Paolo e Virginia/Testo

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Bernardino di Saint-Pierre
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PAOLO E VIRGINIA



Sul fianco orientale del monte che si alza a tergo del Porto-Luigi dell’Isola di Francia, veggonsi in un terreno, che fu già coltivato, le rovine di due piccole capanne. Sono esse poste nel mezzo quasi di un bacino formato da due scogli, i quali nol lasciano aperto che dal lato settentrionale. Scorgesi a mano manca il colle chiamato della Scoperta, donde si velettano i vascelli che approdano all’isola, ed appiè di questo colle si vede la città chiamata Porto-Luigi; a mano diritta evvi la strada che da Porto-Luigi conduce al quartiere dei Pamplemussi1; più in là è la chiesa che porta questo medesimo nome, la quale torreggia sopra que’ suoi viali di bambù, nel mezzo di una vasta pianura; ed in lontananza si vede una selva che occupa il resto di quell’isola fino a’ suoi confini. Apparisce in riva al mare il golfo della Tomba; alquanto verso la mano destra il Capo-Infelice; e l’alto mare al di là, dove appajono a fior d’acqua alcuni isolotti inabitati, fra i quali il cantone di Mira, che somiglia un bastione in mezzo alle onde. All’imboccatura di questo bacino, d’onde si scoprono tante cose, l’eco del monte riproduce di continuo i fischi dei venti che scuotono le vicine foreste, e lo strepito lontano dei fictti che si rompono intorno all’isola contro gli scogli; ma chi giunge fino alle capanne non sente colà più alcun romore, nè [p. 8 modifica]altra cosa vede intorno a sè se non alte roccie, scoscese e perpendicolari a guisa di muraglie. Spuntano macchie d’alberi al piè di quelle roccie e fuor delle fessure loro e su per le vette dove posano le nubi; la pioggia attratta da quelle cime, dipinge dei colori dell’iride quei sassi verdi-bruni, ed alimenta le sorgenti che zampillano alle falde, di che formasi il fiumicello dei Latanieri. Tutto ivi tace, chè tutto ivi è quieto, l’aria, le acque e la luce. Odesi appena, ripetuto dall’eco, il mormorare dei palmizii, che spuntano sulle appianate cime dei circostanti massi, e dànno i loro stecchi al vento che gli agita incessantemente. Una luce soave illumina il fondo di questo bacino, dove il sole non giunge che a mezzodì; ma fin dallo spuntare ne lambe esso intorno intorno le cime, le quali, per le sottoposte ombre del monte, pajono dorate e porporine incontro l’azzurro del cielo.

Io mi diportava sovente in questo luogo, dove si gode di una immensa veduta, ed insieme di una solitudine profonda. Standomi un giorno seduto al piè di quelle capanne, e considerandone le rovine, un uomo attempato passò per ventura a quella volta. Indossava egli un piccolo farsetto e certi suoi calzoni lunghi all’usanza di quegli antichi isolani. Camminava a piedi ignudi e sorreggeva la persona con un bastone d’ebano. I suoi capegli erano affatto bianchi, e la sua fisonomia spirava una nobile semplicità. Io lo salutai rispettosamente; egli mi corrispose, e dopo aver tenuto un istante lo sguardo in me, mi si avvicinò, ed adagiossi sul poggio medesimo dove io stava seduto. Affidato io da questo contrassegno della sua confidenza, me gli volsi con queste parole: «Padre mio, sapreste voi dirmi di chi furono queste capanne? Figlio, rispose, questi casolari e questo terreno incolto erano, or sono vent’anni, l’asilo di due famiglie che avevano trovata qui la loro felicità. La loro storia è commovente: ma in quest’isola posta sul cammino dell’Indie, qual Europeo può mai sentirsi tocco dalla sorte di alcune oscure persone? Chi toglierebbe d’esservi felice, non che povero e sconosciuto? Gli uomini cercano soltanto di conoscere la storia dei grandi e dei re, che non giova a nessuno. — Padre mio, io ripigliai, dal vostro aspetto e per le vostre parole si conosce facilmente [p. 9 modifica]che voi avete acquistato gran capitale di esperienza. Deh! se ne avete agio, narratemi, ve ne prego, quel che sapete intorno agli abitanti di questo deserto. Anche l’uomo il più guasto dai mondani pregiudizii gode, credetemi, di sentir ragionare della felicità che viene dalla natura e dalla virtù».

Allora quel vecchio, posta un momento la mano sulla fronte, come chi vuol riordinare in sua mente varii fatti, ecco quello che mi narrò.


Nell’anno 1726, un giovine di Normandia, chiamato il signor De la Tour, dopo aver fatto invano molte pratiche per ottenere un grado militare ed un qualche ajuto dalla sua famiglia, risolse di venire in quest’isola per procacciarvi fortuna. Avea con sè una giovine sposa, della quale era amante riamato. Era ella uscita da una famiglia delle nobili e ricche di sua provincia; ma l’aveva sposata segretamente e senza dote, perchè i parenti di lei si erano levati contro questa unione, perocchè egli non era gentiluomo. Egli la lasciò al Porto-Luigi di quest’isola, ed imbarcossi pel Madagascar, colla speranza di comperare colà un qualche moro, e di tornar qui prontamente a stabilire una piantagione. Sbarcò al Madagascar nella cattiva stagione, la quale comincia alla metà d’ottobre, e poco appresso vi morì côlto dalle febbri contagiose che dominano quel paese sei mesi dell’anno, e che saranno sempre un ostacolo per le nazioni europee che vi si volessero stabilire. L’avere che egli aveva portato con sè, andò tutto perduto, come accade d’ordinario quando uno muore fuor della sua patria. Sua moglie, rimasta all’isola di Francia, si vide vedova, incinta, e senza niuna altra cosa al mondo, tranne una femmina mora, in una terra ove ella non aveva nè credito, nè raccomandazione di sorta. Non volendo rivolgersi ad uomo alcuno, morto colui che solo ella aveva amato, la sua sventura le diede coraggio, e risolse di coltivare colla sua schiava un cantuccio di terreno, onde procacciarsi vitto.

In un’isola quasi deserta, ove il terreno era in balía d’ognuno, ella non istette già a scegliere nè l’angolo più ferace, nè il punto più favorevole al commercio; ma cercando una qualche gola di monte, un qualche asilo nascosto per vivervi sola e sconosciuta, volse [p. 10 modifica]dalla città i passi a questi scogli, per ritirarvisi come in un nido. Egli pare che sia istinto comune a tutte le persone appassionate quello di rifugiarsi nei luoghi più salvatici e deserti, quasi che le roccie siano muraglie contro la mala fortuna, e come se la calma della natura potesse quietare i crudeli sconvolgimenti dell’anima. Ma la provvidenza, che ne soccorre sempre quando altro non domandiamo tranne i beni necessari, aveva in serbo per la signora De la Tour un tal bene, che l’eguale non ponno apportare nè le ricchezze, nè la grandezza: questo bene era un’amica. Dimorava qui già da un anno una donna vivace, buona e di gran cuore, che avea nome Margherita; era nata in Bretagna, in una buona famiglia di villani che molto l’amavano, e che l’avrebbero fatta felice, se non avesse avuto la debolezza di prestar fede ad un gentiluomo de’ suoi dintorni, il quale avevale promesso di sposarla; ma, spenta la sua passione, si allontanò da lei, e ricusò persino di assegnarle tanto con che si potesse mantenere un figlio di cui la lasciò incinta. Fermato ella allora il proposito di abbandonare per sempre il villaggio dov’era nata, pensò di andare a nascondere il suo fallo lungi dal suo paese, dov’ella aveva perduta tutta la dote di una fanciulla povera ed onesta.... Un vecchio moro da lei comperato con alcune monete pigliate qui e qua ad imprestito, lavorava con lei un cantuccio di questa terra.

La signora De la Tour, accompagnata dalla sua mora, trovò qui Margherita che allattava il suo bambino. Dolce cosa le fu l’abbattersi in una donna, posta in uno stato che le parve simile al suo proprio: essa le svelò in brevi parole la passata sua condizione ed i bisogni che la stringevano di presente. A questo racconto Margherita fu tutta commossa; e bramando di meritarsi la confidenza della signora De la Tour piuttosto che la sua stima, le confessò il suo fallo senza tacer nulla. «Quanto a me, le diceva, l’ho meritata questa dura sorte; ma voi, signora.... voi, saggia ed infelice!» E senza più le offrì, piangendo, la sua capanna e la sua amicizia. La signora De la Tour, commossa da un’accoglienza così tenera, stringendo Margherita fra le braccia, le disse: «Ah! ben veggo che Iddio vuole che finiscano le mie pene, poich’egli ispira [p. 11 modifica]a voi verso di me straniera, tanta bontà, mentre nessuna ne ho mai trovata ne’ miei parenti».

Io conosceva Margherita, e sebbene abiti lunge di qui una lega e mezzo, nei boschi, al di là del Monte Lungo, mi tenea suo vicino. Nelle città d’Europa, una strada, un sol muro, distolgono i membri di una medesima famiglia dal vedersi per anni interi; ma nelle nuove colonie si considerano come vicini quelli dai quali non siamo separati che da boschi e da montagne. E sopratutto a quei dì, siccome quest’isola commerciava poco colle Indie, la sola vicinanza era qui un titolo d’amicizia, e l’ospitalità verso i forestieri era un debito ed un piacere.

Quando seppi che la mia vicina aveva una compagna, venni a visitarla a fine di cercar la via di giovare all’una ed all’altra. Vidi la signora De la Tour, e dal suo aspetto attraente mi parve di scorgere un’anima nobile e melanconica: era allora vicina al parto. Dissi a queste due donne che pel bene de’ loro figli, e sopratutto per impedire che alcun altro venisse a stabilirsi qui, mi pareva conveniente ch’esse si dividessero fra di loro questo bacino, il quale rinchiude da venti jugeri di terra. Le buone donne si rimisero al mio giudizio sulla divisione. Io ne feci due parti poco meno che eguali: una comprendeva il tratto superiore di questo seno, e ne tirai la linea di confine da quello scoglio acuto, coperto di nuvole, onde ha la sorgente il fiume dei Latanieri, fino a quella spaccatura che vedete là in cima al monte, la quale chiamano Cannoniera, perchè veramente la pare una cannoniera da bastione. Il fondo di questo suolo è sì ingombro di scogli e di fessure tra quelli, che a stento vi si può camminare; ma gli alberi vengonvi grandi, ed è tutto pieno di sorgenti e di ruscelletti. Compresi nell’altra parte tutto il piano inferiore che stendesi lungo il fiume dei Latanieri fino a quell’apertura donde il fiume comincia a scorrere tra due colline, e sempre in mezzo a quelle si va al mare. Voi vi scorgete qualche lembo di prato, ed il terreno è piano quanto basta, ma non vale gran fatto più dell’altro; imperocchè nella stagione piovosa impaluda, e nel secco si fa duro come piombo, sì che bisogna tagliarlo colla scure chi vuole aprirvi un solco. Fatte queste due [p. 12 modifica]parti, persuasi quelle due donne a trarle a sorte. Toccò la superiore alla signora De la Tour, l’altra a Margherita. Ambedue rimasero contente, ma mi pregarono di non dividerle quanto all’abitazione. «Vogliamo, dissero, vederci, parlarci e darci ajuto reciprocamente». Ad ogni modo era mestieri l’assegnare a ciascheduna un luogo appartato. La capanna di Margherita, posta in mezzo al bacino, veniva a trovarsi precisamente sul confine del suo terreno. Fabbricai ivi presso sulla possessione della signora De la Tour un’altra capanna, di modo che quelle due amiche rimasero unite, quantunque ognuna si stesse sul suo podere. Tagliai io stesso sul monte il legname, tolsi alla marina le foglie dei latanieri per la costruzione di queste due capanne, alle quali non rimane ora più nè tetto, nè porta. Aimè! che ne rimane anche troppo per la mia rimembranza! Il tempo, che sperde con tanta rapidità i monumenti degli imperi, pare che rispetti quelli dell’amicizia in questi deserti, per alimentare il mio dolore fin ch’io ci viva.

Era appena compiuta la seconda capanna, quando la signora De la Tour si sgravò di una bambina. Io era padrino del figliuolo di Margherita, il quale chiamavasi Paolo. La signora De la Tour mi pregò che lo fossi anche della sua bambina, e volle che in unione della sua amica le mettessimo il nome. Margherita la chiamò Virginia, e disse: «Ella sarà virtuosa, e sarà quindi felice. Io non ho conosciuto la sciagura se non quando mi sono allontanata dalla virtù.»

Quando la signora De la Tour uscì dai disagi del parto, queste due casette cominciarono un poco a pigliar piede, per le cure che io ci metteva a quando a quando, ma sopratutto in forza del lavoro indefesso di que’ due schiavi. Quello di Margherita, chiamato Domingo, era un moro di quelli che in Africa si chiamano Joloff, attempato alquanto, ma gagliardo ancora: mostrava avere della sperienza, ed era assennato naturalmente; aveva notato in ambedue le possessioni i terreni più adatti alla coltura e lavoravali senza distinzione, spargendovi le semenze opportune. Metteva miglio e grano turco dove il terreno era mediocre, ponea un po’ di frumento nel suolo buono, del riso nei fondi umidi, ed al piè delle roccie piantava citriuoli, [p. 13 modifica]zucche e cocomeri, cose che inclinano a rampicare; metteva patate nei luoghi secchi, dove esse vengono dolci assai; collocava il cotone nei siti eminenti; avea destinato alcune terre forti alle canne da zucchero; pose alcune piante di caffè sulle colline; il grano quivi riesce minuto, ma eccellente. Lungo il fiume e qua e là intorno alle capanne, allevò certe ficaje, chiamati banani, che portano frutto tutto l’anno e dànno una bell’ombra; e finalmente ebbe cura d’alcuna pianta di tabacco, onde cacciar via il fastidio da sè e dalle care sue padrone. Tagliava sul monte legne per fuoco, e spezzava gli scogli per rendere piano il suolo intorno alle case. Tutti questi lavori egli faceva con molta intelligenza ed attività, perchè li faceva di buon cuore: era affezionatissimo a Margherita, e lo era egualmente alla signora De la Tour ed alla sua mora, che sposò quando nacque Virginia. Questa sua moglie per nome Maria, amò egli sempre teneramente. Ella era nata a Madagascar, d’onde avea portato alcun’arte, quella sopratutto di far panieri e certe stoffe chiamate pagne, con alcune erbe che nascono ne’ boschi. La era destra pulita e fedelissima: le sue faccende erano il preparar da mangiare, allevar polli e andare di quando in quando al Porto-Luigi per vendervi quel che sopravanzava alle due famiglie, che era ben poca cosa. Mettete anco un pajo di capre, cresciute coi fanciulli, e un cane di guardia, ed eccovi un’idea di tutto l’avere di quelle due piccole masserie. Le due amiche filavano bambagia tutto il dì, e questo lavoro bastava per vestire di robe, casalinghe sè medesime e le loro famiglie; ma quanto all’altre cose che vengono di fuora, elle ne pativano sì gran disagio, che bisognava loro starsene scalze in casa, onde risparmiare le scarpe per andare la domenica con quelle a messa, alla chiesa dei Pamplemussi, dove si recavano per tempissimo. Voi la vedete colà in fondo quella chiesa, ed è veramente più lontana di qui che non è il Porto-Luigi; ma elle andavano di rado alla città, temendo d’esservi disprezzate, colle loro gonnelle di tela grossolana turchina, all’uso degli schiavi; ma infin dei conti l’essere tenuti da qualche cosa in piazza, monta egli più dello avere la domestica felicità? Gli è vero che le buone donne dovean soffrire qualche umiliazione al di fuori; ma rientrando in casa [p. 14 modifica]vi trovavano tanta pace che era per loro una consolazione.

