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Adone/Canto XVIII

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Canto XVIII

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Canto XVII Canto XIX
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ALLEGORIA

Nella congiura di Marte e di Diana contro Adone si dá a conoscere che tanto l’animo bellicoso, quanto il casto, sogliono odiare il brutto piacere; l’uno come occupato nelle asprezze della milizia, in tutto contraria alle morbidezze dell’ozio, per sua generositá lo sdegna; l’altro per propria virtú è inclinato ad aborrire tutte quelle licenze, che trappassano i confini della modestia. Nella morte d’Adone, ucciso dal Cinghiale, si fa intendere che quella istessa sensualitá brutina, di cui l’uomo séguita la traccia, è cagione della sua perdizione. Nel pianto di Venere sopra il morto giovane si figura che un diletto lascivo amato con ismoderamento, alla fine mancando, non lascia se non dolore. Nella scusa che fa il Porco con la Dea, si dinota la forza della bellezza, che può alle volte commovere gli animi eziandio ferini e bestiali. Nel tradimento d’Aurilla, che pentita finalmente si uccide, ed è da Bacco trasformata in Aura, si disegnano gli effetti dell’ira, dell’avarizia,

della ebrietá, e della leggerezza. [p. 444 modifica]

ARGOMENTO

Spinta da Falsirena Aurilla infida,
dá del rivai di Marte a Marte aviso.

Poi che dal fier Cinghiale il vede ucciso,
il gran dolor fa che se stessa uccida.

1.Son due fiaccole ardenti Amore e Sdegno,
che ’nfiamman l’alme di penosa arsura.
Stanno nel core, e turbano l’ingegno,
né da lor la ragion vive secura.
Son d’egual forza, ed emuli nel regno,
ma contrari d’effetto e di natura.
L’uno è dolce trastullo, e dolce affetto:
l’altro produce solo odio e dispetto.

2.Quando talor questi aversari fieri
pugnan tra lor, l’uom ne languisce e geme,
e ’l cor, ch’è picciol campo a duo Guerrieri,
e seggio angusto a duo Signori insieme,
da conflitto mortai d’aspri pensieri
combattuto del par, sospira e freme.
Quinci fervida schiuma, e quindi intanto
versa doglioso ed angoscioso pianto.

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3.L’anima afflitta in sí crudel battaglia,
mentre a prova con quel questo contende,
sí come libra, le cui lance agguaglia
doppio peso conforme, in dubbio pende;
ed al gemino spron che la travaglia,
or di desire, or di furor s’accende.
Quando di lá, quando di qua la gira
alternamente o l’appetito, o l’ira.

4.Ne la guerra però, che quella e questa
passion discordante a gara fanno,
vincitor le piú volte alfin ne resta
e ne trionfa il lusinghier Tiranno,
che ’l gran competitor preme e calpesta,
onde la rabbia poi diventa affanno,
e lá dove pur dianzi era Reina,
serve di cote, ov’ei gli strali affina.

5.Sovente allor che di quant’egli brama
il fin di conseguir non gli è permesso
da l’amata beltá, che noi riama,
suol congiurar col suo nemico istesso:
Amor lo Sdegno in suo soccorso chiama,
ch’a la vendetta in un s’arma con esso.
Quel disprezzo lo stimula e l’irrita
a congiungersi seco, e dargli aita.

6.Ma s’avien che da l’Ira a terra spinto
Amor caggia dal trono ov’egli siede,
poi che pur una volta ella l’ha vinto,
e debellato ed abbattuto il vede,
qual servo il tien sott’aspro giogo avinto,
né sorger né regnar piú gli concede;
anzi lo sforza con superbo impero
a disamar quel ch’egli amò primiero.

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7.D r queste due facelle il core accesa
Falsirena la falsa Incantatrice,
tutta del bell’Adone ai danni intesa
sembra stolta Baccante, o Furia ultrice.
Il modo sol da vendicar l’offesa
pensa, e come dar morte a l’infelice;
e secondo il furor che la consiglia,
or questo, or quel parer lascia e ripiglia.

8.Non cotanti color’ cangia la piuma
che ’ngemma a la Colomba il collo intorno,
quando mostra a colui che ’l mondo alluma
il suo bel vezzo in varie guise adorno,
quanti la passion che la consuma
va mutando pensier’ la notte e ’l giorno.
Alfine i dubbi, onde la mente involve,
in un partito perfido risolve.

9.— S’Amor — seco dicea — non può giovarmi,
se lusinga, promessa, oro non giova,
se de’ tremendi miei magici carmi
vana riesce ogn’infallibil prova,
se non vaglion le forze, i ferri e Tarmi,
s’altro rimedio un tanto mal non trova,
a far almeno il mio desir contento
varrá forse l’inganno, e ’l tradimento. —

10.Aurilla era una Ninfa, ancella antica
de la Diva di Cipro e di Cithera,
bella, ma poco saggia, e men pudica,
avara alquanto, e garrula e leggiera.
Era costei di Bacco amata amica
piú ch’altra allor de l’amorosa schiera.
Conosciuta costei mobile e vaga,
vòlse il suo mezo adoperar la Maga.

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11.Còlsela quando incontro a Citherea
d’ale un lieve sdegnetto era ancor calda,
e ’n tempo a punto ch’asciugata avea
piú d’una tazza del licor che scalda.
Menovvi un mostro suo la Fata rea,
contro cui non restò fede mai salda.
Cosí la vinse, e non trovò ritegno
ad esseguire il suo crudel disegno.

12.L’Interesse vi venne, e con l’uncino
trasse l’avida Ninfa a la sua rete.
O fame infame del metallo fino,
o sacra troppo ed essecrabil sete,
che non mai satollarti hai per destino,
ch’ognor quanto piú bevi hai men quiete,
a che non sforzi tu gli umani petti,
signoreggiati da’ tiranni affetti?

13.Carca d’oro la mano, e d’ira il seno,
d’ira, che chiusa piú, vie piú sfavilla,
cieca dal fumo di quel rio veleno
che da’ soavi pampini distilla,
di quanto far bisogna instrutta a pieno
vassene dunque la malvagia Aurilla,
e dritto il passo move a quella parte,
lá dove sa che ritrovar può Marte.

14.Ritrovollo solingo, e come quella
che di prudenza a fren mai non soggiacque,
gli fe’ con lunga e lubrica favella
cose udir, che d’udir forte gli spiacque.
Narrò gli amori de la Dea piú bella,
e de’ progressi lor nulla gli tacque.
L’etá del Vago e la beltá dipinse,
e ’n piú discorsi il suo parlar distinse.

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15.Scioglie la lingua baldanzosa e pronta,
e non senza alcun fregio il ver gli espone.
Gli afferma, che per fargli oltraggio ed onta
data s’è in preda a un rustico Garzone.
E l’istoria e la beffa indi gli conta
quando nascose e fe’ fuggire Adone:
che per tema appartato alquanto il tenne,
poi richiamato súbito rivenne.

16.Dicegli, che di lui seco soletta
sempre si ride, e scorni aggiunge a scorni.
Gli soggiunge ancor poi, che la diletta
partita è dal suo ben per qualche giorni.
E gli conchiude alfin, che la vendetta
molto facil gli fia pria ch’ella torni.
E gl’insegna, e gli mostra, e gli divisa
il tempo, il loco commodo, e la guisa.

17.Nel fier Signor de le sanguigne risse
non era in tutto ancor spento il sospetto,
e da che l’infernal Serpe il trafisse,
sempre un freddo velen celò nel petto;
onde quando colei cosí gli disse
l’agghiacciò lo stupor, l’arse il dispetto.
Tacque, e ’l Ciel minacciando e gli elementi
torse gonfi di rabbia i lumi ardenti.

18.Qual robusto talor Tauro si mira,
superbo Duca del cornuto armento,
che col fiero rivale entrato in ira
schiuma sangue, ala foco, e sbuffa vento,
dagli sguardi feroci il furor spira,
ne’ tremendi muggiti ha lo spavento;
ne la bocca e negli occhi orror raddoppia
fólgore che rosseggia, e tuon che scoppia:

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19.tal da gelosi stimuli ferito
tra sé fremendo il Capitano eterno,
poi c’ha l’annunzio inaspettato udito,
par Furia agli atti, ed ha nel cor l’Inferno.
Fuor de l’albergo e di se stesso uscito,
il ferro appresta a vendicar lo scherno,
e senza indugio, ebro d’orgoglio insano,
il Giovane sbranar vuol di sua mano.

20.Avea l’illustrator degli Hemisperi
ne l’Atlantico mar la face estinta.
L’oscura terra avea di vapor neri
la faccia al chiaro Ciel macchiata e tinta.
Reggeva il Sonno gli umidi destrieri
de la Notte di nebbie e d’ombre cinta,
e con placido corso e taciturno
volgea le stelle al gran camin notturno.

21.Nel proibito altrui bosco selvaggio
vassene Marte a lo sparir del Sole,
ch’a lo spuntar del mattutino raggio
sa ben, ch’Adon tornar dentro vi vòle.
Quivi appoggiato ad un troncon di faggio
de l’ore pigre si lamenta e dole.
Quivi s’asside ad aspettar la luce
degli esserciti orrendi il sommo Duce.

22.Pensando ai torti suoi si gravi e tanti,
geme in un mormorio flebile e fioco,
si distempra in sospir, si stilla in pianti,
e giace in ghiaccio, e si disfoga in foco.
Ha le labra di fiel verdi e spumanti,
né trova al gran martlr requie, né loco;
e sí forte è l’affanno, e sí possente,
che le corde del cor spezzar si sente.

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23.Mentre che con l’amor l’ira combatte,
il dolor s’interpone, e dice alfine:
— Dunque di quelle, ch’io stimava intatte,
bellezze incomparabili e divine
posseditrici indegne (oimè) son fatte
roze braccia selvagge e contadine?
Quel ch’io bramar a pena osai lontano,
preda divien d’un Cacciator villano?

24.O vie piú de le Passere fugaci,
che tranno il carro tuo, vaga e leggiera,
quanto ne’ vezzi tuoi finti e fallaci
stolto è chi crede, e misero chi spera!
Mi promisero questo i detti e i baci
de la bocca bugiarda e lusinghiera,
quand’io credulo a quel che mi giurasti,
lasciai cadérti a piè tutti i miei fasti?

25.Chi mai tanta beltá vide in suggetto
sí mobile, incostante, e disleale?
e in amante sí fido e sí perfetto
tanta disaventura, e tanto male?
Or qual sará dentro l’Inferno Aletto,
se la figlia di Giove in Cielo è tale?
Che faran l’altre Donne infami e ree,
se scelerate son ristesse Dee?

26.Perfido sesso, ahi com’inganna e mente
quella beltá, ch’a torto il Ciel ti diede!
Volubile qual fronda è la tua mente,
instabile qual onda è la tua fede.
Io per me spererei piú facilmente
ch’una sola fedele a chi le crede
fra tante false, ingrate, e mentitrici,
tra gli augelli trovar mille Fenici!

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27.Ma dov’è Marte il tuo furore? e dove
l’alto valor che signoreggia i ferri?
Quegl’innocenti e miseri, ch’a Giove
gridan mercé, senza pietate atterri.
Contro chi meno il meritò si move,
talor fuor di ragion l’ira disserri.
Distrugger squadre armate hai pur trastullo,
e t’offende e schernisce un vii fanciullo!

28.Sei tu colui che i popoli e gl’imperi
mieter da la radice hai spesso in uso?
per cui la Parca innaspatrice interi
vota talvolta i secoli dal fuso?
Non se’ tu quei c’hai degli Scithi alteri,
del Gelon, del Biston l’orgoglio ottuso?
dietro al cui carro invitto umil ne viene
il Terror col Furor stretto in catene?

