Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XIX. La nuova scienza/I.
Questo testo è completo. |
◄ | XIX. La nuova scienza | XIX. La nuova scienza - II. | ► |
i
La letteratura non poteva risorgere che con la risurrezione della coscienza nazionale. Come negazione, ebbe vita splendida, che si chiuse col Folengo e l’Aretino. Arrestato quel movimento negativo dal concilio di Trento, nacque un’affermazione ipocrita e rettorica, sotto alla quale senti una delle forme piú deleterie della negazione, l’indifferenza. In quella stagnazione della vita pubblica e privata, non rimane alla letteratura altro di vivo che un molle lirismo idillico, il quale si scioglie nel melodramma e dá luogo alla musica.
Ma quel movimento non era puramente negativo. Vi sorgeva dirimpetto l’affermazione del Machiavelli, una prima ricostruzione della coscienza, un mondo nuovo in opposizione dell’ascetismo, trovato e illustrato dalla scienza. È in questo mondo nuovo che la letteratura dovea cercare il suo contenuto, il suo motivo, la sua novitá. Accettarlo o combatterlo era lo stesso. Ma bisognava ad ogni costo avere una fede: lottare, poetare, vivere, morire per quella.
I principi furono favorevoli. Insieme con la nuova letteratura si era sviluppata un’agitazione filosofica nelle universitá e nelle accademie, indipendente dalla teologia cattolica o riformista, o piuttosto in opposizione mascherata alla teologia e all’aristotelismo dominante ancora nelle scuole. I liberi pensatori eran detti «filosofi moderni» o i «nuovi filosofi», come predicatori di nuove dottrine; e vedemmo come il Tasso nella sua giovinezza soggiacque alla loro autoritá. Tra questi nuovi filosofi, che proclamavano l’autonomia della ragione e la sua indipendenza da ogni autoritá di teologo e di filosofo, disputando soprattutto contro Aristotele, era Bernardino Telesio, dell’accademia cosentina, nel quale è giá spiccata la tendenza all’investigazione de’ fatti naturali e al libero filosofare, lasciate da parte le astrazioni e le forme scolastiche. Tra questi «uomini nuovi», come li chiama Bacone, ebbe qualche fama il Patrizi e Mario Nizzoli da Modena, che combattè ugualmente Aristotele e Platone, fuggi il gergo scolastico e fu detto dal Leibniz «exemplum dictionis philosophiae reformatae». Gli uomini nuovi chiamavano «pedanti» gli avversari, e, come portavano i tempi, alternavano le villanie con gli argomenti. Il carattere di questo nuovo filosofare era l’indipendenza della filosofia dirimpetto la fede e l’autoritá, il metodo sperimentale e la riabilitazione della materia o della natura, risecato dalla investigazione tutto ciò che è soprannaturale e materia di fede. Filosofia e letteratura andavano di pari passo: il Machiavelli e l’Ariosto s’incontravano sullo stesso terreno, ciascuno co’ suoi mezzi. L’ironia dell’Ariosto ha il suo comento nella logica del Machiavelli. Come negazione, la nuova filosofia era troppo radicale, perché non solo negava il papato, ma il cattolicismo; e non solo il cattolicismo, ma il cristianesimo; e non solo il cristianesimo, ma l’altro mondo; e non solo l’altro mondo, ma Dio stesso. Non è che queste cose apertamente si negassero; anzi il linguaggio era pieno di cautele e di ossequi, maestro il Machiavelli: ma co’ piú umili inchini le mettevano da parte, come materia di fede, e vi sostituivano la «natura», il «mondo», la «forza delle cose», la «patria», la «gloria»: altri elementi ed altri fini. Era in fondo l’umanismo e il naturalismo, appoggiato alla ragione e all’esperienza, che prendeva il suo posto nel mondo. Questo grande movimento dello spirito, che segna l’aurora de’ tempi moderni e che si può ben chiamare il Rinnovamento, avea nell’intelletto italiano la sua posizione piú avanzata. Tutte le idee religiose, morali e politiche del medio evo erano parte affievolite, parte affatto cancellate nella coscienza degli uomini colti, anche de’ preti, anche de’ papi: l’indifferenza pubblica aveva la sua espressione nell’ironia, nel cinismo, nell’umorismo letterario. Ora questa negazione e indifferenza universale non potea produrre un organismo politico e sociale, anzi era indizio piú di dissoluzione che di nuova formazione. La negazione non era effetto di una energica affermazione, come fu per la Riforma, reazione contro il paganesimo e il materialismo della corte romana, prodotta da un vivace sentimento spiritualista, religioso e morale, secondato da passioni e interessi politici. La Riforma riuscí, perché fu limitata nella sua negazione e nelle sue conclusioni, perché aveva a sua base lo spirito religioso e morale delle classi colte, e perché, combattendo il papa e sostenendo i principi nella loro lotta contro l’imperatore, seppe metter dalla sua gl’interessi e le ambizioni. Presso noi, la negazione era un fatto puramente intellettuale; e quanto piú assolute le conclusioni dell’intelletto, tanto piú era debole la volontá e la forza di effettuarle. L’ideale stava a troppa distanza dal reale. La stessa utopia, ne’ suoi voli d’immaginazione, rimaneva inferiore a quella posizione cosí avanzata dell’intelletto. Rimasero dunque conclusioni accademiche, temi rettorici, investigazioni solitarie nell’indifferenza pubblica. Le stesse audacie del Machiavelli passarono inosservate. La libertá del pensiero non era scritta in nessuna legge, ma ci era nel fatto, e si filosofava e si disputava sopra qualsivoglia materia senz’altro pericolo che degli emuli e invidiosi, che talora concitavano contro gli uomini nuovi le ire papali. Se il movimento avesse potuto svilupparsi liberamente, non è dubbio che avrebbe trovato il suo limite nelle applicazioni politiche e sociali, fermandosi in quelle idee medie, che meno sono lontane dalla realtá e che si trovano giá delineate nel Machiavelli, il piú pratico e positivo di quegli uomini nuovi. Avremmo forse avuto la «patria» del Machiavelli, una Chiesa nazionale, una religione purgata di quella parte grottesca e assurda che la rende spregevole agli uomini colti, e una educazione virile dell’animo e del corpo. Ma appunto allora l’Italia perdette la sua indipendenza politica e la sua libertá intellettuale; anzi la vittoria della Riforma in molte parti di Europa rese timidi e sospettosi i governanti, e cominciò feroce persecuzione contro gli uomini nuovi, eretici e filosofi, e piú gli eretici, come piú pericolosi. Avemmo il concilio di Trento e l’Inquisizione e, cosa anco peggiore, l’educazione gesuitica, eunuca e ipocrita. I piú arditi esularono; e venne sú la nuova generazione, con apparenze piú corrette e con una dottrina ufficiale che non era lecito mettere in discussione. Salvar le apparenze era il motto, e bastava. E ne usci una societá scredente, sensuale, indifferente, rettorica nelle forme, insipida nel fondo, con letteratura conforme. Religione, patria, virtú, educazione, generositá, sono temi poetici e oratorii frequentissimi, con esagerazioni spinte all’ultimo eroismo, perché in nessuna relazione con la serietá e la pratica della vita.
Ma né l’Inquisizione co’ suoi terrori, né poi i gesuiti co’ loro vezzi poterono arrestare del tutto quel movimento intellettuale, che avea la sua base nel naturale sviluppo della vita italiana. Poterono bene ritardarlo tanto e impedirlo nel suo cammino, che ci volle piú di un secolo perché acquistasse importanza sociale.
