che Condé fosse invitato, nel modo ch’ho detto, a venire a Brusselles, dov’egli arrivò sul fine di decembre dell’anno 1609. Smontò in casa del prencipe d’Oranges, e fu accompagnato dall’ambasciator cattolico e da tutti i primi signori della corte a fare i suoi primi offizi con l’arciduca e con l’infanta, che lo riceverono con grandi accoglienze e con tutti gli onori che la sua qualitá richiedeva. Erano intanto venute di Spagna le risposte che s’aspettavano intorno alla sua persona; ed erano state ch’egli fosse assicurato in Fiandra ch’il re pigliava la sua protezione, e ch’avrebbe procurato di fargliela godere con ogni vantaggio piú favorevole. Ne’ primi giorni del suo arrivo a Brusselles non si trattò cosa alcuna intorno alla sua riconciliazione col re di Francia, perché l’ambasciator del re non aveva ancora avuta alcuna particolar commissione sopra di ciò, oltre che si credeva che fosse per esser mandato presto un ambasciatore straordinario per tale effetto. Ma Condé pigliando animo dalle risposte di Spagna, tanto piú cercava in [p. 269 modifica] questo mezzo di giustificar la sua uscita di Francia. A me diede particolarmente due lettere, ch’egli scriveva l’una al pontefice e l’altra al Cardinal Borghese di lui nipote. Contenevano in sostanza le lettere, ch’egli, mosso dal pericolo di perder l’onore e la vita, era stato costretto a fuggir di Francia, e che raccomandava le cose sue alla protezione del pontefice ed agli offizi del cardinale. Giudicavasi ch’egli veramente avesse avuta qualche giusta occasione di levarsi di Francia. Ma quello ch’egli publicava intorno alla violenza preparatagli contro dal re, ed all’aver avuta la vita in pericolo, non si credeva comunemente, perché era cosa nota ad ognuno che ’l re non aveva mai trattati i suoi amori se non per le vie ordinarie, e fra le sue virtú niuna era predicata piú che quella della clemenza. Io mandai le lettere, ma non tralasciai però di ricordar quello ch’io doveva a Condé per servizio publico e suo. Con l’arciduca parimente e coi ministri spagnuoli io aveva passati prima quegli offizi di concordia e di pace ch’erano stati da me giudicati piú a proposito in cosí fatta occorrenza, e che poi rinovai piú volte per ordini particolari che me ne diede il pontefice. Nell’arciduca io trovava molta disposizione a procurar l’accomodamento di Condé col re di Francia. E mostrava egli di sperarne l’effetto, giudicando fra l’altre ragioni che Condé, per la naturale facilitá de’ francesi e per la propria sua variabilitá giovanile, fosse per disporsi non meno facilmente a tornare in Francia di quello che si fosse mosso a partirne. Appariva ancora ne’ ministri spagnuoli molto desiderio di veder accomodato Condé. Ma si conosceva dall’altra parte che non sarebbe dispiaciuto né all’arciduca né a loro che la pratica avesse incontrate delle difficoltá; in maniera però che ’l re di Francia fosse venuto ad involgersi per questa via in qualche travaglio domestico, senza che le cose di fuori avessero a prorompere in guerra aperta. Quanto alla forma del suo accomodamento, si dichiarava Condé ch’egli non si sarebbe mai fidato di rimettersi liberamente in mano del re. Proponeva che per potere assicurarsi di star senza pericolo in Francia, il re gli consegnasse qualche piazza [p. 270 modifica] particolare nella provincia di Ghienna, della quale egli era governatore, ma nella maggior distanza da Parigi, e piú verso le frontiere di Spagna che fosse possibile. Variava poi, e temeva ogni condizione che l’avesse ad obligare a fermarsi in Francia. Parlava ancora di ritirarsi in qualche cittá neutrale di Germania o d’Italia; mostrava di voler andare in Ispagna, e finalmente non si fermava in alcun ripiego, sí distratto e confuso in se stesso lo tenevano i dubbi che gli si rappresentavano in ogni partito. Ma erano molto diversi i pensieri del re di Francia. Avrebbe egli voluto che Condé si rimettesse liberamente in man sua, restando prima assicurato che da lui gli s’avesse a perdonare ogni offesa. A proporre questa forma d’aggiustamento, prese risoluzione il re d’inviare all’arciduca il marchese di Coure, soggetto de’ piú valorosi e piú stimati che fossero in Francia. Giunto il marchese a Brusselles, nella prima udienza ch’ebbe dall’arciduca gli esagerò i benefizi che ’l re aveva fatti a Condé, e si diffuse dopo in lunghi biasimi delle sue azioni ed in giustificar largamente quelle del re. Dichiarò poi all’arciduca: consistere la sola forma dell’accomodamento di Condé nel ritornar egli in Francia, ed in rimettersi in mano del re totalmente; il quale dall’altra parte non solo gli avrebbe con ogni sinceritá perdonato, ma con ogni termine piú benigno l’avrebbe nella sua grazia intieramente ancora restituito. Desiderar perciò il re che l’arciduca procurasse di tirar Condé in questi sensi. E quando egli ne fosse alieno, tener per fermo il re che l’arciduca l’avrebbe fatto uscire di Fiandra, poiché ve l’aveva lasciato ritornare col solo fine d’indurlo ad aggiustarsi col re per suo mezzo tanto piú facilmente.

Questo fu il primo offizio che passò il marchese di Coure con l’arciduca. Dal quale non riportò per allora altre risposte che generali, piene però d’efficaci offerte con le quali si esibiva l’arciduca di nuovo a far tutto quello ch’avesse potuto perché l’accomodamento di Condé potesse ridursi ad effetto. Ma piú chiaramente con altri diceva Coure che l’essere stato ricevuto in Fiandra il prencipe era seguito con espressa [p. 271 modifica] condizione, che non aggiustandosi le cose sue col re, egli ne fosse fatto uscire dall’arciduca, e che questo era stato il senso delle parole ch’erano passate fra il re e l’ambasciator di Fiandra in Parigi. Di questa condizione parlò poi anche chiaramente Coure al medesimo arciduca, il quale la negava, e diceva ch’egli aveva fatto ritornar Condé in Fiandra semplicemente per dar comoditá a’ ministri francesi di trattar seco e di procurar la sua riconciliazione col re, com’egli medesimo ancora avrebbe operato, senza che fosse intervenuta in ciò alcuna sorte di condizione.

Molto strano pareva all’arciduca l’udir parlare i francesi di questa maniera, e non meno strano che Coure gli avesse fatto instanza in nome del re, che quando Condé avesse ad uscire di Fiandra, vi fosse ritenuta sua moglie per restituirla al contestabile suo padre ed a madama d’Angolemme sua zia, appresso la quale s’era allevata la principessa dopo la morte della madre, che l’aveva lasciata molto fanciulla. Conoscevasi l’artifizio di tal richiesta. Onde la ributtarono constantemente l’arciduca e l’infanta, dichiarandosi che non avrebbono mai disposto della principessa se non nel modo ch’avesse voluto Condé suo marito. Intanto s’andavano proponendo vari partiti nelle cose di Condé, e s’affaticava in particolare il prencipe d’Oranges suo cognato in promuovergli, e finalmente appariva che Condé si sarebbe contentato di ritirarsi in qualche cittá neutrale di Germania o d’Italia, godendo il suo trattenimento che tirava in Francia di quaranta mila scudi l’anno.

Ma Coure stava piú fermo che mai nel partito proposto da lui, e diceva che il re non era per capitular mai con alcun suo vasallo, né per consentire che gli fossero prescritte leggi dal prencipe di Condé. Ritornasse egli in Francia, si rimettesse in mano del re, e s’assicurasse che non si parlerebbe piú delle cose passate.

Soggiungeva che l’avere a star Condé in Germania o in Italia era lasciarlo come sotto la dipendenza degli spagnuoli. Quante occasioni piglierebbono essi per questa via di dar fomento alla sua inquietudine? Non sarebbe ciò un metterlo [p. 272 modifica] come in deposito appresso di loro per aver a travagliare o di presente il re o dopo la sua morte i figliuoli? Dunque, il re non volere né vivo restar con questo sospetto né morto lasciar questa ereditá di turbulenze al suo sangue. Essere risoluto di venir quanto prima in chiaro di quel che fosse per seguir di Condé. E quando apparisse che gli spagnuoli se ne volessero servire per tali fini, aver determinato il re di prevenire egli quei mali che si vedessero preparati alla Francia con fargli sentir prima, per quanto egli mai potesse, alla Spagna.