Appena Maria e Domingo da quest’eminenza le miravano salire su per la via dei Pamplemussi, correvano tostamente ad incontrarle fino al fondo, per ajutarle a montare; e le padrone potevan leggere negli occhi dei loro schiavi la gioja che risentivano al rivederle. V’era nelle loro case la pulizia, la libertà; v’eran certi agi procacciati colle proprie fatiche, ed un pajo di servi pieni d’amore e di buon volere. Elle, unite tra loro dagli stessi bisogni, avendo provato quasi le medesime sventure, dandosi i dolci nomi d’amica, di compagna, di sorella, non avevano che un voler solo, un solo interesse, un solo desco. Tutto era fra loro comune, e se mai alcuna volta ridestavasi nel loro seno un antico affetto più vivo di quello dell’amicizia, una religione pura, sostenuta da costumi illibati, dirigeva quel fuoco verso un’altra vita: così vola la fiamma al cielo, quando le manca in terra l’alimento. Anche la voce soave della natura rallegrava quelle compagne; l’amicizia loro scambievole cresceva alla vista de’ loro figliuolini, frutti di amori egualmente sventurati. Era loro diletto il porli insieme nello stesso bagno, l’adagiarli nella medesima culla, e nel dar loro la poppa, sovente se li scambiavano. «Amica, diceva la signora De la Tour, ciascuna di noi avrà due figliuoli, e ciascuno de’ nostri figliuoli avrà due madri.»

Se accade che due piante d’una stessa specie, sfrondate intieramente dalla grandine, conservino ciascuna un sol germoglio, ne verranno più dolci i frutti se, distaccando que’ germogli dal loro tronco materno, lo si innesterà sul tronco vicino; così que’ due bambini, senza parenti, s’imbevevano di sentimenti più teneri, che non sono quelli di figlio e di figlia, di fratello e di sorella, quando cambiavano loro il latte le due amiche che li avevano partoriti. Sulla loro culla cominciavano già le due madri ad intavolare parole di matrimonio, e quest’idea di felicità conjugale onde raddolcivano le loro pene, le inteneriva spesso fino alle lagrime, chè una rammentava essergli derivato ogni guai dall’avere trascurata la cerimonia conjugale, l’altra dall’averne osservate le leggi; una dall’avere alzate le sue mire al disopra della sua condizione, e l’altra dall’aver fatto [p. 15 modifica]il contrario; ma esse si consolavano nel pensiero che un giorno i loro figli più felici avrebbero, lungi dai pregiudizii europei, goduto i piaceri di sposo e di sposa, e nel tempo stesso la felicità dell’uguaglianza. E veramente era un portento l’affezione che già si mostravano que’ fanciullini. Se Paolo piangeva, gli mostravano Virginia: al vederla egli sorrideva, e si calmava. Se alcun male accadeva a Virginia, le strida di Paolo ne davano avviso; ma quell’amabile fanciullina ripigliava tosto l’aria lieta perchè l’altro non si crucciasse. Ogni volta che io veniva qui, vedeva que’ due bamboli ignudi all’usanza del paese, che potendo a stento reggersi a camminare, si tenevano abbracciati, come vediamo rappresentata la costellazione dei Gemelli. Nemmeno la notte potevasi separarli. Sovente al suo arrivare essi erano già stesi nella culla medesima ed uniti strettamente guancia a guancia, petto a petto, e dormivano abbracciati.

Quando seppero parlare, i primi nomi che si diedero, furono quelli di fratello e sorella; l’infanzia, che conosce le carezze più dolci, non conosce più dolci nomi. La loro amicizia, volta dall’educazione ai bisogni reciproci, diveniva più ferma; già l’economia, la pulitezza con tutte le altre cure casalinghe furono i doveri di Virginia, e l’opra sua era premiata sempre dalle lodi e dai baci di suo fratello. Egli, instancabile sempre, o s’affannava provandosi a vangare l’orto con Domingo, o gli teneva dietro nel bosco con una piccola scure in mano, e se mai, strada facendo, gli veniva di vedere un bel fiore, un buon frutto, ovvero un nido d’uccelli, quand’anche fossero stati sull’ultima cima di un albero, egli vi si arrampicava per coglierli a sua sorella. Dove uno se ne incontrava, si congetturava che l’altro non poteva essere lontano. Scendendo io un giorno da questo monte, vidi Virginia che dal fondo dell’orto correva alla volta di casa, coperta il capo colla sua gonnellina, che per di dietro si era tirata addosso, per ripararsi da una pioggia impetuosa. Dalla lunga la credetti sola, ed essendo corso per ajutarla a camminare, vidi ch’ella se ne andava abbracciata con Paolo, quasi tutto coperto anch’egli dallo stesso riparo, ridendo ambedue di avere trovato un nuovo ombrello. Quelle due care testine, così rinchiuse sotto quella sottana enfiata dal [p. 16 modifica]vento mi ricordarono i figli di Leda chiusi nel medesimo guscio.

Ogni loro studio mirava a compiacersi l’un l’altro, e a darsi mano nelle faccende. Per altro erano ignoranti come creoli, e non sapevano nè leggere nè scrivere. Non si travagliavano dell’accaduto ne’ tempi remoti, in parti lontane; la loro curiosità non sorpassava questo monte; pensavano che in capo a quest’isola stesse il fine del mondo, e non sapevano vedere qualcosa amabile potesse darsi colà dove essi non erano. Il volersi bene e il volerne alle loro madri occupava tutto il potere delle loro anime; le scienze inutili non avevano mai turbata la serenità dei loro visi, nè furono mai annojati dallo studio di una malinconica morale. Avendo ogni cosa comune tra loro, ignoravano che vi è il rubare, che è vietato; nè conoscevano che fosse intemperanza, avendo solo copia di semplici vivande; mentire non sapevano, chè nissuna verità avevano a nascondere. Niuno li sbigottì mai narrando con che fieri castighi si puniscano da Dio i figli ingrati: quivi l’amor filiale procedeva dall’amore materno. Della religione non si era loro insegnato che quel tanto che la rende amabile, e se non erano spesso in chiesa a porgere lunghe preci, alzavano però ad ogni momento le loro mani innocenti al cielo a cui offerivano un cuore tutto semplice, e pieno di amore, e questo dovunque si fossero, in casa, ne’ campi, nel bosco.

Così trascorse la prima loro infanzia come una bell’alba che promette un più bel dì. Erano omai venuti sì innanzi, che potevano dividere colle loro madri le domestiche faccende. Come udivasi il gallo dare avviso del giorno vicino, Virginia si alzava, andava per acqua alla fontana, e rientrando in casa apprestava la colazione. Poco dopo, quando il sole indorava le piante che circondano questa chiostra, Margherita veniva col suo figliuolo dalla signora De la Tour: intuonavano allora tutti le loro orazioni, dopo le quali facevasi il primo pasto, stando sovente sulla porta seduti sull’erba sotto un pergolato di bananieri, che fornivano vivanda ne’ loro frutti sostanziosi, ed anche i tovagliolini nelle larghe e lunghe loro foglie. Un cibo sano ed abbondante sviluppava rapidamente le membra di que’ due giovanetti, ed una dolce educazione dipingeva nella loro [p. 17 modifica]fisonomia la purezza e la quiete dell’anima loro. Virginia non aveva più che dodici anni; e più che mezzo adulte erano le sue forme, lunghi capelli biondi le ondeggiavano sul capo, l’azzurro degli occhi suoi ed il corallino del labbro facevano bella mostra in quel volto freschissimo, dove brillava il sorriso quando ella parlava: che se taceva, aveva la sua pupilla una certa naturale tendenza verso il cielo, che le dava l’aria di un finissimo sentire, e fors’anche di una leggiera melanconia. Quanto a Paolo gli si vedeva spiegato nel viso il carattere virile fra le grazie dell’adolescenza; più di Virginia era egli alto della persona, e più bruno era il suo colorito, il suo naso più aquilino, e negli occhi suoi, che erano neri, si sarebbe quasi ravvisato un po’ di alterigia; ma guerniti com’erano di lunghe ciglia vaghissime, non vi appariva altro che una grande dolcezza. Egli non amava di ristare mai, ma come appariva sua sorella, pigliava un’aria quieta, e si componeva al lato di lei. Sedevano alcuna volta a mensa taciturni, e si alzavano senza aver proferito una parola. A quel silenzio, alla semplicità de’ lore atteggiamenti, alla bellezza de’ loro piedi ignudi, si avrebbe potuto immaginare di vedere un gruppo antico di marmo bianco, rappresentante alcuno de’ figli di Niobe; ma ai loro sguardi che si cercavano, a quel sorriso corrisposto da un sorriso più dolce, si vedeva in essi di quelle creature celesti, di quegli spiriti felici che tendono per natura ad amarsi, e non hanno bisogno di spiegare per via di pensieri il loro sentire, e l’affezione colle parole.

Ma la signora De la Tour che vedeva crescere prodigiosamente la bellezza della figlia, aveva il cuore stretto da una cura gravissima. Ella mi diceva qualche volta: «Se io venissi a morte, che sarebbe di Virginia che non ha niente al mondo?»

Ella aveva in Francia una zia nubile, donna di alto casato e ricca; da questa persona, che era vecchia e bacchettona, aveva ricevuto un così duro rifiuto quando all’occasione del suo matrimonio col signor De la Tour andò a lei per soccorso, che aveva fatto fermo proposito di non comparirle mai più innanzi quand’anche fosse per giugnere agli estremi più fieri; ma, divenuta madre, passò sopra ad ogni riguardo: partecipò a sua [p. 18 modifica]zia la morte inaspettata di suo marito, la nascita della figlia e l’imbarazzo che aveva d’attorno, posta in terra straniera, senza appoggio e con un bambino in collo. Nessuna risposta. Ella, sebbene altiera per natura, non abbadò ad umiliarsi e ad esporsi ai rimbrotti della sua parente, agli occhi della quale era un delitto imperdonabile l’avere sposato un uomo non nobile, quantunque virtuoso. Cogliendo adunque ogni occasione che le si offriva, seguitò a scrivere a fine di scuotere la sensibilità, se ve ne avea, di quella donna a favore di Virginia; ma indarno: per molti anni ella non diede mai segno di ricordarsi della nipote.

Finalmente nell’anno 1738, tre anni dopo l’arrivo del signor De la Bourdennais in quest’isola, madama De la Tour seppe che quel governatore aveva una lettera per lei proveniente da sua zia. Ella volò a Porto-Luigi, nè questa volta le fece specie il comparire colà mal vestita, chè la gioja materna la sollevava sopra ogni umano riguardo. Il signor De la Bourdonnais le diede in fatti una lettera di sua zia. Questa scriveva a sua nipote ch’ella aveva meritato il suo destino collo sposare un avventuriero, un libertino; che le passioni traggono la punizione con sè; che la morte immatura di suo marito era un giusto gastigo di Dio; che ottimo fu poi il suo divisamento di trasferirsi alle isole, anzichè rimanere in Francia a disdoro della sua casa; che ad ogni modo ella si trovava in una terra fortunata dove tutti arricchiscono, tranne gl’infingardi. Dopo cotali amare parole ella concludeva col fare un elogio di sè medesima. Egli fu, secondo lei, per evitar le conseguenze spesso funeste del matrimonio che avea sempre ricusato di maritarsi; ma il fatto sta invece che, essendo piena d’ambizione, aveva levate le mire sue ad uomini d’alto casato; ma per quanto ricca ella fosse, e per quanto non calenti siano le persone di corte d’ogni cosa eccettuata la ricchezza, a nessuno con tuttociò bastò l’animo di unirsi ad una donna di così brutte forme e di un cuore tanto duro. In un poscritto aggiugneva ella poi, che dato peso ad ogni cosa, s’era indotta a raccomandarla vivamente al signor De la Bourdonnais. E l’avea fatta veramente questa raccomandazione, ma con quello stile reso molto comune a questi dì, che rende più temibile un protettore che [p. 19 modifica]un nemico dichiarato: per onestare insomma in faccia al governatore la sua durezza verso la nipote, col tuono di compiangerla l’aveva calunniata.

La signora De la Tour, la cui presenza avrebbe ispirato affezione e rispetto ad ogni persona che fosse stata indifferente, fu accolta con grande freddezza dal signor De la Bourdonnais preoccupato contro di lei. A quanto ella espose sulla sua situazione e su quella della figlia egli non diede altre risposte che tronche ed aspre.

«Vedrò... vedremo... col tempo... gli sciagurati sono tanti... Ma perchè irritare una zia rispettabile?... La colpa è tutta vostra.»

La signora De la Tour tornò a casa col cuor trapassato dal dolore e pieno d’amarezza. Come fu dentro dell’uscio, s’abbandonò su di uno scanno, gettò la lettera sulla tavola, e disse alla sua amica: «Ecco il frutto dell’aver portato pazienza undici anni!» Ma siccome nessuno sapeva leggere colà dentro, ella ripigliò la sua lettera e la lesse a tutta la famiglia riunita. Tosto ch’ella ebbe terminato, Margherita disse a lei vivamente: «E qual bisogno c’è de’ tuoi parenti? Iddio ci ha egli abbandonate? Egli, egli solo è nostro padre. Non abbiamo forse vissuto bene fin qui? Or bene, perchè ti affliggi? Tu hai poco coraggio.» E vedendola piangere, le balzò al collo, e strettala fra le braccia: «Ah cara amica... esclamò, cara amica!» Ma non potè andare innanzi chè ebbe la voce soffocata dai singhiozzi. In mezzo a questo Virginia, a cui cadeva giù dagli occhi un fiume di lagrime, stringeva amorosamente or le mani di sua madre, or quelle di Margherita, e vi imprimeva baci caldissimi, e le serrava contro il suo cuore; e Paolo cogli occhi accesi d’ira, stringeva il pugno, gridava, batteva i piedi, non sapendo con chi avesse a pigliarsela. Accorsero allo strepito Domingo e Maria, e non si udì più nella capanna che questi accenti dolorosi: «Ah, signora!... mia buona padrona!... madre mia!... non piangete.» Cotanti teneri segni di amicizia fecero dileguare l’affanno della signora De la Tour. Strinse ella fra le sue braccia Paolo e Virginia, e con tuono sereno disse loro: «Figli miei, io mi crucio per cagion vostra, ma voi formate tutta la mia gioja. O miei cari figli, la sciagura mi viene da lontano, ma [p. 20 modifica]la felicità mi sta intorno.» Questo non intesero Paolo e Virginia; ma vedendola quieta le sorrisero, e si diedero a farle ogni sorta di carezze; sicchè continuò a stare fra loro la felicità, nè altro fu quest’accidente che un temporale fra mezzo ad una bella stagione.