La reazione aveva anche i suoi uomini dotti. Ma la differenza era in questo: che ne’ suoi uomini era stagnata ogni attivitá intellettuale ed ogni vigore speculativo, vólto il lavoro della mente agli accidenti e alle forme piú che alla sostanza, com’era pure de’ letterati; dove negli altri hai un serio progresso intellettuale, vivificato dalla fede e stimolato dalla passione. La reazione avea vinto pienamente, avea seco tutte le forze sociali; e l’opposizione, cacciata via dalle accademie e dalle scuole, frenata dall’Inquisizione e dalla censura, toltale ogni libertá e forza di espansione, era una infima minoranza, appena avvertita nel gran movimento sociale. Perciò alla reazione mancò la lotta, dove si affina l’intelletto e si accendono le passioni, e per difetto di alimento rimase stazionaria e arcadica. L’attivitá intellettuale e l’ardore della fede rimase privilegio dell’opposizione, si che, dove trovi movimento intellettuale, ivi trovi opposizione piú o meno pronunziata, e spesso involontaria e quasi senza saputa dello scrittore. La storia di questa opposizione non è stata ancora fatta in modo degno. Pure, la sono i nostri padri, lá batteva il core d’Italia, lá stavano i germi della vita nuova. Perché infine la vita italiana mancava per il vuoto della coscienza, e la storia di questa opposizione italiana non è altro se non la storia della lenta ricostituzione della coscienza nazionale. Cosa ci era nella coscienza? Nulla. Non Dio, non patria, non famiglia, non umanitá, non civiltá. E non ci era piú neppure la negazione, che anch’essa è vita; anzi ci era una pomposa simulazione de’ piú nobili sentimenti con la piú profonda indifferenza. Se in questa Italia arcadica vogliamo trovare uomini che abbiano una coscienza e perciò una vita, cioè a dire che abbiano fede, convinzioni, amore degli uomini e del bene, zelo della veritá e del sapere, dobbiamo mirare lá, in questi «uomini nuovi» di Bacone, in questi primi santi del mondo moderno, che portavano nel loro seno una nuova Italia e una nuova letteratura.
E inchiniamoci prima innanzi a Giordano Bruno. Cominciò poeta: fu grade ammiratore del Tansillo. Aveva molta immaginazione e molto spirito: due qualitá che bastavano allora alla fabbrica di tanti poeti e letterati; né altre ne avea il Tansillo, e piú tardi il Marino e gli altri lirici del Seicento. Ma Bruno avea facoltá piú poderose, che trovarono alimento ne’ suoi studi filosofici. Avea la visione intellettiva, o, come dicono, l’intuito, facoltá che può esser negata solo da quelli che ne son senza; e avea sviluppatissima la facoltá sintetica, cioè quel guardar le cose dalle somme altezze e cercare l’uno nel differente. Non era di ugual forza nell’analisi, dove non mostra pazienza e sagacia d’investigazione, ma quell’acutezza sofistica d’ingegno, che fa di lui l’ultimo degli scolastici nelle argomentazioni e il precursore de’ marinisti ne’ colori. Supplisce all’analisi con l’immaginazione, fantasticando dove non giunge la sua visione, saltando le idee medie e sforzandosi divinare quello che per lo stato allora della cognizione non può attingere. Spesso le sue idee sono immagini e le sue speculazioni sono fantasie e allegorie. Ci era nel suo petto un dio agitatore che sentono tutt’i grand’ingegni; ed era un dio filosofico attraversato e avviluppato di forme poetiche, che gli guastano la visione e lo dispongono piú a costruire lui il mondo che a speculare sulla costruzione di quello. Con queste forze e con queste disposizioni si può immaginare qual viva impressione dovettero fare sul suo spirito gli studi filosofici. La sua coltura è ampia e seria: si mostra dimestico non solo de’ filosofi greci, ma de’ contemporanei. Ha una speciale ammirazione verso il «divino» Cusano e molta riverenza pel Telesio. Il suo favorito è Pitagora, di cui afferma invidioso Platone. Alla sua natura contemplativa e poetica dovea riuscire sommamente antipatico Aristotele, e ne parla con odio, quasi nemico. Cosa dovea parere a quel giovine tutto quell’edifizio teologico-scolastico-aristotelico, sconquassato dagli uomini nuovi, ma saldo ancora nelle scuole, sul quale s’innestava una societá corrotta e ipocrita? Il primo movimento del suo spirito fu negativo e polemico: fu la negazione delle opinioni ricevute, accompagnata con un amaro disprezzo delle istituzioni e de’ costumi sociali. Era il tempo delle persecuzioni; i migliori ingegni emigravano: regnava l’Inquisizione. E Bruno era frate, e frate domenicano. Come usci del convento e perché esulò, s’ignora. Ma a quel tempo bastava poco ad essere battezzato eretico; ricordiamo i terrori del povero Tasso. Fuggi Bruno in Ginevra, dove trovò un papa anche piú intollerante. Fuggi a Tolosa, a Lione, a Parigi, dove ebbe qualche tregua e pubblicò il suo primo lavoro. Era il 1582. Aveva una trentina di anni.
Cosa è questo primo lavoro? Una commedia, il Candelaio. Bruno vi sfoga le sue qualitá poetiche e letterarie. La scena è in Napoli, la materia è il mondo plebeo e volgare, il concetto è l’eterna lotta degli sciocchi e de’ furbi, lo spirito è il piú profondo disprezzo e fastidio della societá, la forma è cinica. È il fondo della commedia italiana dal Boccaccio all’Aretino, salvo che gli altri vi si spassano, massime l’Aretino, ed egli se ne stacca e rimane al di sopra. Chiamasi «academico di nulla academia, detto il Fastidito». Nel tempo classico delle accademie il suo titolo di gloria è di non essere accademico. Quel «fastidito» ti dá la chiave del suo spirito. La societá non gl’ispira piú collera: ne ha fastidio, si sente fuori e sopra di essa. Si dipinge cosí:
L’autore, si lo conosceste, ... have una fisonomia smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle pene dell’inferno:... un che ride sol per far comme fan gli altri. Per il piú lo vedrete fastidito, restio e bizarro.
Il mondo gli parve un gioco vano di apparenze, senza conclusione. E il risultato della sua commedia è «in tutto non esser cosa di sicuro; ma assai di negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di buono». Nessuno interesse può destare la scena del mondo a un uomo che nella dedica conchiude cosí:
Il tempo tutto toglie e tutto dá; ogni cosa si muta, nulla s’annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno e può perseverare eternamente uno, simile e medesmo. Con questa filosofia l’animo mi s’aggrandisse, e me si magnifica l’intelletto.
Ma non gli s’ingrandisce il senso poetico, il quale è appunto nel contrario: nel dar valore alle piú piccole rappresentazioni della natura e prenderci interesse. Un uomo simile era destinato a speculare sull’uno e sul medesimo, non certo a fare un’opera d’arte. Non si mescola nel suo mondo, ma ne sta da fuori e lo vede nelle sue generalitá. Ecco in qual modo dipinge l’innamorato:
Vedrete in un amante suspir, lacrime, sbadacchiamenti, tremori, sogni, rizzamenti, e un cuor rostito nel fuoco d’amore; pensamenti, astrazioni, còlere, maninconie, invidie, querele, e men sperar quel che piú si desia.
E continua di questo passo, ammassando tutt’ i luoghi topici della rettorica e tutte le frasi della moda:
«cuor mio», «mio bene», «mia vita», «mia dolce piaga e morte», «dio», «nume», «poggio», «riposo», «speranza», «fontana», «spirto», «tramontana stella», ed «un bel sol ch’a l’alma mai tramonta»,... «crudo cuore», «salda colonna», «dura pietra», «petto di diamante»,... «cruda man ch’ha le chiavi del mio core», ... «mia nemica», ... «mia dolce guerriera», «versaglio sol di tutti miei pensieri», e «bei son gli amor miei, non quei d’altrui».
