Orlando furioso (1928)/Canto 10

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Canto decimo

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Canto 9 Canto 11
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CANTO DECIMO

1
     Fra quanti amor, fra quante fede al mondo
mai si trovâr, fra quanti cor constanti,
fra quante, o per dolente o per iocondo
stato, fêr prove mai famosi amanti;
piú tosto il primo loco ch’il secondo
darò ad Olimpia: e se pur non va inanti,
ben voglio dir che fra gli antiqui e nuovi
maggior de l’amor suo non si ritruovi;

2
     e che con tante e con sí chiare note
di questo ha fatto il suo Bireno certo,
che donna piú far certo uomo non puote,
quando anco il petto e ’l cor mostrasse aperto.
E s’anime sí fide e sí devote
d’un reciproco amor denno aver merto,
dico ch’Olimpia è degna che non meno,
anzi piú che sé ancor, l’ami Bireno:

3
     e che non pur non l’abandoni mai
per altra donna, se ben fosse quella
ch’Europa et Asia messe in tanti guai,
o s’altra ha maggior titolo di bella;
ma piú tosto che lei, lasci coi rai
del sol l’udita e il gusto e la favella
e la vita e la fama, e s’altra cosa
dire o pensar si può piú precïosa.

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4
     Se Bireno amò lei come ella amato
Bireno avea, se fu sí a lei fedele
come ella a lui, se mai non ha voltato
ad altra via, che a seguir lei, le vele;
o pur s’a tanta servitú fu ingrato,
a tanta fede e a tanto amor crudele,
io vi vo’ dire, e far di maraviglia
stringer le labra et inarcar le ciglia.

5
     E poi che nota l’impietá vi fia,
che di tanta bontá fu a lei mercede,
donne, alcuna di voi mai piú non sia,
ch’a parole d’amante abbia a dar fede.
L’amante, per aver quel che desia,
senza guardar che Dio tutto ode e vede,
aviluppa promesse e giuramenti,
che tutti spargon poi per l’aria i venti.

6
     I giuramenti e le promesse vanno
dai venti in aria disipate e sparse,
tosto che tratta questi amanti s’hanno
l’avida sete che gli accese et arse.
Siate a’ prieghi et a’ pianti che vi fanno,
per questo esempio, a credere piú scarse.
Bene è felice quel, donne mie care,
ch’essere accorto all’altrui spese impare.

7
     Guardatevi da questi che sul fiore
de’ lor begli anni il viso han sí polito;
che presto nasce in loro e presto muore,
quasi un foco di paglia, ogni appetito.
Come segue la lepre il cacciatore
al freddo, al caldo, alla montagna, al lito,
né piú l’estima poi che presa vede;
e sol dietro a chi fugge affretta il piede:

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8
     cosí fan questi gioveni, che tanto
che vi mostrate lor dure e proterve,
v’amano e riveriscono con quanto
studio de’ far chi fedelmente serve;
ma non sí tosto si potran dar vanto
de la vittoria, che, di donne, serve
vi dorrete esser fatte; e da voi tolto
vedrete il falso amore, e altrove volto.

9
     Non vi vieto per questo (ch’avrei torto)
che vi lasciate amar; che senza amante
sareste come inculta vite in orto,
che non ha palo ove s’appoggi o piante.
Sol la prima lanugine vi esorto
tutta a fuggir, volubile e inconstante,
e côrre i frutti non acerbi e duri,
ma che non sien però troppo maturi.

10
     Di sopra io vi dicea ch’una figliuola
del re di Frisa quivi hanno trovata,
che fia, per quanto n’han mosso parola,
da Bireno al fratel per moglie data.
Ma, a dire il vero, esso v’avea la gola;
che vivanda era troppo delicata:
e riputato avria cortesia sciocca,
per darla altrui, levarsela di bocca.

11
     La damigella non passava ancora
quattordici anni, et era bella e fresca,
come rosa che spunti alora alora
fuor de la buccia e col sol nuovo cresca.
Non pur di lei Bireno s’inamora,
ma fuoco mai cosí non accese esca,
né se lo pongan l’invide e nimiche
mani talor ne le mature spiche;

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12
     come egli se n’accese immantinente,
come egli n’arse fin ne le medolle,
che sopra il padre morto lei dolente
vide di pianto il bel viso far molle.
E come suol, se l’acqua fredda sente,
quella restar che prima al fuoco bolle;
cosí l’ardor ch’accese Olimpia, vinto
dal nuovo successore, in lui fu estinto.

13
     Non pur sazio di lei, ma fastidito
n’è giá cosí, che può vederla a pena;
e sí de l’altra acceso ha l’appetito,
che ne morrá, se troppo in lungo il mena:
pur fin che giunga il dí c’ha statuito
a dar fine al disio, tanto l’affrena,
che par ch’adori Olimpia, non che l’ami,
e quel che piace a lei, sol voglia e brami.

14
     E se accarezza l’altra (che non puote
far che non l’accarezzi piú del dritto),
non è chi questo in mala parte note;
anzi a pietade, anzi a bontá gli è ascritto:
che rilevare un che Fortuna ruote
talora al fondo, e consolar l’afflitto,
mai non fu biasmo, ma gloria sovente;
tanto piú una fanciulla, una innocente.