Il buon naturale di que’ fanciulli aprivasi di giorno in giorno. Una domenica, essendosene andate sul far del dì le loro madri alla chiesa dei Pamplemussi per udirvi la prima messa, una mora fuggiasca apparve sotto i bananieri che circondavano la casa. Ella era scarnata come uno scheletro, e tutto il suo vestito consisteva in un pezzo di canovaccio stretto d’intorno alle reni. Gettatasi ai piedi di Virginia, che stava apparecchiando la colazione pe’ suoi, le disse: «Mia cara signorina, abbiate misericordia d’una povera schiava fuggiasca; da un mese io vado errando mezzo morta dalla fame in questi monti, inseguita spesso dai cacciatori e dai loro cani. Fuggo il mio padrone, che è un ricco abitante del fiume Nero: vedete come mi ha trattata!» E le mostrò la sua vita tutta solcata di cicatrici profonde per le grandi nervate. «Io voleva, soggiunse ella, andare ad annegarmi; ma sapendo che voi altri dimoravate qui, ho detto: giacchè vi sono tuttora di buoni bianchi in questa terra, non è ancor tempo di morire.» Virginia, commossa tutta, rispose: «Fate cuore, o sfortunata creatura: mangiate, mangiate;» e le mise innanzi la colazione apparecchiata per la casa. La schiava divorò ogni cosa in un baleno. Come la vide sfamata, Virginia le disse: «Povera miserabile! io vorrei andare a domandar grazia per voi al vostro padrone; vedendovi in quello stato avrà compassione sicuramente volete condurmi da lui. — Oh! mio angelo, ripigliò colei, io verrò ovunque voi vorrete.» Virginia chiamò suo fratello, e lo pregò che la volesse accompagnare. La mora li trasse per sentieri, facendo loro attraversare e boschi e montagne scoscese, ove s’arrampicarono a grande fatica, e fiumane larghe che dovettero guadare. E finalmente verso il meriggio giunsero al piede di un colle sulle sponde del fiume Nero. Videro là una casa ben fabbricata, piantagioni considerabili, ed un grande numero di schiavi intorno a diversi lavori. Passeggiava in mezzo a loro il padrone, con una pipa in bocca ed una canna in mano. Era [p. 21 modifica]costui un uomo d’alta statura, secco, di un colorito olivastro, occhi incavati e sopraccigli neri ed aggrottati. Virginia, tutta sbigottita, dando braccio a Paolo, si fece innanzi a quell’uomo, e lo pregò per l’amor di Dio che volesse perdonare alla sua schiava, la quale era rimasta indietro in poca distanza. Egli non abbadò sulle prime a que’ due fanciulli poveramente vestiti; ma quando ebbe adocchiate le forme eleganti di Virginia, la sua bella testina bionda sotto un’acconciatura turchina; quando ebbe avvertito la dolcezza della sua voce, che tremava con tutte le membra nel domandargli grazia, tolse dal labbro la sua pipa, ed alzata la canna verso il cielo, giurò orrendamente che perdonava alla sua schiava, non già per l’amore di Dio, ma per l’amore di quella che intercedeva. Virginia fece allora cenno alla schiava di venire avanti; disparve quindi velocemente, e Paolo le tenne dietro.

Risalirono per dove erano scesi, e giunti al sommo si posero a sedere sotto un albero vinti dalla stanchezza, dalla fame e dalla sete. Avean fatto quel di più di cinque leghe a digiuno. «Sorella, disse Paolo a Virginia, è passato il mezzogiorno, tu hai fame e sete; qui non c’è verso di trovar da mangiare; scendiamo e andiamo a domandarne al padrone di quella schiava. — Oh! non mai, mio caro, rispose Virginia, io ne ho avuta troppa paura. Ricordati quel che dice la mamma: il pane del malvagio riempie la bocca di sabbia. — Che far dunque? disse Paolo, questi alberi non dànno che cattivi frutti; non vi è qui neppure un tamarindo o un limone per ristorarti. — Dio avrà pietà di noi, rispose Virginia; egli ascolta la voce degli uccellini che gli dimandano pastura.» Ella aveva appena detto questo, quando udirono il susurro di una sorgente che cascava da una roccia ivi presso. Vi accorsero e poi ch’ebbero spenta la sete con quelle acque più limpide che il cristallo, mangiarono un po’ del nasturzio che verdeggiava sul margine di quella fontana; e nel guardarsi d’attorno per cercare un cibo più solido, Virginia raffigurò per entro il bosco un palmisto novello: ottimo a mangiare è il cavolo che sta sulla cima di quest’albero framezzo alle foglie; ma sebbene il suo fusto non fosse più grosso di una gamba, era alto più di sessanta piedi. Il legno di quest’albero [p. 22 modifica]altro non è veramente che un ammasso di filamenti; ma la sua scorza è così dura, che fa rivoltare il filo alle scuri più salde, e Paolo non avea nemmeno un coltello. Formò il pensiero di porre il fuoco a quel tronco; ma anche qui v’era un incaglio: mancava l’acciarino, eppoi in quest’isola tanto ingombra di sassi, io credo che non vi sia neppure una pietra focaja. Ma la necessità eccita l’industria, e molti dei trovamenti migliori sono stati fatti da persone le più miserabili. Paolo volle accendere fuoco all’usanza dei mori: con una pietra acuta fece un piccol buco in un ramo ben secco, quindi con un’altra tagliente, aguzzò un altro ramo d’un legno diverso ed egualmente secco, pose quindi sotto i suoi piedi il legno forato, e dentro a quel buco introdusse l’altro legno puntaguto, e facendolo ruotare rapidamente fra le palme come fa chi sbatte la cioccolata, vide in breve uscire dal punto di contatto fumo e scintille; raccolse erbe secche ed altri rami; accese fuoco intorno al palmisto, il quale presto con un grandissimo fracasso cadè. Il fuoco gli fu buono anche a svolgere il cavolo dal cartoccio delle sue lunghe ed ispide foglie. Mangiarono così crudo un po’ di quel cocco, e fecero cuocere il rimanente sotto la cenere, e sì in una maniera che nell’altra parve loro saporito. Questo pasto frugale fu allegrato dal pensiero della buona azione che avevano fatto la mattina; ma tale allegrezza era poi amareggiata dal considerare in quale affanno dovevano essere le loro madri per questa loro lunga assenza. Virginia tornava spesso su questo punto. Ma Paolo, che si sentiva rimesso in forza, l’assicurò che presto sarebbero giunti a porre in calma i suoi: fu però grande il loro imbarazzo, chè non avevano alcuna guida. Paolo, a cui nulla faceva cascare il fiato, disse a Virginia: «La nostra capanna è posta a mezzogiorno: bisogna che noi passiamo, come questa mattina, quella montagna che vedi colà con quelle tre punte. Andiamo, camminiamo, mia cara.» Questa montagna era quella delle Tre Mammelle, così detta dalla forma che hanno le sue tre punte. Scesero dunque il colle del fiume Nero dal lato settentrionale, e giunsero, dopo un’ora di viaggio, alle sponde di un largo fiume che s’attraversava ai loro passi. Quella gran parte dell’isola, tutta ingombra di boschi, è sì poco [p. 23 modifica]conosciuta anche a questi dì, che vi ha per entro e monti e fiumi che stanno ancora senza nome. Il fiume che trovarono trascorre schiumoso per mezzo alle roccie ond’è tutto scabro il suo fondo. Il fracasso che ne veniva spaventò Virginia, che non ebbe il coraggio di porvi il piede per guadarlo. Allora Paolo se la pigliò sulle spalle, con questo carico passò sui lubrici sassi del fiume, niente atterrito del rumore orribile di quella piena, e volto a lei: «Non aver paura, sai, le diceva: stando con te io mi sento molto gagliardo. Se quell’uomo del fiume Nero avesse ricusato di far grazia alla sua schiava, io sarei venuto seco alle mani. — Che dici tu? rispose Virginia; con quell’uomo sì grande e tanto malvagio? oimè a qual rischio ti ho condotto! Dio mio, quanto è difficile il far del bene! Il male soltanto riesce facile.» Quando Paolo ebbe toccata la sponda voleva continuare il cammino portando la sorella, e gli pareva un gioco il salire con quel carico il monte delle Tre Mammelle che stava rimpetto, mezza lega lontano; ma l’abbandonarono presto le sue forze e costretto di porla giù, riposò vicino a lei. Dissegli allora Virginia: «Fratello mio, il giorno va mancando: tu hai del vigore ancora, ma il mio vien meno; lasciami qui, e torna solo a casa affin di porre in calma le nostre madri. — Oh! no, no, disse Paolo, io non voglio abbandonarti. Se la notte ci coglie in questi boschi, accenderò fuoco, metterò a terra un palmisto, tu ne mangerai il cavolo, e delle sue foglie io intreccierò un ajupa, dentro il quale tu riparerai.» Frattanto Virginia avendo ricoverato un po’ di legna, raccolse lunghe foglie di scolopendra che trovò abbarbicate al tronco di un’antica pianta in riva al fiume, e ne formò una fasciatura a guisa di stivaletto intorno ai piedi che facevano sangue d’ogni banda, essendosi dimenticata di togliere le scarpe dalla grande premura di assistere quella schiava. Sentendosi consolata dalla freschezza di quelle foglie, tolse un ramo di bambù, ed appoggiata a quello con una mano, sorreggendosi coll’altra al braccio di Paolo, si pose in cammino.

Andavano così lentamente per mezzo ai boschi; ma per l’altezza delle piante e la foltezza delle foglie, perdettero di vista in pochi momenti il monte delle Tre Mammelle, che formava la loro direzione, e venne [p. 24 modifica]a mancare loro perfino la scorta del sole, che era già vicino al tramonto; sì che, senza avvedersene, usciti dal sentier battuto, si trovarono ingolfati in un labirinto d’alberi, di vinchi e di roccie, senza vedervi più uscita. Paolo fece sedere Virginia, e si pose a correre di qua di là, tutto fuor di sè per trovare come riuscire da quell’impaccio; ma si affaticò invano. Salì sopra un alto albero per iscoprire almeno il monte delle Tre Mammelle, ma non potè vedere cosa alcuna, tranne le cime degli alberi, alcune delle quali erano illuminate dal sole cadente. L’ombra dei monti andava già distendendosi nelle valli; il vento taceva, siccome accade al tramontar del sole; regnava un silenzio profondo in quella solitudine, nè altro vi si udiva che il bramito dei cervi che andavano ad accovacciarsi in que’ luoghi deserti. Paolo, sperando di farsi sentire da qualche cacciatore, gridò con tutto il suo fiato: «Venite, accorrete, date soccorso a Virginia!» ma l’eco solo della foresta rispose a quelle grida, ripetendo più volte: «Virginia!... Virginia!...»

Paolo allora scese dall’albero oppresso dalla stanchezza e dall’affanno; studiò qualche via per passar ivi la notte, ma non trovò nè fonte, nè palmisti, nè ramo alcuno d’albero secco onde far fuoco. Sentì allora tutta la sua debolezza, e si diede a piangere. E Virginia a lui: «Deh per pietà, mio caro, non piangere, se non vuoi che il dolore mi uccida. Ahimè che io sono la cagione di tutto il tuo affanno, e di quello ancora che sentono ora le nostre madri. Non bisogna far nulla senza dipendere dai genitori, nemmeno del bene. Oh! quale imprudenza!» E piangeva; disse poi a Paolo: «Deh, fratel mio, preghiamo Iddio, ed egli avrà compassione di noi.»

Poichè ebbero finita la loro preghiera intesero l’abbajare di un cane. «Questo, disse Paolo, è il cane di qualche cacciatore che vien qui la sera ad uccidere i cervi alla posta.» Appresso l’abbajar crebbe. «Mi pare, disse Virginia, il cane di casa nostra. Oh! sì! sì! questo è Fedele; riconosco la sua voce: saremmo già arrivati al piede della nostra montagna?» di lì a poco ecco Fedele ai loro piedi, abbajando, urlando, mugolando, e facendo loro un mare di carezze. Mentre stavano pieni di maraviglia, videro Domingo che correva alla [p. 25 modifica]loro volta. All’arrivo di quel buon moro, che piangeva per l’allegrezza, si posero anch’essi a piangere, e non poterono proferire una parola. Quando Domingo ebbe preso fiato, «O miei padroncini, disse loro, se sapeste in quale travaglio sono le vostre mamme! Oh quanta fu la nostra meraviglia quando al tornare dalla messa non vi abbiamo più trovato! Maria, che stava occupata in un angolo della casa, non ha saputo dirci dove poteste essere andati; io m’aggirava qua e là, non sapendo da qual banda avessi a cercarvi. Finalmente ho pigliati i vostri panni, li ho fatti fiutare a Fedele; e sul momento, come se questa povera bestia mi avesse inteso, si è posta a braccare sulle vostre traccie, e menando sempre la coda, mi ha condotto sino al fiume Nero. Seppi colà da un abitante che gli avevate ricondotto una mora fuggiasca, e che sulle vostre istanze le aveva fatto grazia; ma qual grazia! Me l’ha mostrata legata per un piede ad un tronco con una catena e con una collana di ferro al collo. Di là Fedele, braccando sempre, mi ha condotto sul colle del fiume Nero, dove si è fermato un’altra volta abbajando a gola aperta ciò fu sul margine di una fontana vicino ad un palmisto atterrato, presso di un fuoco che fumava tuttavia; e finalmente mi ha qui menato. Queste sono le falde del monte delle Tre Mammelle, e la casa nostra è ancor lontana di qui quattro leghe e più. Mangiate, suvvia, pigliate vigore» e pose loro innanzi una focaccia di frutti, ed una grande zucca ripiena di certa bevanda composta d’acqua, di vino, di sugo di limoni, di zucchero e di noce moscata; l’avevano fatta le loro madri per ristorarli e rinforzarli. Virginia sospirò pensando a quella povera schiava, ed all’affanno delle loro mamme. Ella esclamava di quando in quando: «Oh quanto è difficile il far del bene!»

Frattanto ch’essi pigliavano ristoro, Domingo fece fuoco, e procacciato fra le roccie certo legno tortuoso, chiamato legno tondo, il quale arde sebben verde, e fa una gran fiamma, ne formò una fiaccola, essendo già loro addosso la notte. Ma si presentò un imbarazzo ben maggiore quando si trattò di mettersi in cammino. Paolo e Virginia non potevano più camminare; i loro piedi erano rossi ed enfiati. Domingo non sapeva che farsi; doveva egli abbandonarli per andare Dio sa fin [p. 26 modifica]dove a procacciare ajuto, o era meglio passare ivi con loro la notte? «Oimè! sclamava egli, dov’è andato quel tempo ch’io vi portava in braccio ambedue insieme? Adesso voi siete adulti, ed io son vecchio.» Stando egli così perplesso, passò a quella volta una banda di mori disertori; il capo di quella avvicinatosi a Paolo e Virginia, disse loro: «O buoni bianchini, non abbiate paura; noi vi abbiamo osservato quando stamattina siete passati con quella mora del fiume Nero; voi andavate a domandar grazia per lei al suo cattivo padrone; in ricompensa noi vogliamo riportarvi a casa vostra sulle nostre spalle». Allora ad un suo segno quattro mori de’ più robusti, intrecciata prestamente con rami e con vinchi una barella, vi collocarono Paolo e Virginia, e sottopostevi le spalle, preceduti da Domingo colla sua fiaccola, s’incamminarono fra le grida liete di tutta la banda, che ricolmava que’ giovanetti delle sue benedizioni. Virginia intenerita diceva a Paolo: «Vedi, mio caro, che Iddio non lascia mai alcun’opera buona senza ricompensa!

Era mezzanotte in circa quando arrivarono al piede del loro monte, che videro tutto illuminato di vari fuochi. Al cominciare la salita s’intesero delle voci. «Siete voi, miei figli? — Sì, risposero essi unitamente ai mori; sì, siamo noi:» e poco dopo videro le loro madri e Maria, le quali venivano ad incontrarli con tizzoni accesi. «Sciagurati figli, disse la signora De la Tour, donde venite? In quali angosce ci avete poste? — Veniamo, rispose Virginia, dal fiume Nero, dove siamo andati a domandar grazia per una povera schiava fuggiasca, alla quale io ho dato stamattina la colazione di casa, perchè si moriva di fame; e questi mori fuggiaschi anch’essi ci riconducono a casa». La signora De la Tour abbracciò sua figlia senza poter parlare, e Virginia, sentendosi bagnata dalle lagrime di sua madre, le disse; «Voi mi fate scordare tutto il male che ho patito». Margherita, fuor di sè per la gioja, stringeva Paolo fra le braccia, dicendo: «E tu pure, è vero, figlio mio; tu pure hai fatto un’opera buona?»

Giunte a casa coi loro figli, diedero ben da mangiare a que’ mori, i quali dopo si ritrassero nuovamente nei loro boschi, chiamando su quelle famiglie ogni sorta di prosperità. [p. 27 modifica]

Ogni giorno era per quella gente un giorno di felicità e di pace; il tormento dell’invidia e dell’ambizione era loro ignoto; quella vana stima esteriore, che si acquista per via di brogli, e si può perdere per calunnia, essi non la desideravano, bastando loro la testimonianza e la giustizia che facevano a sè medesimi.