È il vecchio frasario de’ petrarchisti, venutogli a noia e ammassato qui alla rinfusa. Ci è il critico, non ci è il poeta comico che ci viva dentro e ci si trastulli. Fino il titolo, il Candelaio, lo mena a questa considerazione filosofica: che è la candela destinata a illuminare le «ombre delle idee». Perciò costruisce il suo mondo comico a quel modo che costruisce il suo universo, guardando nelle apparenze l’essenza e la generalitá:
Eccovi avanti gli occhi ociosi principi, debili orditure, vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture di corde, falsi presuppositi, alienazion di mente, poetici furori, offuscamento di sensi, turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d’ intelletto, fede sfrenata, cure insensate, studi incerti, somenze intempestive e gloriosi frutti di pazzia.
Con queste disposizioni, non individua, come fa l’artista, ma generalizza, mette insieme le cose piú disparate, perché nelle massime differenze trova sempre il simile e l’uno, e profonde antitesi, similitudini, sinonimi, con una copia, un brio, una novitá dí relazioni che testimoniano straordinaria acutezza di mente. Chi legge Bruno si trova giá in pieno Seicento, e indovina
Marino e Achillini. Ecco un periodo alla sua donna:
Voi, coltivatrice del campo dell’animo mio, che, dopo aver attrite le glebe della sua durezza e assottigliatogli il stile, accioché la polverosa nebbia sullevata dal vento della leggerezza non offendesse gli occhi di questo e quello, con acqua divina, che dal fonte del vostro spirto deriva, m’abbeveraste l’intelletto.
Sembra un periodo rubato a Pietro Aretino, che ne facea mercato. Il difetto penetra anche nella rappresentazione, essendo i caratteri concepiti astrattamente, perciò tesi e crudi, senza ombre e chiaroscuri, con una cinica nuditá, resa anche piú spiccata da una lingua grossolana, un italiano abborracciato e mescolato di elementi napolitani e latini.
In questo mondo comico i tre protagonisti, che sono i tre sciocchi beffati e castigati, abbracciano la vita nelle sue tre forme piú spiccate, la letteratura, la scienza e l’amore, nella loro comica degenerazione. La letteratura è pedanteria, la scienza è impostura, l’amore è bestialitá. Il personaggio meglio riuscito è il pedante, che finisce sculacciato e rubato. E il pedante sotto vari nomi diviene parte sostanziale anche del suo mondo filosofico: diviene il suo elemento negativo e polemico. Dirimpetto alla sua speculazione ci è sempre il pedante aristotelico, che rappresenta il senso comune o le opinioni volgari, ed è messo alla berlina. La speculazione si sviluppa in forma di dialogo, dove il pedante rappresenta la parte del buffone, resa piú piccante dalla solennitá magistrale. A questo elemento comico aggiungi un altro elemento letterario, l’allegorico e il fantastico, che lo dispone a inviluppare i suoi concetti sotto immagini e finzioni, come è nel suo Asino cillenico e nello Spaccio della bestia trionfante. Qui arieggia Luciano, come in altri dialoghi, piú severamente speculativi, arieggia Platone. Il suo dialogo Degli eroici furori ricorda la Vita nuova di Dante: una filza di sonetti, ciascuno col suo comento, il quale nella sua generalitá è una dottrina allegorica intorno all’entusiasmo e alla ispirazione. Il contenuto nel Bruno è in molta parte nuovo, ma le sue forme letterarie non nascono dal contenuto, sono appiccate a quello; e sono forme invecchiate e corrotte dal lungo uso, perciò senza grazia e semplicitá e senza calore intimo. Se non disgustano e non annoiano, si dee al suo acuto spirito e alla sua attivitá intellettuale, che non ti fa mai stagnare e ti sorpiende di continuo con sali, frizzi, antitesi, bizzarrie, concetti e finezze, che è il cattivo gusto degli uomini d’ingegno.
Ma quest’uomo, cosí inviluppato in forme tradizionali e giá guaste, che accennavano giá ad una prossima dissoluzione della letteratura italiana, era nella sua speculazione perfettamente libero e costruiva un nuovo contenuto, da cui dovea uscire piú tardi una nuova critica e una nuova letteratura. La sua filosofía è la condanna piú esplicita delle sue forme e de’ suoi pregiudizi letterari.
Non vo’ giá analizzare il suo sistema filosofico: ché non fo storia di filosofia. Ma debbo notare le idee e le tendenze, che ebbero una decisa influenza sul progresso umano.
Ne’ suoi primi scritti, tutti in latino, si vede il giovane a cui si apre tutto il mondo della cognizione, e cerca riassumerlo, costruire l’albero enciclopedico. Raimondo Lullo avea giá tentata questa sintesi, come aiuto della memoria. Bruno rifá il suo lavoro, stabilisce categorie e distinzioni, note mnemoniche o idee generali intorno a cui si aggruppino i particolari, come «cielo», «albero», «selva». Queste note le chiama «suggelli», a cui è aggiunto «sigillus sigillorum» cioè le idee prime, da cui discendono le altre. Il suo entusiasmo per quest’«architettura lulliana», titolo di un suo scritto, è tale, che la chiama «arte delle arti», perché vi si trova «quidquid per logicam, metaphysicam, cabalam, naturalem magiam, artes magnas atque breves theoretice inquiritur». Bruno non avea attinto che il meccanismo della scienza, perché queste categorie o distribuzioni per capi e per materia sono distinzioni formali e arbitrarie, e rassomigliano un dizionario fatto per categorie a soccorso della memoria. Il volgo ci dá molta importanza e crede, imparando quelle categorie, di avere imparato a cosí buon mercato tutte le scienze. Dicesi che molti gli stessero attorno per aver da lui il secreto di diventar dottori in qualche mese e che, beffati, gliene volessero: anzi a queste inimicizie plebee si attribuisce la sua fuga da Parigi e la sua andata a Londra. Ivi continuò i suoi studi lulliani e pubblicò Explicatio triginta sigillorum con una introduzione intitolata: Recens et completa ars reminiscendi. In questi studi meccanici e formali si rivela giá un principio organico, che annunzia il gran pensatore. L’arte del ricordarsi si trasforma innanzi alla sua mente speculativa in una vera arte del pensare, in una logica, che è ad un tempo una ontologia. Ci è un libro pubblicato a Parigi nel i582, col titolo: De umbris idearum; e lo raccomando a’ filosofi, perché ivi è il primo germe di quel mondo nuovo che fermentava nel suo cervello. Ivi tra quelle bizzarrie mnemoniche è sviluppato questo concetto capitalissimo: che le serie del mondo intellettuale corrispondono alle serie del mondo naturale, perché uno è il principio dello spirito e della natura, uno è il pensiero e l’essere. Perciò pensare è figurare al di dentro quello che la natura rappresenta al di fuori, copiare in sé la scrittura della natura. Pensare è vedere, ed il suo organo è l’occhio interiore, negato agl’inetti. Ond’è che la logica non è un argomentare, ma un contemplare, una intuizione intellettuale non delle idee, che sono in Dio, sostanza fuori della cognizione, ma delle ombre o riflessi delle idee ne’ sensi e nella ragione. Bruno parla con disprezzo dantesco del volgo, a cui è negato il lume interno, la visione del vero e del buono, riflesso nella ragione e nella natura; e premette al suo libro questa protesta:
Umbra profunda sumus, ne nos vexetis, inepti; non vos, sed doctos tam grave quaerit opus. |
Che vuol dire in buono italiano: — Chi non ci vede, suo danno, e non ci stia a seccare. —
Questo concetto rinnovava la scienza nella sua sostanza e nel suo metodo. Il dualismo teologico-filosofico del medio evo, da cui scaturiva il dualismo politico, papa e imperatore, dava luogo all’unita assoluta. E il formalismo meccanico aristotelico-scolastico cedeva il campo a un metodo organico, cioè a dire derivato dall’essenza stessa della scienza. Il nuovo concetto era la chiave della speculazione di Bruno.