29.Ed or l’armi e i trofei basso e vulgare
concorrente mortai di man ti toglie,
e soffri pur, che quelle membra care
sien delizie communi a l’altrui voglie!
Che ti giovano omai tante e si chiare
prede, palme, corone, insegne e spoglie,
s’un pargoletto ogni tua gloria uccide,
e de’ trionfi tuoi trionfa e ride?

30.Se fusse tuo rivai quel Re superno
che dal Ciel move il tutto, e ’l tutto potè;
se fusse emulo tuo quel c’ha in governo
Tacque, e col gran tridente il mondo scote;
se fusse quel, cli’ad Hecate d’Averno
donò lo scettro ruginoso in dote;
potresti almen di quest’oltraggio audace
darti con piú ragion conforto e pace.

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31.Quella destra immortale è forse stanca,
per cui sol treman Rhodope e Pangeo?
È forse rotta quella spada franca,
che giá percosse Encelado e Tifeo?
No no, l’usata forza in te non manca,
péra dunque il donzel perfido e reo;
e ben che sia di divin ferro indegno,
fa’ che col sangue suo spenga il tuo sdegno. —

32.Cosí doleasi il Cavalier del Cielo,
trafitto il cor dal dispietato aviso,
e vie piú fredde del notturno gelo
eran le brine onde bagnava il viso;
quando colei ch’è reverita in Deio
affaccioglisi innanzi a l’improviso,
e degli uditi gemiti feroci
ruppe nel mezo le crucciose voci.

33.— Che vai — gli disse —, il tuo tormento ignoto
a quest’ombre narrando orride e nere,
senz’alcun prò del bosco ermo e remoto
assordar l’aure, e risvegliar le fere?
Altri gioisce, e tu qui bravi a vóto,
altri i riposi tuoi stassi a godere,
e tu minacci, e col tuo van lamento
tagli gran colpi a l’aria, e sfidi il vento.

34.Sembri, schermendo la sprezzata spada,
Tigre che dietro al Cacciator s’affretta,
ma trattiene il suo corso a meza strada
su ’l bel cristal, ch’a vaneggiar l’alletta,
e mentre sta pur neghittosa a bada,
perde la prole insieme, e la vendetta,
quando volar devrebbe, e con gli artigli
toglier la vita a chi le tolse i figli.

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35.Tu però Dio sí prode e sí gagliardo
non dèi d’un sangue vii tinger le mani.
Potresti (e chi noi sa?) sol con un guardo
subbissar quel fanciul, disfarlo in brani.
Per quella poi, che d’amoroso dardo
ti punse il core, i tuoi dolor son vani.
Sai che fermezza in lei può durar poco,
sendo figlia del mar, moglie del foco.

36.A consiglio miglior volgerai dunque
(s’a mio senno farai) l’animo offeso,
lasciando a me per questo, e per qualunque
misfatto suo di castigarla il peso;
ch’io non ho meno incontr’a lei, quantunque
per altro affare, il cor di sdegno acceso;
né di te meno ad esserle nemica
m’obliga giustamente ingiuria antica.

37.Questa (obbrobrio del Ciel) Putta celeste
quando comparve al suo lascivo amante
sotto la casta e virginal mia veste,
sotto le forme mie pudiche e sante,
per ricoprir con apparenze oneste
la sfacciatagin sua, gli venne avante,
e con sue frodi in altro manto chiuse
la piieril simplicitá deluse.

38.Sempre poi col suo drudo in biasmo mio
vibrò la lingua temeraria e sciocca,
e con parlar ingiurioso e rio
spesso in cose d’onor pose la bocca;
e ben che in terra e ’n Ciel nota son io,
un sí maligno ardir troppo mi tocca.
Ritrovar mai non seppe altro pretesto
per da me desviarlo, eccetto questo.

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39.Ella d’Adon la signoria m’ha tolta,
che pronto era a seguir gli studi miei,
ma con lunghi sermon piú d’una volta
da quel camin lo distornò costei.
Or per punir questa insolenza stolta,
io vo’ nocendo a lui nocere a lei,
che quantunque immortai, l’ama si forte,
che so ch’ella morrá ne la sua morte.

40.Toccar quel suo malnato osò le crude
armi pericolose, armi interdette,
quelle, ov’ancora il mio furor si chiude,
dico di Meleagro arco e saette.
Queste (il giur’io per l’infernal palude)
da se stesse faran nostre vendette,
perché son tali che giá mai non sanno
portar a chi le porta altro che danno.

41.Oltre di ciò, quando a cacciar dimane
riede, secondo l’uso, il folle Arciero,
d’irritar contro lui fuor de le tane
un mio Cinghiai talmente io fo pensiero,
che d’Attheone alcun rabbioso Cane
nel suo Signor non si mostrò si fiero,
né fu mai fiero e formidabil tanto
l’altro, al cui nome ancor trema Erimanto.

42.Cosí di Thracia al Paladin tremendo
favellò Cinthia, ond’ei l’armi depose,
e piú distinto poi l’ordin tessendo
de le disposte e concertate cose,
seco insieme in aguato ivi attendendo
fin che venisse il bel Garzon, s’ascose,
per dar effetto a la crudel congiura
tra i vietati confin di quelle mura.

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43.Giá del difeso e riservato Parco,
poi che Yener partissi, Adone ardito
non sol piú volte il periglioso varco
tentato avea, ma n’era salvo uscito.
Né mica per timor di spiedo o d’arco
il lasciare que’ mostri irne impunito,
ma perch’a la beltá del Giovinetto
ed a la Dea del loco ebber rispetto.

44.Quinci malcauto e temerario accrebbe
tant’orgoglio nel cor, tanta fidanza,
che presumendo poi piú che non debbe,
di rientrarvi ognor prese baldanza;
onde il crudo destin, ch’allor ben ebbe
d’esseguir l’ira sua campo a bastanza,
trassei, mentre Ciprigna era lontana,
tra l’insidie di Marte e di Diana.

45.Sorgea l’Aurora, ma dolente e mesta,
e con pallida faccia e nubilosa
si dimostrava ben nunzia funesta
quel dí crudel d’alcuna infausta cosa.
Portava de la Notte il velo in testa,
la ghirlanda sfrondata e sanguinosa,
onde il Sol, che ben chiaro ancor non era,
pur allor si levava, e parea sera.

46.Quand’ei, ch’una gran caccia il giorno dianzi
dentro il loco medesmo avea bandita,
piú d’una truppa a far ch’oltre s’avanzi
di Cacciatori e Cacciatrici invita.
Clizio il gentil Pastor si tragge innanzi,
e gli promette ogni fedele aita.
La bella Citherea pria che partisse
-— Ti raccomando il bell’Adon — gli disse.

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47.Tosto i piú fieri e generosi Cani,
di cui gran moltitudine adunossi,
per densi boschi e per aperti piani
fur da’ maestri lor guidati e mossi.
Segusi e Veltri, e co’ feroci Alani
vennervi i formidabili Molossi,
figli d’Angliche madri, e Còrse, e Sarde,
ed altre varie ancor razze bastarde.

48.Armasi Adon da folle audacia spinto,
e gli arnesi malvagi appresta e prende.
Giá de l’arco essecrando il collo ha cinto,
giá l’infausta faretra al lato appende.
Il curvo corno ha dopo T tergo avinto,
in cui lo smalto in su l’avorio splende.
Ma l’avorio però candido e bianco
cede a la bella mano, ed al bel fianco.

49.Oltre l’arco e gli strali, ha ne la destra
grossa mazza, pesante e noderuta,
che fu rozo troncon d’elee silvestra,
e ferrata è da capo a punta acuta.
Con la manca conduce ed ammaestra
un suo Levrier, che ’n ogni affar l’aiuta;
né movon mai discompagnati il piede,
con bel cambio tra lor d’amore e fede.

50.Quest’era il caro, il favorito, e nato
d’una Cagna Spartana era, e d’un Pardo.
Non fu giá mai sí lieve augello alato,
non sí rapido mai Parthico dardo,
non sí veloce Zefiro, ch’a lato
al suo presto volar non fusse tardo.
Non corse unqua sí snella o Damma o Tigre,
ch’appo quel Can non rassembrasser pigre.

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51.Spirto vivace avea, corpo ben fatto,
e la fuga sí pronta e sí leggiera,
che spesso il Daino e ’l Cervo agile e ratto
fermò col dente e giunse a la carriera.
Avea testa di Serpe e piè di Gatto,
schiena di Lupo, e pelo di Pantera.
Saetta egli avea nome, ed era al corso
Saetta sí, ma piú Saetta al morso.

52.Era al collo il collar conforme a punto,
ricco monil, che l’amorosa Dea
d’un bel serico brun tutto trapunto
di propria man con sottil ago avea.
E v’avea, non pensando, in forte punto
istoria espressa dolorosa e rea.
Di Cefalo la caccia empia e funesta
(tragico augurio) è in quel lavor contesta.

53.Cosí guernito, con secura faccia
colá sen gío, dove Fortuna il trasse,
ne la famosa e memorabil caccia
il bell’Adone a compartir le lasse.
Giá ’l lungo odor de la ferina traccia
seguono i bracchi con le teste basse.
Giá vanno i veltri a coppia a coppia intorno,
ma non si sente ancor voce, né corno.

54.Adon de la foresta il sito prese,
e ’l tumulto in silenzio alquanto tenne,
poi d’ognintorno ben legate e tese
lunghe linee di corda a tirar venne.
Gran numero per tutto indi v’appese
di colorite e tremolanti penne,
perché desser talor mosse dal vento
a le bestie selvagge ombra e spavento.

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55.Ciò fatto, del cacciar l’ordine dassi,
e la guardia s’assegna ad ogni strada,
acciò che quando a dar l’assalto avrassi
senza bisogno altrove altri non vada.
Ciascun guarda il suo posto, e tutti i passi
son omai chiusi, ove ’l camin si guada.
Intenti e presti a custodir gli aguati
stan su l’aviso i Cacciatori armati.

56.Qui comincia a levarsi il romor grande,
di latrati e di gridi il Ciel risona.
Rimbombo tal moltiplica e si spande,
che la selva stordisce, e l’aria introna,
e fa per entro, a fronte, e da le bande
degli arbori tremar l’ampia corona,
ed Eco risentir, che ’n quelle tane
raro o mai non rispose a voci umane.

57.Ecco vulgo smacchiar fuor de le cove
di mansuete fere ed innocenti.
La Lepre vile in dubbio il corso move,
né ’l timido Coniglio i passi ha lenti.
Sparsi van quinci e quindi, e non san dove
de’ vecchi Cervi i fuggitivi armenti.
Sola la Volpe astuta il piè sospende,
ch’ad ingannar l’ingannatore intende.

58.Ma ’l tropp’ardito Adon, che d’aver crede
altrettanto valor, quant’ha bellezza,
di fugace animai minute prede,
quasi indegne di lui, disdegna e sprezza.
Fieramente leggiadro andar si vede,
ed a prove aspirar d’alta prodezza.
Bella ferocitá nel suo bel viso
aspreggiato ha d’orgoglio il dolce riso.

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50.Tal di Grecia il Garzon Thessaglia scorse
del dí cacciando alleggerir la noia,
e recar poi di Tigri uccise e d’Orse
al maestro biforme orride cuoia.
Tal giá le selve sue trascorrer forse
vide Cartago il Giovane di Troia,
ed aspettar con baldanzosa fronte
se superbo Leon scendea dal monte.

60.E tal vid’io di cani e di cavalli
menando il gran Luigi elette schiere,
talor di Senna per l’amene valli
castigar l’ozio, e seguitar le fere;
e con l’invitta man che regge i Galli,
e ch’è nata a domar genti guerrere,
tra i lor covili piú riposti ed ermi
espugnar per trastullo i mostri inermi.

61.Tutta la selva di scompiglio è piena,
chi, teso l’arco, a saettar s’accinge,
chi la rete racconcia e la catena,
chi la fune rallenta, e chi la stringe.
Altri il can, che squittisce, a forza affrena,
altri, sciolto il cordon, l’irrita e spinge.
Questi col rauco suon la fera sfida,
quei sovra un faggio di lontan la sgrida.

