La sesta crociata, ovvero l'istoria della santa vita e delle grandi cavallerie di re Luigi IX di Francia/Lezione preliminare

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Prefazione dell'editore La sesta crociata

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LEZIONE PRELIMINARE.




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DI ALCUNE UTILITÀ


CHE SI PONNO RICAVARE


DALL’ANTICA LINGUA D’OIL


PER


L’ISTORIA DELLE LINGUE VOLGARI ITALIANE

____


È stato detto per altri, ed io credo di aver già alquante volte bastevolmente dimostrato, come le lingue neolatine si continuino alle latine parlate senza alcuna interruzione, e come negli odierni linguaggi d’Italia, Francia, Spagna e Dacia non si debba ravvisare che un’ultima età di quel primitivo idioma di Roma armata, il quale, corrotto e corruttore ad un tempo, fu piuttosto tiranno che re delle favelle da lui soggiogate. Ma se tutto ciò è facile ad essere inteso e provato intertenendosi sulle generali, riesce poi per contrario assai difficile a dichiararsi ne’ particolari, qualora il fedele istorico di esse lingue voglia rendere patenti le ragioni di ogni più minuta vicenda in quelle introdotta. E veramente le neolatine moderne, siccome lingue parlate, sono antichissime, siccome scritte non oltrepassano quasi mai il mille con indubbii ed abbastanza lunghi monumenti. Da questo termine ascendendo noi [p. xii modifica]troviamo un latino scritto, il quale, per quanto sia barbaro confrontato col simigliante del secolo d’Augusto, è bene però altra cosa dalle favelle che ne riuscirono: la mancanza dunque di monumenti, che di età in età ci facciano conoscere la lingua di transizione tra esso latino scritto, ed i neolatini parlati intorno il mille, forma la vera disperazione dei filologi, e presenta quel campo sterile ed abbuiato, sul quale, appunto per la incerta luce che lo rischiara, molti hanno segnato vie diversissime; molti hanno collocato mostri e fantasime; molti in fine, non potendo conseguire l’aperto vero, hanno disposto una certa loro catena di verosimiglianze, alla quale attenendosi, credettero di traversare a salvamento il deserto, e di congiungere con felicità i due estremi opposti.

Si è diviso il latino, in latino vero, in latino romanzo, ed in neolatino: si è assegnato il primo largamente alla dominazione di Roma armata e vittoriosa; il secondo alla dominazione di Roma invasa e prevalente soltanto come la sede dell’Apostolo; il terzo alla dominazione Romana stabilmente conquistata dai Nordici, ossia ai nuovi Regni stabili a’ quali è necessità una lingua nuova. Divisione opportuna, ma che giova ai fatti non agl’idiomi, a cui un nome novello non dà chiarezza, e solo può dar distinzione. Che questa lingua infatti di transizione si dicesse Romanza o Romana o altrimenti, e non più Latina, ciò poco montava per conoscerla; e quando poi i dotti a noi più vicini vollero mostrarcela intera nel Provenzale, ossia nella lingua [p. xiii modifica]d’oc, questi, valga la verità, commisero allora un poco perdonabile errore, dandoci una fra le lingue neolatine, ossia della terza età, per quella madre supposta comune che si cercava, ossia per quella lingua di mezzo, donde poi dovevano nascere varie, secondo la varietà degli elementi che le componevano, le neolatine Italiche, le neolatine Galliche, le Ispane e le Daco-Romane.

Dovevano invece questi dotti medesimi, secondo il mio rimesso modo di intendere, cercare almeno nelle due lingue neolatine che ci presentano sinora monumenti più antichi, cioè in quelle di oc e di oil, sole quelle parti, le quali poscia col ripolirsi di esse lingue si vennero disperdendo, per vedere se sopra queste, con pazienti e regolari induzioni, si potesse ricostrurre il latino romanzo, e non già con generici indovinamenti, o con fatti troppo posteriori. Doveano sorprendere, in tal qual modo, in quei resti la fuggente memoria di una loquela instabile di sua natura, perchè lasciata al volgo ed all’urto di tante lingue nemiche quante venian piombando di que’ tempi sull’Imperio lacerato: ed alla guisa di quegli abili architettori, i quali dalle fondamenta tuttavia durevoli e da alquanti ruderi al tempo avanzati, si ardiscono, insistendo sulle certe regole dell'arte, rappresentarci di nuovo come fu veramente tutto un tempio, un teatro, un ippodromo, doveano, dico, dall’arcaico delle neolatine ricostruire il più vetusto Romanzo che si ignorava, e con questo venire, come colla face di altrettante cagioni, illuminando le lingue nostre moderne, [p. xiv modifica]divenute allora così quasi effetti necessari e conseguenti di quelle.

Difficile impresa, ed alla quale si converrebbe bene che si facesse buon viso, qualora, assunta da un erudito, fosse condotta a termine colla possibile felicità; ma impresa, lo ripeterò pure, più forte assai di quello che possa stimare chi in così fatti studii sia nuovo, o, peggio ancora, chi d’essi sia soltanto mezzanamente istruito. Frattanto io pago all’averla accennata ad altri di me più valente e fornito di più beate comodità, ed inteso come sono da gran tempo a raccor materiali per l’istoria dei Volgari Italiani, verrò cercando nella più vecchia lingua d’oil alcune antichità per vedere se da queste si possa aver fumo almeno di quell’italico sequiore che fu mezzano tra il latino e il volgare odierno, e se per esse o con esse si possano render chiari ed istoricamente definibili alcuni fatti presenti, de’ quali io non so che altri abbia mai reso ragione o probabile od autorevole, ossia attinta alle più intime e naturali cagioni, e, per cosi dire, alle viscere istoriche della lingua.

Molti hanno cercato dottamente le fondamenta dell’alto Franzese; ma in questi nostri tempi1 sono a mia notizia tra i migliori M. Orell nella sua Grammatica; M. Raynouard nelle Osservazioni sul Romanzo de Rou, e nella Grammatica comparata delle lingue dell’Europa latina; l’Abate de la Rue ne’ suoi Saggi istorici sui bardi, giullari, e troverri; il [p. xv modifica]Roquefort nel Glossario della Lingua Romana; Gustavo Fallot nelle Ricerche sulle forme grammaticali della Lingua Francese e de’ suoi dialetti nel XIII Secolo, e Mary-Lafon in varie opere di consentaneo argomento. Giovandomi pertanto degli studii di questi illustri, e di quelli ch’io stesso ho fatto lungamente sulle due antiche lingue di Francia, verrò disponendo qui sotto un saggio delle mie osservazioni, premettendovi però un breve cenno sovra essa lingua d’oil e suoi principali dialetti, siccome di cosa non comune fra noi, e la cui notizia potrà tornarci utile in seguito per aggiudicare appunto a questa avvertita varietà de’ dialetti la varia enunciazione di una medesima voce.

Dalla prima occupazione delle Narbonesi sino a Clodoveo erano già corsi sei secoli, e più di cinque da che tutte le Gallie erano divenute Romane. Nella lunghezza di tanti anni la lingua Celtica, ossia la lingua dei vinti, avea ceduto in faccia alla lingua dei dominatori, e questa medesima potea essere detta per tutte quante le Gallie quasi naturale ed indigena, dopo che Roma, non ponendo più altro confine alle proprie mura fuor quello che avrebbe segnato il Dio Termine custode ai limiti dell’Impero, avea empito di coloni non solo, ma di cittadini e di senatori le sue conquiste. I Provinciali e gli Aquitani prevalevano in vero nella Romanità, ma non per ciò meno erano Romani i Galli oltre il Ligeri, ed anzi pareva ch’essi lo divenissero viemaggiormente, quanto meno invece si facea attuosa la forza vitale del combattuto e derelitto [p. xvi modifica]centro della signoria degli Augusti. Il Gallo-Romano regnava dunque solo dalle Alpi al Reno, quando i Franchi varcavano quest’ultimo, e, dopo alquante fortunose vicende, facendo prevalere finalmente l’affilata loro francisca allo spuntato pilo dei degeneri legionarii, stanziavano nelle Gallie settentrionali per intere nazioni, e vi mescevano al primitivo linguaggio il naturale lor teotisco.

Da quel tempo cominciò a comporsi nelle Gallie una lingua parlata in parte novella, seguitò a durarvene un’antica, se non in quanto si dovea poi modificare per altri barbari che avrebbero tentato di scombuiarla. La prima, in memoria della sua origine, si disse anche in seguito Romanza, o dal modo di affermare si nominò lingua d’oil, o d’oilz o Lingua Oytana, la seconda perseverò ad appellarsi Romana, e poi Limosina e Provenzale, ovvero, sempre dalla particella affermativa, si indicò per Lingua d’oc, od Occitana o Occitanica. Quella tenne le province che i Franchi nelle successive loro conquiste coprirono d’orde Germaniche tra i fiumi del Reno e della Loira: questa le rimanenti meridionali, che o nol furono, o furono solo di passaggio o per minor tempo.

Restringendoci pertanto a dire di quelle prime noi osserveremo, per conseguenza al preposto, che se per tutte le Gallie settentrionali, dalla identità della mescolanza, cioè del Gallo Romano dei soggetti col Teotisco, o meglio ancora col dialetto dell’alto o vecchio Tedesco dei conquistatori, ne dovea nascere un linguaggio solo e uniforme: non è [p. xvii modifica]perciò meno vero che dalle varie condizioni d’ambi gli elementi di che essa miscèla si componeva, questo poteva qua e colà variamente alterarsi, donde poi ne potrebbero nascere in esso linguaggio medesimo le possibili sottovarietà dialettali.

E già la principale influenza Franca non dovea esercitarsi sul meccanismo, e direi quasi sull’ossatura della più ampia e diffusa loquela de’ soggiogati, ma contenta all’aggiugnere alquante parole designanti cose ed usanze novelle, doveva esercitarsi massimamente sulla sua enunciazione, o vogliami dire sulla pronuncia. Per essa dunque ne verrebbero modificati i corpi e le desinenze delle voci gallo-romane, per essa si accrescerebbero gl’incerti suoni dei dittonghi, frutti per lo più o di lingue mescolate o di alfabeti ascitizii ed improprii, per essa finalmente ne riuscirebbe poscia inferma e variabile la scrittura, quando sarebbe posta al duro sperimento di raggiugnere con segni latini la diversità dei suoni dialettali, e l’oscura mistione o di più vocali o di mal discernibili consonanti.