15
     Oh sommo Dio, come i giudicii umani
spesso offuscati son da un nembo oscuro!
i modi di Bireno empii e profani,
pietosi e santi riputati furo.
I marinari, giá messo le mani
ai remi, e sciolti dal lito sicuro,
portavan lieti pei salati stagni
verso Selandia il duca e i suoi compagni.

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16
     Giá dietro rimasi erano e perduti
tutti di vista i termini d’Olanda;
che per non toccar Frisa, piú tenuti
s’eran vêr Scozia alla sinistra banda:
quando da un vento fur sopravenuti,
ch’errando in alto mar tre dí li manda.
Sursero il terzo, giá presso alla sera,
dove inculta e deserta un’isola era.

17
     Tratti che si fur dentro un picciol seno,
Olimpia venne in terra; e con diletto
in compagnia de l’infedel Bireno
cenò contenta e fuor d’ogni sospetto:
indi con lui, lá dove in loco ameno
teso era un padiglione, entrò nel letto.
Tutti gli altri compagni ritornaro,
e sopra i legni lor si riposaro.

18
     Il travaglio del mare e la paura
che tenuta alcun dí l’aveano desta,
il ritrovarsi al lito ora sicura,
lontana da rumor ne la foresta,
e che nessun pensier, nessuna cura,
poi che ’l suo amante ha seco, la molesta;
fur cagion ch’ebbe Olimpia sí gran sonno,
che gli orsi e i ghiri aver maggior nol ponno.

19
     Il falso amante che i pensati inganni
veggiar facean, come dormir lei sente,
pian piano esce del letto, e de’ suoi panni
fatto un fastel, non si veste altrimente;
e lascia il padiglione; e come i vanni
nati gli sian, rivola alla sua gente,
e li risveglia; e senza udirsi un grido,
fa entrar ne l’alto e abandonare il lido.

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20
     Rimase a dietro il lido e la meschina
Olimpia, che dormí senza destarse,
fin che l’Aurora la gelata brina
da le dorate ruote in terra sparse,
e s’udîr le alcïone alla marina
de l’antico infortunio lamentarse.
Né desta né dormendo, ella la mano
per Bireno abbracciar stese, ma invano.

21
     Nessuno truova: a sé la man ritira:
di nuovo tenta, e pur nessuno truova.
Di qua l’un braccio, e di lá l’altro gira,
or l’una or l’altra gamba; e nulla giova.
Caccia il sonno il timor: gli occhi apre, e mira:
non vede alcuno. Or giá non scalda e cova
piú le vedove piume, ma si getta
del letto e fuor del padiglione in fretta:

22
     e corre al mar, graffiandosi le gote,
presaga e certa ormai di sua fortuna.
Si straccia i crini, e il petto si percuote,
e va guardando (che splendea la luna)
se veder cosa, fuor che ’l lito, puote;
né, fuor che ’l lito, vede cosa alcuna.
Bireno chiama: e al nome di Bireno
rispondean gli antri che pietá n’avieno.

23
     Quivi surgea nel lito estremo un sasso,
ch’aveano l’onde, col picchiar frequente,
cavo e ridutto a guisa d’arco al basso;
e stava sopra il mar curvo e pendente.
Olimpia in cima vi salí a gran passo
(cosí la facea l’animo possente),
e di lontano le gonfiate vele
vide fuggir del suo signor crudele:

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24
     vide lontano, o le parve vedere;
che l’aria chiara ancor non era molto.
Tutta tremante si lasciò cadere,
piú bianca e piú che nieve fredda in volto;
ma poi che di levarsi ebbe potere,
al camin de le navi il grido volto,
chiamò, quanto potea chiamar piú forte,
piú volte il nome del crudel consorte:

25
     e dove non potea la debil voce,
supliva il pianto e ’l batter palma a palma.
— Dove fuggi, crudel, cosí veloce?
Non ha il tuo legno la debita salma.
Fa che lievi me ancor: poco gli nuoce
che porti il corpo, poi che porta l’alma. —
E con le braccia e con le vesti segno
fa tuttavia, perché ritorni il legno.

26
     Ma i venti che portavano le vele
per l’alto mar di quel giovene infido,
portavano anco i prieghi e le querele
de l’infelice Olimpia, e ’l pianto e ’l grido;
la qual tre volte, a se stessa crudele,
per affogarsi si spiccò dal lido:
pur al fin si levò da mirar l’acque,
e ritornò dove la notte giacque.

27
     E con la faccia in giú stesa sul letto,
bagnandolo di pianto, dicea lui:
— Iersera desti insieme a dui ricetto;
perché insieme al levar non siamo dui?
O perfido Bireno, o maladetto
giorno ch’al mondo generata fui!
Che debbo far? che poss’io far qui sola?
chi mi dá aiuto? ohimè, chi mi consola?

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28
     Uomo non veggio qui, non ci veggio opra
donde io possa stimar ch’uomo qui sia;
nave non veggio, a cui salendo sopra,
speri allo scampo mio ritrovar via.
Di disagio morrò; né che mi cuopra
gli occhi sará, né chi sepolcro dia,
se forse in ventre lor non me lo dánno
i lupi, ohimè, ch’in queste selve stanno.

29
     Io sto in sospetto, e giá di veder parmi
di questi boschi orsi o leoni uscire,
o tigri o fiere tal, che natura armi
d’aguzzi denti e d’ugne da ferire.
Ma quai fere crudel potriano farmi,
fera crudel, peggio di te morire?
darmi una morte, so, lor parrá assai;
e tu di mille, ohimè, morir mi fai.