In quest’isola, dove così come in ogni altra colonia europea, non si va in traccia che di maligne dicerie, le loro virtù e persino i loro nomi erano sconosciuti: e quando alcun forestiere, passando sulla strada dei Pamplemussi, diceva a quelli della pianura: Chi sono gli abitatori di quelle capanne lassù? Son buona gente, rispondevano coloro, che altro non ne sapevano. Così la viola mammola, nascosta sotto una siepe spinosa, colla sua fragranza manda alla lunga sentore di sè abbenchè nessuno la vegga.

Elle aveano posto fuori della loro conversazione la maldicenza, la quale, sotto un sembiante di giustizia, dispone di forza il cuore all’odio, ovvero alla simulazione; imperocchè egli è impossibile cosa il non odiare quell’uomo che noi teniamo esser malvagio, e di vivere col malvagio senza coprire in faccia sua l’odio che se gli porta sotto mentite apparenze d’affetto: sì che la maldicenza ne costringe a stare in guerra o cogli altri o con noi stessi; ma senza entrar esse a dar giudizio degli uomini in particolare, non discorrevano che sui mezzi di far del bene a tutti in generale, e quantunque ciò non istesse nelle loro mani, elle ne sentivano tuttavia un desiderio continuo, che le scaldava d’una carità pronta sempre a porsi in azione. Sì che, vivendo nella solitudine, lungi dall’insalvatichire, erano divenute più umane. Se della storia scandalosa della società non toglievano esse la materia per le loro conversazioni, la storia della natura le colmava di gioja. Ammiravano con commozione il potere di una provvidenza la quale, adoperando le loro mani, aveva seminato framezzo a questi aridi scogli, l’abbondanza, le grazie ed i piaceri puri, semplici e rinascenti sempre.

Paolo, nell’età di dodici anni, più robusto e più capace che gli Europei di quindici, aveva portato l’ornamento dove il moro Domingo avea soltanto coltivato; andava seco ne’ boschi a pigliarvi pianticelle di limone, d’arancio, di tamarindo, nelle cui teste rotonde [p. 28 modifica]brilla un verde sì vivo; toglieva datteri di quest’isola che danno un frutto di pasta zuccherina colla fragranza del fior d’arancio. Cotali piante già adulte le poneva intorno a questo recinto. Vi aveva sparsi dei semi di arboscelli che danno frutti e fiori sul secondo anno, come sarebbe l’agati, intorno al quale vedi penzolare lunghi grappoli di fiori bianchi a guisa dei cristalli d’una lumiera. Il liliaco di Persia che spinge alto i suoi pennacchi grigi, il papaja che col suo tronco nudo di rami pare una colonna tempestata di meloni verdi, ed ha in cima un capitello di larghe foglie simili a quelle della ficaja. Vi aveva sparso eziandio semenze e nocciuoli di terminali, di mangifere, di palsifere, di psidii, di certa specie di fichi detta aretocampi e di eugenie; quasi tutte queste piante davano già al loro giovine padrone ombra e frutti. La sua mano instancabile aveva indotta la fecondità fin ne’ luoghi più sterili di questa chiostra: su per le negre cervici di quegli scogli ingrandivano varie specie di aloe, la rachetta carica di fiori gialli vergati di rosso, il cacto spinoso, e parevano emulare le liane cariche dei loro fiori rossi e turchini, che penzolavano qua e là dal pendio del monte. Egli aveva ordinato questi vegetabili in guisa che si potevano veder tutti in un batter d’occhio. Nel mezzo di questo bacino avea poste le erbe che poco si levano da terra, quindi gli arbusti, e dietro a quelli le piante mezzane; pose in ultimo gli alti alberi, e con essi tutto rinchiuse, dimodochè questo vasto recinto somigliava, veduto dal suo centro, ad un anfiteatro sparso di verzure, di frutti e fiori, d’erbaggi, con alcune strisce di prato e campicelli di riso, od altra biada; ma facendo servire quei vegetabili al suo ordinamento, egli non si era già discostato da quello della natura; guidato dagli additamenti di lei, aveva collocato ne’ siti eminenti tutto ciò che produce semi volatili, e presso alle acque, quelle piante onde le semenze sono fatte per galleggiare; per tal modo ogni vegetabile veniva nella situazione sua propria, ed ogni situazione riceveva naturale abbellimento dal suo vegetabile. Le acque che qui cadono dalle cime di quelle roccie, si adunavano in questo seno, e vi formavano dove una fontana, e dove un laghetto, in cui specchiavansi i fiori, gli alberi, i massi ed il cielo azzurro. [p. 29 modifica]

Non ostante la grande ineguaglianza di questo suolo, ogni cosa era accessibile al tatto così come alla vista; egli è il vero che noi tutti lo soccorrevamo di mano e di consiglio. Intorno a questo bacino egli aveva condotto un sentiero, che con varie diramazioni scendeva giù dalla circonferenza al mezzo. Fin dei luoghi più aspri aveva egli tratto vantaggio, combinando con felice armonia la facilità delle passeggiate coll’asprezza del suolo, e le piante salvatiche colle domestiche. Radunata l’immensa quantità delle pietre smosse che ingombrano ora queste strade e quasi tutta l’isola, egli aveva erette qua e là certe piramidi, e nelle fessure di quelle postovi terra con ceppi di rosai, di poincinie e d’altri tali arbusti che si piacciono fra i sassi, talchè in breve quelle piramidi ruvide e fosche, apparvero ricoperte di verzura e di fiori. Dei burroni, sopra i quali antiche piante stendevano i loro rami, formavansi grotte, dove il caldo non potendo penetrare, vi si meriggiava ottimamente. Per un sentiero entravasi in un boschetto, in mezzo al quale, riparato dai venti, veniva un albero domestico tutto carico di frutti. Colà v’era una messe, qui un brolo di frutti, in capo a quel viale vedevansi le capanne, per entro a quest’altro si scorgevano le ultime cime dei monti. Sotto un macchione di folti tatamacchi intrecciati di liane v’era un gran bujo sul bel mezzodi: stando sulla punta di quella roccia vicina che si spinge fuor del monte, vedevansi tutte le altre che stanno qui intorno colla marina in prospettiva, dove appariva di quando, in quando qualche vascello che veniva dall’Europa o che vi faceva ritorno. Là sopra adunavansi le due famiglie alla sera, e vi godevano in silenzio dell’aria fresca, della fragranza dei fiori e delle ultime armoniche gradazioni della luce e delle ombre.

Qual cosa più bella dei nomi che furono allora imposti a quasi tutti i punti piacevoli di questo laberinto! Da quella roccia, di cui vi parlava, mi vedevano molto da lunge quando io arrivava, e però si chiamava La Scoperta dell’Amicizia. Paolo e Virginia vi avevano piantato per giuoco un bambù, in cima al quale innalzavano un fazzolettino bianco per dar segno del mio arrivo, allorchè mi vedevano, a quella guisa che sul monte vicino s’innalza una bandiera alla vista di [p. 30 modifica]un vascello in mare. Mi venne voglia d’incidere una iscrizione sulla corteccia di quella canna. Qualunque siasi il piacere che ne’ miei viaggi ho provato al vedere una statua od un altro monumento d’antichità, ne ho sempre gustato uno maggiore leggendo una bella iscrizione. Parmi allora che quella pietra mandi fuori una voce umana, che, trapassati i secoli e giunta fin qui, si volga all’uomo in mezzo ai deserti, e lo avverta che non è solo, e che in que’ medesimi luoghi altri uomini hanno come lui sentito, pensato e sofferto: che se l’iscrizione appartiene a qualche popolo che più non esiste, essa allora trasporta il nostro spirito ne’ campi dell’infinito, e gl’ispira il sentimento della propria immortalità, mostrandogli come, caduti gl’imperi, il pensiero vive ancora.

Scrissi dunque sul piccolo albero da bandiera di Paolo e Virginia questi versi d’Orazio:

      ...Fratres Helenæ, lucida sidera,
          Ventorumque regat pater,
          Obstrictis aliis, præter iapyga.

«Possano i fratelli d’Elena, stelle come voi, bellissime, ed il padre de’ venti guidarvi, nè facciano spirare alcun altro vento fuorchè zeffiro.»

E sulla scorza di un tatamacco, all’ombra del quale sedendo Paolo contemplava da lunge il mare agitato, io scolpii questo verso di Virgilio:

      Fortunatus et illos deos qui novit agrestes.

«Felice, figliuol mio, colui che altri dei non conosce tranne quelli de’ campi!»

E quest’altro sulla porta della capanna della signora De la Tour, che era il luogo della loro riunione:

      At secura quies, et nescia fallere vita.

«Qui sta una coscienza candida ed una vita scevra d’inganni.»

Ma a Virginia non garbava gran fatto il mio latino. Ella diceva che quella cosa ch’io aveva scritto al piede della sua banderuola era troppo lunga e troppo erudita: «Mi sarebbe piaciuto più...» soggiungeva ella, [p. 31 modifica]sempre agitata, e sempre costante. — «Questo motto, io risposi, sarebbe meglio applicabile alla virtù.» La mia osservazione la fece arrossire.

Quelle famiglie fortunate che diffondevano le anime loro sensibili su tutto ciò che stava loro intorno, avevano imposto nomi tenerissimi a certi oggetti apparentemente del tutto indifferenti. Varie piante d’arancio, di banani e di eugenie poste a cerchio intorno ad un praticello, dove qualche volta andavano a ballare Paolo e Virginia, chiamavansi la Concordia. Un albero antico, sotto il quale la signora De la Tour e Margherita eransi narrate i loro guai, si chiamava il Pianto rasciugato. Esse aveano dato i nomi di Bretagna e di Normandia a certi cantucci di terreno dove avevano sparso grano, fragole e piselli. Domingo e Maria volendo, ad imitazione delle loro padrone, richiamare alla loro memoria i luoghi natali in Africa, chiamavano Angola o Foullepointe, due siti dove venivano i giunchi di che tessevano essi i cestelli, e dove avevano piantata una zucca africana; per tal modo le produzioni de’ loro climi mantenevano in quelle esuli famiglie le dolci rimembranze delle loro contrade, e mitigavasi ne’ loro petti quella brama ardentissima di patria, che si prova in una terra straniera. Ahimè! che io vidi animate di cento cari nomi le piante, le fontane, le roccie di questo luogo, che al presente apparisce tanto sovvertito, ed a guisa delle campagne della Grecia, altro più non contiene che rovine e nomi che vi commovono.

Ma fra tutto ciò che era compreso in questo recinto, nulla vi aveva di più vago del luogo che si chiamava il Riposo di Virginia. Al piede della roccia della Scoperta dell’Amicizia vi è uno scavo d’onde zampilla una sorgente, la quale in mezzo d’un praticello forma un piccol laghetto. Quando Margherita ebbe dato alla luce Paolo, io le donai un cocco, che mi era stato dato. Ella piantò questo frutto sulla sponda di quel laghetto, affinchè l’albero che ne venisse dovesse un giorno notare l’epoca natale del suo figliuolo. La signora De la Tour, seguendo quest’esempio, ve ne impiantò un altro colla stessa intenzione quando partorì Virginia. Que’ due frutti diedero due piante, nelle quali stava tutto l’archivio di quelle due famiglie: una si chiamava la [p. 32 modifica]pianta di Paolo, e l’altra la pianta di Virginia. Crebbero ambedue sì come i loro giovinetti padroni, mantenendo sempre un piccol divario nella loro altezza, la quale, in capo a dodici anni sopravanzava quella delle capanne. Tranne questa piantagione nulla era stato aggiunto ai naturali ornamenti di quella roccia. I suoi fianchi umidi e foschi erano ricoperti dallo stellato capilvenere, e penzolanti a ciocche svolazzavano le alghe scolopendre che pareano nastri verdi e rossi. Ivi presso stendeva i lunghissimi tralci la pervinca coi suoi fiori, che somigliano tanto il garofano rosso, e con que’ baccelli più splendidi del corallo; v’erano colà intorno la menta ed il basilico, esalanti soave fragranza: dall’alto della roccia giù cadendo a grandi festoni le liane ornavano il sasso di verdi tappezzerie. Gli uccelli marini, richiamati dalla tranquillità del luogo, vi riparavano la notte. Vedevansi al tramonto salire colà dalla spiaggia del mare il corbacchino e l’allodola marina, e giù dal cielo calare la fregata nera e l’uccel bianco del tropico, che via fuggivano col sole dall’indiano mare deserto. Virginia pigliava diletto a riposare sulle sponde di questa fontana dove spiegavasi una pompa selvaggia e magnifica; nel tempo stesso andava ella sovente fin colà a lavare i panni della casa all’ombra delle due piante di cocco. Qualche volta vi menava a pascere le sue capre, e mentre stava cagliando il loro latte, godeva di vederle brucare i frutici dal pendio della roccia, ed appoggiate a qualche pietra sporgente, starsene ritte come sul piedestallo una statua. Paolo, vedendo che quel luogo era caro a Virginia, tolse dal bosco vicino nidi d’uccelli d’ogni specie, ed ivi li trasportò. I padri e le madri degli uccellini venner seguitando la loro prole, sì che vi formarono una nuova colonia. Virginia portava loro di quando in quando riso, grano turco e miglio, onde al suo comparire sbucavano dai loro cespugli il merlo fischiante, il bengali dal canto soavissimo ed il cardinale color di fuoco. Scendevano dai vicini latanieri i pappagalli verdi come gli smeraldi; di sotto l’erba correvano le pernici, e tutti alla rinfusa le veníano tra i piedi come galline. Ella e Paolo pigliavan grandissimo spasso ad osservare i trastulli, le voglie e gli amori di quegli animali. [p. 33 modifica]

O miei cari figli, così fin dalla prima età vostra innocente vi esercitavate alla beneficenza! Quante volte in questi luoghi le vostre madri vi strinsero al seno ringraziando il cielo che volesse in voi preparare una consolazione alla loro vecchiezza, e che vi avesse posto sul cammino della vita con preludii tanto felici! Quante volte all’ombra di queste roccie fui con esse a parte de’ vostri campestri conviti, i quali non avevano costato la vita ad alcun animale! Una grande zucca piena di latte, delle uova fresche, focaccie di riso, che venivano in tavola sulle foglie dei banani, ceste piene di patate, aranci, melagrane, davano cibi sani, succhi soavi, ed allegravano a un tempo l’occhio colla gajezza de’ loro colori.

La conversazione era altrettanto dolce ed innocente quanto i lor conviti: Paolo vi ragionava spesso de’ lavori del dì e di quelli della dimane; egli meditava sempre alcunchè di comune vantaggio. Qui il sentiero poteva ridursi più facile, colà era incomodo lo scanno; questo pergolato non dava ombra bastevole; Virginia là starà meglio.