Verso il Nord ci dice l’istoria che i Franchi s’accamparono e stettero in maggior numero, e però le Fiandre, l’Artesia e la Piccardia noi le troviamo con i suoni più aspirati e più aspri. La Borgogna, il Nivernese, il Berrì e le province vogliam dette o più meridionali o centrali, addolciscono per contrario la profferenza, e s’allargano nelle vocali; ed in queste sappiamo che abbondarono i conquistati, siccome in quelle che dovettero accogliere, non solo i possessori antichi, ma quei Gallo-Romani [p. xviii modifica]che primieri dal Reno rifuggirono innanzi le prime invasioni dei Franchi. Per differenza da questi sopra discorsi noi troveremo invece uscire più mingherlino o più smilzo il dialetto di Normandia, perchè i terzi abitatori sopravvenutivi dal Norte vi portarono nella pronuncia la stretta e speciale secchezza delle lingue Scandinave. Si potranno dunque largamente dividere, secondo l’opinione del Fallot, i dialetti principali della lingua Oytana in normanno, in piccardo o fiammingo, ed in borgognone, rimanendo poi il dialetto della mezzana Sciampagna misto cosìi del primo come del terzo.

Si parlerà dunque esso primo in Normandia, Bretagna alta, Maine, Perche, Angiò, Poitù e Santongia; il secondo in Piccardia, Artois, Fiandra, Hainaut, Basso Maine, Thierache, Rèthelois e Sciampagna settentrionale; il terzo in Borgogna, Nivernese, Berrì, Orleanese, Turenna, Basso Borbonnese, Isola di Francia, Sciampagna meridionale, Lorena e Franca Contea. Dal che ne conseguirà finalmente essere il dialetto normanno, il dialetto gallo-romano-franco-normanno della lingua d’oil, ed occupare l’ovest della vera Francia: il piccardo o fiammingo essere il dialetto gallo-romano-franco della lingua d’oil, e tenerne le parti settentrionali: il Borgognone finalmente essere il dialetto gallo-romano-franco-burgundio di essa lingua, e spandersi non tanto all’est, quanto per mezzo il centro e il cuore della Francia, e per ciò stesso doversi ritenere fra gli altri pel principale non solo, ma per quello ancora che servi quasi di base all’ odierno [p. xix modifica]Francese, contemperandosi cogli altri due dialetti che il premevano da ambi i lati, e venendosi con essi a fondere o nell’Isola di Francia, od entro le mura della regale Orleano.

La Lega Armorica, la vicina Aquitania, i possessi Normanni che oltrepassavano la Loira davano al dialetto Normanno una maggiore somiglianza colle lingue Occitaniche, e per ciò stesso, minorandone i dittonghi, e riducendolo per lo più a suoni meno pingui e decisi, lo venivano accostando insieme a ricordare l’italiano. Il Piccardo al contrario dovendo segnare con latino alfabeto gl’incerti suoi suoni, le aspirazioni e le gutturali che il mostravano meglio informato di una settentrionale pronuncia, sostituiva il ch al k, sovrabbondava di lettere, e specialmente di vocali connesse per rendere il commisto suono de’ suoi dittonghi e trittonghi. Il Borgognone per fine che amava un non so quale lezioso strascico di enunciazione, inseriva quasi in ogni parola una sua vocale caratteristica, ed ammincolando così le a come le e di i sovraggiunti, veniva a farsi vasto e pieno, e per conseguenza talvolta lento e abbiosciato. Cosi alla futura Lingua Francese che dall’unione avvertita indi ne nascerebbe, il Normanno avrebbe dato la spigliatezza, il Piccardo lo spirito, la sonorità il Borgognone.

Volendo cercar dunque per questi antichi dialetti, ossia per l'antica lingua d’oil in essi stessi spartita, alcune forme sue proprie e dismesse dappoi, le quali valgano però a dimostrarci o la nativa [p. xx modifica]simiglianza ch’essa teneva colla nostra volgare, o che ci rendano ragione di alcuni oscuri accidenti della medesima, noi, per farci pure un principio, cominceremo dall’articolo, e ne toccheremo in breve come seguirà.

Le lingue su cui il latino era venuto imperiando avevano i nomi o monoptoti o diptoti, distinguevano cioè tutto al più il soggetto dall’oggetto della proposizione, ossia il nominativo agente dall’accusativo paziente; quello che si dice dei nomi, ripetasi dei pronomi, e quindi nel pronome articolare ille esse dovevano cercare li e lo, ed in illa li e la senza più. Ci è poi noto da Prisciano I. v. De Casu che i Barbari supplivano alle desinenze casuali, ossia agli articoli pospositivi de’ Latini, con diversi articoli prepositivi prò varietate significationis, ed ottenevano altrettanto unendo all’articolare prepositivo ille preposizioni di moto da luogo od a luogo, ossia le particelle de ed ad2. Dipendentemente da quanto sopra, le antiche forme Normanne di questo nuovo articolo erano appunto li, del, al, lo: la, de la, a la, la, e cosi pure in Piccardo; se non che quest’ultimo dialetto non mostrando avere articolo speciale pel femminino, accadeva ancora che la sola forma maschile servisse per tutti i due generi. Si dovevano invece alla Borgogna le forme più lonze dou, ou od au, lou ecc., e tutti quegli i aggiunti al fine dell’articolo femminile, che lo venivano rimpinzando per rispetto agli altri [p. xxi modifica]dialetti. Era dunque l'articolo prepositivo nelle due parti delle tre che formavano la lingua d’oil affatto somigliante a quello della lingua di , e tale può riscontrarsi infatti nei migliori testi di Villehardouin. È però qui da ripetere come in tutti gl’idiomi ad articoli preposti e non suffissi essendo di massima importanza che il nominativo venga sempre distinto dall’accusativo, acciocchè nel discorso non s'ingenerino stranissime confusioni (e ciò tanto più qualora esse lingue formino transizione tra una anteriore che abbia avuto i nomi pentaptoti o esaptoti, ed una avvenire che li avrà monoptoti) così fu ancora che nei testi più antichi in lingua d’oil, anteriori cioè al 1200, si scrisse quasi sempre il nominativo femminile li e non la, perchè questo appunto non potesse confondersi col la somigliante, ma accusativo.

Una cosa sembra a prima fronte singolare dell'antico francese, ed ingenerare nel costrutto una non so quale perturbazione, ed è che qualora un sostantivo o proprio o generico ne reggesse un altro qualificativo del primo, poteva quest’ultimo lasciare la preposizione de, e star contento all'articolo accusativo lo o le; dicendosi per ciò in quella lingua: Chi infrange la pace lo re, per: dello re; Alla corona lo re, similmente per: dello re; Allora venne nell’oste un Barone lo Marchese Bonifacio in messaggio per: del Marchese Bonifacio. Ma qualora si ricordino i due accusativi che potevano in latino seguitare un verbo, e per ciò i Ciceroniani: itaque te hoc obsecrat, per: de hoc, [p. xxii modifica]illud te ad axtremum et oro et hortor, per: de illo ecc.; e qualora si richiamino le nostre frasi: la Dio mercè, per la Dio grazia, e meglio poi le antiche Fiorentine uscite di casa il padre, nelle case i Buondelmonti, e simili, si troverà ancora nei poco difformi accidenti le ragioni di una pari discendenza da una non diversa lingua intermediaria, nella quale forse un susseguente sostantivo retto e prenunciato appunto come regime non come soggetto, prendeva qualità di aggettivo dell’anteriore sostantivo reggente.

Per dichiarare pure coi confronti certi usi volgari dell’articolo, i quali ricordano la sua origine dal pronome ille, illa, illud, tornerà ancora opportuno lo scegliere fra gli altri questo esempio tratto da Gerardo di Viane v. 2892-96, ove si può vedere chiaramente usato la per quella:

Sire Rollan, dist li quens Olivier,
Est ceu Joiouse, la Kallon a vis fier,
Don vos saviez si riches colz paier?
Nenil, biau Sire, dist Rollan li guerrier,
C’est Durandart, m’espée à poig d'ormier.

cioè:

Sire Orlando, disse il Conte Oliviero,
È questa Gioiosa, quella di Carlo al viso fiero3
Donde voi sapete sì ricchi colpi pagare ?
Mainò, bel Sire, disso Orlando il guerriero,
È Durlindana, la mia spada dal pugno d’oro!4.

Ma se da un lato ciò farà ricordarci gli usi del trecento, secondo i quali l’articolo la era anche [p. xxiii modifica]presso noi pronome tanto nominativo quanto accusativo, dall’altro seguiteremo osservando che, quasi a compenso del suo eventuale difetto, esso articolo veniva in taluni casi a sovrabbondare anteponendosi persino al pronome dimostrativo per modo di inculcamento o ripetizione, e lasciava che si scrivesse les ceux, les celles pei semplici ceux e celles, confrontando coll’ille is de’ latini, e dando al dimostrativo il trattamento istesso del relativo. Inoltre, convenendo sempre più col nostro volgare, l’articolo si prefiggeva ai pronomi possessivi accompagnati dal loro sostantivo, e però la lingua Oytana ammettendo per buone le frasi che io scelgo fra le moltissime o di Villarduino o di Girardo di Viana: a la soe gentLes vos armes5Li siens peirePer la toie merciEn la moie bailieUn suen chevalierUn sieus fils — seguitava sempre meglio a mostrarci la somiglianza maggiore che conservano insieme le sorelle neolatine quanto più esse si confrontino nei tempi loro meno vicini ai presenti.

Ora dall’articolo volendo passare ad alcune più lunghe osservazioni sui nomi, mi si affaccia per prima quella regola famosa, detta della s caratteristica, della quale facendone onore a M.r Raynouard6 si potè dire di lui, che con solo il trovamento di questa norma perduta egli avesse dissepolta e tornata a vita la vera intelligenza delle due lingue [p. xxiv modifica]d’oc e d’oil. Stabilì dunque questa regola stupenda che nelle due lingue Oytana e Occitana la s finale dei nomi non servisse soltanto a distinguerne il plurale, siccome accadde dopo il XIV secolo, ma valesse anzi a distinguere colla sua presenza in essi nomi il soggetto o nominativo singolare, ed i regimi, ossiano i casi obliqui, in plurale; e colla sua assenza per contrario i regimi, ossiano i casi obliqui del singolare, ed il soggetto o vogliam dire il nominativo del plurale. Ne uscì per quella il nome del Segretario dell’Accademia Francese in chiarissima fama, ed essa stessa fu quasi la scintilla cui secondò poi tanto incendio, quanto fu veramente l’amore che molti indi posero al coltivamento delle Lingue Romanze.