30
     Ma presupongo ancor ch’or ora arrivi
nochier che per pietá di qui mi porti;
e cosí lupi, orsi, leoni schivi,
strazi, disagi et altre orribil morti:
mi porterá forse in Olanda, s’ivi
per te si guardan le fortezze e i porti?
mi porterá alla terra ove son nata,
se tu con fraude giá me l’hai levata?

31
     Tu m’hai lo stato mio, sotto pretesto
di parentado e d’amicizia, tolto.
Ben fosti a porvi le tue genti presto,
per aver il dominio a te rivolto.
Tornerò in Fiandra? ove ho venduto il resto
di che io vivea, ben che non fossi molto,
per sovenirti e di prigione trarte.
Mischina! dove andrò? non so in qual parte.

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32
     Debbo forse ire in Frisa, ove io potei,
e per te non vi volsi esser regina?
il che del padre e dei fratelli miei
e d’ogn’altro mio ben fu la ruina.
Quel c’ho fatto per te, non ti vorrei,
ingrato, improverar, né disciplina
dartene; che non men di me lo sai:
or ecco il guiderdon che me ne dai.

33
     Deh, pur che da color che vanno in corso
io non sia presa, e poi venduta schiava!
prima che questo, il lupo, il leon, l’orso
venga, e la tigre e ogn’altra fera brava,
di cui l’ugna mi stracci, e franga il morso;
e morta mi strascini alla sua cava. —
Cosí dicendo, le mani si caccia
ne’ capei d’oro, e a chiocca a chiocca straccia.

34
     Corre di nuovo in su l’estrema sabbia,
e ruota il capo e sparge all’aria il crine;
e sembra forsennata, e ch’adosso abbia
non un demonio sol, ma le decine;
o, qual Ecuba, sia conversa in rabbia,
vistosi morto Polidoro al fine.
Or si ferma s’un sasso, e guarda il mare;
né men d’un vero sasso, un sasso pare.

35
     Ma lasciánla doler fin ch’io ritorno,
per voler di Ruggier dirvi pur anco,
che nel piú intenso ardor del mezzo giorno
cavalca il lito, affaticato e stanco.
Percuote il sol nel colle e fa ritorno:
di sotto bolle il sabbion trito e bianco.
Mancava all’arme ch’avea indosso, poco
ad esser, come giá, tutte di fuoco.

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36
     Mentre la sete, e de l’andar fatica
per l’alta sabbia e la solinga via
gli facean, lungo quella spiaggia aprica,
noiosa e dispiacevol compagnia;
trovò ch’all’ombra d’una torre antica
che fuor de l’onde appresso il lito uscia,
de la corte d’Alcina eran tre donne,
che le conobbe ai gesti et alle gonne.

37
     Corcate su tapeti allessandrini
godeansi il fresco rezzo in gran diletto,
fra molti vasi di diversi vini
e d’ogni buona sorte di confetto.
Presso alla spiaggia, coi flutti marini
scherzando, le aspettava un lor legnetto
fin che la vela empiesse agevol òra;
ch’un fiato pur non ne spirava allora.

38
     Queste, ch’andar per la non ferma sabbia
vider Ruggiero al suo vïaggio dritto,
che sculta avea la sete in su le labbia,
tutto pien di sudore il viso afflitto,
gli cominciaro a dir che sí non abbia
il cor voluntaroso al camin fitto,
ch’alla fresca e dolce ombra non si pieghi,
e ristorar lo stanco corpo nieghi.

39
     E di lor una s’accostò al cavallo
per la staffa tener, che ne scendesse;
l’altra con una coppa di cristallo
di vin spumante, piú sete gli messe:
ma Ruggiero a quel suon non entrò in ballo;
perché d’ogni tardar che fatto avesse,
tempo di giunger dato avria ad Alcina,
che venía dietro et era omai vicina.

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40
     Non cosí fin salnitro e zolfo puro,
tocco dal fuoco, subito s’avampa;
né cosí freme il mar quando l’oscuro
turbo discende e in mezzo se gli accampa:
come, vedendo che Ruggier sicuro
al suo dritto camin l’arena stampa,
e che le sprezza (e pur si tenean belle),
d’ira arse e di furor la terza d’elle.

41
     — Tu non sei né gentil né cavalliero
(dice gridando quanto può piú forte),
et hai rubate l’arme; e quel destriero
non saria tuo per veruna altra sorte:
e cosí, come ben m’appongo al vero,
ti vedessi punir di degna morte;
che fossi fatto in quarti, arso o impiccato,
brutto ladron, villan, superbo, ingrato. —

42
     Oltr’a queste e molt’altre ingiurïose
parole che gli usò la donna altiera,
ancor che mai Ruggier non le rispose,
che de sí vil tenzon poco onor spera;
con le sorelle tosto ella si pose
sul legno in mar, che al lor servigio v’era;
et affrettando i remi, lo seguiva,
vedendol tuttavia dietro alla riva.

43
     Minaccia sempre, maledice e incarca;
che l’onte sa trovar per ogni punto.
Intanto a quello stretto, onde si varca
alla fata piú bella, è Ruggier giunto;
dove un vecchio nochiero una sua barca
scioglier da l’altra ripa vede, a punto
come, avisato e giá provisto, quivi
si stia aspettando che Ruggiero arrivi.