Fra le pratiche amichevoli mischiava queste minaccie il marchese di Coure, pieno di spiriti alti e guerrieri per se medesimo, e che gli venivano somministrati abbondantemente dalla somma riputazione e grandezza nella quale il re di Francia si trovava allora constituito. Ma all’incontro non si piegava punto Condé a voler ritornare in Francia, vana stimando ogni sicurezza che in qualunque modo gli fosse offerta di poter uscire di mano del re, dopo ch’egli di giá vi si ritrovasse. Di questa opinione era pur’anche l’Oranges, il quale per disporre i francesi a procurar col re che si contentasse del partito d’una cittá neutrale di Germania o d’Italia, mostrava loro ciò essere molto meglio, che mettendo in disperazione Condé, metterlo conseguentemente in necessitá di gettarsi affatto in mano degli spagnuoli. Ma non fu possibile che i francesi volessero farne al re la proposta. Solamente si contentorono che l’arciduca la facesse per via del suo ambasciatore, il quale trovò ripugnanza grande nel re, e scoperse che non vi sarebbe mai condesceso, e che mai non si sarebbe indotto ad altro partito che a quello di rimettersi Condé liberamente in man sua. Il che all’incontro il prencipe con termini risoluti sempre piú ricusava di voler fare. Questo era il maneggio publico. Ma faticavano nell’istesso tempo i francesi molto piú in un altro segreto, il quale consisteva in trovar modo di rapire la principessa nascostamente e condurla in Francia. Pratica strana e piena di grandissime difficoltá senza dubbio, ma che nondimeno allora in Fiandra fu divulgata generalmente e creduta. E noi senz’affermar cosa alcuna di [p. 273 modifica] certo, non faremo altro che riferir quello che la fama allora ne publicò; testimonio però fallace nel rapporto de’ casi umani, e che spesso con maligne invenzioni gli finge, e dalle maligne orecchie troppo facilmente ancora gli fa ricevere. Passava poca affezione fra il prencipe e la principessa da quello che n’appariva, o fosse per la differenza delle nature o perché a lei fosse spiaciuto d’esser levata di Francia o perché non mancassero forse di quelli, che pensando dar gusto al re, procurassero di metter disunione fra loro. Dunque, senza interporre quasi tardanza alcuna, apena giunto Coure in Brusselles cominciò a combatter segretamente la principessa per indurla a voler lasciarsi rapire. Restò ella forte sospesa, e con l’animo in se medesima grandemente diviso ad una tale proposta. Da una parte era poco sodisfatta del prencipe, abborriva di stare in mano degli spagnuoli, non le piaceva la corte di Fiandra come tanto differente da quella di Francia, e desiderava con sommo affetto d’essere appresso il padre e la zia, da’ quali con tenerissime lettere veniva mostrato di ciò a lei parimente un egual desiderio. Ma dall’altro canto il separarsi dal marito in questa maniera, il lasciarsi rapir di nascosto, il fuggir con tanto pericolo d’essere sopragiunta, e l’esporre questo successo a cosí vari giudizi ch’avrebbe subito cagionati, erano tutte considerazioni che potevano farla molto incerta di quel che dovesse risolvere. Dopo avere ondeggiato un pezzo fra queste passioni, vinta al fine da quelle che sempre con maggior forza l’invitavano in Francia, consentí a lasciarvisi ricondurre, per le instanze ardentissime che particolarmente il padre e la zia, come si è detto, le facevano sopra il suo ritorno a Parigi. Il disegno ch’avevano fatto i francesi era di levarla una notte fuor di Brusselles all’improviso ed avanzarsi tant’oltre verso le piú vicine frontiere di Francia, che dopo essere stata scoperta non potesse piú essere sopragiunta. Ma bisognava aggiustar molte cose prima, per farne seguir felicemente l’esecuzione. Era necessario scalare o forar la muraglia della cittá, aver chinee apparecchiate in Brusselles ed in piú parti fuori verso la Francia per mettervi sopra la principessa; e nelle [p. 274 modifica] medesime parti aver preparata ancora gente a cavallo che potesse opporsi a quella che si fosse mossa da Brusselles per giungerla e ritenerla. Portava seco perciò la pratica molte difficoltá e richiedeva molti provedimenti per superarle, onde non fu possibile che procedesse con tanta segretezza che non se ne subodorasse qualche andamento. Il primo ad esserne avvertito fu il conte di Bucoy generale dell’artiglieria di Fiandra, il quale n’avvisò poi subito l’arciduca e lo Spinola. E trattandosi di quel che convenisse di fare per rompere a’ francesi questo disegno, parve a proposito, senza far altro strepito, che sotto qualche colore si procurasse di far entrare la principessa in palazzo appresso l’infanta.

Fu dunque dall’arciduca e da’ ministri spagnuoli preso il pretesto di quei disgusti che passavano fra lei ed il prencipe suo marito, e fecero con destrezza che il medesimo Condé ne movesse l’instanza. Al che s’indusse egli volentieri, e operò in modo ch’ebbe segreta promessa dall’arciduca e dall’infanta che non avrebbono lasciata uscir di man loro sua moglie se non quando egli avesse voluto. Fu giudicato che la principessa medesima si sarebbe contentata di restare appresso l’infanta, cosí per la poca sodisfazione ch’appariva fra lei ed il prencipe, come per la speranza ch’avrebbe presa, che, partito Condé, fosse per riuscirle poi facilmente d’esser messa in libertá e di poter ritornarsene in Francia. Mossa ella perciò da tale speranza, condescese al partito di trattenersi appresso l’infanta finché si vedesse l’esito che le cose del prencipe fossero per avere. Prestovvi l’assenso ancora il marchese di Coure, ma non lasciò egli perciò di condurre inanzi la pratica di levar furtivamente di Fiandra la principessa. Vedeva Coure che questo maneggio, quando fosse caminato felicemente, avrebbe avuto il successo vicino e sarebbe seguito con grandissima vergogna degli spagnuoli, e con un vivo risentimento di quel disgusto che da loro aveva ricevuto il suo re, lá dove rimarrebbe tuttavia dubbioso il successo dell’uscire la principessa di palazzo dopo ch’ella vi fosse entrata.

Con questi artifizi si procedeva dall’una e dall’altra parte, [p. 275 modifica] ciascuna sperando d’ingannare e deluder l’altra. Era vicino ormai il giorno determinato all’esser ricevuta la principessa in palazzo, e non si trovavano i francesi ancora all’ordine con tutte le cose per effettuare la pratica; ond’essi per conseguir qualche dilazione di tempo ricorsero a questo rimedio. Credevasi da loro (se ben vanamente) che ’l marchese Spinola fosse innamorato della principessa. Fra l’altre cose danzava ella mirabilmente e con grandissimo gusto. Ond’essi fecero che da lei fosse pregato lo Spinola ad interporsi con l’arciduca e col prencipe suo marito, accioché la sua entrata in palazzo si differisse ancora per tre o quattro giorni, col simulare d’aver grandissimo desiderio di goder prima una festa di ballo in casa del prencipe d’Oranges, e che ’l medesimo Spinola fosse quello che le presentasse (come s’usa in Francia ed in Fiandra) i violoni. Fece ella con dolcissime parole questa domanda. Ma facilmente lo Spinola conobbe l’artificio che vi era nascosto, e col miglior termine che gli fu possibile vi pose tali difficoltá che la principessa venne a restar fuori d’ogni speranza di conseguir la dilazione desiderata. Afflisse i francesi questa risposta, ma non gli ritenne però dal disegno.

Erasi in un giorno di sabbato che fu il tredici di febraro dell’anno milleseicentodieci, e si credeva di sicuro che la seguente prossima domenica la principessa dovesse entrare in palazzo. Onde i francesi, maturate il meglio che poteron le cose, presero risoluzione di tentar l’impresa ad ogni modo la notte di quel sabbato stesso. E perché il prencipe dormendo con lei non disturbasse la pratica (benché pochissime volte dormissero insieme) fecero ch’ella simulasse il giorno inanzi d’essere inferma. Stavale sempre al fianco l’ambasciatrice di Francia consapevole di tutto il segreto. Coure ancor’egli e l’ambasciatore ordinario si discostavano poco da lei, e tutti stavano aspettando con ansietá che passasse il giorno e che succedessero quelle ore, che si desideravano, della notte. Intanto per via del conte di Bucoy era avvisato di mano in mano l’arciduca di quanto passava. Condé non aveva ancora notizia di sorte alcuna delle cose narrate di sopra, perché l’arciduca, [p. 276 modifica] sperando che la pratica dovesse cadere da se medesima con l’entrar la principessa in palazzo, non l’aveva palesata a Condé, per non dargli occasione di publicarla e d’irritare con nuovi disgusti tanto piú il re di Francia. Ma vedute giá si inanzi le cose, gli parve a proposito che lo Spinola communicasse il tutto a Condé, come fece, e lo consigliò insieme a pregar l’arciduca che da qualche numero de’ soldati a cavallo della sua guardia facesse custodire quella notte la casa del prencipe d’Oranges. Rimase attonito Condé in udire il caso, e subito andò a trovar l’arciduca, il quale prontamente fece dar l’ordine per la guardia richiesta. Quindi entrato Condé in nuovo spavento fra le nuove imaginazioni del caso, non si può dire quanto se ne turbò. Né potendosi contenere, uscito a pena dall’arciduca, cominciò nelle sue anticamere a publicarlo egli stesso, onde venne a divulgarsi in un subito.