62.Scorre Adon la verdura, entra soletto
tra i piú folti cespugli, e scende e poggia
tanto che trova un torbido laghetto,
accumulato di corrotta pioggia,
e s’accosta a la costa, ove gli è detto
che gran Cinghiale e spaventoso alloggia,
perché veder, perché distrugger vòle
quell’animata e smisurata mole.

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LA MORTE

— Or qual ti mena a volontaria doglia,
fanciullo incauto, o tua sciocchezza, o sorte?
De l’aspro teschio e de l’irsuta spoglia

non fia giá mai, che ’l bel trofeo riporte.
Cangia deh cangia l’ostinata voglia,
fuggi deh fuggi la vicina morte!

D’aver uccisa una vii Fera il vanto
picciol premio fia troppo a rischio tanto. —

Parea queste parole, ed altre assai
dicesser l’erbe a lui dintorno e i fiori,
che trar virtú da’ suoi sereni rai
soleano, e da’ suoi fiati aver gli odori.

— Ritorna indietro o folle, ove ne vai? —
da lunge gli dicean Ninfe e Pastori.

— Ah torci il piè da lo spietato stagno! —
gridava Clizio, il suo fedel compagno.

— Fuggi, Adon, fuggi oimè (non esser sordo
al mio caldo pregar) la Fera orrenda!

Di Venere i ricordi io ti ricordo,

non voler che te pianga, e me riprenda.

Non far, che di fierezza un mostro ingordo
un mostro di beltá strugga ed offenda.

Che tu vada a cercar tanto periglio

(mi perdoni il tuo Genio) io non consiglio. —

Ei nulla intende, e nulla cura, e dritto
colá sen va dove l’audacia il guida.

Cápita al fatai loco, ov’ha prescritto
il fine al viver suo stella omicida,
dove il ministro del mortai delitto
per córre il fior d’ogni beltá s’annida,
infausta, infame, ed infelice selva,
che dá ricetto a l’arrabbiata belva.

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67.Tra duo colli, ch’ai Sol volgon le spalle
dense di pruni, e di fioretti ignude,
nel cupo sen d’una profonda valle
giace un vallon, che forma ha di palude;
e se non quanto ha solo un picciol calle,
scagliosa selce in ogni parte il chiude.
Quel macigno che ’l cerchia, alpestro ed erto
lascia sol (ben ch’angusto) un varco aperto.

68.Quivi nel mezo di funeste fronde
ombreggiato per tutto un lago stagna,
che con livido umor di putrid’onde
sempre sterile e sozzo il sasso bagna.
Non ha dintorno a le spinose sponde
(perché scoscese son) molta campagna,
ma breve piazza in su ’l sentier si scerne
tutta di greppi cinta, e di caverne.

69.Non toccò mai l’abominabil riva
(ben ch’affamato e sitibondo) armento,
ché l’erba e l’acqua fetida e nociva
d’assaggiar, di gustar prende spavento.
Non sol la Ninfa e ’l Fauno ognor la schiva,
non sol l’aborre il Sole, e l’odia il vento,
ma da la spiaggia immonda ed interdetta
fuggon lontano il Lupo e la Civetta.

70.Quest’è l’albergo, del Cinghiai non dico,
ma de l’ira del Ciel che lo produsse.
Taccia pur Calidonia il grido antico
del flagello crudel che la distrusse.
L’Arabo inculto o il Garamanto aprico
mostro non ebbe mai, ch’egual gli fusse.
Qui s’accovaccia, e dentro l’acqua nera
stassi attuffata la solinga Fera.

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71.Nel pantan, che circonda un mezo miglio,
tra siringhe palustri il ventre adagia.
Splende nel fosco e minaccioso ciglio
d’un orribile ardor luce malvagia.
Fiaccola accesa par l’occhio vermiglio,
spruzzato ferro o stuzzicata bragia.
Calloso ha il cuoio il fianco, e ’l rozo tergo
arma di dure sete ispido usbergo.

72.Ossa sporge ben lunghe, e di sanguigna
schiuma bavose il grugno, aguzze e torte,
la cui materia rigida e ferrigna
è vie piú che l’acciar tagliente e forte,
onde qualor le batte e le degrigna,
pria che faccia morir, mostra la morte,
tal che ’n dubbio è chi muor, né s’assecura
se la piaga l’uccida, o la paura.

73.Dá fiato allor subitamente al corno
stupido Adon d’un animai sí grosso,
onde di Ninfe e di sergenti intorno
con cani e dardi un folto stuol s’è mosso,
che tentan fuor de l’umido soggiorno
farlo sbucar del paludoso fosso.
D’urli confusi, e di latrati insieme,
che danno anima agli antri, il bosco freme.

74.L’orgoglioso Cinghiai, che di duo Numi
cova in seno il furor, si leva e vanne,
e stralunando gl’infocati lumi,
ed arrotando le rabbiose zanne,
fiacca intorno le spine, e spezza i dumi,
fa le frasche strisciar, sonar le canne,
e de le voci infuriato al grido,
per cacciarsi nel bosco, esce del nido.

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75.Come quando Aquilon rapido e stolto
rompe le sbarre, e le catene scioglie,
e sorgendo di Scithia, in nembo folto
l’aride nubi e tempestose accoglie,
mentre gonfia soffiando il nero volto,
fa le piante tremar, cader le foglie,
e sferza i lidi orribilmente, e spazza
tutta del mar la spaziosa piazza:

76.cosí saltata alfin la Bestia brutta
del fangoso canneto oltre i confini,
fa stracciata stormir la selva tutta,
scote le querce, e schioma i faggi e i pini,
onde par che percossa e che distrutta
da procelloso turbine mini,
le pietre schianta, e degli antichi arbusti
sbarba i tronchi piú saldi, e piú robusti.

77.Torce obliqua la testa, e con piú stizza
ch’indomito Torel, grugnisce e mugge,
e mentre invèr la selva il corso drizza,
ciò che s’oppon tra via, sbaraglia e strugge.
Vendicarsi però di chi l’attizza
ancor non potè, ognun s’arretra e fugge.
Senza pur adoprar le zanne orrende
sol col terror degli occhi ei si difende.

78.Le macchie attraversando e le boscaglie,
altrui malgrado, insuperbito passa.
Le doppie reti e le ben grosse maglie
squarciate a terra e dissipate lassa.
Corre, e con l’urto abbatte aste e zagaglie,
spiedi e spunton con l’impeto fracassa.
Se guata o morde, orribile e pungente
par lo sguardo balen, fulmine il dente.

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79.Apre le turbe, e le ritorte sforza,
né v’ha piú chi l’affronti o chi l’arresti.
Ebro di sangue, il suo furor rinforza,
e ne lascia in altrui segni funesti.
Superato ogn’intoppo, ei passa a forza,
e fa fuggir que’ Cacciatori e questi.
Fuggono, e poi da questa rupe e quella
lanciano di lontan lance e quadrella.

80.Ei tra la folta omai rotta e divisa
travalca i guadi, e i colpi altrui non cura,
né d’un intacco ha pur la pelle incisa,
si soda di quel pelo è Tannatura.
I cani che ’l seguiano ha conci in guisa
che ne giace piú d’un per la pianura.
Molti sdruciti la spietata zanna
ne lascia, altri ne squarta, altri ne scanna.

81.Adon, che quel crudel mostro inumano
scorge cotanta far strage e ruina,
non sbigottisce, anzi con Tarmi in mano
sen corre ad incontrar Tira ferina.
Eccol giunto da’ suoi tanto lontano,
ecco tanto la Fera ha giá vicina,
quanto da forte man tentato e scarco
n’andría scoppio di fionda, o tratto d’arco.

82.L’arco ha giá stretto e la saetta ha mossa,
e segna, e tira, e dove vuol colpisce;
ma cosí forte è de la scorza grossa
la corazza, che ’l coglie, e noi ferisce.
Anzi vana non solo è la percossa,
ma l’irrita piú molto, e l’inasprisce,
e quel furor c’ha giá raccolto in seno,
cresce senza riparo, e senza freno.

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CANTO DECIMOOTTAVO

Imperversa accanito, in fra le genti
oltre si scaglia e co’ inastin s’azzuffa.

Le puche de la fronte irte e pungenti
e de la pelle setolosa arruffa.

De le picciole luci i fuochi ardenti
vibra, e s’arriccia, e si rabbuffa e sbuffa,
di scintille di sangue orridi lampi
par che secchino i fiumi, ardano i campi.

Non perde Adon coraggio, e dá di piglio
al secondo quadrel, ch’è vie piú fino,
e spera nel Cinghiai farlo vermiglio,
perché ’n Etna il temprò fabro divino.

Di Vener bella al faretrato figlio
tolto l’avea per suo peggior destino,
onde nel fiero e furioso core
s’accoppiaro due Furie, Ira, ed Amore.

Lo strai, che ’l miglior fianco al mostro colse,
d’umano ardor l’alma inumana accese,
onde quando al fanciul gli occhi rivolse,
che da lunge il trafisse, e non l’offese,
vago del danno suo, non se ne dolse,
ma per meglio mirarlo il corso stese,
ed ingordito di beltá sí vaga
(miraeoi novo) inacerbí la piaga.

Chi dunque stupirá, che del fratello
ardesse Bibli con infame ardore?
e Mirra, di cui nacque Adone il bello,
ad amar s’accendesse il genitore?

Qual meraviglia ha, che questo e quello
per la propria sua specie infiammi Amore,
se nel cor d’una Fera ebbe ancor loco
sí violento e mostruoso foco?

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87.L’animoso Garzon veggendo il Verro
che gli si gira intorno e gli s’accosta,
non monta per salvarsi olmo né cerro,
non cerca per fuggir grotta riposta,
ma gitta l’arco, e de l’astato ferro
gli rivolge la punta invèr la costa,
e sovra il guado, ove la strada ha presa,
intrepido si ferma a la difesa.

88.Prima il guinzaglio al suo Saetta allenta,
e la lassa discioglie ornata e ricca,
lo qual non si spaventa, anzi s’aventa
per l’orecchio afferrargli, e ’l salto spicca.
Quel volge il grifo ove la presa ei tenta,
e ne la gola il curvo osso gli ficca.
Con la zanna di sangue immonda e sozza
al coraggioso cane apre la strozza.

89.Ode guaire il suo fedele e gira
Adon le luci ov’ei si giace ucciso,
e d’affetto gentil, mentre che ’l mira,
informa il vago e dilicato viso.
Corre pietoso ov’anelando spira,
malvolentier dal suo Signor diviso.
Gli chiede aita con lo spirto in bocca,
col muso il lecca, e con la zampa il tocca.

90.Tanto si dole Adon, tanto si sdegna
che giaccia estinta la sua fida scorta,
che mentre vendicarla egli disegna,
vie piú l’ardir che la ragione il porta.
Faccia senno o follia, che che n’avegna,
vuol che mora il crudel che gliel’ha morta.
Viver non cura, e pur che ’l Porco assaglia,
non chiede al proprio cor se tanto ei vaglia.

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91.Desperato s’appresta a la vendetta,
tentando impresa ove valor non vale,
ed espon sé, per troppo amar Saetta,
senza riscossa a volontario male.
Fassi incontro al feroce, indi l’aspetta,
pria brandisce lo spiedo, e poi l’assale.
Sovra il manco si pianta, e mentre il fiede,
segue la destra man col destro piede.

92.Con la tenera mano il ferro duro
spigne contro il Cinghiai quanto piú potè,
ma piú robusto braccio e piú securo
penetrar non poria dov’ei percote.
L’acuto acciar, com’abbia un saldo muro
ferito, overo una scabrosa cote,
com’abbia in un’ancudine percosso,
torna senza trar fuor stilla di rosso.