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44
     Scioglie il nochier, come venir lo vede,
di trasportarlo a miglior ripa lieto;
che, se la faccia può del cor dar fede,
tutto benigno e tutto era discreto.
Pose Ruggier sopra il navilio il piede,
Dio ringraziando; e per lo mar quïeto
ragionando venía col galeotto,
saggio e di lunga esperïenzia dotto.

45
     Quel lodava Ruggier, che sí se avesse
saputo a tempo tor da Alcina, e inanti
che ’l calice incantato ella gli desse,
ch’avea al fin dato a tutti gli altri amanti;
e poi, che a Logistilla si traesse,
dove veder potria costumi santi,
bellezza eterna et infinita grazia
che ’l cor notrisce e pasce, e mai non sazia.

46
     — Costei (dicea) stupore e riverenza
induce all’alma, ove si scuopre prima.
Contempla meglio poi l’alta presenza:
ogn’altro ben ti par di poca stima.
Il suo amore ha dagli altri differenza:
speme o timor negli altri il cor ti lima;
in questo il desiderio piú non chiede,
e contento riman come la vede.

47
     Ella t’insegnerá studii piú grati,
che suoni, danze, odori, bagni e cibi;
ma come i pensier tuoi meglio formati
poggin piú ad alto che per l’aria i nibi,
e come de la gloria de’ beati
nel mortal corpo parte si delibi. —
Cosí parlando il marinar veniva,
lontano ancora alla sicura riva;

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48
     quando vide scoprire alla marina
molti navili, e tutti alla sua volta.
Con quei ne vien l’ingiurïata Alcina;
e molta di sua gente have raccolta
per por lo stato e se stessa in ruina,
o racquistar la cara cosa tolta.
E bene è amor di ciò cagion non lieve,
ma l’ingiuria non men che ne riceve.

49
     Ella non ebbe sdegno, da che nacque,
di questo il maggior mai, ch’ora la rode;
onde fa i remi sí affrettar per l’acque,
che la spuma ne sparge ambe le prode.
Al gran rumor né mar né ripa tacque,
et Ecco risonar per tutto s’ode.
— Scuopre, Ruggier, lo scudo, che bisogna;
se non, sei morto, o preso con vergogna. —

50
     Cosí disse il nocchier di Logistilla;
et oltre il detto, egli medesmo prese
la tasca e da lo scudo dipartilla,
e fe’ il lume di quel chiaro e palese.
L’incantato splendor che ne sfavilla,
gli occhi degli aversari cosí offese,
che li fe’ restar ciechi allora allora,
e cader chi da poppa e chi da prora.

51
     Un ch’era alla veletta in su la ròcca,
de l’armata d’Alcina si fu accorto;
e la campana martellando tocca,
onde il soccorso vien subito al porto.
L’artegliaria, come tempesta, fiocca
contra chi vuole al buon Ruggier far torto:
sí che gli venne d’ogni parte aita,
tal che salvò la libertá e la vita.

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52
     Giunte son quattro donne in su la spiaggia,
che subito ha mandate Logistilla:
la valorosa Andronica e la saggia
Fronesia e l’onestissima Dicilla
e Sofrosina casta, che, come aggia
quivi a far piú che l’altre, arde e sfavilla.
L’esercito ch’al mondo è senza pare,
del castello esce, e si distende al mare.

53
     Sotto il castel ne la tranquilla foce
di molti e grossi legni era una armata,
ad un botto di squilla, ad una voce
giorno e notte a battaglia apparecchiata.
E cosí fu la pugna aspra et atroce,
e per acqua e per terra, incominciata;
per cui fu il regno sottosopra volto,
ch’avea giá Alcina alla sorella tolto.

54
     Oh di quante battaglie il fin successe
diverso a quel che si credette inante!
Non sol ch’Alcina alor non rïavesse,
come stimossi, il fugitivo amante;
ma de le navi che pur dianzi spesse
fur sí, ch’a pena il mar ne capia tante,
fuor de la fiamma che tutt’altre avampa,
con un legnetto sol misera scampa.

55
     Fuggesi Alcina, e sua misera gente
arsa e presa riman, rotta e sommersa.
D’aver Ruggier perduto ella si sente
via piú doler che d’altra cosa aversa:
notte e dí per lui geme amaramente,
e lacrime per lui dagli occhi versa;
e per dar fine a tanto aspro martíre,
spesso si duol di non poter morire.

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56
     Morir non puote alcuna fata mai,
fin che ’l sol gira, o il ciel non muta stilo.
Se ciò non fosse, era il dolore assai
per muover Cloto ad inasparle il filo;
o, qual Didon, finia col ferro i guai;
o la regina splendida del Nilo
avria imitata con mortifer sonno:
ma le fate morir sempre non ponno.

57
     Torniamo a quel di eterna gloria degno
Ruggiero; e Alcina stia ne la sua pena.
Dico di lui, che poi che fuor del legno
si fu condutto in piú sicura arena,
Dio ringraziando che tutto il disegno
gli era successo, al mar voltò la schena;
et affrettando per l’asciutto il piede,
alla ròcca ne va che quivi siede.