Non parlava egli, ma piú tosto esclamava contro il re, contro il marchese di Coure e contro l’ambasciatore ordinario, lamentandosi ed affligendosi come se la moglie di giá veramente gli si rapisse, e come s’ella di giá fosse in Parigi e non piú in Brusselles. Intanto era pervenuto il romore alla camera della principessa dove si ritrovava Coure, e l’ambasciatore ordinario con diversi altri francesi. Quivi la turbazione che nacque in tutti non fu minore di quella ch’avesse mostrato Condé in palazzo, vedendosi scoperta la pratica e conseguentemente svanita affatto. Il consiglio repentino fu di negarla se bisognasse e di prevenir le querele con le querele; e con questo si levarono subito Coure e l’ambasciatore ordinario di casa dell’Oranges, lasciandovi in gran confusione la principessa. Con la quale nondimeno, tornato Condé poi a casa e deposto il timor di prima, si procedé con dissimulazione da lui dall’Oranges e da’ ministri spagnuoli, mostrandosi d’attribuir solamente a’ francesi il trattato scoperto, e che da loro si fosse procurato di tirarvi con inganno e violenza la principessa. Ma non si può dire quanto grande fu poi il concorso della gente a casa dell’Oranges, e quanta la confusione e lo strepito di quella notte in Brusselles. Entrò armata a cavallo [p. 277 modifica] nell’abitazion dell’Oranges quella parte della guardia che l’arciduca aveva data a Condé, e v’entraron con l’armi cinquecento uomini di Brusselles che l’Oranges anch’egli aveva richiesti al magistrato della cittá. Onde l’orror di tante armi accresciuto da quel della notte, oltre alla novitá per se stessa del caso, fece poi ridurre ivi quasi tutto il resto del popolo e fece nascere un tumulto de’ maggiori che fossero mai seguiti in Brusselles. E fu nobilitato fin da una voce popolarmente sparsa, e creduta, che il re di Francia medesimo si trovasse alle porte della cittá per rapire egli stesso in persona la principessa.

Ma tornando al marchese di Coure ed all’ambasciatore ordinario, partiti ch’essi furono di casa dell’Oranges, e veduto poi un sí gran moto di cose, presero risoluzione d’andar subito a trovar l’arciduca ed a far grandissime querele con lui di quel che s’era divulgato intorno alla pratica rappresentata di sopra. Dissero che il tutto era nato da malvagia invenzione del prencipe di Condé per onestar sempre piú la sua fuga di Francia, e per altri suoi ambiziosi fini. Essere facile da comprendersi che per aria tacitamente non si sarebbe potuto portare in Francia la principessa. Onde sarebbe stato necessario d’aver disposta molta gente a cavallo da Brusselles sino alla frontiera del regno, necessario di levarla d’un’abitazione piena di numerosa famiglia, di forare o di scalar la muraglia della cittá, e di provedere a molt’altri bisogni e piú d’ogni altra cosa all’impenetrabilitá del segreto. Fra le quali preparazioni, come non si sarebbe avuto subitamente aviso a Brusselles e della gente che si fosse mossa di Francia, e di qualcuno di tanti altri provedimenti? com’essersi potuto credere che la principessa, donna e di sí tenera etá e sí teneramente allevata, avesse potuto caminar due grosse giornate da Brusselles alla piú vicina parte di Francia con tanta celeritá che non avesse ad essere sopragiunta? Da tutte queste ragioni apparir chiaramente che non solo non si fosse ordito ma né pur pensato un maneggio, il quale doveva esser giudicato irriuscibil del tutto. Le fraudi abborrir la luce, e perciò questa essersi [p. 278 modifica] composta di notte per mascherarla tanto meglio con le sue tenebre. Il vero architetto esserne stato Condé, aiutato da qualche ministro di Fiandra non bene intenzionato verso la Francia. E poiché da questa invenzione e calunnia restava si offeso l’onor della principessa, e tanto impegnata la riputazione del re medesimo, pregavano essi l’arciduca a farne venir in chiaro la veritá perché ne seguisse poi ancora a proporzione il risentimento.

La risposta dell’arciduca fu ch’egli aveva giudicata poco verisimile una tal pratica, ma che dall’altra parte era stata grandissima l’asseverazione di Condé in affermarla per vera. Che tali e sí calde instanze da lui s’eran fatte per aver qualche guardia in casa dell’Oranges che non gliel’aveva potuta negare. Essergli dispiaciuto di veder trascorrer le cose tant’oltre. Sperar che la veritá del fatto verrebbe finalmente a manifestarsi, e che non apporterebbe né alla principessa alcuna sorte di macchia, né al re alcuna sorte d’offesa.

Con la dissimulazione di cosí fatta risposta l’arciduca spedí gli ambasciatori, i quali continovando all’incontro le loro doglianze, le andavano spargendo per ogni parte e spezialmente contro il marchese Spinola, da’ consigli del quale vedevan pender Condé in tutte le cose. L’opinion comune fu, com’ho detto, che veramente i francesi avessero avuto disegno di levar di Brusselles la principessa nel modo narrato di sopra. Che se ben l’esecuzione doveva esserne riputata molto difficile, non veniva però tenuta per impossibile. Cadeva la sua camera sopra un giardino verso la strada, il muro della cittá si sarebbe potuto forare o scalar facilmente, e passar poi il fosso, ch’è secco da quella parte, senz’alcuna fatica. Onde avanzatasi su buone e veloci chinee la principessa in tempo di notte sei o sette ore di strada, non sarebbe quasi restata piú speranza alcuna di sopragiungerla. Nel qual tempo ancora volando l’un sopra l’altro i corrieri, si sarebbe spiccata in un subito tanta gente a cavallo dalle vicine frontiere di Francia che fosse bastata in ogni caso per far resistenza a quella che da Brusselles fosse arrivata per ritenere la principessa. Queste erano [p. 279 modifica] le ragioni che s’adducevano dalla parte degli spagnuoli per far credere che fosse stato riuscibile il suo rapimento. Ma qual si fosse la veritá in un fatto che sí difficilmente, fra passioni tanto contrarie, poteva dar luogo a trovarla, entrò subito il giorno seguente la principessa in palazzo, e vi fu condotta con accompagnamento grandissimo. E quanto riuscí lieto quel giorno agli spagnuoli altretanto riusci mesto a’ francesi, a’ quali parve che la principessa fosse stata condotta come presa e come in trionfo, e prese dietro a lei ed incatenate le passioni del re di Francia. Intanto a dar conto al re di tutti questi successi erano stati spediti piú corrieri in grandissima diligenza. Ond’egli esacerbato maravigliosamente, giudicando che non convenisse piú caminar per vie di pratiche nelle cose di Condé, ma che fosse meglio spaventarlo con le minaccie, prese risoluzione di scrivergli una lettera in credenza di quello che gli esporrebbe il marchese di Coure. Presentata che gli ebbe Coure la lettera, con brevi e risolute parole gli disse, che il re per mostrare la sua benignitá verso di lui gli proponeva di nuovo il partito di tornare in Francia, e di rimettersi liberamente in sua mano. Che di nuovo l’assicurava d’un pieno perdono di tutte le cose passate. Ma che s’egli non accettasse subito questo partito, il re sin d’allora lo dichiarava reo di lesa maestá, poiché egli contro le leggi di Francia aveva avuto ardire d’uscir del regno senza permissione del re, e contro quelle del sangue aveva offeso il re stesso in tanti altri modi.

Prese tempo Condé a rispondere, e la risposta fu poi ch’egli per salvar l’onore e la vita s’era levato di Francia, e che la necessitá lo faceva libero da ogni delitto. Esser pronto a ritornarvi quando gli fosse offerto partito da starvi sicuro. Voler vivere e morire fedele al re. Ma quando il re uscendo dalle vie di giustizia procedesse contro di lui per quelle della violenza, pretendere che fosse nullo ed invalido ogni atto che si facesse contro la sua persona.