Ed il nome del Letterato Francese fu certamente a me carissimo, e, secondo poterono le mie forze, cercai sempre all’opportunità d’innalzarlo, e l’ebbi, per sin ch’e’ visse, tra quelli de’ miei più amici del cuore: ma poiché i meriti suoi sono tali che il toglierne la novità di uno solo non è che picciolo fatto, e d’ altra parte la verità dee andar sopra a qualunque affezione; io dovrò dire che tutta la lode di questa regola è da levarsi ai moderni, ed è invece da attribuirsi ad un antico Trovatore che scrisse un breve Trattato grammaticale della propria lingua nativa, ciò è Limosina, nel medesimo suo volgare, e che, conservatosi manoscritto nella Libreria Fiorentina a San Lorenzo, da poco tempo è venuto in copia alle mie mani per singolare cortesia di quegli eruditissimi Bibliotecarii. Questo [p. xxv modifica]Trattato che il Renuardo conobbe, fu anche detto da lui senza metodo, e scritto in termini che mal si potrebbero comprendere senza l’aiuto degli esempii (Gram. compar. Discours prélim. facc. 1, e II); ma con tutto ciò valse, in mano di un intendente quale egli era, a scovrire tutte le norme delle desinenze dei nomi romanzi, ed a Raimondo Vidale che lo dettò, e non ad altri, è perciò dovuta quasi intera la nostra gratitudine. La quale ancora, acciocché gli sia attribuita da tutti con cognizione, e per sempre meglio diffondere una regola che si può dire la fondamentale di questi studii, pubblicherò per la prima volta7 tutto quel tratto di Raimondo che può tornare opportuno al presente bisogno, e lo recherò in nostra lingua, non tanto per servire alla generale intelligenza, quant’anche per non anticiparmi in parte la edizione di tutto il testo, che io spero, permettendolo Iddio, di dar fuori quanto prima corretto degli innumerevoli errori di che è deturpato nel manoscritto8. [p. xxvi modifica] «Oggimai dovete sapere che tutte le parole del mondo mascoline che s’attengono al nome, e quelle che l’uomo dice nell’intendimento del mascolino sostantive e aggiuntive si allungano in sei casi, ciò è a sapere nel nominativo e nel vocativo singolari, e nel genitivo, e dativo, e accusativo ed ablativo plurali: e s’abbreviano in sei casi, ciò è a sapere nel genitivo, e dativo, e accusativo ed ablativo singolari, e nel nominativo e vocativo plurali.»

«Allungare appello io quando l’uomo dice cavalier-s, caval-s, non cavalier, caval; ed altresì di tutte le altre parole del mondo: e però s’uomo dicesse: lo cavalier es vengut, o: mal me fetz lo caval, o: bon me sap l’escut, male sarebbe detto perchè il nominativo singolare si dee allungare, e così si dee dire: lo cavaliers es vengutz, o: mal mi fetz lo cavals, o: bon me saup l’escutz

«Ed il nominativo plurale deve l’uomo abbreviare, non allungare, tuttoché si vada dicendo secondo mala usanza: vengutz son los cavaliers, o: mal mi feron los cavals, o: bon mi sabon los escutz. Altresì di tutte le parole mascoline s’abbreviano tutti li vocativi plurali come li nominativi, mentre li vocativi singolari s’allungano altresì come i nominativi.»

«Udito avete come l’uomo deve menare le parole mascoline in abbreviamento ed in allungamento: ora vi parlerò delle femminine, e di tutte quelle che l’uomo dice in intendimento di femminino. Saper dovete che le parole femminine sono di [p. xxvii modifica]tre maniere, le une che finiscono in a, in così come dompna, bella ecc., e molte altre parole che finiscono in or, in così come amor, lauzor, color, ed altre ne ha che finiscono in on, in così come chanson, sazon, faizon, ochaison

«Saper dovete che tutte quelle che finiscono in a aggiuntive e sostantive, in cosi come bella e dompna si abbreviano ne’ sei casi singolari, e s’allungano nelli sei casi plurali. Le altre che finiscono in or, in così come amor, color, lauzor, e quelle che finiscono in on, in così come chanson, sazon, ochaison s’allungano in otto casi, ciò è a sapere nel nominativo e nel vocativo singolari, ed in tutti li sei casi plurali; ed abbreviansi solamente nel genitivo, nel dativo, nell’accusativo e nell’ablativo singolari.»

«Ancora vi voglio dire che parole ci ha che si allungano in tutti li casi singolari e plurali, in così come: delechos, joios, volontos, ris, gris, vils, cors, ors, las, nas, gras, pres, temps, fals, reclus, ars, spars ecc., e nomi proprii d’uomini e di terre, in così come: Paris, Pois, Ponz, e molte altre che ce n’ha che rimangono al trovamento d’uomini sottili.»

«Ancora voglio che sappiate che nel nominativo e nel vocativo singolari l’uomo dice totz, ed in tutti gli altri casi singolari dice tot; e nel nominativo e nel vocativo plurali l’uomo dice tut, ed in tutti gli altri casi plurali dice anche totz

«Saper dovete che parole ci ha del verbo che l’uomo dice in così come del nome, ciò è a sapere [p. xxviii modifica]gl’infinitivi, così come chi voglia dire: Mal m’es l’anars, e: Bon me sap lo venirs: e queste altresì s’allungano e si abbreviano come è detto delli nomi mascolini.»

«Le parole sostantive comuni, quando l’uomo le dice per mascoline, s’allungano e s’abbreviano in così come le mascoline, e quando le dice per femminine, s’allungano e s’abbreviano così come le femminine che non finiscono in a. »

«In vostro cuore dovete sapere che tutti gli aggiuntivi comuni, ciò è a sapere fortz, vils, sotils, plazenz, soffrenz, di qualunque parte che siano o nome o participio, s’allungano nel nominativo e nel vocativo singolari, siano o mascolini o femminini; così come chi volesse dire: fortz es lo cavals, o fortz es la dompna, ed in tutti gli altri casi s’allungano e s’abbreviano così come li sostantivi.»

«Sappiate che uns s’allunga nel nominativo singolare, e per tutti gli altri casi dice l’uomo un. E nel nominativo e nel vocativo plurali l’uomo dice dui, trei, ed in tutti gli altri casi dos, tres; ed in tutti gli altri numeri sino a cento l’uomo dice per tutti d’una sol guisa.»

E qui potrei io finire il mio estratto dalla operetta importantissima di Raimondo; ma seguitando egli a parlare di altri più veri allungamenti ed abbreviamenti nei nomi, i quali costituiscono propriamente le declinazioni imparissillabe, e che fra poco avremo occasione di rilevare anche nell’antico Francese, per indi trarne poi deduzioni novelle, [p. xxix modifica]e forse non ispregevoli, per l’istoria del volgar nostro, così gioverà ed ai confronti ed al cumulo delle autorità il proseguire a recarne qui anche qualche altro tratto, traducendo sempre il testo con fedeltà in italiano.

«Parlato vi ho delle parole mascoline e femminine come s’allunghino di una s, e s’abbreviino della medesima in ciascun caso, restando però sempre d’un sembiante: ora vi parlerò di quelle che sono d’un sembiante nel nominativo e nel vocativo singolari, e di un altro in tutti gli altri casi.»

«Primieramente vi dirò le femminine. Nel nominativo e nel vocativo singolari dice uomo: Madompna, sor, necza, Gasca, garsa; ed in tutti gli altri casi singolari dice uomo: Midons, seror, boda (o neboda), Gascona, garsona; ed in tutti li casi plurali dice uomo: dompnas, serors, bodas, Gasconas, garsonas

«Delli mascolini potete udire oggimai che nel nominativo e nel vocativo singolari dice uomo: compainhs, peires, Bous, bars, bailes, ’N Ebles, laires, Bretes, Gascs, gars, Carles, Ucs, Guis, Miles, Gaines, Folques, Pons, Bemiers, paus; ed in tutti gli altri casi singolari, e nel nominativo e nel vocativo plurali dice uomo: compaignon, peiron, Bozon, baron, bailon, ’N Eblon, lairon, Breton, Gascon, garson, Carlon, Ugon, Guion, Milon, Ganellon, Folcon, Ponson, Bernison, paon; e nel genitivo e nel dativo e nell’accusativo e nell’ablativo plurali dice uomo: compaignons, peirons, Bretons, lairons, Gascons, garsons, [p. xxx modifica]paons ecc. E per ciò quando troverete una parola detta in due guise, dovete cercarne tutti i casi, ed in questi ne troverete la ragione.»

«Similmente per tutte le seguenti dovete sapere che nel nominativo e nel vocativo singolari dice l’uomo: senhers, Coms, Vescoms, enfes, homs, neps, abas, paistre; e nel genitivo e nel dativo e nell’accusativo e nell’ablativo singolari, e nel nominativo e nel vocativo plurali l’uomo dice: senhor, Comte, Vescomte, enfant, home, nebot, abat, pastor; e nel genitivo e nel dativo e nell’accusativo e nell’ablativo plurali l’uomo dice: senhors, Comtes, Vescomtes, enfanz, homes, neboz, abaz, pastors. Ed altresì se trovate di altre parole a sembiante di queste, voi dovete pensare ed isguardare che in così le deve uomo dire.»

«Delli nomi verbali ci ha di tre maniere, in così come: Emperaires, chantaires, violaires; ed in così come: jauzires, e grazires; ed in così come: entendeires, valeires e devineires. Questi e tutti gli altri di tale maniera, che ce n’ha molti, e che l’uomo dice così nel nominativo e nel vocativo singolari, d’altro sembiante li dice nel genitivo e nel dativo e nell’accusativo e nell’ablativo singolari, e nel nominativo e nel vocativo plurali, ciò è a sapere: Imperador, chantador, violador; e jauzidor, grazidor; e entendedor, validor, devinador: e nel genitivo e nel dativo e nell’accusativo e nell’ablativo plurali dice uomo: emperadors, jauzidors, entendedors ecc. così come li mascolini.»

«Il somigliante è degli aggiuntivi comuni [p. xxxi modifica]comparativi, i quali variano nel nominativo e nel vocativo singolari dagli altri casi. Per ciò nel nominativo e nel vocativo singolari dice l’uomo, con qualunque sostantivo sia mascolino o femminino: maires, menres, mielhers, bellazers, gensers, sordiers, priers; ed in tutti gli altri casi dice l’uomo: maior, menor, melhor, bellazor, gensor, sordeior, prior brevi e lunghi in così come li sostantivi mascolini, de’ quali si è ragionato di sopra.»

Riducendoci ora finalmente da questo, siccome spero, non inutile trascorso sulle condizioni del nome in Lingua Limosina, alle consimili affatto ch’esso aveva in Lingua Oytana, potremo anche dire di questo modo.