58
     Né la piú forte ancor né la piú bella
mai vide occhio mortal prima né dopo.
Son di piú prezzo le mura di quella,
che se diamante fossino o piropo.
Di tai gemme qua giú non si favella:
et a chi vuol notizia averne, è d’uopo
che vada quivi; che non credo altrove,
se non forse su in ciel, se ne ritruove.

59
     Quel che piú fa che lor si inchina e cede
ogn’altra gemma, è che, mirando in esse,
l’uom sin in mezzo all’anima si vede;
vede suoi vizii e sue virtudi espresse,
sí che a lusinghe poi di sé non crede,
né a chi dar biasmo a torto gli volesse:
fassi, mirando allo specchio lucente
se stesso, conoscendosi, prudente.

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60
     Il chiaro lume lor, ch’imita il sole,
manda splendore in tanta copia intorno,
che chi l’ha, ovunque sia, sempre che vuole,
Febo, mal grado tuo, si può far giorno.
Né mirabil vi son le pietre sole;
ma la materia e l’artificio adorno
contendon sí, che mal giudicar puossi
qual de le due eccellenze maggior fossi.

61
     Sopra gli altissimi archi, che puntelli
parean che del ciel fossino a vederli,
eran giardin sí spazïosi e belli,
che saria al piano anco fatica averli.
Verdeggiar gli odoriferi arbuscelli
si puon veder fra i luminosi merli,
ch’adorni son l’estate e il verno tutti
di vaghi fiori e di maturi frutti.

62
     Di cosí nobili arbori non suole
prodursi fuor di questi bei giardini,
né di tai rose o di simil vïole,
di gigli, di amaranti o di gesmini.
Altrove appar come a un medesmo sole
e nasca, e viva, e morto il capo inchini,
e come lasci vedovo il suo stelo
il fior suggetto al varïar del cielo:

63
     ma quivi era perpetua la verdura,
perpetua la beltá de’ fiori eterni:
non che benignitá de la Natura
sí temperatamente li governi;
ma Logistilla con suo studio e cura,
senza bisogno de’ moti superni
(quel che agli altri impossibile parea),
sua primavera ognor ferma tenea.

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64
     Logistilla mostrò molto aver grato
ch’a lei venisse un sí gentil signore;
e comandò che fosse accarezzato,
e che studiasse ognun di fargli onore.
Gran pezzo inanzi Astolfo era arrivato,
che visto da Ruggier fu di buon core.
Fra pochi giorni venner gli altri tutti,
ch’a l’esser lor Melissa avea ridutti.

65
     Poi che si fur posati un giorno e dui,
venne Ruggiero alla fata prudente
col duca Astolfo, che non men di lui
avea desir di riveder Ponente.
Melissa le parlò per amendui;
e supplica la fata umilemente,
che li consigli, favorisca e aiuti,
sí che ritornili donde eran venuti.

66
     Disse la fata: — Io ci porrò il pensiero,
e fra dui dí te li darò espediti. —
Discorre poi tra sé, come Ruggiero,
e dopo lui, come quel duca aiti:
conchiude infin che ’l volator destriero
ritorni il primo agli aquitani liti;
ma prima vuol che se gli faccia un morso,
con che lo volga, e gli raffreni il corso.

67
     Gli mostra come egli abbia a far, se vuole
che poggi in alto, e come a far che cali;
e come, se vorrá che in giro vole,
o vada ratto, o che si stia su l’ali:
e quali effetti il cavallier far suole
di buon destriero in piana terra, tali
facea Ruggier che mastro ne divenne,
per l’aria, del destrier ch’avea le penne.

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68
     Poi che Ruggier fu d’ogni cosa in punto,
da la fata gentil comiato prese,
alla qual restò poi sempre congiunto
di grande amore; e usci di quel paese.
Prima di lui che se n’andò in buon punto,
e poi dirò come il guerriero inglese
tornasse con piú tempo e piú fatica
al magno Carlo et alla corte amica.

69
     Quindi partí Ruggier, ma non rivenne
per quella via che fe’ giá suo mal grado,
allor che sempre l’ippogrifo il tenne
sopra il mare, e terren vide di rado:
ma potendogli or far batter le penne
di qua di lá, dove piú gli era a grado,
volse al ritorno far nuovo sentiero,
come, schivando Erode, i Magi fêro.

70
     Al venir quivi, era, lasciando Spagna,
venuto India a trovar per dritta riga,
lá dove il mare orïental la bagna;
dove una fata avea con l’altra briga.
Or veder si dispose altra campagna,
che quella dove i venti Eolo instiga,
e finir tutto il cominciato tondo,
per aver, come il sol, girato il mondo.

71
     Quinci il Cataio, e quindi Mangïana
sopra il gran Quinsaí vide passando:
volò sopra l’Imavo, e Sericana
lasciò a man destra; e sempre declinando
da l’iperborei Sciti a l’onda ircana,
giunse alle parti di Sarmazia: e quando
fu dove Asia da Europa si divide,
Russi e Pruteni e la Pomeria vide.

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72
     Ben che di Ruggier fosse ogni desire
di ritornare a Bradamante presto;
pur, gustato il piacer ch’avea di gire
cercando il mondo, non restò per questo,
ch’alli Pollacchi, agli Ungari venire
non volesse anco, alli Germani, e al resto
di quella boreale orrida terra:
e venne al fin ne l’ultima Inghilterra.