A Londra Bruno sostenne una disputa sul sistema di Copernico, lungamente da lui narrata e con colori molto comici nella Cena delle ceneri, cioè del primo di di quaresima. Poi sviluppò piú ampiamente le sue idee nel dialogo della Causa, principio e uno, e nell’altro dell’Infinito, universo e mondi, pubblicati a Londra nel i584. Quei tre libri sono la sua metafisica.
Ciò che ti colpisce dapprima in questa speculazione è la riabilitazione, anzi l’indiamente della materia scomunicata, chiamata «peccato». Bruno ha chiara coscienza di ciò che fa. Perché mette in bocca al pedante aristotelico le opinioni volgari che correvano intorno alla materia. Il pedante è Polinnio, ed è descritto cosí:
Questo è un di quelli che, quando ti arrán fatta una bella costruzione, prodotta una elegante epistolina, scroccata una bella frase da la popina ciceroniana, qua è risuscitato Demostene, qua vegeta Tullio, qua vive Salustio; qua è un Argo che vede ogni lettera, ogni sillaba, ogni dizione... Chiamano all’essamina le orazioni, fanno discussione de le frase, con dire: — Queste sanno di poeta, queste di comico, queste di oratore. Questo è grave, questo è lieve; quello è sublime, quell’altro è «humile dicendi genus». Questa orazione è aspera: sarebbe bene se fusse formata cossi. Questo è uno infante scrittore, poco studioso de la antiquitá, non redolet arpinatem, desipit Lalium. Questa voce non è tosca, non è usurpata da Boccaccio, Petrarca e altri probati autori... — Con questo trionfa, si contenta di sé, gli piaceno piú eh’ogn’altra cosa i fatti suoi: è un Giove che da l’alta specula remira e considera la vita degli altri uomini, suggetta a tanti errori, calamitadi, miserie, fatiche inutili. Solo lui è felice, lui solo vive vita celeste, quando contempla la sua divinitá nel specchio d’un spicilegio, un dizionario, un Calepino, un lessico, un Cornucopia, un Nizzolio... Se avvien che rida, si chiama Democrito; s’avvien che si dolga, si chiama Eraclito; se disputa, si chiama Crisippo; se discorre, si noma Aristotele; se fa chimere, si appella Platone; se mugge un sermoncello, se intitula Demostene; se construisce Virgilio, lui è il Marone. Qua corregge Achille, approva Enea, riprende Ettore, esclama contra Pirro, si condole di Priamo, arguisce Turno, iscusa Didone, comenda Acate: e infine, mentre «verbum verbo reddit» e infilza salvatiche sinonimie, «nihil divinum a se alienum putat». E, cossi borioso smontando da la sua catedra, come colui c’ha disposti i cieli, regolati i senati, domati eserciti, riformati i mondi, è certo che, se non fusse l’ingiuria del tempo, farrebe con gli effetti quello che fa con l’opinione. O tempora, o mores! Quanti son rari quei che intendono la natura de’ participi, degli adverbi, delle coniunczioni!
Polinnio sarebbe immortale, se fosse in azione cosí vivo e vero come è dipinto qui; ma l’artista è inferiore al critico, né il Polinnio che parla è uguale al Polinnio descritto con cosí felice umore sarcastico. Polinnio sa a mente tutto quello che è stato scritto intorno alla materia, e tutto solo, «ita, inquam, solus ut minime omnium solus», come fosse in cattedra ti sciorina sulla materia una lezione, anzi, come dice lui, una «nervosa orazione»:
La materia... di peripatetici dal principe,... non minus che dal Platon divino e altri, or «caos», or «hyle», or «silva», or «massa», or «potenzia», or «aptitudine», or «privationi admixtum», or «peccati causa», or «ad maleficium ordinata», or «per se non ens», or «per se non scibile» or «per analogiam ad formam cognoscibile», or «tabula rasa», or «indepictum», or «subiectum», or «substratum», or «substerniculum», or «campus», or «infinitum», or «indcterminatum», or «prope nihil», or «neque quid, neque quale, neque quantum», tandem... «femina» vien detta: tandem, inquam, ut una complectantur omnia vocula..., «foemina» dicitur.
Ebbene, questa materia che Polinnio per disprezzo chiama «femmina», la «causa del peccato», la «tavola rasa», il «prope nihil», il «neque quid, neque quale, neque quantum», è proclamata da Bruno immortale e infinita. Passano le forme: la materia resta immutabile nella sua sostanza:
Nella natura, variandosi in infinito e succedendo l’una a l’altra le forme, è sempre una materia medesma... Quello che era seme si fa erba, e da quello che era erba si fa spica, da che era spica si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavero, da questo terra, da questa pietra... Bisogna dunque che sia una medesima cosa, che da sé non è pietra, non terra, non cadavero, non uomo, non embrione, non sangue:... ma che, dopo che era sangue, si fa embrione, ricevendo l’essere embrione; dopo che era embrione, riceve l’essere uomo, facendosi uomo.
E, poiché tutte le forme passano ed ella resta, Democrito e gli epicurei «quel che non è corpo dicono esser nulla: per conseguenza vogliono la materia sola essere la sustanza de le cose, e anco quella essere la natura divina», le forme non essendo «altro che certe accidentali disposizioni de la materia», come sostengono i «cirenaici, cinici e stoici». Bruno avea dapprima la stessa opinione, diffusa giá in molti contemporanei, soprattutto nei medici, parendogli che quella dottrina avesse «fondamenti piú corrispondenti alla natura che quei di Aristotele». Cominciò dunque prettamente materialista; ma, considerata la cosa «piú maturamente», non potè confondere la potenza passiva di tutto e la potenza attiva di tutto, chi fa e chi è fatto, la forma e la materia: onde venne nella conclusione esserci nella natura due sustanze, l’una ch’è forma, l’altra che è materia, la «potestá di fare» e la «potestá di esser fatto». Perciò nella scala degli esseri «c’è uno intelletto, che dá l’essere a ogni cosa, chiamato da’ pitagorici... * datore delle forme ’; una anima e principio formale, che si fa e informa ogni cosa, chiamata da’ medesmi ‘fonte delle forme’; una materia, della quale vien fatta e formata ogni cosa, chiamata da tutti ‘ricetto delle forme’».
Quanto all’intelletto, «primo e ottimo principio», «non possiamo conoscer nulla se non per modo di vestigio» essendo la «divina sustanza... infinita» e «lontanissima da quelli effetti che sono l’ultimo termine del corso della nostra discorsiva facultade». Dio dunque è materia di fede e di rivelazione, e, secondo la teologia e «ancora tutte riformate filosofie», è cosa «da profano e turbolento spirito il voler precipitarsi a... definire circa quelle cose che son sopra la sfera della nostra intelligenza». Dio «è tutto quel che può essere»: in lui potenza e atto «son la medesima cosa», possibilitá assoluta, atto assoluto. «Lo uomo è quel che può essere; ma non è tutto quel che può essere... Quello, che è tutto che può essere, è uno il quale nell’esser suo comprende ogni essere. Lui è tutto quel che è e può essere.» In lui ogni potenza e atto è «complicato, unito e uno: nelle altre cose è esplicato, disperso e moltiplicato». Lui è «potenza di tutte le potenze, atto di tutti gli atti, vita di tutte le vite, anima di tutte le anime, essere de tutto l’essere». Perciò il Rivelatore lo chiama «Colui che è», il «Primo» e il «Novissimo», poiché «non è cosa antica e non è cosa nuova», e dice di lui: «Sicut tenebrae eius, ita et lumen eius». «Atto absolutissimo» e «absolutissima potenza, non può esser compreso da l’intelletto se non per modo di negazione: non può... esser capito, né in quanto può esser tutto né in quanto è tutto». Ond’ è che il sommo principio è escluso dalla filosofia; e Bruno costruisce il mondo, lasciando da parte la piú alta contemplazione, che ascende sopra la natura, la quale «a chi non crede è impossibile e nulla». Quelli che non hanno il lume soprannaturale «stimano ogni cosa esser corpo, o semplice, come lo etere, o composto, come li astri; e non cercano la divinitá fuor de l’infinito mondo e le infinite cose, ma dentro questo e in quelle». Questa è la sola differenza tra il «fedele teologo» e il «vero filosofo». E Bruno conchiude: — Credo che abbiate compreso quel che voglio dire. — Il medio evo aveva per base il soprannaturale e l’estramondano: Bruno lo ammette come «fedele teologo»; ma, come «vero filosofo», cerca la divinitá non fuori del mondo, ma nel mondo. È in fondo la piú radicale negazione dell’ascetismo e del medio evo.