Essere mestieri il qui replicare di nuovo l’osservazione fatta superiormente, ossia che per le lingue neolatine, la cosa da prima più importante nei nomi (sia per tradizione da più antichi linguaggi, sia perchè gli articoli prepositivi ancora incerti non bastavano alla piena chiarezza del discorso) doveva essere stata quella di ben distinguere dal soggetto i regimi, così in singolare come in plurale, e però di dare al medesimo tale desinenza, che, aiutando già l’articolo ed il senso a determinare il numero, per essa poi si potesse prontamente o dall’udire o dal vedere sceverare il detto nominativo dagli altri casi. Riferendomi perciò ai miei Studi sul Latino arcaico, dirò come io creda d’avere in essi bastevolmente dimostrato che le desinenze della prima declinazione parissillaba latina dipendono dalla suffissione al nome radicale, cioè al nome spoglio di [p. xxxii modifica]flessioni, dell’antico pronome articolare pospositivo us od is, divenuto poscia per rovesciamento il casco prepositivo su o si. Intorno al quale se i Glossografi ne deducono la preesistenza dai conservatici sim per eum, e ses per eos, la Lingua Sarda poi s’incarica di ravvivarcelo col suo prediletto articolo prepositivo su, sa, che vi tien luogo costantemente del nostro dimostrativo ille, 'lla. Domin-us era dunque quanto su-domin (il domino o signore), e se aveva nel nominativo singolare per finale la s, l’aveva di conformità, alle pari declinazioni Indiane, Greche e Gotiche. Al contrario il nominativo plurale Domin-i era quanto Domin-ii, ossia Ii domini (i domini od i Signori). Inoltre questa s non si mostrava nei regimi singolari domin-i, domin-o, domin-um, ed usciva invece nei regimi plurali domin-is, domin-os, ad eccezione del genitivo che terminava in orum per quella apparente anomalia che tuttavolta trova nelle Grammatiche comparate gli opportuni ed autorevoli antecedenti. Dunque anche dietro questo cotale materno inducimento poterono le lingue Romanze colla presenza od assenza della s fare avvertiti i loro soggetti o regimi così singolari come plurali; e, non ammettendo eccezioni per l’avvisato genitivo plurale, stabilire una regola, la quale se apparentemente non dava molta ragione di sè medesima, noi anzi al presente vediamo averla avuta ne’ più antichi primordii della lingua laziare, e forse di parecchie altre, che se piacerà a Dio, dichiareremo a suo luogo.

Ora questa avvisata regola non dovendo essere [p. xxxiii modifica]considerata da noi soltanto come regola ortografica, ma bensì come opportuna distinzione ortofonica, cioè non essendo stata solamente trovata per chiaramente scrivere, ma perchè parlando si distinguessero udibilmente i casi retti dagli obliqui, e però dovendo, non solo essere scritta, ma ancora pronunciata con distinzione la s desinente, ne conseguirono, specialmente ne’ nominativi singolari, anche per maggior distinzione dai casi obliqui del plurale, alquante speciali contrazioni od uscite, le quali fecero poi che una sola parola potesse sembrarne due, e poscia tale divenir realmente, o nella istessa lingua quando questa non conserverà più le primitive avvertenze, o nelle lingue affini che si porranno ad imitar quella prima senza troppo voler render ragione a sè medesime della isvariata mozione delle parole nella varietà de’ loro casi.

E queste sono veramente quelle istoriche antichità degl’idiomi neolatini, alle quali non curarono sin qui di accostarsi gl’Italiani Grammatici, e che io cerco ora di additare agli studiosi, perchè in esse si provino ad indagare le cagioni di tanti effetti nella lingua del si, per ispiegare i quali furono soliti i nostri antecessori ricorrere ai voti nomi di proprietà, vezzo, frase e simiglianti, e non mai alla genesi intima dei linguaggi. Sia dunque che le poche cose ch’io verrò qui sopponendo levino in altri frutto di indagini accurate, di istorici confronti e di conseguenze dedotte da chiari e comprovati antecedenti linguistici.

Il volgare nostro messaggio, il quale tratto con [p. xxxiv modifica]desinenza romanza dal latino missus, sembra dover essere voce sola delle lingue neolatine francesi, non è cosi appunto, ma in vece si mostrò ne’ più antichi monumenti della lingua d’oil, meisages in nominativo singolare, e mesaigier ne’ casi rimanenti. Di qui dunque ne vennero presso noi con pari significazione le due voci messaggero e messaggio, delle quali veramente la seconda non è che la forma antica speciale del nominativo singolare, e la prima la forma più allungata de’ casi obliqui singolari, e del nominativo plurale della lingua Oytana, e forse della lingua antica comune di transizione. Parimente in essa loquela, nominativo singolare contratto era li glous, o li gloz, e voce intera di tutti gli altri casi glouton; donde possiamo intendere che a noi venivano privi di differenza, quanto a significazione, le due voci ghiotto e ghiottone, non valendo cioè dappoi più a distinguere il soggetto dai suoi regimi, senza che perciò si debba conchiudere che noi potessero fare dapprima anche nel volgar nostro, movendo tale distinzione dalla terza imparissillaba de’ latini, comune a tutte le lingue figlie, e la quale, se nel nominativo faceva gluto, in tutti gli altri casi si aumentava facendo glutonis, glutoni ecc. Per la qual cosa si dovrà ancora, al mio vedere, sbandire quind’innanzi dai nostri Dizionarii la differenza posta tra queste due voci, dicendovisi la seconda accrescitiva della prima, mentre invece significano puntualmente la cosa stessa, e la desinenza lungi dall’accrescervi, indica invece ai casi; siccome nel significato della voce [p. xxxv modifica]sermo nulla s’accresce, qualora esca in sermonem, valendovi solo l’aumento ad indicare accusativo quello che prima era nominativo.

Così era pure di quasi tutte le voci che risolvendosi uscivano in on, le quali cioè, foggiandosi sull’avvertita terza declinazione imparissillaba, contraevano, appunto come vedemmo avvertito dal nostro Raimondo Vidale, il nominativo loro singolare. E però barone, meglio confrontando col latino vir, (poi viro-vironis, il forte) faceva nel soggetto li bers o li bars, non li baron, ma baron bensì in tutti gli altri casi: e garzone, se pure si mostrava garson o garçon in tutti i regimi, era guars o gars nel soggetto, e da questo soggetto appunto il Beato Jacopo da Todi traeva il suo garzolino per garzoncello. A somiglianza di ciò i nomi proprii degli uomini, i quali per la nordica loro origine erano per lo più corti ed aspri di consonanti, quando si volevano declinare in qualche modo alla Romana, si aumentavano in on, non già per vezzo nè per accrescimento, non per forma insomma di ipocorismo o di magnificazione, ma per solo e semplice indizio ch’essi non erano più nominativi singolari. Perciò, siccome vedemmo in Limosino, così in antico Francese, il nome Guè o Guenels, declinandosi faceva Guenelon, donde i nostri Gano e Ganellone applicati ad un sol uomo senza che si potesse render ragione di tale varietà d’uscita, ignorandosi dai nostri Grammatici la regolare distinzione casuale ammessa dalle lingue d’oc e d’oil, e però gli scrittori succeduti coll’usanza indifferente [p. xxxvi modifica]mostrando apertamente di disconoscerla. Così per modo simigliante Bueves soggetto diveniva Buevon regime; Naymes diveniva Naymon; Othes, Othon; Guis, Guion; Karles o Charles, Karlon o Charlon; Odes, Odon; Rauls, Rollon; Pieres, Pieron e Perron; Phelippes, Phelippon; Marsile, Marsilion; Laizre, Lazaron, dandoci ancora ragione grammaticale ed istorica, non solo della varia uscita de’ nomi medesimi, ma sibbene di quei molti re Carlone, re Marsilione, re Namone e simili, che durarono ne’ poeti nostri romanzieri del ciclo di Carlo Magno sino al Boiardo ed al Cieco di Ferrara, e che noi credevamo sinora avere scritto così o per istracurataggine o per induzione sgraziata della rima, e non mai pensando che essi traducevano letteralmente dai Romanzi Francesi anche quelle cotali apparentemente grandiose desinenze, senza però avvertirne le sottili grammaticali distinzioni, le quali avrebbero voluto ch’essi dicessero Carlo, Marsilio e Namo quando questi erano nominativi, Carlone, Marsilione e Namone soltanto qualora questi medesimi erano regimi. Cosi nei nostri Bosoni, Guittoni, Jacoponi non era in origine accrescimento o dispregio, ma solamente una forma di regime, e però si doveva dire: Messer Buoso da Gubbio scrisse alquante rime, Fra Guido o Guitto da Arezzo molte Epistole, ed il Beato Jacopo da Todi moltissimi cantici; e per contrario: Rime di Messer Bosone da Gubbio, Epistole di Frate Guittone da Arezzo, Cantici del Beato Jacopone da Todi.


E già da questa forma medesima noi avremo la [p. xxxvii modifica]chiave ad aprire con probabilità uno de’ piccoli segreti di nostra lingua, che altrimenti ci resterebbe forse chiuso per l’avvenire siccome è stato, a mia notizia, sino al presente; cioè per quale istorica cagione la maggior parte delle forme avverbiali amino questa desinenza in one, non tanto nella lingua scritta, quanto più nei linguaggi viventi, cioè ne’ diversi dialetti della Penisola, dicendovisi avverbialmente in ginocchione piuttostochè in ginocchio, a tastone più volentieri che a tasto, e così: gatton gattone, grollon grollone, penzolone, ciondolone ed altri simiglianti a gran numero. E la ragione di tale desinenza è patente solo che da prima si consideri il modo col quale latinamente gli aggiuntivi si facevano avverbii, che era o ponendo in ablativo la voce da cui si formavano, gravando per lo più sulla sua vocale desinente, od allungandola di una sillabica, la quale serviva egualmente di più larga base ritmica all’arsi radicale, o passando la detta voce a caso obliquo sotto il regime di una qualsivoglia preposizione o sottintesa od espressa; e se da poi si considera che la nuova lingua, avendo adottato per segno de’ suoi regimi aumentabili questo accrescimento in one, doveva trovare in esso la via più naturale alla formazione degli avverbii, ogniqualvolta questi non dovessero presentare forme di soggetto. E però le due lingue di Francia, e la loro sorella neolatina, che poco dissimilmente si venia formando in Italia, adottavano di comune accordo una tale maniera, di cui, perdendosene poscia le ragioni sufficenti, se ne [p. xxxviii modifica]alterava l’usanza , e se ne israarriva l’origine e il procedimento.

Seguitando le nostre indagini avremo ragione della voce Sire pensando che in lingua d’oil Sires fu nominativo contratto della voce signor, e che però vi si diceva il sire, del signor, al signor ecc. talché il dire del sire, al sire ecc. è confusione posteriore fatta dopo che si scordarono le vere cagioni delle varie desinenze, e si crearono due voci di quella che prima era una sola. Similmente sapremo perchè si trovi scritto sarto e sartore, solo che osserviamo come in lingua d’oc nel nominativo si dicesse sartre (sarto), e nei casi obliqui sartor (sartore), talché la voce vi si declinava: il sarto, del sartore, al sartore ecc. Nè diversamente dal latino latro, latronis ne uscirono due parole secondo che si ricalcarono o sul soggetto o sui regimi, le quali poi furono, colla ferma adozione degli articoli prepositivi, confuse in seguito: infatti come li lerres per gli Oytani, ed el laire per gli Occitani erano soltanto nominativi, e larron o lairon erano unicamente regimi, così per noi ladro avrebbe dovuto essere pure soggetto, e ladrone avrebbe dovuto indistintamente servire per gli altri casi. Altrettanto dicasi di compagno che solo nei casi obliqui facea compagnone; e di sabbione, il quale non è un accrescitivo del femminino positivo sabbia, ma è sablon regime del soggetto maschile oytano li sables, od il sabbio.