93.Quando ciò mira Adon, riede in se stesso
tardi pentito, e meglio si consiglia.
Pensa a lo scampo suo, se gli è permesso,
e teme e di fuggir partito piglia,
perché gli scorge in riguardarlo appresso
quel fiero lume entro l’orrende ciglia
c’ha il Ciel talor, quando tra nubi rotte
con tridente di foco apre la notte.

94.Fugge, ma ’l mostro innamorato ancora
per l’istesso sentier dietro gli tiene,
ed intento a seguir chi l’innamora
per abbracciarlo impetuoso viene.
Ed ecco un vento a l’improviso allora
(se [Marte o Cinthia fu, non so dir bene)
che per recargli alfin l’ultima angoscia
gli alzò la vesta, e gli scoprí la coscia.

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95.Tutta calda d’Amor la Bestia folle
senza punto saper ciò che facesse
col mostaccio crudel baciar gli volle
il fianco, che vincea le nevi istesse,
e credendo lambir l’avorio molle,
del fier dente la stampa entro v’impresse.
Vezzi fur gli urti; atti amorosi e gesti
non le ’nsegnò Natura altri che questi.

96.Vibra quei lo spuntone, e gli contrasta,
ma l’altro incontr’a lui s’aventa e serra,
rota le zanne infellonito, e l’asta,
che l’ha percosso e che ’l disturba, afferra,
e di man gliela svelle, e far non basta
Adone alfin, che non sia spinto a terra.
L’atterra, e poi con le ferine braccia
il Cinghiai sova lui tutto si caccia.

97.Tornando a sollevar la falda in alto,
squarcia la spoglia, e da la banda manca
con amoroso e riiinoso assalto
sotto il vago galon gli morde l’anca,
onde si vede di purpureo smalto
tosto rubineggiar la neve bianca.
Cosí non lunge da l’amato Cane
lacero in terra il meschinel rimane.

98.Oh come dolce spira, e dolce langue,
oh qual dolce pallor gl’imbianca il volto!
Orribil no, ché ne l’orror, nel sangue
il riso col piacer stassi raccolto.
Regna nel ciglio ancor vóto ed essangue
e trionfa negli occhi Amor sepolto,
e chiusa e spenta l’una e l’altra stella
lampeggia, e Morte in sí bel viso è bella.

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09.Tu Morazzon, che con colori vivi
moribondo il fingesti in vive carte,
e la sua Dea rappresentasti, e i rivi
de Tacque amare da’ begli occhi sparte,
spira agl’inchiostri miei di vita privi
l’aura vital de la tua nobil arte,
ed a ritrarlo ancor morto, ma bello
insegni a la mia penna il tuo pennello.

100.Arsero di pietate i freddi fonti,
s’intenerir le dure querce e i pini,
e scaturir da le frondose fronti
lagrimosi ruscelli i gioghi alpini.
Pianser le Ninfe, ed ulular da’ monti
e da’ profondi lor gorghi vicini.
Driadi e Napee stempraro in pianto i lumi,
quelle, ch’amano i boschi, e queste i fiumi.

101.V’accorse Clizio, ed al soccorso seco
venne, ma ’ndarno, intempestiva gente,
eh’ad appiattarsi in solitario speco
sen glo la Fera, e sparve immantenente.
Cosi Lupo ladron per l’aér cieco
poi c’ha nel gregge insanguinato il dente,
ricoverto dal vel de l’ombra fosca
serra al ventre la coda, e si rimbosca.

102.Dove, Venere bella, ahi dove sei?
e dove son le tue promesse tante?
quando lassú nel regno degli Dei
per rincorar lo sbigottito amante,
dicesti, ch’a placar gl’influssi rei
di quel Pianeta irato e minacciante
bastava un sol de’ tuoi benigni sguardi?
Or ecco i detti tuoi falsi e bugiardi!

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103.Ecco come a schivar prefissa morte
poco giova consiglio incontro al fato,
e ’l furor mitigar di stella forte
mal può di luce amica aspetto grato.
Cosí vuol chi ’l Destin regge e la Sorte,
sotto si fatte leggi il mondo è nato.
Ma tu, lassa, che fai? perché non riedi
a tòr piangendo gli ultimi congedi?

104.Era senza colui che l’innamora
ogni piacer di Venere imperfetto,
ch’Amor e Gelosia moveanle ognora
gran lite di pensier nel dubbio petto;
a cui la notte imaginosa ancora
raddoppiava timor, crescea sospetto,
però che con sembianza infausta e ria
Adon ne’ sogni suoi sempre moria.

105.Fioria tra molti che n’avea Cithera
un favorito suo Mirto felice.
Questo di piú per man crudele e fera
tronco mirò da l’ultima radice.
Dimanda il come, e la dogliosa schiera
de le Driadi piangenti alfin le dice
che con Tartarea e rigida bipenne
l’empia Megera ad atterrarlo venne.

106.Ne l’ora che calando a l’Oceano
quasi ogni stella in Occidente è scorsa,
onde restando in Ciel solo e lontano
impallidisce il guardian de l’Orsa,
la bella Dea, che si distrugge invano,
da mille acute vipere rimorsa,
dopo lungo pugnar col suo desio
concesse gli occhi ad un profondo oblio.

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107.Ed ecco in questi torbidi riposi
tra le notturne e mattutine larve
con occhi ahi quant’oscuri e lagrimosi
del bell’idolo suo l’ombra l’apparve.
Cotal non giá, qual ne’ giardini ombrosi
quando in Cipro il lasciò, vivo le parve.
Sconciamente ferito, e ’n vista essangue
dal bel fianco piovea gorghi di sangue.

108.La chioma, il cui fin or piú d’una volta
de le glebe de l’Indo il pregio ha vinto,
squallida, bruna, e bruttamente incolta
l’usato suo splendor le mostra estinto.
Il viso, ov’ogni grazia era raccolta,
de la notte d’Averno è sparso e tinto,
e macchiato del fumo è d’Acheronte
il chiaro onor de la superba fronte.

109.Poi che di lui, ch’avea nel cor ritratto,
la nota effigie riconobbe a pena,
— Ahi qual altrui perfidia, o tuo misfatto? —
gridò — qual fato a tanto duol ti mena?
E dond’avien, che si dolente in atto
conturbi del mio Ciel l’aria serena?
Se’ tu ’l mio Adone? o da fallaci forme
deluso il tristo cor vaneggia e dorme?

110.Dunque in preda mi lasci a pianto eterno?
Dunque iniquo destin tanto ha potuto?
Ti rapí forse in Cielo, o ne l’Inferno
per amor Giove, o per invidia Fiuto?
Rispondi o caro mio; perché ti scemo
in tanta afflizzTon tacito e muto?
Dove son, mia dolcezza, e mio tesoro,
le parole di mèle, e i motti d’oro?

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111.Dove degli occhi le pietose faci,
che furo il Faro a l’alte mie procelle?
Adon, se morto sei, morto mi piaci,
tue bellezze per me fíen sempre belle.
Cotesto sangue io suggerò co’ baci,
t’arderò co’ sospir cento facelle,
pur che morto ancor m’ami, e non ti spiaccia
aver la tomba tua tra le mie braccia. —

112.Risponde: — È questo, oimè crudele amica,
quanto dal vostro amor sperar mi deggio?
Cosí s’oblia quell’alta fede antica
ch’avrá mai sempre in questo petto il seggio?
Voi qui tra giochi e balli, ond’a fatica
vi tragge il sonno, or occupata io veggio;
e le miserie mie curando poco,
piú non vi risovien del nostro foco.

113.Deh se non fredda in tutto entro il cor vostro
vive di tanto ardor qualche scintilla,
e se pur Tesser Dea del terzo chiostro
amorosa pietá nel sen vi stilla,
volgetevi a mirar qual io vi mostro
la faccia un tempo giá lieta e tranquilla,
e qual di furiali aspre catene
duro groppo mi stringe, e mi ritiene.

114.Poi che pur al mio strazio acerbo ed empio
negan l’aita vostra i fati rei,
e d’ogni altro amator misero essempio,
piú non deggio goder quel ch’io godei,
tornate almeno a riveder lo scempio
che fe’ crudo Cinghiai de’ membri miei.
Pregovi sol, che non vogliate ancora
che di tormento un’altra volta io mora.

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115.S’Atropo ha rotto in su ’l rotar del fuso
il fil de l’ore mie ridenti e liete,
ed a l’ombre de l’Orco, ov’io son chiuso,
dato m’ha prigionier, deh non piangete,
poi che de’ vostri amori anco laggiuso
ha ch’io sempre mi glorii in riva a Lethe.
Uom piú viver non dee, cui tanto lice:
e morendo per voi, moro felice.

116.A dio, mi parto, ir mi convien fra l’alme
il cui pianto a pietate altrui non piega. —
Cosi dicendo, le tremanti palme
tender si sforza, e ’l duro ferro il nega:
il duro ferro, che d’indegne salme
con tropp’aspro rigor le man gli lega.
A quel moto, a quel suon di ferri scossi
sciolsesi il sonno, e Citherea destossi.

117.Da quella vision tremenda e fiera
sbigottita si leva, e nulla parla.
Ben si consola assai, che non fu vera,
duolsi sol ch’ei svaní senza abbracciarla.
Esce lá dove la festiva schiera
sta di mille ministri ad aspettarla,
e mentre che le fan folta corona
le Ninfe Citheree, cosí ragiona:

118.— Giá vosco in questa a me terra diletta
indugiar piú non posso, o fide mie.
Giá la custodia del mio ben m’aspetta,
e mi richiama a le magion natie.
Troppo de l’altru’ invidia il cor sospetta
non mel vada a furar per mille vie.
L’onda del mar da la rapace arsura
de’ ladroni d’Amor non m’assecura.

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119.Volgo (né molto in alcun Dio mi fido)
di certo danno opinioni incerte.
Temo non abbia de la Fama il grido
de’ miei secreti le latebre aperte,
e Torme giá nel piú riposto nido
del mio dolce deposito scoverte.
Cipro di tanto ben non è capace,
e ’l mio crudo figliuol troppo è sagace.

120.Le fere altrove con acuto strale
il bell’Adone a saettare intende.
Qui, lassa, a me d’antiveduto male
dardo vie piú pungente il petto offende.
Ei con veltri mordaci i mostri assale,
del cui forte abbaiar diletto prende,
10 da piú fieri can d’aspro tormento,
che mi latrano al cor, morder mi sento.

121.Ahi ben ne la stagion fosca e tranquilla
posan le membra in su l’agiate piume:
11 cor non giá, che si distrugge e stilla,
povero d’altro Sole, e d’altro lume.
Al primo suon de la diurna squilla
le palpebre appannar talor presume.
Quando le luci, che dormir mal ponno,
al pianto aprir devrei, le chiudo al sonno.

122.E ’l sonno, il sonno ancor pietoso anch’esso
de Tamorose mie penaci cure,
qualche raggio del ver mi mostra spesso
tra l’ombre sue caliginose e scure,
e del mio ben visibilmente espresso
in sanguinose e pallide figure
con sollecito orror, che mi spaventa,
simulacri talor mi rappresenta.

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123.Giorno non è, che con infauste cose
non mi minacci alcun prodigio tristo.
Deh quante volte l’intrecciate rose
per se stesse cader dal crin m’ho visto?
e quante scaturir da l’amorose
poppe insieme col latte il sangue misto?
La mano il petto involontaria otfende,
e malgrado degli occhi il pianto scende.

124.Mi sembra il lieto applauso urlo funesto,
e le cetre per me non son canore.
Non so che d’infelice e di molesto,
misera me, mi presagisce il core.
Col Sol che sorge, a dipartir m’appresto:
troppo lunghe fur qui le mie dimore.
Prima al Ciel, che m’attende, e poi gir deggio
a riveder colui che sempre veggio. —

125.Detto cosí, spalma il bel carro, e poi
per l’aura Orientai la sferza scote,
e l’auree nubi de’ confini Eoi
rompendo va con le purpuree rote.
Ma pur, lassa, in andando aver co’ suoi
travagliati pensier tregua non potè,
ed ondeggiando ognor tra questi e quelli
vola assai piú con lor, che con gli augelli.