Lasciando da parte la contemplazione del primo principio, rimangono due sostanze: la forma che fa e la materia di cui si fa, i due principi costitutivi delle cose.
La forma nella sua assolutezza è l’«anima del mondo», la cui «intima, piú reale e propria facoltá e parte potenziale» è l’«intelletto universale». Come il nostro intelletto produce le specie razionali, cosí l’intelletto o l’anima del mondo produce le specie naturali, «empie il tutto, illumina l’universo», come disse il poeta: «... totamque infusa per artus, Mens agitai molem et toto se corpore miscet». Questo intelletto, detto da’ platonici «fabro del mondo» e da Bruno «artefice interno», «infondendo e porgendo qualche cosa del suo alla materia,... produce il tutto». Esso è la forma universale e sostanziale insita nella materia, perché non opera circa la materia e fuor di quella ma figura la materia da dentro, «come da dentro del seme o radice» forma «il stipe, da dentro il stipe caccia i rami, da dentro i rami le formate brance, da dentro queste ispiega le gemme, da dentro forma, figura e intesse, come di nervi, le fronde, gli fiori, gli frutti». La natura opra dal centro, per dir cosí, del suo soggetto o materia. Sicché la forma, se, come causa efficiente, è estrinseca, perché «non è parte delle cose produtte»; «quanto a l’atto della sua operazione», è intrinseca alla materia, perché opera nel seno di quella. È causa, cioè, fuori delle cose; ed è insieme principio, cioè insito nelle cose. Non ci è creazione: ci è generazione, o, come dice Bruno, «esplicazione».
La forma è in tutte le cose, e perciò tutte le cose hanno anima. Vivere è avere una forma, avere anima. Tutte le cose sono viventi. «Se la vita si trova in tutte le cose, l’anima» è «forma di tutte le cose»: presiede alla materia, «signoreggia nelli compositi, effettua la composizione e consistenzia de le parti». Perciò essa è immortale e una, non meno che la materia. Ma, «secondo la diversitá delle disposizioni della materia e secondo la facultá de’ principi materiali attivi e passivi, viene a produr diverse figurazioni». Sono queste forme esteriori che solo si cangiano e annullano; «perché non sono cose, ma de le cose; non sono sustanze, ma de le sustanze sono accidenti e circostanze». Perciò dice il poeta: «Omnia mutantur, nihil interit». E Salomone dice: «Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est. Nihil sub sole novum». Vani dunque sono i terrori della morte, e piú vani i terrori dell’«avaro Caronte, onde il piú dolce de la nostra vita ne si rape ed avelena».
Machiavelli avea giá parlato di uno «spirito del mondo», immortale ed immutabile, fattore della storia secondo le sue leggi costitutive. Quello spirito della storia nella speculazione di Bruno è il «fabro del mondo», il suo «artefice interno».
Dirimpetto alla forma assoluta è la materia assoluta, cioè secondo sé, distinta dalla forma. Come la forma esclude da sé ogni concetto di materia, cosí la materia esclude da sé ogni concetto di forma. La materia è «informe», potenza passiva, «pura, nuda, senza atto, senza virtú e perfezione», «prope nihil»; è l’indifferente, lo stesso e il medesimo, il tutto e il nulla. Appunto perché è tutte le cose, non è alcuna cosa. E perché non è alcuna cosa, non è corpo; «nullas habet dimensiones», è indivisibile; soggetto di cose corporee e incorporee. «Se avesse certe dimensioni, certo essere, certa figura, certa proprietá, certa differenzia, non sarebbe» assoluta.
Ma forma e materia nella loro assolutezza come aventi vita propria, estrinseca l’una all’altra, sono non distinzioni reali, ma vocali e nominali; sono distinzioni logiche o intellettuali, perché «l’intelletto divide quello che in natura è indiviso», com’è vizio di Aristotele e degli scolastici, che popolarono il mondo di entitá logiche, quasi fossero sussistenze reali. Bruno si beffa in molte occasioni di questi filosofi, che moltiplicarono gli enti immaginando fino la «socrateitá» come essenza di Socrate, la «ligneitá» come essenza del legno. Questa distinzione tra gli enti logici e gli enti reali è giá un gran progresso. Non che le distinzioni logiche sieno senza importanza, anzi esse sono una serie corrispondente alla serie delle cose, sono le generalitá della natura: il torto è di considerarle cose viventi e reali, e credere, per esempio, che forma e materia sieno due sostanze distinte, appunto perché possiamo e dobbiamo concepirle distinte.
In natura o nella realtá forma e materia sono una sola sostanza. L’una implica l’altra: porre l’una è porre l’altra. La forma non può sussistere se non aderente alla materia, una forma che stia da sé è una astrazione logica. Parimente la materia vuota e informe è un’astrazione: essa è come una «pregnante che ha giá in sé il germe vivo». Non ci è forma che non abbia in sé «un che materiale», e non ci è materia che non abbia in sé il suo principio formale e divino. Bruno dice: «Lo ente, logicamente diviso in quel che è e può essere, fisicamente è indiviso, indistinto e uno». Perciò la potenza coincide coll’atto, la materia con la forma. Giove, «la essenzia per cui tutto quel eh’è ha l’essere», è «intimamente» in tutto; onde «s’inferisce che tutte le cose sono in ciascuna cosa; e... tutto è uno».
La materia non è dunque nulla, «prope nihil», come vuole Aristotele; anzi ha in sé tutte le forme, e le produce dal suo seno per opera della natura, efficiente o artefice «interno e non esterno, come aviene ne le cose artificiali». Se il principio formale fosse esterno, si potrebbe dire ch’ella «non abbia in sé forma e atto alcuno»; ma le ha tutte, perché tutte le caccia «dal suo seno». Perciò la materia non è «quello in cui le cose si fanno», ma quello «di cui ogni specie naturale si produce». Ciò che, oltre i pitagorici, Anassagora e Democrito, comprese anche Mosé, quando disse: «‘Produca la terra li suoi animali’,... quasi dicesse: ‘Producale la materia’». Adunque le «forme» ed «entelechie» di Aristotele e le «fantastiche idee di Platone», i «sigilli ideali separati da la materia... son peggio che mostri», sono «chimere e vane fantasie». La materia è fonte dell’attualitá; è non solo in potenza, ma in atto; è sempre la medesima e immutabile, in eterno stato; e non è quella che si muta, ma quella intorno alla quale e nella quale è la mutazione. Ciò che si altera è il composto, non la materia. Si dice stoltamente che la materia appetisca la forma. Non può appetere «il fonte de le forme, che è in sé», perché nessuno appete ciò che possiede. E perciò, in caso di morte, non si dee dire che «la forma fugge... o... lascia la materia, ma piú tosto che la materia rigetta quella forma» per prenderne un’altra. Il povero Gervasio, che fa nel dialogo la parte del senso comune e volgare, vedendo a terra non solo le opinioni aristoteliche di Polinnio, ma tante altre cose, esce in questa esclamazione: — «Or ecco a terra non solamente gli castelli di Polinnio, ma ancora d’altri che di Polinnio!».—
Adunque, se gl’individui sono innumerabili, ogni cosa è uno, e il conoscere questa unitá è lo scopo e termine di tutte le filosofie e contemplazioni naturali, montando non al sommo principio, escluso dalla speculazione, ma alla somma monade o atomo o unitá, anima del mondo, atto di tutto, potenza di tutto, tutta in tutto.