Ne’ tempi piovosi passavano la giornata tutti uniti padroni e servi nella stessa capanna tessendo stuore d’alga, e panieri di bambù. Vedevansi posti al muro in bella ordinanza rastrelli e vanghe e zappe, e presso a que’ rurali strumenti vedevansi le ricolte ancora. Erano sacchi di riso, covoni di frumento e lunghi grappoli di banani. Nè l’abbondanza andava mai scompagnata dalla delicatezza: Virginia, istrutta da Margherita e da sua madre, componeva conserve e limonee con sugo di canna da zucchero, limoni e cedrati. Come si faceva notte cenavano tutti al lume di una lucerna; quindi ora la signora De la Tour, ora Margherita narravano qualche avventura o di viandanti smarriti la notte ne’ boschi d’Europa infestati dai ladri, o di bastimento sbattuto dalla tempesta contro gli scogli di un’isola deserta. A questi racconti s’infiammavano, le anime sensibili de’ loro figli, e domandavano al cielo la grazia di poter un qualche di sovvenire cotali infelici; ed andando quelle due famiglie a riposare, si separavano col desiderio di rivedersi il giorno appresso: cadevano qualche volta sopite allo strepito della pioggia che scendeva a torrenti sul tetto delle capanne, [p. 34 modifica]ovvero al soffiare del vento che portava il mormorío lontano delle onde infrante alla spiaggia, e ringraziavano Dio della propria loro sicurezza, resa più cara dall’idea del pericolo lontano. Di quando in quando la signora De la Tour leggeva a tutti qualche passo affettuoso della Scrittura. Poco essi discorrevano su que’ libri sacri, perchè la loro teologia era, come quella della natura, tutta sentimento, e la loro morale tutta azione come quella del Vangelo. Non v’erano per loro giorni destinati alla gioja ed altri alla tristezza: ogni dì era festivo per essi, ed il luogo dove si trovavano era tempio di Dio, in cui ammiravano continuamente un intelletto infinito, onnipossente ed amico dell’uomo: questo sentimento di confidenza nel potere supremo li ricolmava di consolazione rispetto al tempo andato, di coraggio nel presente, e di speranza per l’avvenire. Ecco come quelle buone donne, costrette dalla fortuna a ricoverare in grembo della natura, avevano armato sè stesse ed i loro figli di que’ sentimenti che la natura infonde all’uomo perchè abbia difesa contro la fortuna. E perchè sorge qualche volta una nebbia a turbare l’anima più serena, se avveniva mai che taluno di quella società apparisse malinconico, tutti gli altri gli erano attorno, e dissipavano ogni suo amaro più assai coll’espressione del cuore che per via di ragionari; ed in questo adoperavasi ciascuno come poteva: Margherita con una vivace giovialità, la signora De la Tour con una teologia dolce. Virginia metteva le sue tenere carezze, Paolo la franchezza naturale e la cordialità, Maria e Domingo accorrevano anch’essi, e si affliggevano se vedevano uno afflitto, e piangevano se taluno piangeva: così le piante deboli intrecciano insieme i loro rami per resistere alla bufera.

Nella bella stagione andavano tutti la domenica a messa alla chiesa dei Pamplemussi, di cui vedete il campanile laggiù nella pianura. Capitavano colà, portati sul palanchino, alcuni ricchi abitanti, i quali più volte mostrarono desiderio d’imparare a conoscere quelle famiglie fatte cotanto alla buona e d’invitarle a qualche divertimento. Ma esse ricusarono sempre, con gentilezza e rispetto, cotali offerte, persuase che i potenti non chiamano a sè i deboli, che per avere attorno chi vada loro a’ versi, e che non si può far [p. 35 modifica]questo senza lusingare le buone e le cattive passioni altrui. E non posero minore studio nello scansare d’affratellarsi colla gente minuta, di cui sono vizj ordinarii l’invidia, la maldicenza e la rozzezza. Sulle prime adunque parvero timide agli uni, e gli altri le accusarono d’alterigia; ma i loro modi riservati erano accompagnati da sì aperti contrassegni di cortesia e di civiltà, massime verso gl’indigenti, che a poco a poco si procacciarono esse il rispetto de’ ricchi e la confidenza de’ poveri.

Dopo la messa erano spesso richieste di qualche opera di carità. Una persona afflitta aveva bisogno di consiglio, un fanciullo le pregava di andare a visitare sua madre ammalata; recavano esse qualche rimedio sempre con sè per le malattie comuni fra questa gente, e vi mettevano la buona grazia che aggiugne cotanto prezzo ai piccoli offici. Era sopratutto virtù loro particolare il guarire le malattie dell’animo, che pesano tanto agli ammalati ed ai solitarii. La signora De la Tour parlava con sì grande confidenza della divinità, che il malato, a que’ discorsi, la vedeva intorno a sè. Virginia usciva spesso di là colle lagrime sugli occhi, ma col cuore ridondante di gioja per avere avuto campo di far del bene: eran fatte di sua mano le medicine e le presentava con un garbo indicibile. Fatti questi umani uffizj, esse continuavano alcuna volta il loro cammino, e pigliando la valle del monte Lungo venivano a casa mia, dove io le aspettava a desinare sulla sponda del fiumicello che scorre vicino a me. In quella circostanza io procurava d’avere qualche bottiglia di vino vecchio, per accrescere l’allegria del nostro desinare indiano con quella soave e cordiale produzione europea. Un’altra volta era nostro punto di riunione la spiaggia del mare dove metteva capo alcuno di que’ piccoli fiumi, che in quest’isola sono poco più che ruscelli: colà noi recavamo dalle nostre case alcuni frutti della terra che mettevamo presso a quelli che il mare ne forniva a dovizia: si pescavano lungo le rive, granchi, ricci, locuste, triglie, ostriche e conchiglie di mille forme. Dai luoghi più terribili godevamo spesso i più quieti diletti: seduti qualche volta sopra uno scoglio, all’ombra d’un velutiero, vedevamo le onde venire d’alto mare a frangersi ai nostri piedi [p. 36 modifica]con un orribile strepito. Paolo, che nuotava come un pesce, s’avanzava qualche volta sulla spiaggia incontro ai fiotti, ed al loro appressare retrocedeva rapidamente, minacciato dai grandi archi spumanti e ruggenti che lo inseguivano lungo tratto sulla sabbia. Ma al veder questo, Virginia metteva un acuto strido, chè quel giuoco, diceva ella, le faceva troppo paura.

Dopo il nostro desinare quei due fanciulli cantavano e ballavano: Virginia cantava sulla felicità della vita campestre e sugli infortunii dei naviganti spinti dall’avarizia ad affidarsi sopra un elemento furibondo, invece di coltivare la terra, la quale somministra pacificamente cotanti beni.

Alcuna volta, di concerto con Paolo, ella esprimeva per via di gesti qualche fatto all’usanza dei mori. La pantomima è il primo linguaggio dell’uomo: essa è conosciuta da tutte le nazioni, ed è sì naturale presso i mori e cotanto espressiva, che i fanciulli dei bianchi l’imparano prestissimo vedendola eseguita dai fanciulli mori. Virginia, avendo a memoria quei fatti che le aveano fatto maggiore impressione fra le storie lette da sua madre, li rappresentava con una grande semplicità. Al suono del tamtam di Domingo ella si presentava talora portando un’anfora sul capo, e si appressava timidamente ad un fonte vicino, mostrando di volervi attingere acqua. Domingo e Maria, rappresentando i pastori madianiti, le vietavano l’accesso, e fingevano di respingerla; Paolo accorreva a darle soccorso, metteva in fuga i pastori, prendeva l’anfora di Virginia, e nel riporgliela sulla testa, la coronava dei fiori della pervinca, che davano grande risalto al suo candore. Allora faceva anch’io la mia parte, e rappresentando il personaggio del sacerdote Raguele, dava in moglie a Paolo mia figlia Sefora.

Un’altra volta ella era la sventurata Rut che se ne torna vedova e povera nella sua terra, dove per la lunga assenza è tenuta straniera. Domingo e Maria facevano da mietitori; Virginia fingeva di spigolare qui e qua dietro a loro qualche spiga. Paolo, vestendo la gravità patriarcale, l’interrogava; rispondeva ella umilmente alle sue domande, ed egli, impietosito, concedeva ospitalità all’innocenza ed asilo alla sventura: versava molto grano nel grembiale di Virginia, e quindi [p. 37 modifica]la conduceva davanti a noi (eravamo noi allora gli anziani della città), dichiarando che la faceva sua moglie quantunque povera. A questa scena la signora De la Tour non poteva trattenere le lagrime, chè le tornava a mente e l’abbandono dei suoi parenti, e la sua vedovanza, ed il buon accoglimento di Margherita, al quale si aggiugneva di presente la speranza di una felice unione fra i loro figli: questa rimembranza, mista di mali e di beni, ci faceva piangere tutti di dolore e di gioja.

Cotesti drammi erano espressi con tanta verità, che noi ci credevamo trasportati nelle campagne della Siria o della Palestina. Avevamo anche illuminazione, decorazioni ed orchestra convenienti allo spettacolo. Un piccolo spazio in mezzo ad un bosco era d’ordinario il nostro teatro; noi ci collocavamo sotto le grandi arcate verdi degli alberi, che avevano difeso il luogo dal caldo della giornata; ma allorchè il sole calava sull’orizzonte, i suoi raggi si cacciavano attraverso i tronchi degli alberi, e gettavano là sotto una luce rifranta, maravigliosa a vedersi. Alcuna volta appariva tutto intiero il suo disco in fondo a qualche viottola, e la faceva scintillar tutta di luce. Il fogliame, illuminato per disotto da una luce rancia, teneva la tinta infuocata dei topazzi e degli smeraldi. I bruni tronchi coperti di musco divenivano colonne di bronzo antico, e gli uccelli che s’erano già appollajati, vedendo la nuova luce, la salutavano cogli ultimi loro canti.

Sovente, distratti in cotali passatempi, la notte ci era addosso; ma la purezza dell’aria e la dolcezza di questo clima ne permettevano di poter dormire colà in mezzo ai boschi sotto un tetto di frasche senza temere di ladri nè d’appresso nè da lontano; e tornando ciascuno il dì vegnente alla sua capanna, la ritrovava tale quale l’aveva lasciata. Tanta era la lealtà e la semplicità che regnava in quest’isola, ignara a que’ dì d’ogni commercio, che le porte di molte case si chiudevano senza chiave, ed una serratura per molti creoli era un oggetto raro.

Correvano certi giorni nell’anno, i quali erano sommamente festeggiati da Paolo e da Virginia: eran questi i giorni del natale delle loro madri. Faceva Virginia il dì innanzi focacce di farina di frumento, e le [p. 38 modifica]mandava ad alcune miserabili famiglie di bianchi nati nell’isola, le quali non avevano giammai veduto pane europeo, e prive di qualunque ajuto dalla parte dei mori, erano ridotte a pascersi della radice del manioc in mezzo ai boschi, ed a sopportare una sì grande povertà non erano ajutate nè dalla stupidezza che va unita alla schiavitù, nè dal coraggio derivante dall’educazione. Quelle focacce erano l’unico dono che potesse fare Virginia; ma lo rendeva più prezioso colla consueta sua buona grazia. Paolo portava tali doni a quelle famiglie, ed esse, nel riceverli, promettevano d’essere il dì vegnente a far giornata presso la signora De la Tour e Margherita. Vedevasi allora arrivare una madre di famiglia con due o tre sciagurate fanciulle, gialle, magre, e così perdute d’animo che non ardivano alzare gli occhi; ma Virginia ispirava loro subito coraggio; presentava rinfreschi, e faceva risaltare la bontà di quelli, accennando qualche circostanza, che al suo vedere ne accresceva il pregio. Quella bevanda era stata composta da Margherita, quell’altra da sua madre. Suo fratello avea colto colle proprie mani quel frutto sulla cima di un albero: pregava Paolo di farle ballare; infine non si discostava da loro fintantochè non le vedeva allegre e contente: voleva che sentissero anch’esse dell’allegria della casa, affermando che per formare la propria felicità bisognava pensare all’altrui, e quando quelle fanciulle se ne partivano, le obbligava a togliere quello di che si erano maggiormente dilettate, mettendo in campo o la novità o la singolarità d’alcuna cosa, affinchè non apparisse che l’accettassero per bisogno. Se vedeva un po’ troppo laceri i loro vestiti, ella sceglieva, col consentimento di sua madre, qualcuno de’ suoi proprii, e lo dava a Paolo, affinché andasse a deporlo di soppiatto alla porta della loro capanna: così ad esempio della divinità ella nascondeva la sua mano benefattrice.

Voi altri Europei, che fino dall’infanzia avete infarciti nella mente cotanti pregiudizii nemici della felicità, non potete intendere come la natura sola basti a dare lumi e diletti: la vostra anima, rinchiusa in breve giro di cognizioni umane, tocca facilmente il confine de’ suoi fattizii piaceri; ma la natura ed il cuore sono inesauribili. Paolo e Virginia non avevano nè [p. 39 modifica]oriuoli, nè lunari, nè libri di cronologia, d’istoria, o di filosofia: i vari periodi della loro vita si regolavano su quelli della natura: l’ombra degli alberi additava loro le ore del giorno; le stagioni erano distinte dal tempo de’ fiori o de’ frutti, e gli anni dal numero delle ricolte. Da sì dolci immagini veniva una gran soavità nei discorsi. «È ora di desinare, diceva Virginia alla famiglia, l’ombra dei banani cade diritta al loro piede; ovvero la notte ci è presso, i tamarindi chiudono le foglie. Quando verrete da noi? diceva qualche amica dei dintorni. — Alle canne di zucchero, rispondeva Virginia. — La vostra visita ne riuscirà ancor più dolce, soggiungevano le giovinette sue amiche.» Interrogata sull’età sua e su quella di Paolo, «Mio fratello, diceva essa, ha l’età del grande cocco della fontana, ed io quella del piccolo: le mangifere hanno portato dodici volte i loro frutti, e gli aranci ventiquattro volte i loro fiori da che io sono al mondo.» Pareva che la loro vita si tenesse con quella degli alberi siccome quella de’ fauni e delle driadi: non conoscevano insomma niun’altra epoca istorica tranne quella della vita delle loro madri, altra cronologia, toltane quella de’ loro alberi, e nissun’altra filosofia, tranne quella di far bene a tutti, e di rassegnarsi alla volontà di Dio.

Qual bisogno avevano finalmente que’ giovinetti delle nostre ricchezze, e del nostro sapere? I loro bisogni stessi e la loro ignoranza accrescevano la loro felicità. Non passava un giorno senza che si prestassero vicendevolmente qualche soccorso o qualche lume: sì bene, qualche lume; e quand’anche vi si fosse mischiato alcun errore, niuno ve n’ha di pericoloso per l’uomo puro. Così crescevano que’ due figli della natura. Nessuna angustia avea solcato di rughe la loro fronte, niuna intemperanza avea guastato il loro sangue, niuna passione infelice aveva depravato il loro cuore. Nudrite d’amore, d’innocenza e di pietà, quelle bell’anime si travedevano ne’ graziosi visi, negli atti, in ogni movimento. Era sul bel mattino la loro vita, e ne teneva tutta la freschezza. Tali parvero nel giardino d’Eden i primi nostri padri, allorchè usciti dalla mano di Dio vide l’un l’altro, e l’uno all’altro accostandosi conversarono dapprima qual fratello e sorella. Virginia, dolce, modesta, fidata come Eva, e Paolo simile ad Adamo, [p. 40 modifica]avendo la statura d’uomo adulto colla semplicità d’un fanciullo.

Qualche volta, stando egli solo con lei (me l’ha raccontato mille volte), le diceva al tornar dal lavoro: «Quando io sono stanco, la tua vista mi ricrea. Quando dalla cima del monte ti scorgo in fondo a questa valle, tu mi sembri in mezzo alle nostre piante un bottone di rosa. Se tu ti avvii verso casa, meno di te leggiera e meno vaga è la pernice che corre a’ suoi pulcini; quando ti perdo di vista, io non ho bisogno di vederti per giugnere colà dove tu sei; nell’aria, per mezzo alla quale tu passi, sull’erba ove siedi, tu lasci qualche cosa di te che io sento, e non posso spiegare. Quando m’avvicino a te, tu occupi tutti i miei sensi. L’azzurro del cielo cede alla bellezza degli occhi tuoi; il suono della tua voce vince in dolcezza il canto del bengali; basta che ti tocchi colla punta di un dito, perchè io senta in tutte le membra un fremito doleissimo. Ti sovvenga del dì che noi passammo sui ciottoli rotolanti del fiume delle Tre Mammelle; quando giungemmo su quella sponda, io mi sentiva già molto sfinito dalla stanchezza; ma come ti tolsi sulle mie spalle, mi parve d’avere le ali quanto un uccello. Dimmi, con qual potere hai fatto su me questo incanto? Forse col tuo ingegno? Ma le nostre madri non ne hanno più che ambedue noi! Colle tue carezze forse? Ma elleno mi dànno più baci di te: io penso che tanto tu possa in virtù della tua bontà. Non mi scorderò mai che sei andata a piedi ignudi fino al fiume Nero per domandar grazia in favore di quella povera schiava. To’, mia diletta, piglia questo ramo fiorito di limone, che per te ho portato dal bosco, quando vai a dormire mettilo presso il tuo letto: mangia questo favo, per te l’ho spiccato dalla vetta di una roccia: ma prima posati sul mio seno, onde possa dileguarsi la mia stanchezza.”