126.— Oimè, dunque il mio ben — dicea tra via —
in lochi malsecuri e perigliosi
ad ogn’incontro di Fortuna ria
solo ed a mille rischi in preda esposi?
Ebbi core, o mio core, anima mia,
di lasciarti tra mostri empi e rabbiosi?
Nemici di pietá mostri arrabbiati,
ma molto men di me crudi e spietati!

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127.E forse a punto allora intenta io rn’era
ne’ giochi a trastullarmi, e ne le feste,
quando devevi tu, gioia mia vera,
con la morte scherzar per le foreste!
Ben mi staria, ch’avesse alcuna Fera
tinte nel sangue tuo l’unghie funeste.
Ben per un fallo inescusabil tanto
giusta pena mi fora eterno pianto.

128.Deh sará ver, ch’ancor tra queste braccia
stringer ti possa un’altra volta mai?
Degg’io piú ribaciar la cara faccia?
Rivedrò de’ begli occhi i dolci rai?
Begli occhi, ahi qual timore il cor 111’agghiaccia
Vi troverò quai dianzi io vi lasciai?
O spenta è forse pur la luce vostra,
sí come il sogno orribile mi mostra?

129.Sospesa sto tra lo spavento e ’l duolo,
nulla piú mi rallegra, il tutto io temo.
Sú suso augelli, accelerate il volo,
ch’ornai la notte è su ’l confine estremo.
Fugata l’ombra, e rischiarato il polo,
tosto a specchiarci in altro Sole andremo. —
In tal guisa illustrando il mondo cieco
Venere bella si lagnava seco.

130.Cosí dubbia tra sé la madre Hircana
spesso ha de’ propri danni il cor presago,
qualor cercando ai figli ésca lontana
torce il passo da lor ramingo e vago,
temendo pur, ne la sassosa tana
fiero non entri a divorargli il Drago,
o pur furtivo intanto il piè non mova
l’astuto Armeno a saccheggiar la cova.

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131.Giá di Cithera a la magion celeste
la bella Dea d’Amor facea ritorno.
Giá di rose e di perle in un conteste
s’avea ’l crin biondo e ’l bianco seno adorno;
e mentre il chiaro Dio, che spoglia e veste
d’ombra la terra, e di splendore il giorno,
stracciava de la notte il bruno velo,
l’ultime stelle accommiatava in Cielo.

132.L’Aurora intanto, che dal suo balcone
gli umidi lumi abbassa a la campagna,
vede anelante e moribondo Adone,
ch’ancor con fievol gemito si lagna.
Vede che ’l duro fin del bel Garzone
ogni Ninfa con lagrime accompagna,
e che tutte iterando il dolce nome
battolisi a palme, e squarciansi le chiome.

133.Diceano: — È morto Adone. Amor dolente,
or ché non piagni? il bell’Adone è morto.
Empia fera e crudel col duro dente,
col dente empio e crudel l’uccise a torto.
Ninfe, e voi non piangete? Ecco repente
Adon vostro piacer, vostro conforto
lascia del proprio sangue umidi i fiori.
Piangete Grazie, e voi piangete Amori.

134.Giace Adone il leggiadro, Adone il vanto
di queste valli in grembo a l’erba giace
pallidetto e vermiglio. Il riso, il canto
lasciate o Muse. Amor spegni la face.
Piangete Adone, Adon degno è di pianto,
sbranato da Cinghiai crudo e vorace.
Adone, il nostro Adone or piú non vive.
Piangete 0 fonti, e lagrimate o rive.

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135.Pianga la bella Dea l’amante amato,
se pur quaggiú da la sua sfera il mira.
Non piú la bacia no, non piú l’usato
sguardo soave in lei pietoso gira.
Piú del mostro omicida ha il cor spietato,
se ’l caro Adon non piange, e non sospira.
Stilli in lagrime gli occhi afflitti e molli.
Piangete o selve, e rispondete o colli.

136.Misero Adon, tu pien di morte il viso
versi l’anima fuor languido e stanco.
Porta piagato a un punto, e porta inciso
Venere il core, il bell’Adone il fianco.
Il fianco (oimè) del bell’Adone ucciso
piú del dente che ’l morse è bello e bianco.
Raddoppiate co’ pianti alto i lamenti.
Piangete o fiumi, e sospirate o venti.

137.Cani infelici, il vostro Duce caro
freddo su l’erba e lacerato stassi.
Piangete Adone, e di latrato amaro
empiete i muti boschi, i cavi sassi.
Boschi un tempo felici, or per avaro
destin rigido e rio dolenti e lassi,
giá lieti e chiari, or dolorosi e foschi.
Piangete o sassi, e risonate o boschi. —

138.Cosí piangean le sconsolate, e fora
uscía d’alti sospir misto il lamento.
A sí tristo spettacolo l’Aurora
stille versò di rugiadoso argento,
com’ella per pietá volesse ancora
piangendo accompagnar l’altrui tormento;
e stupida d’un mal tanto improviso
súbito a Citherea ne diede aviso.

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139.— Lascia o Dea — le dicea — deh lascia omai
di rotar l’orbe tuo, che piú non splende.
Non vedi tu laggiú (scendi, che fai?)
di morte e di dolor sembianze orrende?
Cingi il bel crin, non piú di rose e rai,
d’atri cipressi, e di funeste bende.
Tempo non è da far per la via torta
(mentre il tuo Sol tramonta) al Sol la scorta. —

140.Non cosí d’Euro a le gagliarde scosse
trema in alto Appennin pianta novella,
come a l’annunzio orribile si mosse
d’accidente sí rio la Dea piú bella.
Fermò, vinta dal duol che la percosse,
il suo corso, il suo cerchio, e la sua stella.
Stupí, smorí, fu dal mortai dolore
suppresso il pianto, e s’ingorgò nel core.

141.Ma poi ch’a l’ira impetuosa il duolo
cesse, e potè del petto il varco aprire,
parte vòlta a le stelle, e parte al suolo,
prese altamente in questa guisa a dire:
— Or qual, vivo colui che regge il polo,
ebbe tanto poter, terreno ardire?
Regna il mio sommo Padre? o pur insani
signoreggiano il Ciel gli empi Titani?

142.Rotte forse le rupi ha d’Inarime
con l’altera cervice il fíer Tifeo?
Da Vesevo, il cui giogo ancor l’opprime,
risolleva la fronte Alcioneo?
Da le valli d’Abisso oscure ed ime
fulminato risorge or Briareo?
O d’Etna in Cipro pur si riconduce
a rivedere Encelado la luce?

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143.Non giá, non mi produsse in bosco o in fiume
di Deitá plebea rustica schiatta!
Siam progenie ancor noi di quel gran Nume
che del fulmine eterno il foco tratta.
Chi mie ragion di violar presume?
Ogni legge del Ciel dunque è disfatta?
Che stragi oimè? che strazii empi son questi?
Chiudon tanto furor Calme celesti?

144.Ingiustissimo Ciel, di lumi indegno,
degno di ricettar sol ne’ tuoi chiostri
simili a punto a quel ch’oggi il suo sdegno
nel mio bene ha sfogato, infami mostri.
Tiranni iniqui de l’etereo regno,
ecco pur appagati i desir vostri.
Oh quanto a torto a voi gl’incensi accende
lo schernito mortale, e i voti appende!

145.Giá non osò con voglie a voi rubelle
quel mio, che colaggiú morto si piagne,
per assalir, per espugnar le stelle
fabricar torri, o sollevar montagne.
Giá non tentò con quella mano imbelle,
sol fere usa a domar per le campagne,
sovra l’umana ambizione altero
d’usurparvi l’onor, tórvi l’impero.

146.Vanne ai templi di Scithia il tuo digiuno
d’uman sangue a sbramar, Giove rabbioso!
Qual fu la colpa? in che t’offese, o Giuno,
quell’innocente essangue e sanguinoso?
Chiedea forse arrogante ed importuno
gli abbracciamenti del tuo ingordo Sposo?
Anzi umilmente, e senza alcuno orgoglio
vivea romito in solitario scoglio.

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147.Ma che gli valse oimè? non può celarsi
da maligno livor somma beltate.
Or d’ogni vostro ben superbi e scarsi
trionfando di me, lassú regnate! —
Poi ch’ella ha questi detti a l’aria sparsi,
per le piagge del Ciel fresche e rosate
portata da la gemina Colomba
velocissimamente a terra piomba.

148.Hecuba con tal rabbia in Troia forse
n’andò latrando infuriata e folle
quando lasciar la bella figlia scorse
il greco aitar del proprio sangue molle.
E tal mi credo in Babilonia corse
la Donna che regnar per fraude volle,
con una treccia sciolta, e l’altra avinta,
con una poppa avolta, e l’altra scinta.

149.Da lunge udí del Giovane meschino
e de le Ninfe la pietosa voce,
e col timon precipitoso e chino
gli augei corsieri accelerò veloce.
Ma quando a rimirar vien da vicino
l’opra spietata del Cinghiai feroce,
colá si lancia, ed incomposta e scalza
da l’aureo carro in su la riva sbalza.

150.Salta da l’aria, e vede apertamente
Adone a duro termine condotto.
Vede da la lunata arme pungente
il vago fianco fulminato e rotto,
e ’l bel collo su gli omeri cadente,
e la bocca, che langue, e non fa motto:
e ’n veggendo serrar luci sí vaghe
sente aprirsi nel cor profonde piaghe.

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151.De’ begli occhi sereni il puro raggio
folto nembo di lagrime coverse.
Oh qual onta a le guance, oh qual oltraggio
fece a le chiome innanellate e terse!
Straccione, e del bel viso il vivo Maggio
di vivo sangue ed immortale asperse,
ed ai caldi sospir lentando il freno
con man s’offese ingiuriosa il seno.

152.Tosto si gitta in su ’l bel corpo, e come
forsennata e baccante, il grido scioglie:
gli dislaccia la veste, il chiama a nome,
gli ricerca la piaga e ’n braccio il toglie.
Poi le sanguigne e polverose chiome
con gli occhi lava, e con le man raccoglie,
e del costato i tepidi rubini
terge con l’ór de’ dissipati crini.

153.La bella man, ch’abbandonata e stanca
rade il suol con le dita, e i nodi allenta,
dentro la neve tepidetta e bianca
de l’una e l’altra sua stringe e fomenta,
e ’n lei quel moto e quel calor, che manca,
di svegliar, d’aiutar s’ingegna e tenta.
Su lo smorto Garzon s’inchina e piega,
lo scote, il preme, e di parole il prega.

154.L’un con muto parlar pietá chiedea
profondissimamente sospirando.
L’altra con gli occhi pur gli rispondea
amarissimamente lagrimando.
— Oimè, che veggio? è questi Adon? — dicea.
Chi ti feri? come t’avenne? e quando?
Chi fu, Nèttare mio? chi fu il crudele,
che le dolcezze tue sparse di fiele?

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155.Qual crudo mostro oimè? qual mano ardita
tanta licenza a danni miei si prese?
Come ogni asprezza sua, dolce mia vita,
in te non raddolcí fatta cortese?
Ahi che ferí duo petti una ferita,
ne la tua morte la mia vita offese.
Quel tuo sangue è mio sangue, e quel tormento
ch’affíige il corpo a te, ne l’alma io sento.

156.Xon ti diss’io: “ Di seguitar deh lassa
per inospite balze orme ferine,
ch’a guisa di balen, che vola e passa,
correrai tosto ad immaturo fine”?
Stato pur fusse il mio presagio (ahi lassa!)
bugiardo in augurar tante ruine,
ch’essangue il tuo bel volto or non vedrei,
miserabile oggetto agli occhi miei!