Ridotte dunque in grandissima acerbitá tutte le cose, il prencipe di Condé essendo entrato sempre in maggior sospetto [p. 280 modifica] della sua vita con lo stare in Brusselles, per esser quel luogo molto frequentato da forestieri e troppo vicino alla Francia ed alla cittá di Parigi, prese risoluzione di levarsi di Fiandra. A due parti poteva egli voltarsi: o verso Spagna per mare, imbarcandosi in Doncherchen, o verso Italia pigliando il camino della Germania. L’uno e l’altro viaggio era pieno di varie difficoltá. In quello di mare bisognava dipender da’ venti, ch’avrebbono forse potuto gettar la nave o in Ollanda o in Inghilterra o nel regno stesso di Francia; e non era quasi men pericoloso il dare in Ollanda ed in Inghilterra per le strette corrispondenze che ’l re di Francia aveva nell’una e nell’altra parte. In quello di terra soprastavano ancora molti pericoli, dovendosi passar per tanti e sì differenti paesi, in molti de’ quali non si poteva Condé assicurare in maniera alcuna.

Contrapesati ben tutti i dubbi, finalmente fu risoluto ch’egli pigliasse il camino della Germania, che se ne andasse in Italia e capitasse a Milano, e che quivi si trattenesse appresso il conte di Fuentes, che n’era governatore in quel tempo, finché in Ispagna si pigliasse altra risoluzione intorno alle cose sue. Partì egli dunque sul fine di febraro, e fu usata ogni diligenza per farlo partir piú di nascosto che fosse possibile. E succedendogli felicemente il viaggio, arrivò in pochi giorni a Milano dove fu raccolto dal conte di Fuentes con ogni onore. Dopo la partita di Condé seguì poi quasi subito quella del marchese di Coure. Riuscita vana la negoziazione di Coure, e passato Condé assolutamente in mano degli spagnuoli, si voltarono gli occhi di tutti a vedere quali sarebbono state le risoluzioni del re di Francia. Non si dubitava da alcuno ch’egli in se stesso non si sentisse tormentar da passioni ardentissime. Questo essere stato il frutto delle sue passate vittorie? ch’un giovane, il piú congiunto seco di sangue, e che avrebbe dovuto dipendere da’ suoi cenni, avesse ardito in forma tale e con tali pretesti d’uscir di Francia? di gettarsi dopo in mano degli spagnuoli? e di farsi istromento a turbar la sua quiete presente, e quella della quale egli desiderava di lasciar eredi [p. 281 modifica] i figliuoli? Qual’altro successo poter piú di questo macchiare il suo nome, ed abbatter la sua autoritá? contro la quale, come non si dovrebbe temere ch’altri in Francia non ardissero, e ch’i suoi nimici di fuori non insorgessero? Conservarsi i regni con la riputazione. Quest’essere il piú forte loro e sostegno in pace e presidio in guerra. Caduti in disprezzo soprastar loro subito o le invasioni esterne o le turbulenze civili, e bene spesso ambidue questi mali congiunti insieme. Dunque non aversi a tardar piú oltre. E poiché non era seguito per via di pratiche il ritorno di Condé in Francia, doversi ora tentar la forza per farvelo ritornare; sí che venissero finalmente a pentirsi, egli d’aver commessi errori si gravi, e gli spagnuoli d’averlo aiutato a commettergli.

Pareva comunemente che si leggessero queste passioni nell’animo del re di Francia, e non men chiaramente quelle ch’in lui accendeva il desiderio di riavere in Parigi la principessa. Onde considerata un’agitazione d’animo sí potente e sí fiera, credevano molti ch’egli fosse per muover l’armi contro la Fiandra, e per avere ancora quelle delle Provincie unite in sua compagnia, in modo che l’arciduca e gli spagnuoli per via del timore avessero finalmente a risolversi di restituirgli Condé e la principessa, e a far quello per forza che prima non avevano voluto fare per via amicabile. Ma dall’altra parte non potevano venire in simile sentenza gli uomini piú prudenti e piú gravi. Giudicavano questi che ’l re di Francia, d’etá allora di cinquantotto anni, avrebbe prima considerati molto bene i pericoli ch’avrebbe portati seco il volere egli muovere una guerra in quell’etá, e coi figliuoli ancora si piccioli che ’l maggiore non passava nove anni.

— E che lamentabil giorno — dicevano — sarebbe quello nel quale venendo egli a mancare, lasciasse per ereditá una guerra a successor cosí tenero? sotto il governo d’una donna? con tutte le cose dubbiose di fuori, e vacillanti nel regno? Non aver egli procurato con tanto ardore la tregua di Fiandra per veder disarmati i vicini quand’egli morisse? Onde ch’imprudenza sarebbe, e che cecitá di voler ora far sua propria [p. 282 modifica] la guerra ch’egli aveva cercato d’estinguere in casa d’altri? Né doversi riputar se non molto difficile impresa l’assaltar e ridurre in pericolo le provincie di Fiandra, provincie fornite d’un esercito veterano, munite alle frontiere di piazze forti e di fiumi, ed abitate da nazioni bellicose e nimiche del nome francese per lor natura. Non esser cosa né anche sí facile come esteriormente poteva parere, ch’avessero a cospirar ne’ medesimi disegni col re le Provincie unite, le quali per quei rispetti ch’avevano desiderato di far la tregua, per quei medesimi desidererebbono ancora di vederla continovare. Le piú impetuose passioni riuscir ne’ mortali ordinariamente le piú fugaci. Dunque doversi credere, che rimaso presto libero il re di queste sí ardenti e sí fiere, fosse per dar luogo a piú circonspetti consigli ed a procurar l’accomodamento delle cose di Condé piú tosto per via di buona corrispondenza con gli spagnuoli. E se queste ragioni dovevano giudicarsi di tanta forza rispetto a Condé, quanto piú dover riputarsi in riguardo alla principessa? Egregia azione e memorabile veramente, se il re nella sua vecchiezza, perduto in amori vani, volesse per una donna metter tutta in armi la Francia e tutta in commozione l’Europa. —

Questi erano i discorsi che si facevano intorno alla persona del re di Francia, dopo essersi partito Condé di Fiandra. E senza dubbio si giudicava comunemente che di gran lunga preponderassero alle prime ragioni queste seconde. Ma sogliono riuscir fallaci molto spesso anche i piú saggi discorsi umani. Dopo aver Dio disposto nell’occulta sua providenza ch’abbia a seguir qua giú fra di noi qualche alterazion grande per nostro castigo, lieva prima d’ogni cosa il consiglio a’ prencipi, e dall’amor del ben publico lasciandogli traboccar nelle cieche lor voglie private, fa ch’essi medesimi siano gli istromenti cosí del proprio lor precipizio come delle universali sciagure di tutti gli altri.

Dunque, prevalendo nel re di Francia le risoluzioni feroci alle moderate, determinò di dar principio a mettere insieme un esercito, e ne prese occasione col pretesto di volere aiutar [p. 283 modifica] l’elettore di Brandemburg ed il palatino di Neoburg a succedere negli stati della casa di Cleves. Com’io accennai da principio, aveva l’imperator Rodolfo l’anno inanzi mandato l’arciduca Leopoldo a Giuliers. Al che s’era mosso perché Leopoldo in suo nome pigliasse quegli stati in sequestro, i quali per esser dipendenti dall’imperio, aveva giudicato l’imperatore che per giustizia dovessero restar depositati in man sua finché fosse terminata giuridicamente la causa. Erasi perciò Leopoldo fermato in Giuliers, buona terra e ch’è munita d’un buon castello. E perch’egli aveva temuto d’esserne scacciato da’ sopranominati due prencipi, i quali erano favoriti apertamente dalle Provincie unite, aveva levato qualche numero di soldati sin da principio ch’egli v’entrò. Dall’esser egli prencipe della casa d’Austria e giovane d’alti spiriti, dall’aver cominciato a metter soldati insieme e dal poter avere sí vicino il favore dell’armi di Fiandra, era nato sospetto grande non solo in Brandemburg e Neoburg, ma nelle Provincie unite e nel re di Francia che la sua venuta fosse stata con participazione e consiglio degli spagnuoli. Mostravano di temere che sotto nome dell’imperatore gli spagnuoli ricoprissero qualche lor proprio disegno, il quale avesse ad essere finalmente o di metter Leopoldo in possesso degli stati del morto duca di Cleves o d’entrarvi essi medesimi con qualche colorito pretesto. Onde il re e le Provincie unite avevano presa risoluzione d’aiutare, com’entrasse la primavera, Brandemburg e Neoburg a scacciar Leopoldo di Giuliers ed a farlo uscir totalmente di quei paesi. A questo segno erano le cose di Cleves quando il prencipe di Condé si levò di Fiandra e giunse in Italia. Fu dunque giudicato meglio dal re di Francia il valersi di questa occasione delle cose di Cleves per formare un esercito, che intimando apertamente la guerra all’arciduca ed agli spagnuoli, dar loro comoditá di provedersi per tempo e di resistere alle sue armi con maggiore facilitá.