73
     Non crediate, Signor, che però stia
per sí lungo camin sempre su l’ale:
ogni sera all’albergo se ne gía,
schivando a suo poter d’alloggiar male.
E spese giorni e mesi in questa via,
sí di veder la terra e il mar gli cale.
Or presso a Londra giunto una matina,
sopra Tamigi il volator declina.

74
     Dove ne’ prati alla cittá vicini
vide adunati uomini d’arme e fanti,
ch’a suon di trombe e a suon di tamburini
venian, partiti a belle schiere, avanti
il buon Rinaldo, onor de’ paladini;
del qual, se vi ricorda, io dissi inanti,
che mandato da Carlo, era venuto
in queste parti a ricercare aiuto.

75
     Giunse a punto Ruggier, che si facea
la bella mostra fuor di quella terra;
e per sapere il tutto, ne chiedea
un cavallier, ma scese prima in terra:
e quel, ch’affabil era, gli dicea
che di Scozia e d’Irlanda e d’Inghilterra
e de l’isole intorno eran le schiere
che quivi alzate avean tante bandiere:

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76
     e finita la mostra che faceano,
alla marina se distenderanno,
dove aspettati per solcar l’Oceano
son dai navili che nel porto stanno.
I Franceschi assediati si ricreano,
sperando in questi che a salvar li vanno.
— Ma acciò tu te n’ informi pienamente,
io ti distinguerò tutta la gente.

77
     Tu vedi ben quella bandiera grande,
ch’insieme pon la fiordaligi e i pardi:
quella il gran capitano all’aria spande,
e quella han da seguir gli altri stendardi.
Il suo nome, famoso in queste bande,
è Leonetto, il fior de li gagliardi,
di consiglio e d’ardire in guerra mastro,
del re nipote, e duca di Lincastro.

78
     La prima, appresso il gonfalon reale,
che ’l vento tremolar fa verso il monte,
e tien nel campo verde tre bianche ale,
porta Ricardo, di Varvecia conte.
Del duca di Glocestra è quel segnale,
c’ha duo corna di cervio e mezza fronte.
Del duca di Chiarenza è quella face;
quel arbore è del duca d’Eborace.

79
     Vedi in tre pezzi una spezzata lancia:
gli è ’l gonfalon del duca di Nortfozia.
La fulgure è del buon conte di Cancia;
il grifone è del conte di Pembrozia.
Il duca di Sufolcia ha la bilancia.
Vedi quel giogo che due serpi assozia:
è del conte d’Esenia; e la ghirlanda
in campo azzurro ha quel di Norbelanda.

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80
     Il conte d’Arindelia è quel c’ha messo
in mar quella barchetta che s’affonda.
Vedi il marchese di Barclei; e appresso
di Marchia il conte e il conte di Ritmonda:
il primo porta in bianco un monte fesso,
l’altro la palma, il terzo un pin ne l’onda.
Quel di Dorsezia è conte, e quel d’Antona,
che l’uno ha il carro, e l’altro la corona.

81
     Il falcon che sul nido i vanni inchina,
porta Raimondo, il conte di Devonia.
Il giallo e negro ha quel di Vigorina;
il can quel d’Erbia; un orso quel d’Osonia.
La croce che lá vedi cristallina,
è del ricco prelato di Battonia.
Vedi nel bigio una spezzata sedia:
è del duca Ariman di Sormosedia.

82
     Gli uomini d’arme e gli arcieri a cavallo
di quarantaduomila numer fanno.
Sono duo tanti, o di cento non fallo,
quelli ch’a piè ne la battaglia vanno.
Mira quei segni, un bigio, un verde, un giallo,
e di nero e d’azzur listato un panno:
Gofredo, Enrigo, Ermante et Odoardo
guidan pedoni, ognun col suo stendardo.

83
     Duca di Bocchingamia è quel dinante;
Enrigo ha la contea di Sarisberia;
signoreggia Burgenia il vecchio Ermante;
quello Odoardo è conte di Croisberia.
Questi alloggiati piú verso levante
sono gl’Inglesi. Or volgeti all’Esperia,
dove si veggion trentamila Scotti,
da Zerbin, figlio del lor re, condotti.

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84
     Vedi tra duo unicorni il gran leone,
che la spada d’argento ha ne la zampa:
quell’è del re di Scozia il gonfalone;
il suo figliol Zerbino ivi s’accampa.
Non è un sí bello in tante altre persone:
Natura il fece, e poi roppe la stampa.
Non è in cui tal virtú, tal grazia luca,
o tal possanza: et è di Roscia duca.

85
     Porta in azzurro una dorata sbarra
il conte d’Ottonlei ne lo stendardo.
L’altra bandiera è del duca di Marra,
che nel travaglio porta il leopardo,
Di piú colori e di piú augei bizzarra
mira l’insegna d’Alcabrun gagliardo,
che non è duca, conte, né marchese,
ma primo nel salvatico paese.

86
     Del duca di Trasfordia è quella insegna,
dove è l’augel ch’ al sol tien gli occhi franchi.
Lurcanio conte, ch’in Angoscia regna,
porta quel tauro, c’ha duo veltri ai fianchi.
Vedi lá il duca d’Albania, che segna
il campo di colori azzurri e bianchi.
Quel avoltor, ch’un drago verde lania,
è l’insegna del conte di Boccania.