157.Oh troppo de le fere aspro seguace,
ed ai consigli miei credulo poco,
quant’era il meglio tuo startene in pace
ne’ miei giardini, ov’è perpetuo gioco?
Or il trofeo de la tua caccia audace
fia la perdita sol del mio bel foco.
Sventurata beltá, come in un punto
del tuo corso vitale il fine è giunto!

158.Dunque andran quelle luci innamorate
nel sen di Morte a suscitar gli amori?
Quelle man bianche, e quelle chiome aurate
ad imbiancare, ad indorar gli orrori?
Quelle labra fiorite ed odorate
dentro le tombe a seminare i fiori?
Dunque andrá lo splendor di quel bel viso
a portar negli Abissi il Paradiso?

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159.Oh miei veri sospetti, oh troppo veri
sogni temuti, or ben il dubbio intendo!
Or de’ prodigi spaventosi e fieri
il gran mistero e la cagion comprendo.
Ecco come indovini i miei pensieri
veraci fur de l’accidente orrendo.
Ciò che previsto fu, ciò che predetto
da Mercurio e da Protheo, ha pur effetto.

160.Deh qual Furia mi trasse? e qual errore
mi fece ogni dever porre in oblio,
quando per vana ambiz’ion d’onore
solo qui ti lasciai nel partir mio?
Questa fu la mia fé? questo l’amore?
Di te dunque, e di me tal cura ebb’io?
Non s’incolpi del danno iniqua Sorte,
frutto del mio fallire è la tua morte.

161.Adone Adone, o bell’Adon, tu giaci,
né senti i miei sospir, né miri il pianto.
O bell’Adone, o caro Adon, tu taci,
né rispondi a colei ch’amasti tanto.
Lasciami lascia imporporare i baci,
anima cara, in questo sangue alquanto.
Arresta il volo, aspetta tanto almeno
che ’l mio spirto immortai ti mora in seno.

162.Accosta accosta al contrafatto volto,
misera Dea, la faccia, e gemi, e plora;
e s’alcun peregrin spirito accolto
tra queU’aride labra ancor dimora,
s’alcun tepido bacio a Morte tolto
ne la bocca gentil palpita ancora,
coglilo, e fin che ’n pianto il cor si stempre,
l’imagin del tuo ben bacia per sempre. —

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163.Con semirotti e singhiozzati accenti
la Dea del terzo Ciel cosí si dole,
ma tanto il duol s’avanza in fra i lamenti,
che le lega la lingua e le parole.
Alza la fronte e i pigri occhi dolenti,
giá vicino a l’Occaso, il suo bel Sole,
ma vacilla lo sguardo, e sparge insieme
l’alma dal petto, e queste voci estreme:

164.— Fa’ forza al duolo, o mia fedele, e stendi
la mano alquanto a la mia man — le dice. —
Prendi quest’arco infortunato, e prendi
questa faretra mia poco felice.
Poi l’uno e l’altra al sacro tempio appendi
da la Dea boschereccia e cacciatrice.
Fa’ che restin per sempre ivi sospesi
con l’armi infauste i malvestiti arnesi.

165.Eccomi al passo ove convien pur ch’io
scenda laggiú tra gli amorosi Spirti,
doppiando a Stige ardor con l’ardor mio,
crescendo ombra con l’ombra ai verdi mirti.
Ma ciò ben mi si dee, ché fui restio
(e perdon te ne cheggio) ad ubbidirti.
Arma tu di costanza il petto franco
meglio ch’io non armai di strali il fianco.

166.Io poi che da le stelle è giá prescritto
irretrattabilmente, e dagli Dei,
che da crudo animai deggia trafitto
oggi morir su ’l fior degli anni miei,
cedo al destin, né in tale stato afflitto
piú (se potessi ancor) viver vorrei.
E qual mai piú vivendo avrei conforto,
se ’l mio caro Saetta a piè m’è morto?

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167.Ma pria che gli occhi addolorati e mesti
chiuda a quel Sol, che ’n forte punto io vidi,
vo’ che l’ultimo dono almen ti resti,
gli altri cani ti lascio amati e fidi.
Altro or non ho, che questi crini: e questi,
prègoti, accetta e di tua man recidi,
e sèrbagli per lui, che ’l cor ti diede,
reliquie di dolor, pegni di fede.

168.Tu, se vivrá l’atnor dopo la vita,
cura che le mie spoglie altri non tocchi,
e che vii mano in alcun tempo ardita
arco de’ miei non tenda, o strai non scocchi. —
Oui gli manca la voce indebolita,
e di grave caligine i begli occhi
opprime si, ch’aprir piú non si ponno,
de la notte fatai l’ultimo sonno.

169.Su ’l bel ferito la pietosa amante
altrui compiange e se medesma strugge,
e sparge (lassa lei) lagrime tante,
e con tanti sospir l’abbraccia e sugge,
che par giá d’or in or l’alma anelante
voglia fuggir dove l’altr’alma fugge.
In cotal guisa a l’implacabil pena,
mentre cerca alleggiarla, accresce lena.

170.Fur viste arboreggiar l’erbe minute
intorno a quel cadavere gentile,
perché vòlse di lor cosí cresciute
fargli la bara ambizioso Aprile.
Fama è che l’aspre querce e Felci irsute
incurvaro le braccia in atto umile,
dov’ei spirava ancor tra i funerali
spirti amorosi almen, se non vitali.

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171.I cani istessi di pietate accesi
(raro essempio di fé dopo la morte)
presso il caro Signore a terra stesi
con un flebil latrar si doglion forte;
e d’ogni atto amorevole cortesi
ne’ casi ancor de la sinistra sorte,
emuli in ciò di Venere infelice,
van lambendo a baciar la cicatrice.

172.Ma ceda ogni altro duolo a quella doglia
ch’a la bella Ciprigna il petto punge.
Ella agli occhi d’Adon, pur come voglia
compartir lor la luce, i suoi congiunge,
e l’insensata e semiviva spoglia
del balsamo d’Amor condisce ed unge,
e col volto di lui si stringe tanto,
che non dá loco a lo sgorgar del pianto.

173.Su la guancia di fior, di fiamme priva
tepida vena e lagrimosa versa,
e ’l color e ’l calor desta e raviva,
ch’involando ne va Morte perversa.
Non sai dir s’egli estinto, o s’ella è viva,
sí poco hanno tra lor forma diversa;
né discerner si può qual viva e spiri,
se non solo ne’ pianti, e ne’ sospiri.

174.Chi vide mai di nube in spesse stille
la pioggia, che col lampo a un tempo cade,
tal temprata d’umori e di faville
imagini tra sé quella beltade.
E mentr’apria tra mille fiamme e mille
ruscelletti di perle e di rugiade,
in atti mesti e gravi si dolea,
qual deve amante, e qual conviensi a Dea.

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175.L’umide luci in prima al Ciel rivolse,
poscia a terra chinolle, e ’n lui l’affisse.
Lo spirto tutto in un sospiro accolse,
e sospirò, perché lo spirto uscisse.
Alfin la lingua dolorosa sciolse
in dolci note amaramente, e disse:
— Misera —, ma sí largo il pianto abonda
che sommerge la voce in mezo a l’onda.

176.— Misera — indi ripiglia — ed è pur vero
che si giri lassú stella sí cruda?
Or godi invido Sol, vattene altero,
che ’l bell’emulo tuo le luci chiuda!
Poco era in braccio al Getico Guerriero
avermi a tutto il Ciel mostrata ignuda,
se ’n strana ecclisse, e ’n fiero aspetto e duro
non mi mostravi il mio bel Sole oscuro.

177.Sei tu (dimmelo Adon) l’Idol mio caro?
Tant’osa, e tanto può Morte superba?
Dov’è de le due stelle il lume chiaro?
A che fiera tragedia il Ciel mi serba!
O giá sí dolce, or dolcemente amaro,
com’ogni mia dolcezza hai fatta acerba!
Ben a Mirra sei tu simile in tutto,
nato d’amara pianta amaro frutto.

178.Io per me giurerei che per dispetto
lá nel foco di Stige e di Cocito
quell’arco tuo malnato e maledetto
temprato fu dal mio crudel marito.
E quel Cinghiai che t’ha squarciato il petto,
di Cipro no, ma de l’Inferno uscito,
tutta entro a sé di Cerbero la rabbia
e ’l furor de le Furie io credo ch’abbia.

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179.Ma vòlse forse la malvagia Fera
de’ tuoi chiusi pensier costanti e fidi
e de la fiamma tua pura e sincera
curiosa spiar gl’interni nidi.
Ah che farmi vedere uopo non era
(ché chiaro ognor ne’ tuoi begli occhi il vidi)
per mostrarmi il tuo amor securo e certo,
sviscerato il bel fianco, e ’l core aperto!

180.Di non poter cangiar sol mi querelo
col Ciel l’Abisso, e n’ho cordoglio ed ira.
Ma come vesto incorrottibil velo,
se l’alma mia per la tua bocca spira?
Se la felicitá ch’io godo in Cielo
pende dal moto ch’i tuoi lumi gira,
e la mia deitá te solo adora,
com’esser può ch’io viva, e che tu mora?

181.O Morte, o de l’Inferno Arpia rapace,
come sempre per uso il meglio furi!
Qualunqu’ altro ladron rubando tace,
e cela i furti suoi negli antri oscuri.
Tu di tue prede alteramente audace
ti glorii, e di nasconderle non curi,
anzi ne fai con mill’applausi e mille
cantar inni, arder lumi, e sonar squille.

182.Lassa, ch’io ben vorrei l’alta rapina
tórre a l’artiglio tuo sozzo ed infame,
e racquistar questa beltá divina,
troppo bell’ésca a sí voraci brame.
Ma legge irrevocabile destina
che non s’annodi mai spezzato stame:
e vóto il fuso, e la conocchia scarca,
il filo venir men veggio a la Parca.

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183.Gran Padre or tu, che su ’l gran trono assiso
hai de le cose universal governo,
poscia c’hai tanto ben da me diviso,
rompi le leggi del destin superno.
L’invida man, c’ha quel bel hi reciso,
perché l’attorce a la mia vita eterno?
Perché per dura ed immutabil sorte
mortalar l’immortal non può la Morte?

184.Oh perché di sorbir non m’è concesso
in cima a un bacio, o in un sospiro accolta
una morte medesma entro l’istesso
labro, ove l’alma mia vive sepolta?
Impotente dolor, poi che per esso
non può dal vital nodo esser disciolta!
Ahi che troppo contraria al bel desire
questa immortalitá mi fa morire. —

185.Con quel poco di spirto che gli resta,
di Ciprigna i lamenti Adone udia,
né potend’altro, in flebil voce e mesta
dir le volea «Mia vita, Anima mia».
Ma sprigionata l’anima con questa
parola aperse l’ali, e volò via;
e da la bocca essangue e scolorita
in vece di «Mia vita», uscí la vita.

186.Uscí sdegnosa, e quasi svelta a forza
de la cara magion poco abitata,
lasciando pur malvolentier la scorza
l’alma di sí bel corpo innamorata.
Mentre de’ chiari lumi il foco ammorza,
impietosisce ancor Morte spietata;
e sentendo scaldarsi il cor di ghiaccio,
per volerlo baciar, lo stringe in braccio.

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187.Yúlse le labra allor la bella Diva
con le labra compor pallide e smorte,
per impedir a l’alma fuggitiva
forse l’uscita, e chiuderle le porte,
e per raccòr qualche reliquia viva
del dolce, che furando iva la Morte.
Misera, ma trovò secchi e gelati
negli aneliti estremi i baci, e i fiati.

188.Lasciandosi cader fra cento e cento
Ninfe, che ’n mesto e lagrimoso coro
facean co’ gridi un tragico lamento
e con le palme un strepito sonoro,
da’ begli occhi spargea fila d’argento,
e da’ laceri crini anella d’oro;
né per altra beltá fu giá mai tanto
bello il dolore, e prezioso il pianto.