Erano grandissime in quel tempo le forze del re di Francia. Possedeva egli in somma pace il suo amplissimo regno, il quale perciò abbondava maravigliosamente di tutte le cose; e la gloria [p. 284 modifica] acquistata da lui in guerra gli aveva partorita poi un’autoritá cosí grande in pace che non vi era memoria che niuno altro re l’avesse mai avuta maggiore. Da’ suoi cenni, si può dire, pendevano a gara la nobiltá i parlamenti e gli altri ordini tutti del regno, e quello ch’apportava maggior maraviglia era che non si sapeva s’egli fosse piú amato o temuto da’ suoi vassalli. E per esser di natura inquieti i francesi, e naturalmente la nobiltá inclinata all’armi, per questo rispetto ancora si poteva credere che ’l re avrebbe trovata nel regno tutta quella disposizione a muoverle ch’egli avesse desiderato. Né piú tardò. Furono spedite subito di suo ordine a diverse parti molte commissioni di levar gente, di proveder munizioni da guerra, vettovaglie, e quel piú ch’era necessario per formare un potente esercito. Onde cominciò in pochi giorni a risonare strepitosamente d’armi la Francia, e ad essere in moto ogni cosa. Oltre alla soldatesca che si metteva insieme nel regno, diede ordine il re che si levasse un buon numero ancora di svizzeri, e dal suo erario (che si giudicava ascendere a piú di cinque milioni d’oro, e che prima non si toccava) cominciò ad estraere buona quantitá di danaro per far piú speditamente le provisioni ordinate.

Ma dall’arciduca e dagli spagnuoli era tenuto per artificioso questo sí grande apparato d’armi del re di Francia. Credevasi dalla parte loro che ’l re con tali minaccie volesse dar piú forza alle pratiche, le quali pur tuttavia egli faceva continovare in Brusselles, per riavere la principessa; e che perduta al fin la speranza di riaverla, fosse per ristringere un preparamento sí grande al solo bisogno di quella gente ch’egli volesse mandare in soccorso di Brandemburg e di Neoburg. A proseguir l’accennate pratiche era venuto nuovamente di Francia il signor di Preau in nome del contestabile e di madama d’Angolemme. Ma portava egli a parte lettere del re per gli arciduchi di tanta caldezza, ed aveva sí congiunta seco la persona dell’ambasciator francese ordinario ch’egli veniva considerato molto piú come persona inviata dal re medesimo che dal contestabile e da madama d’Angolemme. Le [p. 285 modifica] instanze ch’egli fece all’arciduca furono queste: che dovendo seguire in breve l’incoronazione della regina di Francia, il contestabile e madama d’Angolemme desideravano che la principessa vi si potesse trovare per servire in sí celebre occasione la regina personalmente; che non meno desiderava l’uno e l’altra d’avere appresso di loro la principessa per aiutarla ad intentare il divorzio ch’ella voleva far col marito, condotta da lui fuori di Francia contro sua voglia; offesa in Brusselles in gravissimi modi; messa per forza appresso l’infanta, e spogliata di quella libertá che da tutte le leggi veniva conceduta ad ogni donna privata in caso di voler far divorzio, non che ad una principessa di qualitá sí eminente. Queste erano le ragioni piú principali che adduceva Preau per indur l’arciduca e l’infanta a lasciar tornare in Francia la principessa.

Quel che da loro si rispondeva era che la principessa era entrata spontaneamente nel lor palazzo; avervela depositata Condé suo marito, ed aver consentito a ciò il medesimo marchese di Coure; che stando appresso di loro avrebbe tutte le comoditá necessarie per trattar del divorzio; e finalmente che da loro era stato promesso al marito di non restituirla ad altri che a lui medesimo; onde per onor loro non potevano mancare a cosí fatta promessa. Replicava Preau che l’arciduca e l’infanta non avevan potuto farla, perché era contro ogni dover di giustizia. Esser la disposizione delle leggi e de’ tribunali che la moglie costretta da mali termini del marito avesse piena libertá di separarsi da lui, e di ridursi dove piú le piacesse per trattar del divorzio. Creder egli che questa libertá non mancherebbe alla principessa, anche stando appresso l’infanta; ma desiderar ella medesima piú tosto d’essere appresso il padre e la zia ed in mano de’ suoi per dispor meglio le cose sue. Ciò non poterle essere dinegato. E finalmente non essere mai per comportare il re di Francia, per quanto si stendessero le sue forze, ch’ella avesse a ricevere una sí aperta violenza. Scusavasi l’arciduca su l’obligo dell’onore principalmente, e diceva che s’andasse [p. 286 modifica] pensando a qualche ripiego; che trovandosene qualcheduno per via del quale egli potesse lasciar con onor suo e dell’infanta sua moglie ritornare in Francia la principessa, l’avrebbe volentieri accettato. Ma i francesi non volevano prestare orecchio a partito alcuno, se non a quello d’esser restituita liberamente la principessa al padre ed alla zia, e tanto piú andavano stringendo l’arciduca quanto piú pareva loro di vederlo andar vacillando. Era condesceso finalmente l’arciduca a far proporre a’ francesi che, quando fosse dichiarato per via competente che la principessa dovesse lasciarsi del tutto in sua libertá, egli e l’infanta si sarebbono contentati di lasciarla andare dove piú le fosse piaciuto. Per via competente mostrava l’arciduca aversi ad intendere il pontefice, dal quale s’avesse a determinar questo punto, o per se medesimo in Roma o col mezzo d’uno de’ due nunzi, di Francia o di Fiandra. Il che sarebbe seguito speditamente nell’un modo o nell’altro; poiché ciò non era trattar dell’intiera causa del divorzio, ma del punto solo del luogo dove la principessa intanto dovesse stare. Contuttociò i francesi non ammettevan né anche questo partito. Dubitavano di lunghezze, e consideravano l’arciduca, in certa maniera, come fuori di sua potestá, per la parte troppo grande che ritenevano in tutte le cose sue gli spagnuoli, e ne’ suoi consigli particolarmente il marchese Spinola, il quale essi avevano per diffidentissimo.

Ma era giá tempo che l’arciduca e gli spagnuoli pensassero ad altro che a pratiche di parole. Cominciavano ormai a calare in Francia gli svizzeri, si levavano i francesi in gran diligenza, e si facevano con ogni ardore tutte le provisioni rappresentate di sopra. Né poteva esser maggior la prontezza con la quale si metteva in armi il fior della nobiltá di Francia, per accompagnar la persona del re; il quale se bene alcuna volta variava nella forma del publicar la sua uscita, non variava però nella risoluzion dell’uscire. Agli ambasciatori di Spagna e di Fiandra diceva ch’egli stesso voleva trovarsi in persona ad aiutare i suoi amici, per mettergli in quel possesso ch’era loro dovuto degli stati del morto duca di Cleves. In [p. 287 modifica] altre occasioni si lasciava intendere poi liberamente che voleva andar egli medesimo a liberar di carcere la principessa, ed a vendicarsi dell’ingiuria che gli aveva fatta il re di Spagna e l’arciduca nell’aver pigliato in protezione Condé. Erano avvisate all’arciduca tutte queste cose dal suo ambasciator residente in Parigi e da quello del re di Spagna. Non parve dunque all’arciduca che fosse piú tempo di prolungar quelle provisioni, ch’erano giudicate necessarie per opporsi al re di Francia quand’egli pure si risolvesse di voltar l’armi contro la Fiandra. Trovavasi allora molto diminuito di gente l’esercito, perché subito dopo la tregua tutti gli alemanni erano stati licenziati, e molti valloni e buona parte della cavalleria parimente. Il che s’era fatto per alleggerire la spesa, e respirar da quella sí eccessiva ch’aveva portata seco una guerra sí lunga. Onde il re e l’arciduca non avevano allora piú di dieci mila fanti e mille cinquecento cavalli; gente però tutta veterana e fiorita. Era grandissima pur anche la difficoltá del danaro, in modo che l’arciduca ed i ministri spagnuoli si trovavano molto angustiati per la necessitá ch’avevano di far nuove levate almeno di dodici mila fanti e due mila cavalli, e per vedersi dall’altra parte senza alcun danaro per tale effetto.