E Virginia a lui: “O mio fratello! i primi raggi del sole che appariscono sulle cime di quelle roccie mi rallegrano meno della tua presenza. Io amo teneramente mia madre, amo la tua; ma quando esse ti chiamano col nome di figlio, io le amo ancor più: io sento le carezze ch’elle ti fanno più di quelle che fanno a me stessa. Tu mi domandi perchè mi ami tanto? ma non è egli naturale che si amino coloro che sono [p. 41 modifica]conosciuti insieme? Osserva i nostri uccelli, perchè sono stati allevati nello stesso nido, si amano come noi facciamo, e come noi stanno anch’essi sempre uniti. Odi come si chiamano da un albero all’altro, odi come si rispondono; così quando l’eco porta le canzoni che tu canti sul flauto là in cima al monte, io stando in fondo alla valle, ne ripeto le ultime parole. Tu mi fosti sempre caro, e vie più caro dal dì che volevi cimentarti per me col padrone di quella schiava; da quel giorno io ho detto mille volte a me stessa: Ah! mio fratello è di buon cuore: senza di lui io sarei morta di spavento. Io prego Dio ogni giorno per mia madre, per la tua, pei nostri poveri servi; ma quando proferisco il tuo nome, mi pare che la mia divozione si riscaldi.. Oh con quanto calore io lo prego che ti guardi da ogni male; ma tu perchè vai sì lontano ed in luoghi tanto erti a pigliare per me frutti e fiori? non ne abbiamo noi già in abbondanza nell’orto? Oh come sei spossato! tu sudi da capo a piedi». Ed in questo gli‍ andava asciugando la fronte e le guance con un fazzolettino bianco e lo baciava e ribaciava.

Ma da qualche tempo Virginia sentivasi tocca da una incognita malattia. I suoi begli occhi azzurri si marezzavano di un color fosco, il suo candore ingialliva, e tutte le sue membra erano rifinite per languidezza; il bel sereno della sua fronte era sparito, nè più brillava sul suo labbro il sorriso. La si vedeva all’improvviso esultante senza gioja e malinconica senza afflizione; i suoi trastulli innocenti non le piacevano più, nè i dolci suoi lavorii; sfuggiva la conversazione della sua cara famiglia; andava errando qua e là negli angoli più solinghi della casa, cercando riposo e non trovandolo in nessun luogo. Qualche volta, alla vista di Paolo, ella gli correva incontro scherzosamente, ma appena gli era presso, la coglieva tutto a un tratto una grande confusione, le sue guance pallide si ricoprivano di un rosso vivo, nè sosteneva più di mirarlo in viso: e Paolo le andava dicendo: «Questi scogli sono tutti ornati di verdura, i nostri uccelli cantano quando ti mostri: tutto è gioja intorno a te; tu sola sei malinconica». Ed in questo cercava di rianimarla co’ suoi teneri abbracci; ma ella come più poteva se ne schermiva, e tutta tremante correva alla madre. Erano [p. 42 modifica]le carezze del fratello che alla misera cagionavano quel turbamento; ma Paolo non intendeva onde venissero sì nuovi e cotanto strani capricci. E perchè rare volte accade che una sciagura venga sola, si fecero in quel tempo sentire degli ardori che di tratto in tratto portano la desolazione ne’ paesi situati fra i tropici eravamo intorno alla fine di dicembre, nel qual punto il sole di Capricorno riscalda per tre settimane l’Isola di Francia co’ suoi raggi verticali, e non soffiava punto il vento di sud-est, che pur qui spira costantemente. Dalle strade si levava la polvere in alto e vi rimaneva; apparivano dappertutto grandi fenditure nel terreno; era arsa l’erba, e i monti esalavano vapori fuor dai loro burroni, ed erano secche quasi tutte le sorgenti. Nessuna nuvola sul mare; ma invece si alzavano da quello infuocati vapori che al tramontar del sole somigliavano un incendio, nè la notte valeva a rinfrescare l’atmosfera infuocata: la luna compariva rossa e grande oltremodo sull’orizzonte annebbiato; giacevano senza lena le greggie su per le colline, ed alto levate le aperte gole, aspirando l’aria, empievano queste valli di tristi muggiti: lo stesso capro che le guidava, si sdrajava sul terreno cercando frescura; ma il sole ardeva ovunque, e ronzavano nell’aria soffocante gl’insetti avidi del sangue degli uomini e delle bestie.

In una di quelle notti ardenti Virginia sentì raddoppiati tutti i sintomi del suo male; si alzava dal letto e ponevasi a sedere, si coricava quindi nuovamente, ma in nessuna maniera poteva trovar pace. Al chiaro della luna ella se ne va verso la sua fontana, e ne scorge lo zampillo, che ad onta della grande siccità stillava ancora come un filo d’argento dalla negra roccia. Si getta ella in quel bacino, ed acquistata subito per quella freschezza un po’ di lena, mille dolci rimembranze le furono innanzi; le sovviene che essendo fanciullina veniva immersa con Paolo in quelle stesse acque da sua madre e da Margherita; che dipoi Paolo destinando a lei sola quel bagno ne avea scavato il fondo, postavi arena e seminate erbe olezzanti sui margini; vede per entro alle acque cadere sulle sue braccia ignude e sul petto l’ombra dei due palmisti piantati al nascere suo ed al nascere di Paolo; [p. 43 modifica]scorge sul suo capo quelle piante abbracciate insieme coi verdi loro rami; pensa all’amicizia di Paolo, più soave d’ogni fragranza, più pura dell’acqua nascente, più salda che le due palme unite, e sospira. Pensa quindi alla notte, alla solitudine, ed un fuoco vorace l’investe tutta. Spaventata balza fuori da quelle onde più bollenti che il sole della zona torrida, fugge quegli oggetti fatali, e corre presso la madre a cercare difesa contro sè stessa. Più volte pigliando le mani di lei, e fortemente serrandole fra le sue fu sul punto di raccontarle le proprie pene, più volte pronunciò a mezzo il nome di Paolo; ma il suo cuore serrato non volle che proseguisse, ond’ella, posando la testa sul seno materno, altro non potè fare che inondarlo di lagrime.

La signora De la Tour vedeva addentro il male di sua figlia, ma non osava parlarne. «Figlia, le diceva, volgiti a Dio, egli dispone a suo piacimento della salute nostra e della vita; egli ti prova oggi per ricompensarti domani. Pensa che non ci ha posti su questa terra che per esercitare la virtù.»

Ma quel caldo eccessivo alzò dall’oceano tale copia di vapori, che l’isola ne fu tutta coperta come da un vasto parasole. Le vette dei monti attraevano quella nebbia onde uscivano di quando in quando lunghi solchi di fuoco: scoppiò quindi il tuono orrendamente, sì che i boschi ne echeggiarono e le pianure e le valli; una pioggia spaventosa piombò come da schiuse cataratte. Spumosi torrenti rovinavano giù dai fianchi di questo monte. Il fondo di questo bacino si convertì in un lago, questo poggio era un’isoletta, e l’apertura di questa valle un fiume che mugghiando trasportava seco alla rinfusa alberi, zolle e sassi.

La famiglia sbigottita, orava, raccoltasi tutta nella casa della signora De la Tour, il cui tetto sgominato dai venti scricchiolava spaventosamente. Quantunque fosse stangata la porta, e ben chiuse le finestre e gli usciali, vi si vedeva ogni cosa, tanto era il lume che gli spessi e vivissimi lampi cacciavano per entro le commessure della soffitta. L’intrepido Paolo, seguito da Domingo, non ostante la furia del temporale, passava dall’una all’altra capanna qui rassodando un muro con un puntello, colà conficcando un cavicchio, e non [p. 44 modifica]rientrava che per consolare la famiglia, assicurando che il bel tempo non poteva esser lontano.

Di fatti verso sera la pioggia cedette; il vento regolare di sud-est riprese il suo corso, le nubi procellose furono gettate verso il nord-ovest, ed apparve sull’orizzonte il sole che tramontava.

Il primo desiderio di Virginia fu quello di rivedere il luogo del suo riposo. Paolo si avvicinò a lei timidamente e le offerì di accompagnarla; accettò ella sorridendo, ed uscirono insieme dalla capanna. Spirava un venticello fresco ed elastico. Si alzava la nebbia su per i dossi del monte, sul quale apparivano le strisce della schiuma lasciatavi dai molti torrenti che si esaurivano a mano a mano.

Quanto all’orto, orribili frane l’aveano posto tutto sossopra; la maggior parte degli alberi fruttiferi stavano rovesciati colle radici in alto; i prati erano coperti da grandi alluvioni di sabbia; il bagno di Virginia n’era tutto ripieno. Stavano però i due cocchi, ed eran verdissimi, ma tutto quanto era all’intorno appariva disperso e distrutto; non si vedevano più erbe, nè pergole, nè uccelli, tranne un qualche bengali che sulla punta delle roccie vicine metteva dolorosi lamenti per la perdita del caro nido.

Vedendo cotanta desolazione, Virginia disse a Paolo: «Voi avevate posto qui molti uccelli, la bufera li ha uccisi. Voi avevate piantato un orto, eccolo distrutto. Tutto perisce sulla terra, il cielo solo non cangia mai d’aspetto». Paolo rispose: «Deh! perchè non posso io darvi qualche cosa del cielo! ma non possedo niente nemmeno in terra». Virginia allora non senza arrossire ripigliò: «Avete però il ritratto di san Paolo». Appena ella ebbe detto ciò, Paolo corse a pigliarlo nella capanna di sua madre. Questo ritratto era una miniatura rappresentante l’eremita Paolo. Margherita aveva per esso una gran divozione; da fanciulla l’aveva portato lunga pezza appeso al collo, e, fatta madre, lo pose a quello del bambino. Era accaduto inoltre che sendo ella incinta, e così com’era, abbandonata da tutti, consolandosi col rimirare l’immagine di quel santo solitario, ne contrasse il bambino qualche somiglianza, dal che fu determinata ad imporgli il nome di Paolo, dando al figliuol suo per protettore un santo che menò [p. 45 modifica]la sua vita lontano dagli uomini, dai quali era stato ingannato, e poscia abbandonato. Virginia, nel ricevere dalle mani di Paolo quel ritrattino, gli disse teneramente: «O fratel mio, non mi sarà mai tolto fin che avrò vita, e non mi dimenticherò mai che tu mi hai data l’unica cosa che possedi a questo mondo». Questo tuono amico, un tale insperato ritorno della primiera tenerezza e famigliarità, diede animo a Paolo, sì che volle abbracciarla; ma leggiera ella come un uccello se ne fuggì, lasciandolo fuor di sè che non poteva capire che cosa volessero significare cotali modi affatto strani.

In questo mezzo Margherita diceva alla signora De la Tour: «Perchè non maritiamo noi i figli nostri? Essi si amano caldissimamente; mio figlio non se ne avvede per anco, ma sentirà ben presto la voce della natura, ed allora bisognerà tener loro gli occhi addosso, eppoi temer tuttavia». La signora De la Tour le rispose: «Sono troppo teneri ancora, e troppo poveri. Qual cordoglio sarebbe mai egli il nostro se Virginia mettesse al mondo figli infelici senza poter forse tirarli su. Il tuo moro Domingo è snervato assai: Maria è malaticcia: io stessa, o cara amica, sento che da quindici anni in qua ho troppo perduto delle mie forze. La vecchiezza incalza forte ne’ paesi caldi, e vie più sempre nella miseria. Paolo è l’unica nostra speranza, aspettiamo che gli anni gli diano una virile gagliardia, sì che possa farne campare sicuramente col suo lavoro. Adesso noi non abbiamo, tu lo sai, quasi nulla sopra ciò che fa di bisogno quotidianamente, ma dove noi mandassimo Paolo per alcun tempo alle Indie, il commercio gli fornirebbe di che comperare qualche schiavo; tornato, noi lo sposeremo a Virginia, giacchè io penso che nessuno possa fare felice la mia cara figlia quanto il tuo Paolo. Parleremo di questa cosa al nostro vicino».

Di fatto quelle donne mi richiesero di consiglio su tale faccenda, io convenni con loro. I mari delle Indie sono belli, io dissi. Cogliendo la stagione favorevole, quel viaggio si fa in sei settimane al più, ed un ugual tempo s’impiega pel ritorno. Io ho molti amici che amano molto il nostro Paolo; si potrà metter insieme di che formargli un collo. Gli daremo del cotone greggio, del quale qui non si fa alcun uso, mancandone il [p. 46 modifica]mulino per mondarlo; potrem dargli del legno d’ebano, il quale in quest’isola è tanto comune, che si adopera come legna da fuoco, e gli daremo ancora alcune resine, che vanno a male nei boschi; tutte queste cose hanno uno spaccio sicuro alle Indie, e per noi qui sono affatto inutili.

Io m’incaricai di chiedere al signor De la Bourdonnais sua licenza d’imbarco per tale viaggio; ma prima di tutto volli parlarne a Paolo. Quale maraviglia fu la mia udendo quel giovine rispondermi con una sensatezza molto superiore alla sua età: «Come volete ch’io abbandoni la mia famiglia per correre dietro a non so quale progetto di fortuna? Avvi mai al mondo un commercio più vantaggioso che la coltivazione di un campo, il quale rende cinquanta ed alcune volte fino il cento per uno? Se abbiamo talento di commerciare, perchè non rechiamo alla città tutto quello che ne sopravanza qui? Qual bisogno ch’io vada per questo a cercare le Indie? Le nostre madri mi vanno dicendo che Domingo è vecchio e snervato, ma io sono giovine ed acquisto vigore ogni giorno. Mentre io sono fuori potrebbe accader loro qualche guajo, sopratutto a Virginia, che è già malaticcia... Ah! no, no; non mi persuaderò mai di abbandonarle».

La sua risposta mi pose in grande imbarazzo, perchè la signora De la Tour non mi aveva taciuto lo stato di Virginia, ed il suo desiderio di allontanare l’uno dall’altro que’ giovinetti, onde potesse venir su alquanto l’età loro: questi erano motivi che a Paolo io non volli nemmen toccare.

In questo, un vascello arrivato dalla Francia, recò alla signora De la Tour una lettera di sua zia. La paura della morte, senza la quale i cuori duri non diverrebbero sensibili giammai, l’aveva tocca, ella era scampata a pena da una grave malattia la quale, degenerata in languore, rendevasi incurabile per la grande età sua. Ingiugneva ella a sua nipote di tornare in Francia; e dove mai non si trovasse in istato di poter intraprendere un sì lungo viaggio, le ordinava di mandare Virginia, alla quale intendeva di dare una buona educazione, uno sposo illustre e tutti i suoi beni. Dall’esecuzione de’ suoi ordini (erano le sue parole) dipendeva il rimettersi nella sua grazia. [p. 47 modifica]

Quella lettera pose tutta la famiglia in costernazione. Domingo e Maria si diedero a piangere: Paolo, muto ed immobile, pareva che pendesse fra lo stordimento e la collera. Virginia teneva fissi gli occhi nella madre, e non ardiva proferire parola. «Avreste voi adesso cuore di abbandonarci?» disse Margherita alla signora De la Tour. «No, cara amica: no, figli miei, ripigliò quella, io non voglio lasciarvi mai; con voi ho vissuto, e con voi voglio morire: la vostra amicizia sola mi ha fatto gustare una vera felicità. Se la mia salute è un po’ guasta, questo deriva da vecchie afflizioni, chè la durezza de’ miei parenti e la perdita del mio caro marito, mi trapassarono il cuore; ma da quell’ora in poi ho avuta tanta consolazione e felicità stando con voi in queste povere capanne, quanta non avrei potuto promettermi dalla ricchezza de’ miei nella mia patria».