Questa sostanza unica è «l’universo, uno, infinito, inmobile». «Non è materia, perché non è figurato né figurabile;... non è forma, perché non informa né figura» sostanza particolare, «atteso che è tutto, è massimo, è uno, è universo... È talmente forma che non è forma, è talmente materia che non è materia, è talmente anima che non è anima; perché è il tutto indifferentemente, e però è uno: l’universo è uno». In lui tutto è centro: il centro è dappertutto, e la circonferenza è in nessuna parte; ed anche la circonferenza è dappertutto, e in nessuna parte il centro. Non c’é vacuo, tutto è pieno: quello in cui vi può centro. Non c’è vacuo, tutto è pieno: quello in cui vi può essere corpo, e che può contenere qualche cosa, e nel cui seno sono gli atomi. Perciò l’universo è di dimensione infinita e i mondi sono innumerabili. La causa finale del mondo è la perfezione, e agl’innumerabili gradi di perfezione rispondono i mondi innumerabili: animali grandi, co’ loro organi e il loro sviluppo, de’ quali uno è la terra. Per la continenza di questi innumerabili si richiede uno spazio infinito, l’eterea regione, dove si muovono i mondi, perciò non affissi e inchiodati. Vano è cercare il loro motore esterno, perché tutti si muovono dal principio interno, che è la propria anima.
Il punto di partenza è una reazione visibile contro il soprannaturale e l’estramondano. Il mondo, popolato di universali nel medio evo, è negato da Bruno in nome della natura. Dio stesso, dice Bruno, se non è natura, è natura della natura; se non è l’anima del mondo, è l’anima dell’anima del mondo. E in questo caso è materia di fede, non è parte della cognizione. La base della sua dottrina è perciò l’intrinsechezza del principio formale o divino nella natura. Ciascuno ha Dio dentro di sé. Il vero e il buono luce dentro di noi non per lume soprannaturale, ma per lume naturale. Il naturalismo reagiva contro il soprannaturale.
Quelli che hanno lume soprannaturale, come i profeti, cioè a dire che ricevono il lume dal di fuori, egli li chiama «asini» o «ignoranti», de’ quali fa un ironico panegirico nell’Asino cillenico; e tra questi e quelli che hanno il lume naturale e vedono per virtú propria, è la stessa differenza che è «tra l’asino che porta i sacramenti e la cosa sacra». Quelli sono vasi e strumenti; questi principali artefici ed efficienti: quelli hanno piú dignitá, perché hanno la divinitá; questi sono essi piú degni, e sono divini. L’asinitá è la condizione della fede: chi crede non ha bisogno di sapere; e l’asinitá conduce alla vita eterna.
Forzatevi, forzatevi dunque ad esser asini, o voi che siete uomini!...— grida Bruno con umore: — [cosí] divoti e pazienti, [sarete], contubernali a l’angeliche squadre... E voi, che siete giá asini,... adattatevi a proceder... da bene in meglio, afinché perveniate... a quella dignitá la quale non per scienze ed opre,... ma per fede s’acquista. Se... tali sarete..., vi trovarete scritti nel libro de la vita, impetrarete la grazia in questa militante, ed otterrete la gloria in quella trionfante ecclesia, nella quale vive e regna Dio per tutti secoli de’ secoli.
Questa tirata umoristica finisce con un «molto pio» sonetto in lode degli asini, il cui concetto è che «il gran Signor li vuol far trionfanti». Né solo è l’asino trionfante, ma l’ozio, perché l’eterna felicita s’acquista per «fede», non per «scienze» e non per «opre». Anche dell’ozio hai un panegirico ironico, e per saggio diamo il seguente sillogismo:
Li dèi son dèi perché son felicissimi; li felici son felici perché son senza sollecitudine e fatica; fatica e sollecitudine non han color che non si muovono ed alterano; questi son massime quei c’han seco l’ocio: dunque gli dèi son dèi perché han seco l’ocio.
Sillogismo pieno di senso nella sua frivola apparenza. Momo, il censore divino, ne resta intrigato, e dice che, «per aver studiato logica in Aristotele, non aveva imparato di rispondere agli argumenti in quarta figura». L’ozio fa naturalmente l’elogio dell’etá dell’oro, la sua etá, il suo regno, e cita i bei versi del Tasso:
... legge aurea e felice, che Natura scolpi: «S’ei piace, ei lice». |
E finisce con questa esortazione:
Lasciate l’ombre, ed abbracciate il vero, non cangiate il presente col futuro. Voi siete il veltro che nel rio trabocca, mentre l’ombra desia di quel ch’ha in bocca. Aviso non fu mai di saggio e scaltro, perder un ben per acquistarne un altro. A che cercate si lungi diviso, se in voi stessi trovate il paradiso? |
L’ozio e l’ignoranza sono i caratteri della vita ascetica e monacale, della quale Bruno aveva avuto esperienza:
[La libertade] — fa egli dire a Giove, — quando verrá ad essere ociosa, sará frustratoria e vana, come indarno è rocchio che non vede, e mano che non apprende... Ne l’etá... dell’oro per l’ocio gli uomini non erano piú virtuosi che sin al presente le bestie son virtuose, e forse erano piú stupidi che molte di queste.
Bruno rigetta quella vita oziosa, che fu detta «aurea» e ch’egli chiama «scempia», fondata sulla passivitá dell’intelletto e della volontá, e non può parlarne senz’aria di beffa. Il soprannaturale è incalzato ne’ suoi principi e nelle sue conseguenze.
Secondo la morale di Bruno, il lume naturale viene destato nell’anima dall’amore del divino o dal principio formale aderente alla materia, e per il quale la materia è bella. Amare la materia in quanto materia è cosa bestiale e volgare, e Bruno se la prende col Petrarca e i petrarchisti, lodatori di donne per ozio e per pompa d’ingegno, a quel modo che altri «han parlato delle lodi della mosca, del scarafone, de l’asino, de Sileno, de Priapo, scimie de quali son coloro c’ han poetato a’ nostri tempi — dic’egli — delle lodi degli orinali, de la piva, della fava, del Ietto, delle bugie, del disonore, del forno, del martello, della carestia, de la peste». Obbietto dell’amore eroico è il divino o il formale: la bellezza divina «prima si comunica all’anime, e... per quelle... si comunica alli corpi; onde è che l’affetto ben formato ama... la corporal bellezza, per quel che è indice della bellezza del spirito. Anzi quello che n’ innamora del corpo è una certa spiritualitá che veggiamo in esso, la qual si chiama ‘ bellezza’; la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli determinati colori o forme, ma in certa armonia e consonanza de membri e colori». L’amore sveglia nell’anima il lume naturale o la visione intellettiva, la luce intellettuale, e la tiene in istato di contemplazione o di astrazione, si che pare insana e furiosa, come posseduta dallo spirito divino. Questo è non il volgare, ma l’eroico furore, per il quale l’anima si converte come Atteone in quel che cerca: cerca Dio e diviene Dio: e, avendo contratta in sé la divinitá, non è necessario che la cerchi fuori di sé. «Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza» della visione intellettuale. Non tutti gli uomini hanno la visione intellettuale, perché non tutti hanno l’amore eroico: ne’ piú domina non la mente, che innalza a cose sublimi, ma l’immaginazione, che abbassa alle cose inferiori; e questo volgo concepisce l’amore a sua immagine:
fanciullo il credi, perché poco intendi; perché ratto ti cangi ei par fugace; per esser orbo tu, lo chiami cieco. |
L’amore eroico è proprio delle nature superiori, dette «insane», non perché non sanno, ma perché «soprasanno»: sanno piú dell’ordinario e tendono piú alto, per aver piú intelletto.