La prima risoluzione che l’arciduca prese fu di mandar subito in Ispagna don Fernando Girone, uno de’ piú principali capi spagnuoli che fossero nell’esercito, acciò ch’egli disponesse il re a far rimettere incontanente quattrocento mila scudi in Fiandra, per assoldar la gente accennata e per l’altre provisioni che bisognavano contro i preparamenti del re di Francia. Intanto con altri danari, che furono messi insieme nel miglior modo che si potè, si cominciò a far la gente. Fu risoluto che si levassero sei mila alemanni e sei mila valloni, e per allora solamente seicento archibugieri a cavallo, della qual sorte di cavalleria s’aveva bisogno perché tutta l’altra gente a cavallo era di lancie e corazze. L’intenzione dell’arciduca era di servirsi in campagna di tutta la gente vecchia, e di metter la nuova a guardar le frontiere, le quali perché richiedevano grossi presidi e verso la Francia e dal lato delle Provincie [p. 288 modifica] unite, perciò si giudicava che l’esercito spagnuolo in campagna non avrebbe potuto passare dodici o quattordici mila fanti, e due mila e cinquecento cavalli.

Quello che s’intendeva intorno al numero della gente del re di Francia era ch’egli avrebbe trenta mila fanti, parte svizzeri e parte francesi, e cinque mila cavalli, computata la cornetta reale, ch’in Francia chiamano la cornetta bianca, la quale suol tirarsi dietro il fior della nobiltá del regno quando il re di persona si truova in campo. Acceleravansi ogni di piú dalla parte del re tutte le cose, e cominciavano ad inviarsi alle frontiere di Ciampagna e di Piccardia verso la Fiandra grandissime provisioni di vettovaglie, di munizione da guerra e d’artiglierie, e s’era disegnata per piazza d’arme all’esercito francese la terra di Scialon in Ciampagna. Questo era lo stato delle cose sul fin d’aprile dell’anno mille seicento dieci. Nel qual tempo il medesimo re, oltre all’apparecchio dell’armi proprie, aveva strette pratiche in piedi col re d’Inghilterra e con le Provincie unite per far muovere le loro parimente contro la Fiandra. Appresso le Provincie unite riteneva egli grandissima autoritá, e sosteneva nell’esercito loro quattro mila fanti e ducento cavalli francesi del suo proprio danaro; onde credeva di poterle tirar facilmente ne’ suoi disegni, e di potervi indurre anche il re d’Inghilterra con la speranza di qualche suo proprio acquisto. E non contento di questi maneggi contro la Fiandra, ne moveva degli altri in Italia col duca di Savoia, alienato allora grandemente dagli spagnuoli, e con la republica di Venezia per far qualche movimento ancora da quella banda contro lo stato di Milano. Se ben qui non si fermavano in Italia i suoi fini. Sperava egli che l’occasione stessa di tante armi contro il re di Spagna ad un tempo fosse per fare invito al pontefice medesimo d’applicar l’animo al regno di Napoli, e per incitar da tutte le parti finalmente tutti gli altri ch’avessero sospetta sí gran potenza a procurar per ogni via d’abbassarla. Né gli mancavano fin de’ pensieri di potere in tal congiuntura portar le sue armi vittoriose in Germania, e di trovar ivi ancora in tanta fama il suo nome ed in tal grado [p. 289 modifica] le corrispondenze de’ suoi amici che potesse riuscirgli pur anche di levar l’imperio della casa d’Austria. Tanto lo combatteva ad un tempo stesso lo sdegno contro il prencipe e l’amor verso la principessa; ma piú d’ogni altra cosa il nimico piú fiero, ond’egli veniva allora agitato, ch’era la felicitá troppo grande nella quale si trovava constituito.

Erano voltati nondimeno i disegni principali del re allora contro la Fiandra, e tutta la mole dell’armi, come si è veduto, s’univa in quella frontiera. Onde l’arciduca e gli spagnuoli considerate le deboli forze loro, avevano cominciato a temer grandemente delle cose di Fiandra; dubitando che per tante altre e sí ardenti pratiche a danno della corona di Spagna, non fossero per esser divertite altrove per altre necessitá le forze di quella monarchia, si che difficilmente si potesse supplire a’ bisogni particolari di Fiandra. Al che s’aggiungeva ch’era in grave moto allora la Spagna, per lo scacciamento de’ mori da tutti quei regni. Speravasi contuttociò dall’arciduca e dagli spagnuoli che le Provincie unite, le cui armi erano in considerazione grandissima, non fossero per lasciarsi indurre senz’alcuna lor propria necessitá a romper la tregua, ma che solamente fossero per dar qualche aiuto al re della gente loro, che sarebbe stato un rinforzo però di molta importanza, per la qualitá della soldatesca molto eletta e lungamente esercitata nell’armi. E quanto al re d’Inghilterra, pareva che non si dovesse dubitar punto ch’egli fosse per aderire a’ disegni del re di Francia, cosí per la sua quieta natura come per la strettezza del danaro in che si trovava, e per la gelosia ch’avrebbe data a lui stesso ogni maggiore aggrandimento che s’aggiungesse a’ francesi. Dell’altre pratiche di Germania e d’Italia mostravasi dall’arciduca e dagli spagnuoli di non far molto caso. Onde riducendosi tutto il pericolo in Fiandra, e conoscendosi chiaramente che da questa parte verrebbe a scaricarsi la tempesta dell’armi di Francia con quelle delle Provincie unite, che sarebbono forse in lor compagnia, perciò l’arciduca e gli spagnuoli con tutte le provisioni che potevano s’andavano preparando per sostenerla. [p. 290 modifica]

Erano venute in questo tempo risposte molto calde di Spagna, e che promettevano in breve la provisione del danaro richiesto e tutte l’altre che bisognavano ancora, non solo per fare ostacolo al re di Francia ma per trasportar la guerra nel regno suo proprio. Onde l’arciduca, preso animo, sollecitava la gente nuova, e aveva risoluto di far passare nell’esercito di Fiandra mille cavalli e mille cinquecento fanti di quei dell’arciduca Leopoldo, che per carestia di danaro non potevano esser da lui mantenuti. Aveva dichiarata nel medesimo tempo per piazza d’arme Filippevilla, luogo del contado di Namur verso la frontiera di Ciampagna, ed aveva fatta risoluzione d’uscire egli stesso in campagna, uscendovi il re di Francia. E di giá era prefisso il giorno delli 17 di maggio a doversi egli trovare in Namur, cittá vicina a Filippevilla, nel qual tempo tutto l’esercito doveva esser radunato alla piazza d’arme. Non cessava intanto il signor di Preau in Brusselles di continovar le sue pratiche. Nel qual tempo mostrava ancora la principessa di vivere addoloratissima, ed apertamente chiamava sua carcere la casa degli arciduchi, ed ella medesima con dichiarazione espressa in iscritto aveva lor fatta instanza, come per via giuridica, d’esser lasciata in sua libertá. Stava i giorni intieri senza lasciarsi vedere, e procurava con ogni dimostrazione d’abborrimento ch’apparisse a lei esser cosa di sommo dispiacere e violenza lo stare a quel modo a Brusselles. Ma in Parigi mostrandosi il re di Francia piú risoluto che mai ne’ suoi disegni dell’armi, e publicando pur tuttavia di voler personalmente soccorrere Brandemburg e Neoburg, ebbe nuovo ragionamento di ciò con l’ambasciatore di Fiandra e gli mosse parola del passo ch’egli avrebbe desiderato d’avere per Lucemburgo. Di questo motivo l’ambasciatore avvisò subito l’arciduca. Conoscevasi il pretesto del re, e giudicavasi ch’anzi gl’istessi due prencipi avrebbono pigliato sospetto grande nel vedersi in casa tante armi di Francia con la persona propria del re, per dubbio ch’un tal soccorso non facesse divenir essi medesimi preda al fine del soccorrente. In modo che l’arciduca stimando che ciò fosse piú tosto come un principio [p. 291 modifica] d’intimazione di guerra, e che questo punto di concedere o negare il passo al re fosse d’importanza grandissima, lo ruminava spesso fra se medesimo; e cosí sopra questa materia come sopra il modo di governare la guerra col re si riduceva a frequenti consulte coi suoi capitani.