A queste parole versarono tutti un pianto di gioja, e Paolo, stringendo la signora De la Tour fra le braccia, le disse: «Nemmen io abbandonerò voi; stiano pur le Indie là dove esse sono, chè noi lavoreremo qui tutti per voi, cara mamma; con noi non vi mancherà mai nulla;» ma fra tutta quella gente nessuno fu lieto tanto quanto Virginia, sebbene meno di tutti ella di fuori lo mostrasse. Il rimanente di quel giorno videsi sul suo volto una dolce ilarità, sì che mostrandosi ella nuovamente tranquilla pose il colmo al comune contento.

Il giorno appresso, allo spuntar del sole, avendo essi appena terminato la preghiera che solevano fare tutti uniti prima di far colazione, Domingo gli avvisò che un signore a cavallo, seguito da due schiavi, veniva a quella volta. Era il signor De la Bourdonnais. Entrato egli nella capanna ritrovò tutta la famiglia seduta intorno ad una tavola sulla quale Virginia avea messo, all’usanza del paese, caffè e riso cotto nell’acqua. Avea messo inoltre patate calde e banani côlti allora. Tutto il vasellame consisteva in certe scodelle formate di zucche dimezzate, e le foglie del bananiere erano la biancheria. Il governatore non potè all’entrare nascondere la sua meraviglia vedendo cotanta povertà. Voltosi quindi alla signora De la Tour, le disse che gli affari pubblici lo distoglievano spesso dal por mente ai particolari, ma che non poteva però trasandare una [p. 48 modifica]faccenda importante che la toccava. «Voi, signora, soggiunse egli, avete a Parigi una zia d’alta condizione e molto ricca, la quale vi destina tutto il suo avere, e vi richiama a sè». La signora De la Tour rispose che la sua poca salute non le permetteva d’intraprendere un viaggio sì lungo. «Pensate almeno, ripigliò il governatore, alla giovine ed amabile vostra figlia; voi non potete privarla d’una sì grande eredità senza commettere un’ingiustizia. Io non vi tacerò che vostra zia per averla è ricorsa al braccio del governo; io tengo ordine dagli ufficii di adoperare dove bisogni il mio potere; ma, come io non me ne valgo mai se non pel bene degli abitanti di questa colonia, mi contento d’aspettare che voi stessa vogliate adattarvi a fare per qualche anno un sacrifizio, dal quale dipende lo stato di vostra figlia ed il ben essere di tutta la vita vostra. Per qual ragione si viene alle isole? Non è egli forse per procacciarvi ricchezza? Ma non è più dolce cosa l’andare a trovarla nella propria patria?»

Ciò detto depose sulla tavola un gran sacco di piastre, portate da un de’ suoi mori: «Eccovi, soggiunse, quello che vostra zia ha destinato per i preparativi del viaggio della figlia.» Venne quindi facendole un cortese rimprovero perchè non si fosse mai rivolta a lui ne’ suoi bisogni, lodando ad ogni modo il nobile suo coraggio. A questo levatosegli prontamente contro Paolo: «Signore, disse, mia madre si è rivolta a voi, e voi l’avete accolta malamente. — Avete voi un altro figlio, signora?» disse il signor De la Bourdonnais alla signora De la Tour. «No, signore, ripigliò quella; questi è il figliuolo dell’amica mia; ma ambedue sono egualmente e dell’una e dell’altra, ed egualmente ci sono cari.» — «Uditemi, o giovinetto, disse a Paolo il governatore: quando avrete acquistata sperienza del mondo conoscerete a che duro partito sono le persone poste in carica; saprete quanto è facile cosa il preoccuparle, e come spesso accada che si conceda al vizio che sa brogliare, quello che spetta alla virtù che si nasconde.»

Il signor De la Bourdonnais invitato dalla signora De la Tour, sedette a tavola presso lei, e fece colazione, all’usanza dei creoli, con caffè misto col riso cotto nell’acqua. Egli fu soddisfattissimo dell’ordine e [p. 49 modifica]della pulizia di quella casettina; fu innamorato dell’unione di quelle due amabili famiglie, e lo edificò l’affezione dei loro vecchi servidori. «Qui non v’ha, disse egli, altra suppellettile che il legno, ma vi si veggono visi sereni e cuori d’oro.»

Paolo, cui andò a genio quell’uomo alla mano, gli disse: «Desidero d’essere vostro amico, perchè siete un galantuomo.» Piacque al governatore questo contrassegno di cordialità isolana: abbracciò Paolo, e strettagli la mano, lo assicurò che poteva far capitale della sua amicizia.

Dopo la colazione, egli trasse in disparte la signora De la Tour, e le disse che si offeriva tostamente un’occasione per mandare la figlia in Francia, stando per salpare un vascello colà diretto; ch’egli la raccomanderebbe ad una signora sua parente che faceva lo stesso viaggio; che bisognava aver pazienza per qualche anno, affin di non lasciarsi fuggire di mano una immensa dovizia. «Vostra zia, soggiunse partendo, non può campare più di due anni, secondo quello che mi scrivono suoi amici; pensatevi bene, la fortuna non si offre così spesso, consigliatevi; io sono certo che tutte le persone sensate terranno la mia opinione.»

La signora De la Tour rispose che non bramando ella ormai più altra felicità toltane quella di sua figlia, metterebbe interamente nelle mani di lei il partire ed il rimanersi.

Veramente non le dispiaceva l’occasione di poter separare per qualche tempo Virginia da Paolo, procacciando nel tempo stesso ad ambedue un gran benessere pei dì venturi. Ritiratasi dunque con sua figlia le disse: «Figlia mia, i nostri servi sono vecchi; Paolo è troppo giovane, Margherita è alquanto attempata; per me, tu lo vedi, come sia malaticcia: se io venissi a morire, che diverresti tu, senza niun avere, in questi deserti? Eccoti allora ridotta sola, senza alcun sicuro sostegno, costretta a lavorare di continuo la terra come una miserabile giornaliera per campare la vita. Ah, figlia mia! questo pensiero mi accora forte.» Virginia le rispose: «Iddio ci ha destinati al lavoro, e voi mi avete insegnato a lavorare ed a benedirlo ogni dì: egli non ne ha fin qui abbandonati mai, non ne abbandonerà nemmeno per l’avvenire. La sua [p. 50 modifica]provvidenza è fatta specialmente pegli infelici: voi me lo avete detto tante volte, madre mia! Ah io non posso determinarmi a lasciarvi.» La signora De la Tour, intenerita, ripigliò: «Per me non ho altro pensiero tranne quello di farti felice, e di maritarti a suo tempo con Paolo, il quale non è altrimenti tuo fratello. Pensa ora che la sua sorte sta nelle tue mani.»

Una giovinetta innamorata crede di poter tenersi celata a tutti gli sguardi; ella chiude gli occhi suoi sì come rinchiuso ha il cuore; ma se avviene che una voce amica le dia animo d’aprirsi, allora si dilegua tutto l’affanno del segreto suo amore, e tolto il velame della riservatezza e della circospezione, gode di abbandonarsi a quella effusione degli interni sentimenti, che nasce dalla confidenza. Virginia, tocca dai nuovi segni della materna tenerezza, le parlò delle fiere sue battaglie interne, delle quali Iddio solo era stato testimonio, disse di riconoscere un tratto della sua provvidenza nel soccorso che le dava una madre pietosa, approvando la sua inclinazione, e dirigendola co’ suoi consigli; e che, incoraggiata come ella era da tanti sostegni, ogni considerazione la determinava a rimanere presso di lei senza travagliarsi nè del presente nè dell’avvenire.

Vedendo la signora De la Tour che quel colloquio aveva fatto un effetto opposto a quello che ella sperava, le disse: «Figlia mia, io non voglio farti violenza alcuna risolvi su ciò liberamente; ma nascondi il tuo amore a Paolo: quando un amante conosce di possedere il cuore di una giovane, egli ha tutto in suo potere.»

Verso sera, trovandosi elle due sole, entrò in casa una persona d’alta statura, avvolta in una veste talare turchina. Era un ecclesiastico missionario dell’isola, ed era il confessore della signora De la Tour e di Virginia mandato dal governatore. «Figlie mie, disse entrando, Iddio sia lodato! Eccovi divenute ricche. Voi potete di qui innanzi secondare il vostro buon cuore, e far del bene ai poveri. So quello che vi ha detto il signor La Bourdonnais e la vostra risposta. Buona mamma, la vostra salute vi obbliga di rimanere, io lo veggo; ma in quanto a voi, o signorina, non vi è scusa nessuna: bisogna ubbidire alla Provvidenza ed ai [p. 51 modifica]nostri maggiori quand’anche essi fossero ingiusti. Consideratelo come un sagrifizio; ma Iddio lo vuole; egli si è sagrificato per noi, bisogna imitare l’esempio suo e sagrificarci pel bene della propria famiglia. Il vostro viaggio in Francia sarà felice. Non siete voi contenta di andarvi, cara signorina?»

Virginia, tenendo gli occhi bassi, e tutta tremante, «S’egli è un comando di Dio, io non posso contrastare: sia fatta la volontà sua,» disse piangendo.

Il missionario partì, e fu dal governatore a partecipargli l’ottimo successo della avuta commissione. Allora la signora De la Tour mandò Domingo a pregarmi che volessi recarmi da lei, chè voleva il mio consiglio sulla partenza di Virginia. Io apersi la mia opinione, contraria affatto a tale partenza. E mia massima inalterabile che, dove si cerchi la felicità, bisogna preferire i beni della natura a tutte le dovizie del mondo, e che noi non dobbiamo mai cercare di fuori quello che possiamo trovare presso di noi, ed applico questa massima a tutti i casi della vita, nessuno eccettuato. Ma che cosa poteva fare io co’ miei consigli moderati contro la prospettiva lusinghiera di una immensa ricchezza? Che valevano mai le naturali mie ragioni in faccia ai pregiudizi del mondo, e specialmente in confronto d’una sentenza, sacra agli occhi della signora De la Tour? Mi accorsi in fatti che quella signora non mi consultava che per cerimonia, giacchè, udita la decisione del suo confessore, ella non esitò più.

Margherita stessa, che dapprima si era caldissimamente opposta a tale viaggio, mettendo per un nulla i vantaggi che poteano derivare al figlio dalla immaginata ricchezza di Virginia, non osò più di porre avanti alcuna obbiezione. Quanto a Paolo, cui era ignoto il partito preso, meravigliato dei segreti ragionari che si tenevano fra la signora De la Tour e sua figlia, era preso da una negra tristezza. «Bisogna ben dire, diceva egli, che si faccia qualche cosa contro di me, perchè mi viene occultato tutto quello che si fa.»

In questo mezzo, essendosi vociferato nell’isola che la fortuna aveva visitato questi scogli, si videro mercanti d’ogni specie arrampicarvisi da tutte le bande, ed in mezzo a queste povere capanne furono spiegate le più ricche stoffe delle Indie. Magnifici basin di [p. 52 modifica]Godelour fazzoletti di Paliacate e di Mazulipatan, mussoline di Daca lisce, rigate, ricamate, trasparenti; spiegarono candidissimi baftà di Surate, tele indiane colorate della più rara bellezza, con fondo marezzato o con rami verdi. Sposero magnifici drappi di seta della China, lampà traforati, damaschi rasati bianchi, verdi, o rossi che abbarbagliavano; si videro taffettà color di rosa, rasi morbidissimi, pekin bianchi e gialli, e perfino le pagne di Madagascar.

La signora De la Tour volle che sua figlia pigliasse tutto quello che le potesse andare a genio; tenne occhio soltanto a’ prezzi ed alla qualità delle stoffe scelte dalla figlia, affinchè non rimanesse ingannata dai mercanti. Virginia scelse tutto quello che le parve buono per sua madre, per Margherita, per Paolo. «Questa tela, diceva ella, farà pegli usi della casa, quest’altra sarà opportuna per vestire Maria e Domingo;» era insomma già vuotato il sacco delle piastre prima ch’ella avesse nulla pigliato per sè medesima, di modo che fu mestieri levar qualche cosa dai doni ch’ella aveva distribuiti agli amici, per formarle la parte sua.

Paolo, trafitto dal dolore al vedere que’ doni della fortuna, presaghi della partenza di Virginia, venne da me, e con un tuono afflittissimo mi disse: «Mia sorella parte; ho veduto l’apparecchio del suo viaggio; venite da noi, ve ne prego, e adoperate l’autorità che avete sopra la madre sua e sulla mia affine di far lasciare da banda il pensiero di un cotal viaggio.» Io cedetti alle istanze di Paolo, sebbene fossi intimamente persuaso che andava a gittare le mie parole.

Virginia, che mi parea vezzosa, vestita di tela turchina del Bengala, con in capo un fazzoletto rosso, vezzosissima mi parve oltre ogni credere quando la vidi ornata alla foggia delle signore di questo paese. Ella era vestita di mussolina bianca foderata di taffettà color di rosa; le sue forme leggiadre e snelle apparivano a meraviglia disegnate sotto la sua sottanina; e quei capegli biondi, annodati a doppie trecce, s’addicevano affatto alla sua testa virginale. Vedevasi negli occhi suoi azzurri una grande malinconia; ed il suo cuore agitato da una contrastata passione, le mandava sul volto una tinta vivissima, e dava un tuono molto patetico alla sua voce. Quello stesso elegante [p. 53 modifica]abbigliamento ch’ella portava, come parea, suo malgrado, concorreva a rendere più commovente il suo languore. Non si poteva vederla nè udirla senza averne pietà. Paolo si contristò maggiormente. Margherita, vedendo con gran pena a che partito era condotto il figlio, lo tirò in disparte, e gli disse: «A qual pro, figliuol mio, andavi tu pascendoti di vane speranze che fanno ancora più amare le privazioni? Egli è tempo ch’io ti sveli un segreto tuo e mio. La giovinetta De la Tour appartiene, dal lato di sua madre, ad una parente ricca e di alta condizione; ma, in quanto a te, sappilo, tu non sei altro che il figlio di una povera villana, e, quel ch’è peggio, tu sei bastardo.» Questa parola bastardo fece una grande specie a Paolo: egli non l’avea mai udita pronunciare. Ne dimandò spiegazione a sua madre, la quale gli rispose: «Tu non hai avuto padre legittimo; essendo io fanciulla, l’amore mi fece cadere in una debolezza, e da quella tu derivasti; il mio fallo ti ha tolta la parentela paterna, ed il mio pentimento ti ha allontanato dalla materna. Sciagurato! tu non hai altri parenti al mondo tranne me sola.» E si diede a lagrimare. Paolo, stringendola fra le sue braccia, le disse: «O madre mia! giacchè io non ho altri parenti che voi al mondo, io vi amerò ancor più. Ma oimè! che è questo segreto che voi mi rivelate? Veggo ora perchè da due mesi la giovinetta De la Tour si è alienata da me; veggo perchè si determina oggi ad abbandonarmi affatto. Ah sicuramente ella mi disprezza!»