La visione o contemplazione divina non è però oziosa ed estrinseca, come ne’ mistici e ascetici: Dio è in noi, e possedere Dio è possedere noi stessi. E non ci viene dal di fuori, ma ci è data dalla forza dell’intelletto e della volontá, che sono tra loro in reciprocanza d’azione: l’intelletto, che, suscitato dall’amore, acquista occhio e contempla; e la volontá, che, ringagliardita dalla contemplazione, diviene efficace o doppiata: ciò che Bruno esprime con la formola: «io voglio volere». Dalla contemplazione esce dunque l’azione: la vita non è ignoranza e ozio, anzi è «intelletto e atto mediante l’amore» secondo la forinola dantesca rintegrata da Bruno: è intendere ed operaie. Maggiori sono le contrarietá e le necessitá della vita, e piú intensa è la volontá, perché amore è unitá e amicizia de’ contrari o degli oppositi, e nel contrasto cerca la concordia. La mente è unitá; l’immaginazione è moto, è diversitá; la facultá razionale è in mezzo, composta di tutto, in cui concorre l’uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto con lo stato, l’inferiore col superiore. Come gli dèi trasmigrano in forme basse e aliene, o per sentimento della propria nobiltá ripigliano la divina forma; cosí il furioso eroico, innalzandosi per la conceputa specie della divina beltá e bontá, con l’ale dell’intelletto e volontá intellettiva s’innalza alla divinitá, lasciando la forma di soggetto piú basso:
Da suggetto piú vii divegno un dio... Mi cangio in Dio da cosa inferiore. |
«Cangiarsi in Dio» significa levarsi dalla moltitudine all’uno, dal diverso allo stesso, dall’individuo alla vita universale, dalle forme cangianti al permanente, vedere e volere nel tutto l’uno e nell’uno il tutto. O, per uscire da questa terminologia, Dio è veritá e bontá scritta al di dentro di noi, visibile per lume naturale; e cercarla e possederla è la perfezione morale, lo scopo della vita.
È stato notato che Bruno non ti offre un sistema concorde e deciso. La filosofia è in lui ancora in istato di fermentazione. Hai i vacillamenti dell’uomo nuovo, che vive ancora nel passato e del passato. Combatte il soprannaturale, ma il suo lume naturale, la sua «mens tuens», la sua intuizione intellettiva, ne serba una confusa reminiscenza. Contempla Dio nella infinitá della natura, ma non sa strigarsi dal Dio estramondano e non sa che farsene rimasto come un antecedente inconciliato della sua speculazione. Ora quel Dio è veritá e sostanza, e noi siamo sua ombra, «Umbra profunda sumus» ; ora quel Dio è proprio la natura, o, «se non è natura, è natura della natura». Ci è in lui confuso Cartesio, Spinosa e Malebranche. Combatte la scolastica, e ne conserva in gran parte le abitudini. Odia la mistica, e talora, a sentirlo, è piú mistico di un santo padre. Rigetta l’immaginazione, e ne ha tutt’i vizi e tutte le forme. Manca l’armonia nel suo contenuto e nelle sue forme. E non è maraviglia che anche oggi i filosofi si accapiglino nella interpretazione del suo sistema.
Interessantissima è questa storia interiore dello spirito di Bruno, nelle sue distinzioni e sottigliezze e nelle oscillazioni del suo sviluppo; anzi è questa la sua vera biografia. Niente è piú drammatico che la vita interiore di un grande spirito, nella sua lotta con l’educazione, co’ maestri, con gli studi, col tempo, co’ pregiudizi, nelle sue imitazioni, fluttuazioni e resistenze. La sua grandezza è appunto in questo: di vincere in quella lotta, cioè che di mezzo a quelle fluttuazioni si stacchino con maggior forza ed evidenza le sue tendenze predilette, che gli dánno un carattere ed una fisonomia. E questa fisonomia di Bruno noi dobbiamo cercare a traverso i suoi ondeggiamenti.
Innanzi tutto, Bruno ha sviluppatissimo il sentimento religioso, cioè il sentimento dell’infinito e del divino, com’ è di ogni spirito contemplativo. Leggendolo, ti senti piú vicino a Dio. E non hai bisogno di domandarti se Dio è e cosa è. Perché lo senti in te e appresso a te, nella tua coscienza e nella natura. Dio è «piú intimo a te che non sei tu a te stesso». Tutte le religioni non sono in fondo che il divino in diverse forme. E sotto questo aspetto Bruno ti fa un’analisi assai notevole delle religioni antiche e nuove. L’amore del divino, il «furore eroico», è il carattere delle nobili nature. E questo amore ci rende atti non solo a contemplare Dio come veritá, ma ancora a realizzarlo come bontá. Ivi ha radice la scienza e la morale.
Questi concetti non sono nuovi, e di simili se ne trovano nella Scrittura e ne’ padri. Ma lo spirito n’ è nuovo. Non è solo questo: che «i cieli narrano la gloria di Dio»; ma quest’altro: che i cieli sono essi medesimi divini e si movono per virtú propria, per la loro intrinseca divinitá. È la riabilitazione della materia o della natura non piú opposta allo spirito e scomunicata, ma fatta divina, divenuta «genitura di Dio». È il finito o il concreto che apparisce all’infinito e lo realizza, gli dá l’esistenza. O, come dicesi oggi, è il Dio vivente e conoscibile che succede al Dio astratto e solitario. L’universo, eterno ed infinito, è la vita o la storia di Dio.
Questo è ciò che fu detto il «naturalismo di Bruno», o piuttosto del secolo; ed era il naturale progresso dello spirito, che usciva dalle astrattezze scolastiche, o, come dice Bruno, «dalle credenze e dalle fantasie», e cercava la sua base nel concreto e nel finito; era la prima voce della natura, che scopriva se stessa e si proclamava di essenza divina, una e medesima che la divinitá, «secondo che l’unitá è distinta nella generata e generante, o producente e prodotta». Bruno, nel suo entusiasmo per la natura divina, dice che lo spirito eroico
vede l’anfitrite, il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte raggioni che è la monade, vera essenza dell’essere de tutti, e, se non la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura, che gli è simile, che è la sua immagine: perché dalla monade, che è la che é la divinitade, procede questa monade, che è la natura, l’universo, il mondo dove [ella] si contempla e si specchia:
cioè dove s’intende ed è intelligibile.
Questa visione di Dio, privilegio dello spirito eroico, non ha nulla a fare col lume soprannaturale, con la fede o la grazia o l’estasi, o altro che dal di fuori piova nell’anima. Dio, fatto conoscibile nel mondo, diviene materia della cognizione; e l’anima effettua la sua unione con lui per un atto della sua energia, per intrinseca virtú. La visione è intellettiva, e il suo organo è la mente, dove Dio, o la veritá, si rivela, come «in propria e viva sede», a quelli che la cercano, «per forza del riformato intelletto e volontá», cioè per la scienza.