87
     Signoreggia Forbesse il forte Armano,
che di bianco e di nero ha la bandiera;
et ha il conte d’Erelia a destra mano,
che porta in campo verde una lumiera.
Or guarda gl’Ibernesi appresso il piano:
sono duo squadre; e il conte di Childera
mena la prima, e il conte di Desmonda
da fieri monti ha tratta la seconda.

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88
     Ne lo stendardo il primo ha un pino ardente;
l’altro nel bianco una vermiglia banda.
Non dá soccorso a Carlo solamente
la terra inglese e la Scozia e l’Irlanda;
ma vien di Svezia e di Norvegia gente,
da Tile, e fin da la remota Islanda:
da ogni terra, insomma, che lá giace,
nimica naturalmente di pace.

89
     Sedicimila sono, o poco manco,
de le spelonche usciti e de le selve;
hanno piloso il viso, il petto, il fianco,
e dossi e braccia e gambe, come belve.
Intorno allo stendardo tutto bianco
par che quel pian di lor lance s’inselve:
cosí Moratto il porta, il capo loro,
per dipingerlo poi di sangue Moro. —

90
     Mentre Ruggier di quella gente bella,
che per soccorrer Francia si prepara,
mira le varie insegne e ne favella,
e dei signor britanni i nomi impara;
uno et un altro a lui, per mirar quella
bestia sopra cui siede, unica o rara,
maraviglioso corre e stupefatto;
e tosto il cerchio intorno gli fu fatto.

91
     Sí che per dare ancor piú maraviglia,
e per pigliarne il buon Ruggier piú gioco,
al volante corsier scuote la briglia,
e con gli sproni ai fianchi il tocca un poco;
quel verso il ciel per l’aria il camin piglia,
e lascia ognuno attonito in quel loco.
Quindi Ruggier, poi che di banda in banda
vide gl’Inglesi, andò verso l’Irlanda.

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 92
     E vide Ibernia fabulosa, dove
il santo vecchiarel fece la cava,
in che tanta mercé par che si truove,
che l’uom vi purga ogni sua colpa prava.
Quindi poi sopra il mare il destrier muove
lá dove la minor Bretagna lava:
e nel passar vide, mirando a basso,
Angelica legata al nudo sasso.


93
     Al nudo sasso, all’Isola del pianto;
che l’Isola del pianto era nomata
quella che da crudele e fiera tanto
et inumana gente era abitata,
che (come io vi dicea sopra nel canto)
per varii liti sparsa iva in armata
tutte le belle donne depredando,
per farne a un mostro poi cibo nefando.

94
     Vi fu legata pur quella matina,
dove venía per trangugiarla viva
quel smisurato mostro, orca marina,
che di aborrevole esca si nutriva.
Dissi di sopra, come fu rapina
di quei che la trovaro in su la riva
dormire al vecchio incantatore a canto,
ch’ivi l’avea tirata per incanto.

95
     La fiera gente inospitale e cruda
alla bestia crudel nel lito espose
la bellissima donna, cosí ignuda
come Natura prima la compose.
Un velo non ha pure, in che richiuda
i bianchi gigli e le vermiglie rose,
da non cader per luglio o per dicembre,
di che son sparse le polite membre.

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96
     Creduto avria che fosse statua finta
o d’alabastro o d’altri marmi illustri
Ruggiero, e su lo scoglio cosí avinta
per artificio di scultori industri;
se non vedea la lacrima distinta
tra fresche rose e candidi ligustri
far rugiadose le crudette pome,
e l’aura sventolar l’aurate chiome.

97
     E come ne’ begli occhi gli occhi affisse,
de la sua Bradamante gli sovenne.
Pietade e amore a un tempo lo traffisse,
e di piangere a pena si ritenne;
e dolcemente alla donzella disse,
poi che del suo destrier frenò le penne:
— O donna, degna sol de la catena
con chi i suoi servi Amor legati mena,

98
     e ben di questo e d’ogni male indegna,
chi è quel crudel che con voler perverso
d’importuno livor stringendo segna
di queste belle man l’avorio terso? —
Forza è ch’a quel parlare ella divegna
quale è di grana un bianco avorio asperso,
di sé vedendo quelle parte ignude,
ch’ancor che belle sian, vergogna chiude.

99
     E coperto con man s’avrebbe il volto,
se non eran legate al duro sasso;
ma del pianto, ch’almen non l’era tolto,
lo sparse, e si sforzò di tener basso.
E dopo alcun’ signozzi il parlar sciolto,
incominciò con fioco suono e lasso:
ma non seguí; che dentro il fe’ restare
il gran rumor che si sentí nel mare.

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100
     Ecco apparir lo smisurato mostro
mezzo ascoso ne l’onda e mezzo sorto.
Come sospinto suol da borea o d’ostro
venir lungo navilio a pigliar porto,
cosí ne viene al cibo che l’è mostro
la bestia orrenda; e l’intervallo è corto.
La donna è mezza morta di paura;
né per conforto altrui si rassicura.

101
     Tenea Ruggier la lancia non in resta,
ma sopra mano, e percoteva l’orca.
Altro non so che s’assimigli a questa,
ch’una gran massa che s’aggiri e torca;
né forma ha d’animal, se non la testa,
c’ha gli occhi e i denti fuor, come di porca.
Ruggier in fronte la fería tra gli occhi;
ma par che un ferro o un duro sasso tocchi.