E per tali minute avvertenze possiamo noi solamente risalire alla vera origine delle differenti [p. xxxix modifica]uscite della parola medesima, e però vedervi nelle variate desinenze un ricordo tuttavia di quelle fogge latine, che rendevano, singolarmente nella terza declinazione imparissillaba, tanto diverso il caso retto dagli obliqui. Seguitando le quali ecco che noi riscontreremo nella lingua d’oil come, in ispezialtà pei nomi che nei regimi avevano or a desinenza caratteristica, il nominativo (non più solamente per dare indizio dell’antica contrazione, ma per opportuno scompagnamento) usciva invece in eros od ers, e perciò vi si diceva nel soggetto li emperers, o li empereres, e negli altri casi de l’empereor, a l’empereor ecc. Onde poi avremo ragione di quell’antica uscita di questa voce che noi troviamo ne’ vecchi testi di nostra lingua, cioè imperiero, la quale poteva ben prendersi dalle lingue di Francia o dalla comune di transizione, ma non doveva poi trasportarsi da forma puramente nominativa, a forma invece capace di tutti i casi.

E da una tale avvertenza vedremo ancora come prendano lume di origine tante nostre parole terminate in iero o iere, le quali partitesi da nominativi oytani, o stettero sempre contente a quella forma, oppure da quella medesima deducendosi, si debbono ancora con essa interpretare: talché cavalliere è desinenza nominativa di quella lingua per differenza dai casi obliqui dimenticati che avrebbon fatto cavallatore; consigliere nominativo di quei regimi che avrebbon dato consigliatore, lusinghiere similmente di lusingatore; parliere di parlatore, e così va dicendo. Messere infatti non [p. xl modifica]avrebbe potuto essere che nominativo o vocativo singolare, e negli altri casi sarebbe stato regolare il dire Monsignore o Messignore; così giocoliere e troviere mostravano le loro forme soggettive, e quelle invece dei regimi giocolatore e trovatore, senza ch’io stanchi l’avvisato lettore con esempi più numerosi: stando invece contento alla conchiusione inculcata che queste diverse uscite non formavano già due voci, ma sì non erano che la voce medesima a varie desinenze per iscompagnare appunto con esse il nominativo dai casi obliqui; servendo così a mostrare, dalla lingua latina scritta o dotta che indicava i casi cogli articoli suffissi, alla latina orale o rustica che si giovò dei medesimi antefissi, un trapasso ed una condizione quasi mezzana in tale differenza di terminazione in quel caso appunto a cui era meno consueto il pronome articolare dimostrativo, ed al quale poi non si conveniva l’aggiunta di alcuna preposizione che valesse a prefiggerne, o segnalarne la direzione.

Ancora la regola di dover sempre posporre al soggetto singolare una s faceva sì che quei nomi i quali sarebbero radicalmente finiti in m, per non ammettere il poco pronunciabile ms, mutavano la m nella n facendo ns. Però soggetto di fum era funs non fums; di flum, fluns non flums; di nom, nons; di raim, rains; di faim, fains; e per conseguente di hom od om, hons, od ons da cui può prendere maggior chiarezza l’on de’ Francesi odierni, a persuadere viemmeglio che il loro on dit, non sia che l’antico hons od ons dit, cioè, uomo dice. [p. xli modifica] È pure osservabile che certi sostantivi participiali, o vogliam dire certi participii divenuti sostantivi, mantenevano nel soggetto la forma originaria de’ participii latini: e perciò infante, che era enfant negli altri casi, era anzi enfes od anfes nel nominativo, ricordando l’infans della madre, e per simiglianza diamante, aimant, era aimas nel soggetto ritraendo dall’adamas donde si originava.

Nel Poemetto sopra Cristo Salvatore attribuito al Boccaccio, si legge:

Essendo in croce la eterna Maésta
Abbandonata da ogni persona,
Il Sole, chiuso in ombra dalla sesta
Ora, ecc.

Il Boccaccio poi certamente nel Decamerone, siccome avvertiva il Bembo nel III delle Prose, aveva scritto: Giudice della Podésta di Forlimpopoli, e Dante nel VI dell’Inferno al v. 96.

Quando verrà la nemica podésta:

e dura tuttavia viva e verde questa voce ne’ nostri dialetti ne’ quali: essere o non essere in podésta di fare una cosa, vale: avere o non avere podestà di farla. Ora in ciò non è da credere un cieco arbitrio degli scrittori o de’ parlatori, ma è da vedere piuttosto in queste voci le due differenti uscite che nella formazione delle lingue volgari diversificano dal soggetto singolare i regimi. Dai nominativi infatti materni potestas e majestas, non avvertita la s finale dal romanzo Italico, rimanevano in esso le vedute podésta e maésta; ed avvertita la s dal romanzo Oytano, vi si trovavano [p. xlii modifica]poosteis e majesteis. All’incontro dagli obliqui materni potestatem, majestatem prendevano corso nel primo romanzo, spentasi la m, potestate, o podestade, e maestate o maestade, e, per iscorcio compensato dall’accento, podestà e maestà; e nel secondo romanzo uscivano prima poosteitz e majesteitz, e poi pooisté e majesté. Finalmente, riducendosi onninamente agli articoli, per distinzione di tutti i casi, tutte le lingue neolatine, e per ciò le forme contratte dei nominativi, che prima valevano a scompagnarli, divenendo un inutile ingombro, cominciarono esse ad essere abbandonate o si trovarono invece accomunate e confuse nel gran corpo della lingua senza indizio di loro ufficio, e non dando più alcuna ragione della differente lor desinenza; sino a tanto che poi, risalendo per entro la formazione dei linguaggi neolatini, non si fossero con pazienti ricerche trovate quelle filiazioni, a cui dirittamente ed istoricamente s’attengono le varie e distinte forme esteriori delle parole9.

La voce latina dominus era dalla lingua d’oil variamente mutata in damres o dambres o dams, ed in doms. Da quest’ultimo correttamente [p. xliii modifica]pronunciato per dons nel soggetto (stante l’avvertita regola di pronuncia che lasciò a noi, agli Spagnuoli ed ai Provenzali lo scorciato Don10) usciva donzelz, mentre dai primi derivavasi damoiselz o damoisaus. Ed è qui opportuno di avvertire che gli allungamenti i quali andavano nella nuova lingua accadendo in fin delle voci, o si formavano, come per lo più, sul tema dei regimi, o si formavano come pure talvolta, sul tema del soggetto. Se nel primo caso, allora non si lasciava sentire la s caratteristica pel nominativo, se nel secondo, allora invece questa s medesima non solo si lasciava intendere distintamente, ma per ciò stesso doveva prolungare maggiormente e modificare l’accrescimento della parola. Ed ecco, premessa questa notizia importantissima per la formazione de’ nostri diminutivi, accrescitivi, vezzeggiativi e simili, che scegliendo ad esempio la voce damesels o damsels, noi dalla sua forma in cui appare internamente la s caratteristica, indovineremo anche prestamente [p. xliv modifica]essersi dessa svolta non dal regime dame o dam, ma dal soggetto dames o dams; e però quell’italico damigello, di cui difficilmente avremmo potuto rendere ragione genealogica abbastanza appurata, venirci ora chiarissimo per la toscana pronuncia, la quale muta la s interiore in g per acconcio migliore ad orecchie italiane. Similmente, secondo prima vedemmo, donzello viene dal nominativo dons, non dall’obliquo don; e così jovencels anticamente jovensels, viene dal soggetto jovens, e dal solito aumento minorativo els, e non mai dal regime joven, da cui esce per contrario jovenet; talché il nostro giovincello, che ha rimutato la s in c per l’avvertita proprietà loquelare toscana di prediligere un più distinto scolpimento di profferenza, ci riescirà definibile assai chiaramente in tutti i suoi elementi di formazione insieme alle voci simili, che saprà, dietro questo poco d’invio, trovare da sé ogni intendente di nostra lingua.

Abbandonando dunque un tale argomento alle altrui più lunghe disquisizioni, dopo che avrò detto come, per confronto al nostro Catalina, si trovi scritto in francese antico tanto Catherine quanto Catheline, e come il dialetto Piccardo dica coi Toscani Rousignol quello che il Borgognone scrive Rossegnol e Russinol il Normanno, passeremo ad alcune più brevi avvertenze sopra i nomi di numero.

E cominceremo dal riferire che il dialetto Borgognone scrive ambedoi e andoi, ed il Normanno ambedui, amdui e andui, quella voce stessa che da noi si trova scritta ora ambeduoi, ora ambedui [p. xlv modifica]e ambedue, ed amendue ed ammendue, ed altrimenti ancora, a mostrarci appunto colla varietà della sua scrittura, la varietà delle forme dialettali alle quali appartiene. Ma sulla voce medesima non è da preterire che, tanto in lingua d’oil, quanto nella nostra, vuole essa, accompagnandosi con un sostantivo, l’articolo dopo e non mai prima di sè. Cosi nel solo Gerardo de Viane:

En l’ile furent ambedui li guerrier....
Lai se combatent ambedui li bairon....
De la ville issent amdui li chevalier....

di che volendo averne un’istorica ragione, e di tutte insieme le forme ed i valori di questo pronome numerale, ecco cosa mi pare si potesse dire.

In latino bis era duis, sicché ambo od am-duo, valse piuttosto l’uno e l’altro, ossia tutti i due, o vogliam dire insieme i due che due solamente.

Dal Greco ἀμφί erano un’antica preposizione ambe ed una loquelare am che valevano intorno, tutto in giro, e ciò che è tale, essendo ancora tale da ogni parte, ne conseguiva necessariamente che ed ambe ed am davano atto di compimento alle voci alle quali si anteponevano11. Prefissosi infatti questo am a plus, e declinatosi, se ne fece l’aggiuntivo amplo, che valse conseguentemente più d’ogni intorno, eccedente per ogni parte, ossia tutto più: aggiuntosi am od ambe a duo, se ne fece in lingua d’oil amdui ed ambedui, i quali dovettero significare insieme i due, tutti i due, levando per [p. xlvi modifica]modo il numero due dalla sua sede nella serie numerica indefinita, dandogli invece in sè medesimo compimento, e coll’avvincerne le due unità di che si compone, od attribuirgli riferimento agli antecedenti, o costituirne una precedenza di unione pei susseguenti ch’esso reggerebbe.