L’amore del divino, spinto sino al «furore eroico», lega Bruno co’ mistici. Il naturalismo letterario era pretto materialismo, che si sciolse nella licenza e nel cinismo, e mise capo in ozio idillico snervante, peggiore dell’ozio ascetico. Il naturalismo di Bruno era al contrario non il divino materializzato, ma la materia divinizzata. La materia in se stessa è volgare bestialitá: essa ha valore come divina. Il divino non è infuso o intrinseco, ma è insito e connaturato. Cercarlo ed effettuarlo è il degno scopo della vita. E non si rivela se non a quelli che lo cercano e lo conquistano col lavoro della mente, illuminata dall’amore eroico. Ciò distingue i vulgari da’ nobili spiriti. Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. «Molti rimirano, pochi vedono.» Bruno parla spesso con tale unzione e con tale esaltazione mistica, che ti pare un Dante o un .
Ma i mistici sono semplicemente contemplanti; dove per Bruno non è contemplazione nella quale non sia azione, e non è azione nella quale non sia contemplazione. La nuda contemplazione è ozio. Contemplare è operare. Si vede l’uomo che esce dal convento ed entra nella vita militante.
Folengo esce dal convento rinnegando Dio e sputando sul viso alla societá. In lui il secolo scettico e materialista ha la sua ultima espressione. Anche a Bruno abbonda la satira e l’ironia; anche in lui ci è un lato negativo e polemico, sviluppato con potenza e abbondanza d’immaginazione. Ma questo lato rimane assorbito nella sua speculazione. Il suo scopo è tutto positivo: è la restaurazione di Dio, e con esso del sentimento religioso e della coscienza. Ciò che Savonarola tentò con la fede e con l’entusiasmo egli tenta con la scienza. Non accetta Dio come gli è dato, né se ne rimette alla fede, perché non è un credente. Dio vuole cercarlo e trovarlo lui, con la sua attivitá intellettuale, con l’occhio della mente. E questo Dio da lui trovato, e di cui sente l’infinita presenza in se stesso e negl’infiniti mondi e in ciascun essere vivente, nel massimo e nel minimo, non rimane astratta veritá nella sua intelligenza, ma scende nella coscienza e penetra tutto l’essere: intelletto, volontá, sentimento e amore. Comincia scredente, finisce credente. Ma è un «credo» generato e formato nel suo spirito, non venutogli dal di fuori. Per questo «credo» non gli fu grave morire ancor giovane sul rogo, dicendo a’ suoi giudici le celebri parole: «Maiori forsitan cum timore sententiam in me fertis, quam ego accipiam». Sembra che il suo maggior peccato innanzi alla Chiesa sia stata la sua fede negl’infiniti mondi, come traspare da questa malvagia ironia dello Scioppio: «Sic ustulatus misere periit, renunciaturus, credo, in reliquis illis, quos finxit, mundis, quonam pacto homines blasphemi et impii a romanis tractari solent».
Insisto su questo carattere entusiastico e religioso di Bruno, o, come egli dice, «eroico», che gli dá la figura di un santo della scienza. Quante volte l’umanitá, stanca di aggirarsi nell’infinita varietá, sente il bisogno di risalire al tutto ed uno, all’assoluto, e cercarvi Dio, le si affaccia sull’ingresso del mondo moderno la statua colossale di Bruno.
Il suo supplizio passò cosí inosservato in Italia, che parecchi eruditi lo mettono in dubbio. Né le opere sue vi lasciarono alcun vestigio. Si direbbe che i carnefici insieme col corpo arsero la sua memoria. Anche in Europa il brunismo lasciò deboli tracce. Il progresso delle idee e delle dottrine era cosí violento, che il gran precursore fu avvolto e oscurato nel turbinio. Come Dante, Bruno attendeva la sua risurrezione. E quando, dopo un lungo lavoro di analisi, riappare la sintesi, Jacobi e Schelling sentirono la loro parentela col grande italiano, e riedificarono la sua statua.
In Bruno trovi la sintesi ancora inorganica della scienza moderna, con le sue piú spiccate tendenze: la libera investigazione, l’autonomia e la competenza della ragione, la visione del vero come prodotto della attivitá intellettuale, la proscrizione delle fantasie, delle credenze e delle astrazioni, un piú intimo avvicinamento alla natura o al reale. Dico «tendenze», perché nel fatto l’immaginazione e il sentimento soprabbondavano in lui, e gli tolsero quella calma armonica di contemplazione, senza la quale riesce difettiva la virtú organizzatrice, e quella pazienza di osservazione e di analisi, senza la quale le piú belle speculazioni rimangono infeconde generalitá.
Quanto alla sua sintesi, il Dio astratto ed estramondano fatto visibile e conoscibile nella infinita natura, l’unitá e medesimezza di tutti gli esseri, l’eternitá e l’infinitá dell’universo nella perenne metempsicosi delle forme, il sentimento dell’anima o della vita universale, l’infinita perfettibilitá delle forme nella loro trasformazione, la produttivitá della materia dal suo intrinseco, l’azione dinamica della natura nelle sue combinazioni, la libertá distinta dal libero arbitrio e rappresentata come la stessa effettuazione del divino o della legge, la moralitá e la glorificazione del lavoro, sono concetti che, svolti lungamente e variamente da Bruno in opere latine e italiane, appaiono punti luminosi nella speculazione moderna, e ne trovi i vestigi in Cartesio, in Spinoza, in Leibniz, e piú tardi in Schelling, in Hegel e ne’ presenti materialisti. Se dovessi con una sola forinola caratterizzare il mondo di Bruno, lo chiamerei il mondo moderno ancora in fermentazione.
- Testi in cui è citato Teofilo Folengo
- Testi in cui è citato Pietro Aretino
- Testi in cui è citato Niccolò Machiavelli
- Testi in cui è citato Aristotele
- Testi in cui è citato Bernardino Telesio
- Testi in cui è citato Francesco Bacone
- Testi in cui è citato Francesco Patrizi (filosofo)
- Testi in cui è citato Mario Nizolio
- Testi in cui è citato Platone
- Testi in cui è citato Gottfried Wilhelm von Leibniz
- Testi in cui è citato Ludovico Ariosto
- Testi in cui è citato Giordano Bruno
- Testi in cui è citato Luigi Tansillo
- Testi in cui è citato Nicola Cusano
- Testi in cui è citato Pitagora
- Testi in cui è citato Torquato Tasso
- Testi in cui è citato Giovanni Boccaccio
- Testi in cui è citato Giovan Battista Marino
- Testi in cui è citato Claudio Achillini
- Testi in cui è citato il testo Cabala del cavallo Pegaseo con l'aggiunta dell'Asino Cillenico
- Testi in cui è citato il testo Spaccio de la bestia trionfante
- Testi in cui è citato Luciano di Samosata
- Testi in cui è citato il testo Vita nuova
- Testi in cui è citato Dante Alighieri
- Testi in cui è citato Raimondo Lullo
- Testi in cui è citato Niccolò Copernico
- Testi in cui è citato il testo Cena de le ceneri
- Testi in cui è citato il testo De l'infinito, universo e mondi
- Testi in cui è citato Demostene
- Testi in cui è citato Marco Tullio Cicerone
- Testi in cui è citato Francesco Petrarca
- Testi in cui è citato Ambrogio Calepio
- Testi in cui è citato Publio Virgilio Marone
- Testi in cui è citato Democrito
- Testi in cui è citato Socrate
- Testi in cui è citato Anassagora
- Testi in cui è citato Cartesio
- Testi in cui è citato Baruch Spinoza
- Testi in cui è citato Nicolas Malebranche
- Testi in cui è citato Bonaventura da Bagnoregio
- Testi in cui è citato Friedrich Schelling
- Testi SAL 75%