Nell’esercito di Fiandra due n’erano fra gli altri in quel tempo grandemente stimati. L’uno spagnuolo ch’era don Luigi di Velasco general della cavalleria, e l’altro fiammingo ch’era il conte di Bucoy generai dell’artiglieria, passati prima ambidue con gran lode quasi per tutti i carichi inferiori della milizia. Standosi dunque un giorno in consiglio sulla deliberazione di cose tanto importanti, il Velasco volendo ch’apparisse chiaramente la sua opinione, e che se ne potesse avere particolar notizia in Ispagna, parlò in questo modo:

— Quando io considero, poderoso prencipe, le cose nostre di Fiandra in comparazione di quelle del re di Francia, veggo le nostre tanto inferiori alle sue, che se mai fu tempo, ora piú che mai ci convien d’usare i consigli cauti e sicuri. Tutti noi ci accordiamo in un presupposto: che Vostra altezza non possa avere piú di dodici o quattordici mila fanti, e due mila e cinquecento cavalli. Esercito che se bene sará quasi tutto di gente vecchia, non dev’esser però, secondo la mia opinione, giudicato bastante ad uscire a fronte di quello del re di Francia, che sará il doppio maggiore del nostro. Cederá senza dubbio la sua fanteria di virtú alla nostra, ma troppo è considerabile dalla sua parte un sí gran vantaggio di numero. E dall’altro canto prevalendo ordinariamente nella milizia a cavallo i francesi a tutte l’altre nazioni, tanto piú prevaleranno ora alla nostra cavalleria, dovendo, oltre al numero, esser composta la loro della nobiltá piú fiorita di Francia, che seguiterá la persona del re nell’occasione presente. Ma quanto vigor dará poi alla gente nuova del re la vecchia delle Provincie unite? le quali non si può stare in dubbio che non siano per favorir le sue armi contro le nostre, o con un gagliardo aiuto o con romper manifestamente anch’esse la guerra in congiuntura sí opportuna contro di noi. A me dunque pare [p. 292 modifica] che ad ogni modo si debba fuggir rincontro del re di Francia ed ogni occasione di venir seco a battaglia; e per conseguenza son di parere che gli si debba conceder il passo per Lucemburgo, poiché le cose nostre sono ora in termine che non gli può esser vietato da noi. E quanto alla forma del guerreggiare, dovendo noi ora, per mio giudizio, mantenerci sulla difesa, il mio consiglio sarebbe che dalla nostra piazza d’arme di Filippevilla s’andasse movendo il nostro esercito verso la parte dove si moverá quello del re di Francia, e che sempre l’andassimo costeggiando di qua dalla Mosa. A questo modo valendoci noi del fiume come d’un largo e profondo fosso, e della sua ripa come d’un fermo ed insuperabil riparo, non sará in potere del re l’assaltarci, e dall’altro canto resterá in man nostra il vietare a lui l’entrata nelle parti piú nobili e piú principali di queste provincie. Che se bene il re in questo mezzo si fará signore della campagna di lá dal fiume, pochi luoghi di considerazione troverá egli da quella parte da poter occupare, e quei pochi saran si muniti che volendo espugnarli vi consumerá molto tempo e molti soldati; il che servirá per rompere il primo impeto del suo esercito. Cosí ponendoci noi in questa forte e sicura difesa combatteremo senza combattere, e supereremo senza pericolo questo primo pericoloso movimento delibarmi del re di Francia. Verranno in questo mezzo di Spagna potenti aiuti di danaro e di gente. E fra tanto ancora si potranno con varie diversioni indebolir le forze francesi che saranno voltate contro queste provincie, facendo noi discender le nostre da’ Pirinei contro la Francia, e movendo a’ suoi danni le nostre armate del mar Mediterraneo e del mar Oceano, ma sopra tutto procurando qualche sollevazione interna dentro a quel regno. Nascono i francesi, come sa ognuno, alle novitá; e non meno cercano essi, di quello che fuggan gli altri, le turbulenze. Pronti a gettarsi nelle straniere, ma piú ancora nelle lor proprie. A tale effetto se prima eziandio poteva sperarsi di trovar facil materia nella naturale loro inquietudine, quanto piú facile ora si troverá dopo l’uscita del prencipe di Condé, il qual è in man nostra? [p. 293 modifica] Quanta commozione fará in un subito il dirizzar ivi questa grand’insegna a’ tumulti? Né potranno esser piú giustamente eccitati. Pruovi il fuoco nella casa sua propria chi vuole accenderlo in quella d’altri, e tutti i danni che soprastavano all’assalito vadano a ricadere sopra l’assalitore. Ed eccoci in questa maniera passati dalla difesa felicemente all’offesa, per far pentire poi senza difficoltá il re di Francia d’essersi precipitato in una guerra sí temeraria e sí ingiusta. E s’egli non sará piú cieco nelle cose di governo di quel che si mostra in quelle d’amore, lo faremo accorgere della differenza ch’è fra il vincere le femine imbelli tirandole alle sue voglie, ed il muover l’armi contro forze sí grandi, come son quelle del mio re e le vostre, che formano insieme una comune sí formidabil potenza. E pur dovrebbe ricordarsi il re di Francia delle vostre vittorie, quando voi cinto di porpora, tuttavia cardinale, faceste contro di lui nel suo regno progressi tanto importanti. Spero che non saranno minori quelli che farete nella presente occasione, dopo aver sostenuti i primi impeti ne’ quali solamente i francesi vagliono. Sosterransi, a mio credere, con facilitá nel modo rappresentato. E convertitesi tutte le cose dopo in nostro vantaggio, a voi nuova gloria, alle cose di Spagna nuova riputazione, a quelle di Fiandra maggior sicurezza, ed a noi altri soldati infinito onore e piacere seguirá da successi tanto prosperi che si saranno veduti nascer da questa guerra. —

Ma in contrario parlò il conte di Bucoy nella maniera seguente:

— Se quei rimedi, magnanimo prencipe, che nelle presenti necessitá di Fiandra dovrebbono aspettarsi di Spagna riuscissero cosí facili nell’effetto come riescon facili nel discorso, discenderei anch’io facilmente nella medesima sentenza di star ora sulla difesa col re di Francia. Ma non posso giá persuadermi che di Spagna sian per venir, né in tempo si breve né in copia sí grande com’è stato presupposto, quegli aiuti che qui ora bisognerebbono. Giá l’esperienza di tanti anni ci ha dimostrato che di lá il piú delle volte, per la gran distanza, [p. 294 modifica] arrivano qua i consigli, non che i soccorsi, dopo i bisogni, e che per la machina immensa di monarchia sí divisa, le provisioni destinate alla Fiandra sempre vi giungono molto deboli, per essere divertite da quelle di tanti altri membri de’ quali è formato il suo corpo. Dunque si può dubitare che nella presente occorrenza le provisioni da quella parte siano per incontrar le solite difficoltá, anzi pur maggiori del solito. Mancano tuttavia molti mesi al giunger la flotta dall’Indie; truovasi ora in commozione tutta la Spagna per lo scacciamento de’ mori, e la massa d’armi che minaccia il duca di Savoia in Italia è pur anche di considerazione grandissima. In modo che tutte queste sono diversioni presenti e certe in favore del re di Francia; lá dove quelle che si sono considerate in servizio delle cose di Fiandra sono del tutto dubbiose e dipendenti da successi futuri. Per le quali difficoltá io per me credo ch’a gran fatica si possa sperar di ricevere provedimento tale di Spagna, che basti a sostener per questa campagna la gente nuova che s’è aggiunta alla vecchia. Bisogna perciò concludere che lasciando Vostra altezza congiunger l’esercito del re di Francia con la soldatesca veterana delle Provincie unite, debba rendersi in un subito il re sí potente ch’egli abbia a diventar signore assoluto della campagna non solo di lá, ma di qua eziandio della Mosa. Percioché come non potrá egli passare il fiume, o sul ponte della terra di Hu nello stato neutrale di Liege o da qualche altra parte, senza che gli possa esser da noi proibito il passo? Non potrá egli poi spingersi qua dentro e voltarsi dove vorrá, ed aver facili tutte l’imprese? E benché le Provincie unite non avessero inclinato prima a romper manifestamente la guerra anch’esse contro questi paesi, come non s’avrá a temere che invitate da sí favorevole congiuntura non siano esse ancora per romperla? Non verrebbono allora in ultima disperazione le cose da questa parte? È nota sentenza che negli estremi mali si ricorre agli estremi rimedi. Sana il ferro quelle ulcere, che non possono esser sanate da’ lenitivi. E lo sprezzar alle volte i pericoli riesce il miglior rimedio per evitargli. Dunque a me [p. 295 modifica] pare che nello stato presente delle cose di Fiandra sia necessario in ogni maniera d’applicarsi alle risoluzioni arrischiate ed ardite, poiché senza manifesto pericolo della perdita di tutte queste provincie non possono aver luogo le circonspette e le caute. Io per me stimo che determinatamente voi neghiate il passo di Lucemburgo al re di Francia, e ch’in movendo egli il suo esercito verso le vostre frontiere voi moviate il vostro verso le sue, ed andiate ad incontrarlo, e procuriate ch’egli non si possa congiungere con la soldatesca vecchia delle Provincie unite. Ben confesso ch’ha seco i suoi rischi parimente questa risoluzione, ma quelli dell’altra mi par che siano piú evidenti e maggiori. I pericoli di questa dipendono dall’esito sempre dubbioso delle battaglie, né può negarsi che il re di Francia non sia un gran capitano e che non debba aver seco il fior della nobiltá di Francia a cavallo. Nondimeno se consideriamo dall’altra parte la nostra gente, ch’è nudrita fra l’armi, ch’è disciplinata in sí lunghe ordinanze, ch’è avvezza ogni giorno alle fazioni ed alle battaglie, e ch’avrá voi medesimo ora alla fronte per suo capitano, come non abbiamo a sperare che ’l nostro esercito non abbia a restar superiore a quel de’ francesi? Né diminuisce le mie speranze il dover essere molto piú numeroso il loro. Non il numero ma la virtú, non la confusione ma l’ordinanza, non il primo impeto ma lo stabil combattimento fanno conseguir agli eserciti le vittorie. Sazieransi di sangue i nostri squadroni di fanteria nell’uccision degli svizzeri, che soli faranno per avventura qualche sorte di resistenza, porranno in fuga senza difficoltá i fanti francesi, e daranno tal calore alla nostra cavalleria che potremo sperare di rimaner pur’anche vincitori da questa parte. Cosí voi vedrete, io lo spero, cominciata e finita al medesimo tempo la guerra. E cosí vedrete nobilitato d’una nuova vittoria un nuovo sito in questi paesi, che forse non cederá a quelli di San Quintino, di Gravelinghe e di Dorlan, celebri per le stragi che in altri tempi hanno fatte della gente francese, con acquisto di tanta riputazione, gli eserciti nostri di Fiandra. Ma forse ancora potrebbe avvenire che ’l [p. 296 modifica] re di Francia vedendo muovere sí risolutamente le nostre armi contro le sue, deponesse l’animo d’assaltar questi stati, e si riducesse a tolerar con maggior pazienza i combattimenti ch’egli fa sentire a se medesimo con le sue interne sí mal misurate passioni. A questo modo voi avreste senz’alcun pericolo terminata gloriosamente una guerra anche prima di cominciarla. E potreste poi pigliar quelle risoluzioni che fossero per esser piú convenienti alle cose vostre, a quelle di Spagna, al servizio publico della cristianitá ed al ben particolare de’ vostri popoli. —