Ecco pertanto come nell’italiano vennero ambedue ed amendue con pari significazione, e come ne’ due Romanzi l’articolo dovette sempre susseguirli, non precederli mai, a quello stesso modo che si dee dire tuttadue i cavalieri non i tuttadue cavalieri; ed ecco come in antico si disse ambedue, e per simigliante amendue ed ammendue, non ambidue; perchè cioè il nostro pronome numerale non si formava da ambo, ambae, ambo e da duo, il che avrebbe fatto una duplicazione, ma bensì dalle preposizioni ambe od am unite ad esso duo. Fu solamente da poi, quando ai volgari si volle por opera di osservazione, che certe flessioni figlie di voci già antiquate e ossolète si vennero a nuove guise modificando, e si credette che sul pronome ambo e non più sulla preposizione indeclinabile dimenticata si dovesse foggiare il pronome composto della lingua nuova, e si scrisse accordandosi per generi: ambidue i cavalieri, ambedue le dame. Que’ vecchi poi che si lasciarono scrivere amenduni parve che introducessero nella voce la epentesi facendo amenduni da amendui, se pur non mirarono a gittare il pronome entro le note forme donde erano usciti i taluni, i certuni, i qualcuni, e così di’, non pur troppo curandosi di contenere sempre [p. xlvii modifica]una tal quale loro propria discorrevolezza di pronuncia entro i cancelli fissati dalla germana istoria delle parole.

Ancora la lingua d’oil non poteva restar contenta alla voce prims da primus per numero ordinale, giacché avendola tratta a significare fino e sottile, ne nascevano per conseguenza non poche dubbiezze: ricorse essa perciò alla desinenza sua prediletta, e seppe trovare l’altra primiers o primers (forse soggetto di primarius, o primaio) alla quale, volendo fare indicati i generi, per un certo inducimento latino, aggiunse il notissimo finimento in anus, e ne ottenne primerain e primeraine, donde poi taluni fra’ nostri vecchi trassero le voci primerano e primerana. E parimente come da primarius aveva fatto primiers, da quartarius fece quartiers a valere la quarta parte, da cui si derivò in nostra lingua, non solo la frase blasonica scudo partito a quartieri per dire in quattro parti, e che fu, tra gli altri, comune all’Ariosto; ma si dedusse ancora la voce dell’uso quartiere per appartamento, a significare quella delle quattro parti, in che si solevano dividere per lo più le case de’ nobili, che era abitata dalla persona a cui o su cui si dirige l’intesa del ragionamento12. [p. xlviii modifica] Da ultimo su questi nomi numerali qui mi gioverà ricordare che puntualmente come noi da primus e da ver femmo primavera ed i francesi da primus e da tempus, prin-temps; così questi stessi dissero primsoir perciò che noi pure diciamo prima sera nelle frasi: ci vedremo in od a prima sera ecc. e prinson perciò che, essendo ai Latini prima vigilia, è pure per noi primo sonno13.

Passando ora ai pronomi personali di possesso, diremo (toccandone leggermente com’è nostr’uso alcune particolarità per notizia opportuna o convenienti confronti coll’italiano) come erano non solo nell’antico francese le sottili forme di regime mi, ti, si, li, somiglianti alle nostre, invece delle più vaste moi, toi, soi, lui che invalsero dappoi; ma come, singolarmente nel dialetto Borgognone era una distinzione, la quale merita d’essere pazientemente rilevata da chi fa soggetto de’ proprii studii tali minute osservazioni linguistiche, e da chi ha appreso dalle Grammatiche comparate che la desinenza casuale del possessivo o genitivo soleva essere in us o nel suo assottigliamento is, ed in i quella del dativo e del locativo. Vi si diceva cioè me il regime diretto ed il regime proprio de’ verbi, [p. xlix modifica]vi si diceva mi il regime indiretto e quello proprio delle preposizioni14.

Vi si scriveva per ciò glorifie me; non mi, ossia glorifica me, non glorificami; fai me salf, fà me salvo, non fammi; c’un me mat davant, ch’uno me uccida prima, non mi uccida: al contrario si scriveva por mi, a mi, de mi, dedenz mi. E da ciò si dee trarre per conseguenza come nel ritoccare l’antica lezione de’ nostri stessi testi più antichi, ne’ quali può essere pure un ricordo di queste tali avvertenze (forse più comuni di quello si creda, perchè dipendenti dalla lingua di transizione, la quale s’atteneva più al romano parlato che allo scritto) si debba andar riguardoso per non affliggerli di forme posteriori, e per non lasciarvi smarrire quelle tenui memorie di artifizii opportunissimi ai tempi, e che giova sempre all’istoria della lingua il porre in nota. Per differenza dal Borgognone [p. l modifica]il dialetto Piccardo che non conosceva queste e radicali, mutava il me sempre in mi da principio, poscia nella forma che gli si fece prediletta moi; forma poi di regime che passò da ultimo a valergli ancora per soggetto, seguendo un andazzo popolare dopo che i temi della avvertita lingua di transizione jo, je, jeu, ju, jou, dovuti solo al latino scritto, scaddero dalla loro esclusiva e privilegiata significazione nominativa.

Quello che si è detto delle distinzioni tra me e mi, poi divenuto moi, si ripeta tra te e ti, poi divenuto toi, ossia che la prima guisa era quella dell’accusativo, e che per lo più s’accompagnava coi verbi che il richiedevano; l’altra era dei regimi indiretti, e che, salvo pochi casi eccezionali, venia sempre accompagnadosi alle preposizioni.

In antico Francese vedemmo che li valeva lui, invalse che li divenisse regime indiretto dei verbi (aferesi del dativo latino illi) e lui regime delle preposizioni; e però Maria di Francia N. Fav. 36. scrisse:

Que de sa keuve li prestat
Se li pleust.

cioè — Che di sua coda gli prestasse se gli piacesse. — E Villarduino: E por reprover lou servise que il li avoient fait, ossia: che gli avevano fatto. E questo li fu puntualmente il nostro gli che ebbe gli stessi servigi; e se pure qualche maestro scrisse. Io dissi lui, Risposi lui, dando ai verbi quello che era delle preposizioni, mostrò ancora come l’usanza si rendea licenziosa, e come, [p. li modifica]piuttostochè dell’antico modo, egli si sovvenisse del più moderno uso delle lingue di Francia15.

Nè mi sembrano da trascurarsi dall’istorico delle lingue queste tali distinzioni sebbene minute e fuggevoli, giacché per esse si può render conto istorico di talune apparenti anomalie. E per esempio lor, lour, lur furono regimi dei verbi, mentre [p. lii modifica]regimi delle proposizioni furono pel mascolino plurale ols od els, che poi si fece eus e finalmente eux; e pel femminino altresì plurale eles. Ora ecco come, ricalcando quest’uso, Dante potè dire: e suon di man con elle; giacché se al seguito dei verbi si scriveva: Lors lor vint une novelle; lour aivons donneit; mes peres lour vendi; d’altra parte invece, al seguito delle preposizioni si scriveva: une d’eles, avec eles, ossia una d’elle, con elle, non una di loro, o con loro16.

Inoltre non vorrò scordarmi di aggiungere come quello che si è detto di me, mi, poi moi; di te, ti, poi toi, si dee ripetere del pronome personale riflessivo, se, si, poi soi; ossia che la prima forma era dell’accusativo ed accompagnatoria dei verbi, e che la seconda era dei regimi indiretti ed accompagnatoria delle preposizioni, e come nell’antico francese, questi istessi pronomi facendovi l’ufficio da prima quasi esclusivo di possessivi, dovesse accadere che di me o a me valessero mio; di te o a te valessero tuo; di sé o a sé valessero suo: perchè poi in seguito, allorquando per rispondere ai latini meus, tuus, suus, o meglio [p. liii modifica]

per riprodurre le arcaiche desinenze genitive mis, tis, sis, si vollero allungate le prime forme; da mi usci mis; da ti, tis; e da si, sis; e però, a dire mio signore, o signore di me, si scrisse con Maria di Francia Mis Sire, e poscia messire, da cui venne quel nostro messere, che ora forse solamente ci rende una ragione men dubbia della sua s duplicata.

Volendo ancora dire per ultimo alcune altre poche cose de’ rimanenti pronomi, seguiremo aggiungendo come, sempre dal bisogno di distinguere il nominativo dagli altri casi (o ciò tanto più ne’ pronomi dimostrativi che non potevano ammettere l’ articolo) venne nel nostro volgare la convenienza dello scrivere questi nel soggetto, e di lasciar questo per gli altri casi, e così nel nominativo singolare quelli, e quello nei regimi, facendo per tal modo simili fra loro i nominativi dei due numeri singolare e plurale. Infatti parimente i Francesi dicevano nel nominativo singolare cil, e ne’ regimi pur singolari cel; cil di nuovo nel nominativo plurale, e cels ne’ regimi plurali. Ma, la regola della s caratteristica prevalendo, anche cil nominativo singolare assunse una s e divenne cils, e noi pure, invece di quelli, potemmo, con ischiacciamento della doppia l, scrivere quegli, nè diversamente dicevano cist tanto nel nominativo singolare quanto nel plurale, e cest ne’ regimi singolari, e ces o cez ne’ regimi plurali.

Sui quali pronomi insistendo, mi pare possibile che essi cil e cist non siano dimostrativi semplici e [p. liv modifica]radicali, siccome opinano i Grammatici Francesi da me veduti, ma sieno invece composti, se pure si vorrà aver ragione di quel c che vi si trova prefisso all’ille ed all’iste latini. E veramente, solo che un poco si torni addietro per la popolare latinità, e che non si voglia ricorrere al rovesciamento della sillabica finale ce17, si incontreranno ne’ comici quelli eccilla, ecciste (da ecce illa, ecce iste per dimostrare presenzialmente la persona indicata) dai quali ci parrà facilmente che una spontanea aferesi, voluta dalla velocità del dialogo, avrà fatto uscire cilla e ciste per quella appunto e questi appunto. Di qui dunque vennero le vedute forme Borgognone cil e cist; di qui le Piccarde chil e chist; di qui il chilla e chisto dei così detti regnicoli; di qui finalmente il quella e questi più schiacciato della maggior parte d’Italia: mentre per avventura il nostro neutro ciò, che in Normandia e Borgogna era ceo o co, e chou o cho in Piccardia, avrà preso origine per rovesciamento dal latino ho-c od ho-cce.

È pure osservabile come i Borgognoni e i Piccardi amavano di sostituire alla acuta desinenza Normanna in i la più chiusa e vasta ui: pertanto essendosi introdotto l’uso di scrivere e di pronunciare celi (puntualmente il nostro quelli) in luogo [p. lv modifica]di cil; e cesti (il nostro questi) in luogo di cist, questi cotali popoli, per induzione dell’etnica loro pronuncia, dissero e scrissero invece cestui e celui venendo così, non solo a confrontare coi nostri costui e colui, ma insieme a svegliare il sovvenimento sia delle chiuse profferenze istus ed illus, dai regimi delle quali potevano muovere queste forme anche latinamente, sia della insigne varietà di genti che qui presero antichissima stanza e poterono quindi anche fra noi provocare i medesimi fonetici risultamenti.