102
     Poi che la prima botta poco vale,
ritorna per far meglio la seconda.
L’orca, che vede sotto le grandi ale
l’ombra di qua e di lá correr su l’onda,
lascia la preda certa litorale,
e quella vana segue furibonda:
dietro quella si volve e si raggira.
Ruggier giú cala, e spessi colpi tira.

103
     Come d’alto venendo aquila suole,
ch’errar fra l’erbe visto abbia la biscia,
o che stia sopra un nudo sasso al sole,
dove le spoglie d’oro abbella e liscia;
non assalir da quel lato la vuole
onde la velenosa e soffia e striscia,
ma da tergo la adugna, e batte i vanni,
acciò non se le volga e non la azzanni:

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104
     cosí Ruggier con l’asta e con la spada,
non dove era de’ denti armato il muso,
ma vuol che ’l colpo tra l’orecchie cada,
or su le schene, or ne la coda giuso.
Se la fera si volta, ei muta strada,
et a tempo giú cala, e poggia in suso:
ma come sempre giunga in un dïaspro,
non può tagliar lo scoglio duro et aspro.

105
     Simil battaglia fa la mosca audace
contra il mastin nel polveroso agosto,
o nel mese dinanzi o nel seguace,
l’uno di spiche e l’altro pien di mosto:
negli occhi il punge e nel grifo mordace,
volagli intorno e gli sta sempre accosto;
e quel suonar fa spesso il dente asciutto:
ma un tratto che gli arrivi, appaga il tutto.

106
     Sí forte ella nel mar batte la coda,
che fa vicino al ciel l’acqua inalzare;
tal che non sa se l’ale in aria snoda,
o pur se ’l suo destrier nuota nel mare.
Gli è spesso che disia trovarsi a proda;
che se lo sprazzo in tal modo ha a durare,
teme sí l’ale inaffi all’ippogrifo,
che brami invano avere o zucca o schifo.

107
     Prese nuovo consiglio, e fu il migliore,
di vincer con altre arme il mostro crudo:
abbarbagliar lo vuol con lo splendore
ch’era incantato nel coperto scudo.
Vola nel lito; e per non fare errore,
alla donna legata al sasso nudo
lascia nel minor dito de la mano
l’annel, che potea far l’incanto vano:

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108
     dico l’annel che Bradamante avea,
per liberar Ruggier, tolto a Brunello,
poi per trarlo di man d’Alcina rea,
mandato in India per Melissa a quello.
Melissa (come dianzi io vi dicea)
in ben di molti adoperò l’annello;
indi l’avea a Ruggier restituito,
dal qual poi sempre fu portato in dito.

109
     Lo dá ad Angelica ora, perché teme
che del suo scudo il fulgurar non viete,
e perché a lei ne sien difesi insieme
gli occhi che giá l’avean preso alla rete.
Or viene al lito e sotto il ventre preme
ben mezzo il mar la smisurata cete.
Sta Ruggiero alla posta, e lieva il velo;
e par ch’aggiunga un altro sole al cielo.

110
     Ferí negli occhi l’incantato lume
di quella fera, e fece al modo usato.
Quale o trota o scaglion va giú pel fiume
c’ha con calcina il montanar turbato,
tal si vedea ne le marine schiume
il mostro orribilmente riversciato.
Di qua di lá Ruggier percuote assai,
ma di ferirlo via non truova mai.

111
     La bella donna tuttavolta priega
ch’invan la dura squama oltre non pesti.
— Torna, per Dio, signor: prima mi slega
(dicea piangendo), che l’orca si desti:
portami teco e in mezzo il mar mi anniega:
non far ch’in ventre al brutto pesce io resti. —
Ruggier, commosso dunque al giusto grido,
slegò la donna, e la levò dal lido.

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112
     Il destrier punto, ponta i piè all’arena
e sbalza in aria e per lo ciel galoppa;
e porta il cavalliero in su la schena,
e la donzella dietro in su la groppa.
Cosí privò la fera de la cena
per lei soave e delicata troppa.
Ruggier si va volgendo, e mille baci
figge nel petto e negli occhi vivaci.

113
     Non piú tenne la via, come propose
prima, di circundar tutta la Spagna;
ma nel propinquo lito il destrier pose,
dove entra in mar piú la minor Bretagna.
Sul lito un bosco era di querce ombrose,
dove ognor par che Filomena piagna;
ch’in mezzo avea un pratel con una fonte,
e quinci e quindi un solitario monte.

114
     Quivi il bramoso cavallier ritenne
l’audace corso, e nel pratel discese;
e fe’ raccorre al suo destrier le penne,
ma non a tal che piú le avea distese.
Del destrier sceso, a pena si ritenne
di salir altri; ma tennel l’arnese:
l’arnese il tenne, che bisognò trarre,
e contra il suo disir messe le sbarre.

115
     Frettoloso, or da questo or da quel canto
confusamente l’arme si levava.
Non gli parve altra volta mai star tanto;
che s’un laccio sciogliea, dui n’annodava.
Ma troppo è lungo ormai, Signor, il canto,
e forse ch’anco l’ascoltar vi grava:
si ch’io differirò l’istoria mia
in altro tempo che piú grata sia.