189.Mille piccioli Amori a trecce a trecce
quasi di vaghe pecchie industri essami,
segnando ne le rustiche cortecce
l’infortunio crudel, gemon tra’ rami;
e sfaretrati e con spuntate frecce,
rotte le reti d’òr, sciolti i legami,
gittate a terra fiaccole e focili,
fanno a le triste essequie ossequii umili.

190.Chi de le belle lagrime di lei
spruzza le penne, e chi le labra asperge.
Chi ne l’umor di que’ begli occhi rei
tempra gli strali, e chi gli arrota e terge.
Chi disdegnando omai palme e trofei
la facella immortai dentro v’immerge.
Chi mentr’ella il bel crin si svelle e frange,
tutto fermo in su l’ali, ascolta, e piange.

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191.Altri da terra le spezzate ciocche
coglie de’ sottilissimi capelli.
Altri n’avolge le dorate cocche,
altri ricco cordon tesse di quelli.
Vanno a baciar le languidette bocche
or di questa, or di quel molti fratelli.
Ufficiosi ancor molti e dolenti
volano intorno a varie cure intenti.

192.Qual su la guancia di squallor dipinta
stilla d’acque odorate un largo fiume.
Qual su i begli occhi, la cui luce, tinta
d’ombra mortai, mendica è giá di lume,
per suscitar qualche favilla estinta
o di vita, o d’Amor, batte le piume.
Altri mentr’egli more, ed ella langue,
asciuga a l’una il pianto, a l’altro il sangue.

193.Con gli Amori piangean le Grazie anch’elle,
quando rivolto in lor l’affiitto ciglio.
Venere a sé chiamando una di quelle,
ratto mandolla a ricercar del figlio.
Piega il ginocchio Aglaia, e da le belle
compagne di partir prende consiglio;
ma dubbiosa e sospesa il passo move,
ché trovarlo vorria, né sa ben dove.

194.Mira e rimira il ciel, la terra e ’l mare,
poi che per tutto Amor l’ali distende,
se del fiero faneiul vestigio appare,
ma del loco ove sia, nulla comprende.
Allor da terra invèr l’eccelse e chiare
region de l’Olimpo in alto ascende,
e ’l trova alfin colá, sovra i superni
poggi celesti, in fra i begli orti eterni.

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195.Sta vasi Amor de lo stellato mondo
sotto un mirto fiorito entro i giardini,
e duo d’aspetto amabile e giocondo
coetanei fanciulli avea vicini.
L’un, che fu de le nozze autor fecondo,
di verde persa attorto i biondi crini,
d’aureo socco calzato, era Himeneo,
vago figlio d’Urania, e di Lieo:

196.l’altro era quei ch’ai Regnator sovrano
porge il licor divino in cavo smalto.
Facean tra sé costoro un gioco estrano,
e movean con le dita un strano assalto.
Or le palme stringeano, or de la mano
gittavan parte e sosteneano in alto,
e quinci e quindi i numeri per scherzo
la Sorte a un tempo essercitava in terzo.

197.Era de la contesa arbitro eletto
Como, Dio de’ conviti e de le feste,
Como, inventor del riso e del diletto,
piacer d’ogni mortai, d’ogni celeste.
E s’eran vari premi al suo cospetto
proposti giá da quelle parti e queste.
Recata avea di rose una corona
l’abitator di Pindo e d’Helicona.

198.Di nettare purpureo urna capace
è il pegno ch’assegnato ha Ganimede.
Amor, ch’è nudo, e fuor che strali e face
cosa non ha, ma vive sol di prede,
preso a la rete sua dura e tenace
promette al vincitor spoglia e mercede
Indico augel, che di smeraldo e d’ostro
ha fregiata la piuma, e tinto il rostro.

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199.E giá vittorioso alfin rimaso
facea di gridi risonar le sfere,
e ’nsuperbito di si lieto caso
per tutto dibattea l’ali leggiere,
indi postosi a bocca il dolce vaso
tutto votollo, e giá fornia di bere,
quando a lui s’accostò dogliosa e bella
di Citherea la messaggiera ancella.

200.Come le fu ne l’ambasciata imposto,
in disparte il tirò da l’altra gente,
né gli ebbe a pieno il fier successo esposto
ch’ogni sua gioia intorbidò repente.
— Vienne (non piú tardar) vientene tosto
a confortar la misera dolente,
dico la madre tua, ch’uopo ha d’aiuto,
o d’ogni forza espugnator temuto. —

201.Il fin di questo dir non ben sostenne
l’impaziente e curioso Arciero.
A pena incominciò, che la prevenne
senza intender distinto il fatto intero.
Ed — Oh — squassando per furor le penne —
olá, chi fu? non mi negare il vero,
chi fu — proruppe — ardito? o chi mai fia
d’addolorar la genitrice mia?

202.Contro il Ciel, contro il mondo, e contro Giove
armar giuro la destra, e mover guerra.
Rivestito il farò di piume nove
novi amori a furar scendere in terra,
farollo ancor (se punto ira mi move)
con quella man che ’l fólgore disserra,
dagli stimuli miei punto ed offeso
gir solcando l’Egeo sott’altro peso.

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203.Se fia Saturno del suo duol cagione,
vecchio maligno e neghittoso e tardo,
l’udrai nitrir fra i regii armenti, e sprone
al fianco gli sará quest’aureo dardo.
Se di Cillene il volator ladrone
vela d’amara nebbia il dolce sguardo,
ecco in Atene or or tei do ferito,
né l’arte gli varrá de la sua Pitho.

204.Se da Pallade nasce il suo cordoglio,
fia con Vulcan ricopulata insieme,
e la lutta quassú rinovar voglio
onde giá cadde il mostruoso seme.
Né de lo Dio ferrato il vano orgoglio,
la fierezza o l’orror per me si teme,
ché ben che cinto di diaspro e marmo,
sa ben, ch’a senno mio spesso il disarmo.

205.S’Apollo a parte fia di tanto danno,
vo’ flagellarlo in duri nodi avinto,
e suoi flagelli e sferze sue saranno
le foglie de l’Alloro e del Giacinto.
Ad arder sforzerò con pari affanno
nel freddo cerchio suo la Dea di Cinto.
Struggerá il cor (se ’l mio furor si desta)
Climene a quello, Endimione a questa.

206.S’è ver che ’l suo piacer turbi e ’l suo gioco
colui che di duo ventri al mondo nacque,
lá dove ogni valor gli varrá poco,
a novi ardori il condurrò per Tacque.
Vedrá che cede al mio l’istesso foco
onde la madre fulminata giacque;
e s’egli col suo vino agita altrui,
io posso col mio strale agitar lui.

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207.Se ministro sará di questo pianto
de l’ondoso Ocean l’umido padre,
o quel, ch’un tempo Amore aborrí tanto,
rigido Re de le Tartaree squadre,
incatenati e supplici mi vanto
di trargli a piè de la mia bella madre,
per mostrar quanto folle è chi non crede
ch’a la forza d’Amore ogni altra cede. —

208.Cosí disse, e col fin di detti tali
a la voce sfrenata il fren raccolse;
poi piú veloce assai ch’un de’ suoi strali,
l’impeto ruinoso in giú rivolse,
e col gemino sibilo de l’ali,
che con rapide scosse a volo sciolse,
lei precorrendo, che tra via rimase,
sdrucciolò ratto a le materne case.

209.Come adusto vapor, sparito il Sole
che con raggio possente in alto il trasse,
di lunga sferza e luminosa suole
rigar de l’aria le contrade basse,
cosí di Citherea l’altera prole
parve foco e splendor seco portasse
quando in terra veloce a calar venne
tutto serrato ne le tese penne.

210.Chi può l’ira narrar, narrar il duolo
del superbo Garzon, quand’egli ha scorto,
poscia che ’n Cipro ha terminato il volo,
de’ duo l’una malviva, e l’altro morto?
D’Adon compagno, a Venere figliuolo,
lui senza vita, e lei senza conforto,
oh come in preda ai desperati affanni
si squarcia il velo, e si spennacchia i vanni!

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211.Qual augellin, che ’l dolce usato nido,
dove i figli lasciò, vóto ritrova,
gli vola intorno, e con pietoso strido
assordando la valle, il duol rinova;
tal dagli occhi d’Adon, su’ albergo fido,
non sa partirsi, e nulla piú gli giova:
piagne i perduti sguardi, e ’n tutto cieco
brama non esser Dio per morir seco.

212.Ma per non raddoppiar l’acerbe pene
di colei che gli diede essere e vita,
l’alto dolor dissimula, e ritiene
a le correnti lagrime l’uscita.
Indi per consolarla a lei sen viene,
che traendo dal cor vena infinita,
par che per gli occhi fuor voglia in tant’acque
versar tutto quel mare, ond’ella nacque.

213.Ella, a cui per morir con lui che more,
d’esser nata immortai molto rincrebbe,
di si fervente ed efficace amore
eternar la memoria almen vorrebbe,
e con l’aspra memoria anco il dolore
che dopo morte a gran ragion gli debbe.
Quindi ognor ripetendo il caro nome
pace non vuol con l’innocenti chiome.

21_|. Mentre intorno cadean le chiome sparte,
meraviglia gentil nacque di loro,
ch’abbarbicate in questa e ’n quella parte
trasformare in smeraldo il lucid’oro.

Preser radice, e con mirabil arte
l’erba arricchir d’un signoril tesoro:
e ’l nome de la Dea lacere e tronche
serbano ancor per Tumide spelonche.

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215.Volea fuggir Amor, tanta pietá te
de l’angosce materne al cor gli venne,
ma de le lagrimette innargentate
la bella pioggia gli spruzzò le penne;
né potendo trattar l’ali bagnate,
il volo a forza entro ’l bel sen ritenne,
e tentò con dolcissimi argomenti
d’acquetar quelle doglie, e que’ lamenti.

216.Tutto pien di se stesso egli s’appressa,
e sparso d’amarissima dolcezza
la stringe, e bacia, e con la benda istessa
le rasciuga i begli occhi, e l’accarezza.
— Madre — dicea —, di consumar deh cessa
con l’altrui vita in un la tua bellezza.
La povertá degli antri oscuri e vili
indegna è di vestire aurei monili.

217.Perdona a l’auree trecce, e poni omai
a sí lungo languir misura e freno;
né piú turbar, c’han lagrimato assai,
de’ duo Soli amorosi il bel sereno.
Ché se di Dea celeste opera fai
vivo il bel foco tuo serbando in seno,
il pianger tanto un ben caduco e frale
ti vien quasi a mostrar Donna mortale.

218.11 trono mio dentro i tuoi lumi belli
stassi, e ’l foco e lo strai che mi donasti.
Non soggiogo con altro i cor rubelli,
qui fondato è il mio regno, e tanto basti.
Non pianger piú, ché non son occhi quelli
degni d’esser dal pianto offesi e guasti.
Si stilla in quell’umor l’anima mia:
ch’altri pianga per te piú dritto fia.

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219.Che fia di me, ch’i miei per sempre ho chiusi,
se da te tanta grazia or non impetro?
Romperò l’armi mie, se ciò ricusi,
a piè di questo tragico feretro;
se ben son giá tutti i miei strali ottusi,
e l’arco, ch’era d’òr, fatto è di vetro,
de la face l’ardor gela e s’ammorza,
ed io col pianger tuo perdo ogni forza.

220.Lasso, si strugge il Ciel, langue Natura,
e vien quasi a mancar la stirpe nostra.
Non vedi Febo, che di nube oscura
vela la fronte, e pallido si mostra?
Sviene ogni fiore, e secca ogni verdura
per questa giá sí lieta erbosa chiostra,
poi che Favonio, che scherzar vi suole,
per altri fiati respirar non vòle.

221.I dolenti augelletti o muti tutti
taccion tra’ rami, o fanno amari versi.
Mira le tue Colombe a tanti lutti
com’hanno i baci lor rotti e dispersi.
Mira ne la tua cuna i salsi flutti,
che par fremendo ancor voglian dolersi;
e le belle unioni a te si care
divengon per dolor lagrime amare.