Così nei pronomi relativi può essere soggetto di brevi parole che in lingua d’oil ki o qui, conservando il valore del qui latino, fu sempre significativo il solo soggetto maschile; e ke o que, recente dal quae materno, valse unicamente il soggetto femminile, e che soltanto dopo il milledugento cominciò quella mescolanza la quale attribuendo tutto a tutto indistintamente, lasciò poi a noi Italiani il che a far tanti servigi, quanto lunga opera sarebbe il solo ricordarli distintamente. Ma inoltre in esso Franzese è notevole che regime diretto di questo pronome era cui o cuy (quem, quam, quod), e regime indiretto comune era dont, a valere cioè di cui (cujus), a cui (cui), da cui (a quo, qua, quo), così singolarmente come pluralmente, e così per l’un genere come per l’altro; dal qual modo prendendo lume di fratellanza i vecchi usi simili del nostro don o donde, mi pare ancora che si possa fissare il paradigma di questo pronome presso noi in antico come segue: [p. lvi modifica]

Singolare e Plurale.
Soggetto chi e che
Regime indiretto donde, o di cui o che, a cui o che, da cui o che
Regime diretto cui o che

E non è anche da preterire come questo donde, prediligendo forse per la preposizione anteposta, il caso genitivo, venisse spesso a farsi, nelle lingue neolatine, istrumentale, o ciò che altrimenti direbbesi causativo: di che poi ne uscirono tanti usi tenuti per eleganti presso noi, ai quali non è più chiaro il valore pronominale di questo avverbio, ma che erano però naturalissimi in quel tempo in cui si trovavano volgari tutte le sue nozioni, e nei quali può essere tradotto in di che o di cui più comunemente.

Era pure nell’antico francese una voce, la quale prima fu alkes od alques, e valse (secondo opina Mr. Fallot, che io seguito più da presso) qualche cosa, poi significò qualche poco di cosa, alcun che, da ultimo variamente od un poco, od assai. Per origine una tal voce fu un pronome indeterminato, dappoi si impiegò avverbialmente applicandola per lo più all’aggiuntivo, al modo che diciamo: assai largo, molto bene, ben vasto. Sembrò dunque al ripetuto ch. Fallot che questo alkes si derivasse da aliquid; e però se, applicato a quantità od a misura di cose, valse quanto si è detto, applicato a tempo significò qualche tempo antecedente o susseguente secondo poi portava il discorso. Per quella [p. lvii modifica]quasi generale modificazione che nella Lingua Oytana subirono le sillabe desinenti in l, le voci alkes od alques divennero in seguito aukes od auques, e poi, secondo i dialetti, aques, acque, aike, aikes, aiques, auques, aulques ecc. Vediamone alcuni esempii: — ju ki ne sai aissi cura niant, et ki aikes cuyde savoir. — (Serm. di S. Bernardo), cioè: — io che ne so così come niente, e che qualche cosa penso sapere. — Non sarà però, a quanto io stimo, che il lettore non desideri nella mia traduzione un non so che di più preciso, dovendogli sembrare che l’aikes sia meglio indeterminato ed assoluto che non sia il qualche cosa, il quale viene forse a minorar troppo la presumente ed oltraggiosa baldanza del nostro amor proprio. Potrà egli dunque in suo capo prestamente supplire colla voce anche, e tradurre; e che anche penso sapere. Così nella nuova Racc. di Fabl. et Cont. 1. 37, si legge:

A tant une plainne a veue,
Si est auques aseurez.
ossia — allora una pianura ha visto, si è alquanto assicurato, — dove pure auques è bensì per aliquid od alcun che, ma dove ancora è patente la possibilità di tradurre così: si è assicurato anche. E più innanzi:
Mout ot la dame bon talent
De lui faire auques de ses biens,

cioè: — Molto ebbe la dama buon talento di fargli alquanto de’ suoi beni, — oppure: di fargli anche de’ suoi beni, che è similmente reso con fedeltà e concisione. Da tutto ciò mi pare potersi dedurre [p. lviii modifica]senza violenza che quanto da noi si disse della voce alkes oytana possa essere ripetuto altresì della italica anche, cioè che questa potrebbe venir considerata come un residuo di antico pronome indeterminato, il quale, dal volgare alquis18 per aliquis, era forse alchi od alco e che poi divenne, allungandosi e componendosi, alcuno: da aliqua od alqua era per avventura alca, divenuto poscia pel modo anzidetto alcuna; da aliquid finalmente fu alche, ed indi (ricordando quel di Donato a Terenzio — habet enim n littera cum l communionem) si fece anche tenendo una neutrale significazione, e per questa passando prontamente a far gli ufficii di avverbio. Nè è perciò appunto che di tale sua primigenia nozione non ne conservi qua e colà apparenti gl’indizii, giacché quando Dante scrisse:

Mettetel sotto ch’io torno per anche....
Io direi anche, ma io temo ch’ello
Non s’apparecchi a grattarmi la tigna....
. . . . . . . . . io sono Oreste,
Passò gridando, ed anche non s’ affisse.
lasciò, a quanto mi sembra, intravedere nell’anche l’aliquid dal quale usciva, riferito a quantità, a numero od a tempo. E quando Giovanni Villani pose e con anche genti venne da Lucca, parve trasponesse la voce a disegno perchè ne trasparissero i primitivi servigi: e quando finalmente Matteo Villani, insistendo sulla frase Dantesca, disse: e avendo i primi mandò per anche, non fece che [p. lix modifica]autorizzare sempre meglio in anche la possibilità dell’accennata derivazione19.

E poiché siamo su tali pronomi non mancherò di far osservare due cose. La prima che altrui, e poi autrui, non era nell’antico linguaggio di oil altro che regime indiretto del soggetto altres, giacché derivatosi dal latino alterius per mezzo di quella facile metatesi che, da alter facendo altre, da alterius faceva altreius ed altruius, non poteva avere significazione diversa dalla genitiva. Di più, essendo ristretto così a questo solo servigio, non abbisognava di segnacaso o di articolo, poiché la speciale sua desinenza non lo lasciava confondere cogli altri casi. E da ciò pure si deriva che parimente presso noi non ne abbisogni, dicendosi: le cose altrui, la donna altrui, per dire: le cose o la donna d’altri; e che poi, come già vedemmo di mio, tuo, suo, loro, passasse spontaneamente a divenire, sulla forma stessa genitiva del pronome discretivo alter, un vero aggettivo possessivo di persona indeterminata, cosicché l’altrui fu lo stesso che lo d’altri, ossia quello d’altri20. La seconda che da alius essa lingua d’oil, cui erano prediletti gli scorti nella pronuncia, fece pure in antico al ed el nel puntuale significato di altro; dalla quale semplice forma radicale ne vennero similmente fra [p. lx modifica]noi le composte alsì per altresì, allanto per altrettanto e simili, da ricercarsi ad agio dagli archeofili, a’ quali mi basta colla presente lezione di aver almeno svegliato l’appetito delle ricerche.

Finalmente aggiungerò come il nostro pronome coálito ciascheduno, si componga evidentemente di ciasche, della d epitettica o intercalare, e del complemento individuante da noi prediletto ne’ pronomi, cioè uno. Dal che poi chiaramente s’induce come noi pure Italiani dal quisque latino femmo da prima ciasche, siccome fecero kaske o casque gli Oytani, e come indi ciascuno non fosse per conseguente che una forma composta di quello che potè essere radicalmente soltanto ciasco e ciasca e ciasche, strignendo così sempre meglio i legami che unirono strettamente da prima, e che uniscono tuttavia abbastanza le due più vicine fra le lingue sorelle dell’Europa latina.

Parecchie altre antiche particolarità del linguaggio oytano potrei venire io qui raccogliendo, le quali non tornerebbero per avventura inutili alla storia della lingua nostra volgare e de’ suoi principali dialetti; come sarebbe la formazione dei futuri nel dialetto Borgognone, e l’altra dissimile nel dialetto Normanno, l’uso nei verbi elegante dell’infinito invece dell’imperativo21, e l’arcaica scrittura di tante parole, dalla quale dipendendo appunto la [p. lxi modifica]germana loro nozione, dipende ancor quella di molte nostre voci tuttavia controverse nella origine, e per conseguenza nella rispettiva loro più vera significazione. Ma stimando di essermi per ora adoperato bastevolmente intorno la utilità di codeste indagini grammaticali ed istoriche, per invogliar pure i miei connazionali allo studio dell’antico francese, tenterò ancora un altro modo, e poi con esso imporrò fine alla mia lezione.

Vorrei cioè persuader loro coll’inducevole argomento degli esempii che questo istesso francese antico, non solo può giovare agli etnografi ed ai filologi, ma può aprire a tutti i nostri scrittori una miniera inesausta di bellezze italiane, le quali essendo da prima comuni alle lingue cognate, ora si sono andate od intralasciando o rimutando così da non aver più libero corso in ammendue le favelle. Vorrei insomma ch’essi stimassero come quella fortuna istessa degl’idiomi, la quale li scompagnò in seguito e li mandò per vie diverse alla gloria, così che lo imitarsi al presente scambievole sarebbe in loro un voler perdere la bellezza individuale acquistata; com’io diceva quell’istessa Fortuna, considerata nel buio del Medio-Evo, ci durò invece ad autorevole testimonio che tanti popoli antichi quanti erano intorno al mille dalle correnti del Reno al flutto che flagella Calpe e Pachimo poteano ben dirsi fratelli, stretti siccom’erano dal potente vincolo del neolatino, elargito loro da Roma, perchè prima v’imparassero a riverire il temuto nome degli [p. lxii modifica]Augusti, poscia vi apprendessero ad amare a comune il santo nome di Gesù Cristo.

Ma come potrei io qui far conoscere a’ miei italiani, anche solo per cenno, una parte almeno di quei moltissimi autori, i quali scrivendo:

Versi d’amore e prose di Romanzi

in lingua d’oil, sono pure tanto istruttivi per noi, quanto certo qualsivoglia di quella onorata schiera di Siculi, a’ quali i Toscani non lasciarono forse altro onore che quello d’essere stati tra i primi trovatori in lingua di sì? Certo che un’opera così lunga non può essere nè del tempo presente, nè del luogo: per la qual cosa non volendo pure ch’essa sia interamente desiderata dall’argomento, cercherò ora di supplirvi in qualche modo collo estrarre dalla Vita che di Luigi IX il Re Santo di Francia scrisse il Signore di Gioinville suo contemporaneo, alcuni fatticelli, i quali possano trovare in sè medesimi compimento, e traducendoli fedelmente, colla giunta di solo quanto basti ad integrarli, rendere per guisa tale ricalcata in nostra lingua l’immagine dell’antica lingua francese.