Erano veramente di grandissimo peso le ragioni che l’uno e l’altro di questi due capitani aveva addotte. Da una parte, lasciandosi congiungere il re di Francia con la soldatesca vecchia delle Provincie unite, venivano a restare in sommo pericolo le cose di Fiandra, e dall’altra, l’avventurar subito in una battaglia l’esercito nel quale consisteva la sola speranza per allora di sostenerle, era parimente risoluzione pericolosissima. Io vedeva il marchese Spinola piegar piú al secondo partito che al primo, o fosse ch’in lui potessero piú le ragioni del Bucoy o pure che questo consiglio, ch’era il piú ardito, fosse da lui giudicato volentieri ancora il piú necessario. Mostrava egli gran desiderio di trovarsi in un teatro cosí glorioso come sarebbe stato il venire a battaglia col re di Francia, sí gran prencipe e capitano. Oltreché lo mordevano vari disgusti dati e ricevuti nelle pratiche della principessa coi francesi, dal che forse poteva nascere tanto piú il suo incitamento di venire all’armi con loro. Affaticavasi in questo tempo il pontefice, con paterni ricordi e con caldissimi offizi, per indurre i prencipi interessati in un movimento sí grande a conservar la concordia di prima, ed a questo fine aveva destinati particolarmente due nunzi straordinari, l’uno che fu l’arcivescovo di Nazaret alla corte di Francia, e l’altro che fu l’arcivescovo di Chieti a quella di Spagna. Ma ecco in tanta perturbazione ed ondeggiamento di cose prorompere all’improviso una voce in Brusselles, prima timida ed incostante e poi dalla grandezza del successo fatta stabile e vigorosa, [p. 297 modifica] che ’l re di Francia era stato ammazzato. Il che subito poi si verificò; ed il caso fu ch’alli 14 di maggio, mentre il re andava per Parigi in carrozza rivedendo gli archi trionfali preparati per l’incoronazione pomposissima che doveva seguire della regina, era stato ucciso per mano d’un uomo abiettissimo chiamato Ravigliac; il quale fattosi padrone della vita del re col volere disperatamente perdere la sua, gli aveva cacciato un lungo coltello due volte in un fianco. Morte miserabile invero, essendosi veduto cadere per man cosí vile un re cosí grande, e cadere appunto quand’erano sí nel colmo le sue grandezze che pareva ormai termine troppo angusto quel della Francia sola a capirle. Onde imparino di qua i prencipi, e fra loro i piú poderosi, a conoscere le miserie che vanno miste con le loro felicitá, e quanto spesso nel teatro dell’umane tragedie essi faccian le scene piú funeste e piú lamentabili.

Succeduta la morte del re di Francia, tornò dentro di pochi giorni per le porte a Brusselles il prencipe di Condé, ed in un subito si videro con diversissima faccia tutte le cose. Ne’ francesi deposto l’ardore di prima, negli spagnuoli accesa una gran cupiditá di muover l’armi con sí propizia occasione. Ma finalmente prevalsero i consigli quieti, e si continovò da loro e dall’arciduca ogni migliore intelligenza con la regina reggente, madre del picciol re. Vari pensieri andavano ancora per la mente a Condé. Pretendeva egli, come primo prencipe del sangue, che nella minoritá del re gli fosse dovuta la principale amministrazione delle cose del regno, e pretese parimente d’aver l’aspettativa dell’offizio di gran contestabile di Francia, dopo la morte del suocero. Ma sarebbe stata cosa di grandissima gelosia il porre questo carico nella sua persona, e molto piú il governo del regno in sua mano. Onde sopra l’una e l’altra di queste sue pretensioni egli s’andò finalmente acquetando, e si contentò d’altre speranze ch’egli ebbe di dovere ricevere piena sodisfazione in altre cose al ritorno suo in Francia. Trovavansi allora gli arciduchi in Marimonte, e con loro la principessa di Condé; la quale mutata anch’essa con la mutazione ch’avevano fatta le cose, di giá [p. 298 modifica] si mostrava desiderosa di riconciliarsi col marito, e disposta a ritornare in Francia con lui. Andò subito Condé a Marimonte a complire con gli arciduchi, da’ quali fu ricevuto con le accoglienze di prima, ed egli all’incontro si mostrò loro pieno d’obbligo per tante dimostrazioni ch’avevano fatte in favor delle cose sue. Coi ministri spagnuoli passò i medesimi offizi, e fatto questo primo complimento egli tornò a Brusselles dove si trattenne alcuni giorni col prencipe d’Oranges, e ritornò poi a Marimonte per andarsene in Francia. Non vide per allora la moglie, ma seguí dopo quasi subito in Francia la riconciliazione fra loro, e fu pienamente meritato da lei con la feconditá, e non meno con ogni piú pregiata virtú, l’amore che le mostrò sempre il marito.

Per levar di Fiandra la principessa e per ringraziar gli arciduchi d’averla tenuta appresso di loro, mandò il contestabile suo padre a Marimonte la contessa d’Overnia pur sua figliuola, ma d’un’altra sua moglie. Nel medesimo luogo la regina inviò similmente il signor di Barò a visitare Condé e ad invitarlo a Parigi; e di mano in mano concorrevano a ritrovarlo e ad offerirsegli altri francesi principali in gran numero. Partí Condé poi in capo a tre giorni, ed alle frontiere di Francia fu ricevuto dalla madre medesima. Ed incontrato per tutto e raccolto da grandissimo numero di nobiltá, entrò finalmente con incredibil concorso di popolo nella cittá di Parigi. Nel qual giro di vari casi, rappresentando egli con nuovo spettacolo quei ludibri che fa delle cose umane tutto il giorno fra di noi la fortuna, potè ragionevolmente lasciar in dubbio se fosse stata o piú infelice la forma della partita ch’egli fece di Francia o piú felice poi quella del suo ritorno nel regno. Parti fuggitivo, e con manifesto pericolo d’esser preso e di viver lungo tempo fra le miserie e l’orror delle carceri. E tornato poco dopo egli a guisa di trionfante, si vide con tali prerogative d’onori e d’autoritá che poteva parere quasi piú tosto re che primo prencipe del sangue reale.