222.Senza quella beltá, che sol mi porse
vita, e vigore, anch’io morir mi sento.
Ben potrebbe il destin punirti forse,
che chi nacque di te, per te sia spento.
Del pianto, che fin qui tropp’oltre corse,
qualche parte risparmia, e del tormento,
per serbarmi la vita a miglior sorte,
o per pianger la mia con l’altrui morte.

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223.Prègisi che per lui piangan le Dive,
Adon tra le miserie anco beato.
Morí quanto a la vita, a l’onor vive,
mortai fu il corpo, il nome è immortalato.
Piagne colá d’Arabia in su le rive
Mirra vie piú costui che ’l suo peccato.
Piangon gli Amori in Cipro, i bronchi, i dumi
clistillan pianto, e corron pianto i fiumi.

224.Fu bello, è ver; non però giá d’alcuna
grazia (sia con sua pace) Adon si vanti,
ch’agguagli quest’onor, questa fortuna
d’aver l’essequie da si dolci pianti:
ché ’n suggetto terren mai non s’aduna
merito degno di divini amanti;
e quand’ama alcun Dio cosa mortale,
la fa valer quel che per sé non vale.

225.Tu l’ombra di colui piangendo offendi,
che felice riposa e lieto giace,
e gode forse entro gli Abissi orrendi,
maggior che tu non hai, quiete e pace.
Sgombra dunque ogni affanno, ed a me rendi
le fiamme e i dardi miei, l’arco e la face,
ché ti giuro per essi, a tutti i cori
far sentir (fuor ch’ai tuo) piaghe ed ardori. —

226.Cosí scopriva Amor l’interno affetto,
e volando in quel punto anco volea,
per in parte esseguir quanto avea detto,
giá ne’ begli occhi entrar di Citherea.
Ma respingendo il crudo pargoletto
con la man bella l’infelice Dea,
— Taci taci — gli disse —, a che presumi
baciarmi il volto, ed asciugarmi i lumi?

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22 7. Tardi con questi tuoi mi torni innanzi
intempestivi omai vezzi e conforti.

Or mi lusinghi, e ’ncontr’a me pur dianzi
Tarmi volgesti, e n’ebbi ingiurie e torti.

Ah che di feritá le Tigri avanzi,
né brami altro giá mai che stragi e morti!

È tua la colpa, e non altronde uscio
la sua morte, il tuo danno, e ’l pianto mio.

228.Sú sú, vattene al bosco, affretta Tale
con questi d’ogni ben vedovi Amori.
Recami preso il perfido animale,
Tempio distruggitor de’ nostri onori,
acciò ch’io con l’autor d’ogni mio male
possa in parte sfogar tanti dolori:
ch’almen con la sua morte a te s’aspetta
far de la vita mia qualche vendetta. —

229.Ubbidisce il fanciul pronto e spedito,
né tarda a rivestir gli usati incarchi.
Giá va per tutto col drappello ardito
spiando i boschi, attraversando i varchi.
Lunge si sente per l’erboso lito
lo stridor de le penne, e ’l suon degli archi,
mentre ciascun di lor per la foresta
apparecchia gli arnesi, e Tarmi appresta.

230.Di saette, di spiedi, e di ritorte
armato va Tesserato pennuto.
Qual col ginocchio a terra incurva il forte
o di legno o di nervo arco cornuto.
Qual per condurre il reo Cinghiale a morte
forbisce a dura cote il ferro acuto,
e lievemente poi, mentre l’incocca,
con l’estremo del dito in punta il tocca.

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231.Cosí qualor da le granite spiche
scote su l’aia il metidor l’ariste,
agli essercizii lor van le formiche
rigando il suol di lunghe e nere liste.
Cosí tra lor le cure e le fatiche
partendo, in piú d’un stuol schierate e miste,
vanno a rapire i piú soavi umori
l’api dorate agli odorati fiori.

232.Giá la selva si cerca e si circonda,
ciascuno il primo a prova esser s’ingegna.
Trovano in tana alfin cupa e profonda
la Fera, che del giorno il lume sdegna,
e con la bocca ancor di sangue immonda,
poi ch’offesa ha colei che ’n Cipro regna,
e còlto il fior di cosí nobil vita,
quivi di tanto error vive pentita.

233.Tirata è fuor del cavernoso sasso,
altri la gola, altri le gambe allaccia.
Chi sferza con la corda il fianco lasso,
chi da tergo con l’arco oltre la caccia.
Move tardo e ritroso il piede e ’l passo,
timida trema, e sbigottita agghiaccia
l’orrida prigioniera, e ’nvan si scote,
a cui la Dea parlò con queste note:

234.— O di qualunque mostro aspro e selvaggio
piú maligna e crudel. Furia, non Fera,
tu far ardisti a quel bel fianco oltraggio,
che de’ colpi d’Amor degno sol era?
tu di quel Sol discolorare il raggio,
che facea scorno a la piú chiara sfera?
romper d’un tanto amore il nodo caro?
e ’l dolce mio contaminar d’amaro?

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235.Or qual rabbia infernal? qual ira insana
stimulò sí la tua spietata fame?
Com’osò la tua gola empia e profana
di tal ésca cibar l’avide brame?
Potesti esser sí cruda e sí villana
in accorciar quel dilicato stame?
Oh di tal feritá ben degna prova!
Rea ventura dal Ciel sovra ti piova. —

236.La Bestia allor, che d’amoroso dardo
il salvatico core avea trafitto,
quasi mordace can, ch’umile e tardo
riede al suo correttor dopo il delitto,
a quegli aspri rimproveri Io sguardo
levar non osa oltremisura afflitto.
Pur la ruvida fronte alzando in suso
in sí fatti grugniti aperse il muso:

237.— Io giuro (o Dea) per quelle luci sante,
che di pianto veder carche mi pesa,
per questi Amori, e queste funi tante,
che mi traggono a te legata e presa,
ch’io far non vòlsi al tuo leggiadro amante
con alcun atto ingiurioso offesa.
Ma la beltá, che vince un cor divino,
può ben anco domar spirto ferino.

238.Vidi senz’alcun velo il fianco ignudo,
il cui puro candor l’avorio vinse,
ché per farsi al calor riparo e scudo
de la spoglia importuna il peso scinse;
onde il mio labro scelerato e crudo
per un bacio involarne oltre si spinse.
Lasso, ma senza morso, e senza danno
l’ispide labra mie baciar non sanno.

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239.Questo dente crudel, dente rabbioso
d’ogni dolcezza tua fu l’omicida.
Questo a le gioie mie tanto dannoso
punisci, e di tua mano or si recida;
e come de l’altrui fu sanguinoso,
tinto del sangue suo si dolga e strida.
Ma sappi (o Dea) che se t’offese il dente,
(scusimi Amor) fu l’animo innocente. —

240.Con tanto affetto a l’unica beffate
i suoi rigidi amori il Mostro espresse,
che del rozo rivai mossa a pietate,
di quel fallo il perdon pur gli concesse;
e per ambizion che de l’amate
bellezze un Mostro ancor notizia avesse,
men fosco il guardo a’ suoi scudier rivolto,
súbito comandò che fusse sciolto.

241.Sciolta l’afflitta e desperata Belva,
cercando va la piú riposta grotta.
Fugge dal Sole in solitaria selva
tra folti orrori, ove mai sempre annotta.
Per vergogna e per duol quivi s’inselva,
e la zanna crudel vi lascia rotta.
La zanna, ch’oscurò tanta bellezza,
contro que’ duri sassi a terra spezza.

242.La scelerata allor Ninfa loquace,
che fu prima cagion di tanto male,
io dico Aurilla, che la lingua audace
sciolse. Adone accusando al gran rivale,
pentita anch’ella, e non trovando pace
nel dolor che l’assedia, e che l’assale,
sen fugge al bosco, e gitta l’oro, e dice:
— Vanne, de’ cori avari ésca infelice.

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243.Oro malnato, del tuo pessim’uso
previde i danni il Cielo, e se ne dolse,
e quasi in stretto carcere, laggiuso
nel cor de’ monti sepelir ti vòlse.
Chi fu, che la prigione ov’eri chiuso,
omicida crudel, ruppe e disciolse?
Del ferro istesso piú crudele e rio:
se non che ’l ferro fu, che ti scoprio!

244.E pur il Sol poi che ti vide fòre,
poi che fur le tue forze al mondo note,
si compiacque di te, del tuo splendore,
e del bel carro n’indorò le rote.
Per te possanza al suo gran regno Amore
accrebbe, e ’n tua virtute il tutto potè.
Tu fabricasti i piú pungenti strali,
né fa mai senza te piaghe mortali.

245.Qual cor non domi? o qual valor sí forte
fia che senza cader teco contrasti?
Qual sí ritrosa Vergine le porte
non t’apre de’ pensier pudici e casti?
O pestifero tosco, o morbo, o morte,
ch’i piú puri desir corrompi e guasti!
Ben è ragion, se ne’ piú cupi fondi
quasi per tema pallido t’ascondi!

240.Ma qual potea del mio piú grave fallo
altri per tua cagion commetter mai?
Fu piú del fragilissimo cristallo
la mia perfida fé fragile assai.
Per cupidigia d’un sí vii metallo
innocente beltá tradire osai.
Forsennato dispetto, impeto stolto,
ch’a la Diva de’ cori il core ha tolto.

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247.Fere, barbare Fere, ingordi mostri,
uscite orride Tigri, Orsi nocenti,
uscite a divorar da’ cavi chiostri
col mio corpo in un punto i miei tormenti!
Ben saranno (cred’io) gli artigli vostri
del tarlo c’ho nel cor meno pungenti.
Fere di questa Fera assai piú pie,
se sepolcro darete a Tossa mie!

248.Ma se le Fere pur crude e proterve
per maggior crudeltá trovo men ree,
questa man, questo strai che fa? che serve,
che ’l sen non m’apre, e ’l sangue mio non bee?
Or che ’n me piú l’insania ebra non ferve,
la ragion sue ragioni usar ben dee,
e vendicar con piaga memoranda
di tanta fellonia l’opra nefanda.

249.Volgi a me gli occhi, e mira i pianti miei,
o di prigion sí bella anima uscita,
alma, che sciolta per mia colpa sei
dal bel nodo, ond’Amor ti strinse in vita.
Deh perché non poss’io, come vorrei,
seguitarti volando, ove se’ gita?
SI si potrò, ché di quest’aureo strale
le penne per volar mi daran Tale.

250.Questo mio fido strai, che tanto asperso
per le selve ha fin qui sangue ferino,
fia che nel sangue mio tinto ed immerso
a sí gran volo or or m’apra il camino. —
Sí disse, e nel bel sen lo strai converso
sodisfece al tenor del fier destino,
onde di tepid’ostro un largo rio
tosto a macchiar le vive nevi uscio.

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251.Bacco, che la mirò dal vicin colle,
Bacco, ch’era di lei fervido amante,
raccolse per pietá lo spirto molle,
e cangiollo in leggiadra Aura vagante.
Or cangiata anco in Aura, è vana e folle,
rnobil (come fu sempre) ed incostante;
né trasformata in lieve Aura sonora
di garrir cessa e mormorare ancora.

252.E fatta Aura raminga, a tutte l’ore
colá sen vola ove ’l terren fiorisce,
e quivi il bell’Adon mutato in fiore
moke co’ baci e co’ sospir nutrisce,
e da le belle foglie il vano odore
(vana emenda del danno) almen rapisce.
Poi per lo sottilissimo elemento
di sue dolci rapine innebria il vento.

253.Piú che mai tardi da’ profondi Abissi
la notte di quel dí ne l’aria ascese;
né tanto mai dapoi che ’l Sol partissi
le sue tenebre usate il mondo attese;
né mai velata di pietose ecclissi
sí pigra Hespero in Ciel le faci accese;
e quando aperse lo stellato polo,
tutt’altro illuminò, che Cipro solo.

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