Se da questo mio fatto ne sorgerà poi nei lettori il giudizio che pure la stretta mia traduzione ricordi la prosa del buon secolo della nostra favella, sia allora finalmente che la lingua d’oil abbia l’amore di molti italiani, e sia che il volgarizzamento, di cui io appena esibisco un indizio, venga condotto a termine da qualcuno, il quale conoscendo intimamente la natura dei due linguaggi, sappia, col rendere fedelmente quello del buon Siniscalco di [p. lxiii modifica]Sciampagna, dare ancora al suo libro quel nativo colore di italica antichità che possa farlo pienamente gradevole agl’intendenti.


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Questo stampava io nel 1843, e ponoa al seguito della Lezione sei brevi racconti, a maniera di novello, che furono poscia riprodotti a parto per occasione di nozze. Le suddetto Novelline non dispiacquero, e fui eccitato da alcuni amici a compiere la traduzione di tutta la prosa originale del pio e valoroso Barone di Francia. La impresi svogliato, e poi, fattomi innanzi nel lavoro, l’ultimai di buona voglia, ed essa è quella appunto che seguirà qui tutto appresso.


  1. Questa Lezione fu recitata dall’A. in una tornata Accademica nel 1840 circa, e poi stampata nel 1843.
  2. Queste cose furono da me in seguito più ampiamente sviluppate nel discorso premesso al Glossario Etimologico Modenese.
  3. Alla lettera: la Carlone a viso fiero, ossia, compiendo la frase: la spada di Carlo dal viso fiero.
  4. All’impugnatura d’oro, o com’altri vogliono, d’oro puro.
  5. Cioè: le vostre arme, alla siciliana per anime.
  6. Vedi Journal des Savans. Octobre 1816, p. 88 ecc. Grammaire Romane ch. II, p. 26.
  7. Effettivamente nello stesso anno 1843 io pubblicava il testo rammendato del Vidale, e nel titoletto iniziale aggiungeva di pubblicarlo per la prima volta su una copia estratta da un Codice Laurenziano. Questa malaugurata frase per la prima volta eccitava l'ira di M. F. Guessard, il quale aveva tre anni prima dato fuori la Grammatichetta di Raimondo nella allora recente ed a me ignota Collezione intitolata Bibliothèque de l’École des Chartes, togliendola da un Ms. Parigino della Mazzarina. Questi mi accusava di plagio, un Giornale Italiano aggravava le accuse, e così finalmente mi vedeva costretto a dar fuori quella Difesa, che è uscita in Modena in 4 Capitoli nei Tomi III e IV del Giornale intitolato Opuscoli Religiosi, Letterarii e Morali.
  8. L’esatta traduzione di questi tratti del Vidale è da vedersi nella succitata Difesa, di cui il volgarizzamento della nostra Grammatica Limosina forma appunto il 4. Capitolo.
  9. Ed a questo tratto è luogo di dire come in lingua d’oil, poòte, non poote, era contrazione di poosteiz; per cui hons de poote si chiamavano gli uomini liberi, sui juris, cioè che avevano podestà di sé medesimi. Ecco pertanto come la voce Potta, pel Magistrato che era detto Potestas, non era poi così singolare a noi modenesi quanto taluni han voluto far credere, ed ecco ancora come essa sarà stata contrazione, non di podestà ma di podésta. Per accertarsi poi come anche sotto i Cesari i Magistrati delle minori Città si dicessero Podestà, si vedano Giovenale al v. 100 della Satira X, Svetonio in Claudio al cap. 23 e Plinio al cap. S del lib. IX.
  10. Si legge nella Preghiera alla Vergine. Rayn. T. 2 face. 136.

    E c’el non la’n crees,
    E deu frut no manjes,
    Ja no murira hom
    Chi amea Nostre Don.

    cioè — E s'egli (Adamo) non ne la credesse, e del frutto non mangiasse, già non morrebbe uomo che amasse Nostro Signore. — Da questo Don vocalizzato avemmo Donno, per riscontro a Donna quando vale Domina, non fœmina. Così nell'antico poema su Boezio:

    Dona fo Boecis; corps az bo e pro,

    — Signore, cioè Patrizio, fu Boezio, corpo ebbe buono e prò — Da questo donz uscì poi col solito aumento quel dongione che, applicato a torre, valse torre maestra, o dominicale, nella quale cioè si teneva il Donno od il Castellano.

  11. In Occitanico am tutto solo fece l’ufficio di ambo: perciò, tug silh d’ams los regnatz, significò tutti quelli d’ambi i regni.
  12. Perchè ciò sia chiaro a ciascuno, bisognerà ch’esso rimonti col pensiero a que’ tempi poveri, ne’ quali l’uso non ancora rinovatosi dei cortili o cavedii lasciava i manieri dei liberi privi di vuoti nel mezzo e senza palchi sovrapposti. Una lunga e spaziosa camminata li attraversava, e quattro porte aperte in essa a riscontro, due per ogni lato, menavano appunto alle quattro parti in che si divideva tutta l’abitazione; rassomigliando così senza molta differenza alla maggior parte dei presenti nostri Casini di campagna. V. il Dialogo del Tasso intitolato: Il Padre di famiglia.
  13. Il discorso delle voci numerali mi fa sovvenire, e porre qui per fuor d’opera, come Virgilio scrivesse nel X dell'Eneide quam quisque secat spem, per sequat; dalla quale antica scrittura del verbo vennero poi sectores e secta per sequitores et sequuta; che però, stante lo scambio avvertito, il sequior latino sarà lo stesso di quel secior comparativo di cui non si conosce il positivo, il quale forse potrebbe essere stato non dissimile dal sezzo de’ Toscani per ultimo, cioè per cosa al seguito e non mai principale
  14. L’antico Romano aveva avuto mu o mi per ego: ora avvertendo, come fu già indicato superiormente, che la desinenza casuale del possessivo o genitivo era in us od is (ejus, hujus, illius, istius, ipsius, cujus) ne consegue che il pronome primitivo di persona prima poteva lasciarsi intendere cosi: N. mu o mi: G. mius o mis: D. mii (mihi): A. me. Siccome poi i pronomi possessivi di forma aggiuntiva sogliono derivarsi appunto dal caso possessivo del relativo pronome personale primitivo, cosi è che dal genitivo mius o mis, usciva mius o meus, meo, meum, che tanto vale quanto di me od a me. Dicasi il simigliante di Tu o Ti, che avrà fatto: N. Tu o Ti: G. Tuus o Tius o Tis: D. Tii (Tibi): A. Te, e di Su o Si che si sarà svolto in N. Su o Si: G. Suus o Sius o Sii : Dat. Sii (Sibi): A. Se. Dai casi genitivi de’ quali avevamo poi Tius, o Tuus, tua, tuum (di Te o a Te) e Sius o Suus', sua, suum, di sè o a sè). Una prova poi che i possessivi personali escono dai genitivi dei loro pronomi primitivi, l'abbiamo dal rustico cuius, cuia, cuium, conservatoci da Virgilio nelle Ecloghe, e che esce evidentemente dal genitivo cujus, di qui, quae, quod.
  15. Quest’uso trova però le sue ragioni nelle voci lui o lei, che regolarmente avrebbero dovuto designare soltanto i regimi indiretti di egli e di ella, sebbene poi in fatto, massime ne’ dialetti nostri, servissero e servano per tutti i casi, movendo allora per aferesi non dalla forma comune eille od ille ma dalla composta eillus (od eille-is) eilla (eille-ea) eillud (od eille-id). Lui e lei si trovano anche in altri romanzi dopo i verbi come forme speciali del caso attributivo, e quindi non bisognose di segnacaso, giacché il dativo comune a tutti i generi illi od illii sembra che nel volgare, per distinzione e per ricordo del genitivo illius si pronunciasse più chiusamente illui nel maschile, rimanendo illei, (da ille-ei) pel femminile. Leggiamo infatti in lingua d'oc: (Adelaide di Porcairague.)

    Vas Narbona portatz lai
    Ma chanson ab la fenida
    Lei cui jois e jovens guida.

    cioè — Verso Narbona portate là la mia Canzone, colla Licenza, a lei cui gioia e giovinezza guida

    Mas liey non cal si m pert, per qu’ieu no m duelh.

    cioè — Ma a lei non cale se mi perde, per che io non me ne dolgo.

     
    Cais qua non tanh selui chan ni trobarz
    Cai ten estreg vera religios.

    cioè — quasiché non convenga a colui canto nè trovare cui tiene istretto vera religione.

    Così presso i nostri ducentisti, e specialmente presso Guittone d’Arezzo, fu della forma vo-i, dall’antico vois (vobis) che valse senz'altro a voi; e di no-i che anche in Dante non provenne da nos, ma da nois (nobis.)

    Per grazia fa noi grazia che disvele
    A lui la bocca tua....
    Non è l’affezion mia tanto profonda
    Che basti a render voi grazia per grazia.

  16. Come lui, che può anche considerarsi metatesi di illius, e che doveva rappresentare soltanto i regimi d’egli, passò, secondo si disse, nei nostri dialetti a far insieme gli uffici di soggetto, così fu di loro, che uscito dall’illorum latino reso comune a tutti i generi, valse prima d’elli e d’elle, poi ad elli e ad elle, e finalmente eglino ed elleno senza bisogno di segnacasi: talché sembrò mutarsi in una forma di pronome possessivo proprio della persona terza determinata, ma non presente, completando le relazioni di possesso significate da mio, tuo e suo. Questa proprietà fe’ sì che Dante, il quale avea creato immiarsi e intuarsi, potè creare anche inluiarsi.
  17. La legge del rovesciamento era spontanea nelle lingue ad antefissi succedenti a lingue a suffissi. Io ho discorso su ciò altrove ampiamente: basterà quindi l’accennare che il latino inter-im diventa il volgare mentre, l’inter-dum od inter-dom, domentre; che l’ipse-met prendendo forma superlativa in ipsumus-met, si fa melipsumus, o medesimo, cioè istessissimo: che l’unus-quis-que diventa quisquunus o ciascuno; parum-per o paucum-per, per poco; postidea, dappoi; e che l’ul-tra e ci-tra passa nel dialetto patrio a tra-la e tra-chè.
  18. V. il Vol. I delle mie Lez. Accad. a facc. 221, 222.
  19. Non ommetto però di avvertire come la voce an-co venga originata per altri da ἄν e da hoc quasi che, riferendosi a quantità, misura occ. valga quanto ad hoc, e riferendosi a tempo quanto ad huc. Unquanco sarebbe adhuc unquam, ed ancora, ad hanc horam.
  20. Ed ecco, in questa frase italiana l’altrui, chiaramente l’articolo venire dal pronome di cui conserva il valore stesso.
  21. Ciò accade similmente presso noi, in ispezialtà quando l'atto comandativo viene preceduto da una negazione, la quale minorando la rattezza del comando, o lo oscura, o lascia incerta l’intenzion personale della proposizione. Diciamo perciò, ama la gloria, temi la vergogna, e: non amare la gloria, non temer la vergogna.