Essendo giunta l’ora della cena, tutti s’assisero a tavola, ed agitato ognuno da passioni diverse, mangiò poco e stette in silenzio. Virginia s’alzò prima degli altri, e venne a sedersi precisamente nel sito dove ora siamo noi. Paolo le tenne dietro, e si pose vicino a lei. Tacquero ambedue alquanto. Era una di quelle notti deliziose, che non sono rare nei paesi situati fra i tropici. Nessun pennello potrebbe ritrarne la bellezza: appariva la luna in mezzo al cielo adombrata da una cortina di nuvole, che a mano a mano fuggiva davanti al suo splendore. La sua luce spandevasi sulle montagne dell’isola e sulle loro punte brillanti d’un verde argentino. Tacevano i venti del tutto. Il bosco, le valli, la cima degli scogli, tutto era animato dal mormorío degli uccelli, che si festeggiavano nei loro nidi [p. 54 modifica]rallegrati dal chiaro notturno e dalla quiete dell’aria. Fin gl’insetti ronzavano lieti sotto l’erba. Le stelle scintillavano nel cielo, e si specchiavano giù nel vasto seno del mare, dove si vedevano le loro immagini tremolanti. Virginia scorreva con occhio distratto l’immensità del bruno orizzonte, e le spiagge dell’isola distinte pei fuochi rossi de’ pescatori. Ella pose l’occhio sopra una luce ed un’ombra che vedevasi all’ingresso del porto, era il fanale ed il corpo del vascello che dovea trasportarla in Europa, il quale, pronto a salpare, stava ancorato aspettando che cessasse la calma. Turbatasi a quella vista, torse il viso per nascondere a Paolo le sue lagrime.

La signora De la Tour, Margherita ed io stavamo seduti quinci poco lontano sotto alcuni banani, e col favore del notturno silenzio potemmo intendere il loro ragionamento, che non ho poi dimenticato mai.

Disse Paolo a lei: «Voi partite fra tre giorni, o signorina, come sento a dire; e non vi fanno timore alcuno i pericoli del mare... del mare che vi spaventa cotanto! — Conviene, rispose Virginia, che io obbedisca ai miei parenti, al mio dovere. — Voi ci abbandonate, ripigliò Paolo, per una parente lontana che non avete giammai veduto. — Aimè! disse Virginia, io avrei voluto rimaner qui tutta la mia vita; ma la madre mia non me lo concede, ed il mio confessore dice essere volontà di Dio ch’io parta; che la vita è una prova... Ah! qual dura prova! — E che, riprese Paolo, tutte queste ragioni vi hanno spinta e neppur una vi ha trattenuta? Ah! ve n’ha certamente alcun’altra che voi non mi dite. La ricchezza alletta molto... Arrivata nel nuovo mondo, voi troverete, in breve, altri a cui dare il nome di fratello, che a me non date più. Voi sceglierete questo fratello tra persone degne di voi per quel grado e per quella ricchezza che io non posso offerirvi. Ma dove volete andare per essere più felice di quello che siete qui? Qual terra vi potrà essere più cara di quella dove siete nata? Qual compagnia più amabile di quella che vi ama! Come farete a vivere lontana dalle consuete carezze della madre vostra? Ed ella, aggravata già dagli anni, come sopporterà di non vedervi più al suo fianco a tavola, in casa, al passeggio, dove era sostenuta da [p. 55 modifica]voi? E che sarà della mia che vi ama quanto la vostra? Che potrò io dir loro quando le vedrò piangere la vostra lontananza? Crudele! io non vi dico nulla ancora di me; ma che farò io mai quando la mattina non vi vedrò più, quando la sera non ci vedrà più insieme? Quando porrò l’occhio sui due palmizj che furono piantati al nascere nostro, e che per sì lungo tempo sono stati testimoni della nostra amicizia? Ah! poichè tu aspiri ad un’altra condizione, poichè brami altri paesi fuor di quello dove sei nata, e che vuoi altri beni sopra quelli che io posso darti col mio lavoro, lascia ch’io venga teco sul legno dove t’imbarchi. Lo ti darò coraggio nelle burrasche delle quali tremi tanto stando sul lido. Io poserò il tuo capo sul mio seno, riscalderò il tuo cuore avvicinando à quello il mio, e colà in Francia dove tu vai in cerca di ricchezza e di fasto, io ti servirò come schiavo, felice di vederti contenta; in que’ palagi dove sarai servita ed adorata, vedrai me pure ricco e nobile a segno di poterti fare il maggiore dei sacrifizj, morendo ai piedi tuoi.»

I singhiozzi gli soffocarono la voce, e noi udimmo quella di Virginia rispondere queste parole rotte dai sospiri: «Per te io parto.... per te che vedo tuttodì incurvato al lavoro per alimentare due famiglie impotenti. Il solo desiderio di renderti mille volte il bene che tu ci hai fatto, mi ha indotta a cogliere l’occasione di procacciare ricchezza. Ma qual ricchezza mai può valere la tua amicizia? Che mi parli tu di condizione? Ah! se dovessi io scegliermi un fratello, quale altro torrei fuor di te? O Paolo! o Paolo! tu mi sei ben più caro che un fratello! Ahi quanto ho fatto per respingerti lontano da me! io avrei pur voluto che tu mi dessi mano a staccare me da me stessa, fino a tanto che il cielo venisse a benedire la nostra unione... Ma! la mia forza è perduta!... Io rimango, io parto, io vivo, io muojo, disponi di me come ti pare... Oh me misera! dispogliata d’ogni virtù!... ho avuto forza per resistere al potere delle tue carezze, e non posso star salda al vederti addolorato.»

A questo, Paolo se la serrò al petto vivamente, gridando con voce terribile: «Io parto con lei; chi potrà separarci?» Noi gli fummo intorno tutti, e la signora [p. 56 modifica]De la Tour gli disse: «Figliuol mio, se voi ne abbandonate che sarà di noi?» Egli disse allora tremando: «Figliuol mio?... figliuol mio?... Voi mia madre? voi che separate il fratello dalla sorella? Noi abbiamo succhiato ambedue il vostro latte; allevandoci ambedue sui vostri ginocchi, voi ci avete insegnato ad amarci, noi ci siamo amati, e mille volte l’un l’altro ce l’abbiam detto: ora voi l’allontanate da me! La mandate in Europa, in quel paese barbaro che vi ha negato un asilo, e in casa di quegli stessi crudeli parenti che vi hanno abbandonata. Mi direte forse: Voi non avete diritto su lei, chè non è altrimenti vostra sorella. Ella è tutto per me, la mia famiglia, il mio stato, tutto il mio stato, tutto il mio avere. Io non ho altro al mondo. Noi abbiamo avuto un sol tetto, una sola culla, ed avremo una tomba sola. S’ella parte bisogna ch’io vada seco. Me lo impedirà il governatore? Mi impedirà egli ancora di lanciarmi in mare? Io le terrò dietro a nuoto. Il mare non potrà essermi più nemico della terra. Giacchè mi è tolto il vivere qui presso di lei, morirò almeno sotto gli occhi suoi e lontano da voi, madre spietata! Donna inumana! possa quell’oceano, a cui l’affidate, non restituirvela mai più! Possano le sue onde gittare su queste spiagge il mio corpo, e rotolandolo insieme col suo fra i sassi portarveli ai piedi, dandovi il rammarico eterno d’aver perduti i figli vostri!»

Io corsi a lui, e lo strinsi fra le mie braccia, vedendo che la disperazione gli toglieva il senno. Gli occhi suoi scintillavano; il sudore scorreva a gran gocce giù pel viso suo infuocato; tremavano le sue ginocchia, ed io sentiva che il suo cuore batteva rapidissimamente nel caldo petto.

Virginia, spaventata, gli disse: «O amico mio! in nome dei piaceri della nostra tenera età, in nome de’ tuoi guai e de’ miei, in nome finalmente di tutto ciò che deve unire per sempre due infelici, io ti prometto, se rimango, di non vivere che per te solo, e se parto, di tornare un giorno per essere tua. Io lo giuro, e siatene testimoni voi che avete custodita l’infanzia mia, e che disponete ora della mia vita; voi che vedete il mio pianto, io lo giuro pel cielo che mi ascolta, per quel mare che deve portarmi, per l’aria che respiro, e che non ho mai contaminata d’alcuna menzogna.» [p. 57 modifica]

A quella guisa che il sole discioglie ed appiana un monte di ghiaccio sull’apennino, così cadde l’ira impetuosa del giovine all’udire la voce della sua amata. Era la sua testa priva di baldanza e bassa, e giù dagli occhi cadevagli a fiumi il pianto. La madre piangendo con lui, lo teneva abbracciato senza poter proferire parola. La signora De la Tour, tutta costernata mi disse: «Io non reggo più, il mio cuore è tutto straziato: vada a monte questo sciagurato viaggio. Caro vicino, procurate di condur via il figlio nostro; qui non si dorme più da otto giorni.»

Io dissi a Paolo: «Mio caro amico, vostra sorella non parte più. Domani ne daremo avviso al governatore: lasciate in pace la vostra famiglia, e venite a passare questa notte con me. Vedete che l’ora è tarda, è già mezzanotte; la croce del Sud getta l’ombra appiombo sull’orizzonte.»

Egli si lasciò condur via senza dir nulla, e dopo aver passata la notte in una grande agitazione, si alzò sul far del giorno, e tornò a casa sua.

Ma a che pro anderò io più innanzi con quest’istoria? La vita umana non ha che un lato bello; volgesi il nostro giro rapido in un giorno siccome il globo su cui siamo avvolti, e quando una parte di questo giorno è stata chiara, bisogna necessariamente che l’altra sia tenebrosa.

«Deh, padre mio, io dissi a quel buon vecchio, proseguite, ve ne scongiuro, il cominciato racconto, che è tenerissimo. I quadri della felicità sono belli a vedersi, ma quelli della sventura sono istruttivi. Che fu, ve ne prego, dell’infelice Paolo?»

Ed egli continuò in questo modo:

— Il primo oggetto che si presentò all’occhio di Paolo, tornando a casa sua, fu la mora Maria, la quale, salita su d’una rupe, teneva l’occhio fiso nel mare. Appena egli la scorse le gridò dalla lunga: «Virginia dov’è?» Maria si volse al suo giovinetto padrone, e si diede a lagrimare. Paolo, fuor di sè, tornò indietro e volò al porto: ivi seppe che Virginia s’era imbarcata sul far del dì, che il vascello aveva fatto vela immediatamente, e che si era già perduto di vista. Egli tornò a casa, e passò per mezzo a quella senza dir parola a nessuno. [p. 58 modifica]

Sebbene questo ricinto di roccie sembri quasi tagliato a piombo, tuttavia i varj piani verdi che ne dividono l’altezza, fanno scala per via di certi sentieri difficili onde si arriva al piede di quel cono di macigni inclinato ed inaccessibile, che si chiama il pollice. Alla base di quel cono evvi una spianata tutta coperta di grandi alberi, la quale è sì alta e sì trarupata, che pare vi sia un bosco in aria, circondato di spaventosi precipizii. Le nubi, attratte dalla cima del pollice, alimentano vari rivi, i quali cadono in fondo alla valle che giace oltre quel monte, profonda sì, che stando lassù non si ode punto lo strepito della caduta. Da quel sito si scopre una gran parte dell’isola, i suoi colli e le sue vette, fra le quali distinguonsi Piterboth e le Tre Mammelle colle loro vallate coperte di boschi; vedesi al di là l’alto mare e l’isola Borbone posta alla distanza di quaranta leghe verso occidente. Da quell’altura Paolo vide il vascello, sul quale era Virginia: era lontano più di dieci leghe, e gli pareva un punto nero in mezzo all’Oceano. Rimase colà una gran parte del dì, tutto intento a considerare quel punto, il quale era già scomparso quand’egli credeva di vederlo tuttavia; e quando fu perduto nelle nebbie dell’orizzonte, egli si assise in quel luogo selvatico, battuto sempre dai venti, i quali scuotono incessantemente le cime de’ palmizii e dei tatamacchi, di che viene un suono confuso, somigliante a quello di un organo udito di lontano, ed atto ad ispirare una profonda malinconia. Io lo trovai colassù stante colla testa appoggiata ad una rupe e cogli occhi dimessi a terra. Dal levar del sole io andava in traccia di lui: lo persuasi a gran pena di scendere e di restituirsi a’ suoi, ed arrivai a condurlo finalmente a casa, dove al vedere la signora De la Tour, si querelò amaramente dell’averlo ingannato. Ella ci disse che, essendosi alzato il vento intorno alle tre ore del mattino, e stando quindi il vascello sul punto di far vela, il governatore seguito da una parte del suo stato maggiore, ed accompagnato dal missionario, era venuto con un palanchino a pigliare Virginia, e che non ostante tutte le sue proprie ragioni, il suo pianto, e quello di Margherita, gridando tutti ad una voce che trattavasi del ben essere nostro comune, aveano trasportata via sua figlia semiviva. [p. 59 modifica]«Se almeno, disse Paolo, avessi potuto salutarla al suo partire, io sarei adesso più quieto; io le avrei detto: Virginia, se mai nel tempo che abbiamo vissuto insieme, mi fosse sfuggita una qualche parola che vi avesse offesa, prima di abbandonarmi per sempre, assicuratemi che me la perdonate. Le avrei detto: Giacchè io non posso rivedervi mai più, addio! mia cara Virginia! addio! vivete lungi da me contenta e felice!» E vedendo che sua madre e la signora De la Tour piangevano: «Ora, disse, potete cercare qualche altro che asciughi le vostre lagrime»; e si allontanò da loro mettendo gemiti dolorosi; ed errando qua e là, cercava tutti i luoghi che furono prediletti da Virginia: «Che volete da me diceva alle sue capre ed ai capretti che lo seguivano belando; che mi chiedete? voi non rivedrete mai più con me colei che vi dava a mangiare nelle sue mani». Salì al riposo di Virginia, ed al vedere gli uccelli che gli giravano attorno, gridò: «Ah cari uccelli! voi non andrete più incontro a quella che vi nodriva con tanto amore». Vedendo Fedele che fiutava qua e là, e gli andava innanzi braccando, disse a lui sospirando: «Ah! questa volta tu non puoi ritrovarla più, vedi». Finalmente fu a sedersi sullo scoglio dove le aveva parlato la sera avanti, ed all’aspetto del mare entro a cui aveva veduto sparire il vascello che l’aveva portata via, pianse dirottamente; ma noi lo seguivamo sempre dappresso, temendo non forse l’agitazione dell’anima sua cagionasse qualche funesta conseguenza. Sua madre e la signora De la Tour lo pregavano che non volesse accrescere il loro travaglio colla sua disperazione; finalmente potè questa calmarlo, chiamandolo coi nomi più convenienti a ridestare le sue speranze, lo diceva suo figlio, il caro suo figlio, il suo genero, quegli infine a cui intendeva di dare la figlia sua. Per questa via ella lo indusse a rientrare in casa ed a pigliare un po’ di cibo: si pose egli a tavola con noi, presso il sito che soleva occupare la compagna della sua fanciullezza, e quasi ch’ella si trovasse colà presente le parlava, e le metteva innanzi le vivande che sapeva essere a lei più grate; ma come s’avvedeva dell’error suo, piangeva da capo. Ne’ giorni vegnenti, egli raccolse tutto quello che aveva servito particolarmente [p. 60 modifica]per lei; gli ultimi mazzetti di fiori ch’ella aveva smessi, una tazza di cocco, in cui soleva bere; e come se questi arnesi della sua cara fossero cose le più preziose del mondo, li baciava e ponevaseli nel seno. Dall’ambra non si spande una fragranza cotanto soave quanto dalle cose che abbia toccate quella che si ama; finalmente vedendo che il suo dolore accresceva quello di sua madre e della signora De la Tour, e che i bisogni della casa esigevano lavoro, ajutato da Domingo, si pose nuovamente a coltivare il suo orto.

Non andò guari che quel giovine, indifferente prima come un creolo, per tutto ciò che può accadere al mondo, mi pregò che volessi insegnargli a leggere e scrivere, affine di poter carteggiare con Virginia. Volle anche essere istrutto della geografia per formarsi un’idea del paese in cui ella doveva sbarcare, e volle sapere d’istoria per conoscere i costumi della società nella quale Virginia avrebbe vissuto. Per tal modo il sentimento medesimo dell’amore lo aveva innanzi addestrato alla coltivazione, e gli aveva mostrato l’arte di ridurre in ameno stato il più aspro terreno: certo questa passione ardente ed inquieta, procacciando agi e piaceri, ha dato agli uomini la più parte delle scienze e delle arti; ed è nata invece dalle privazioni la filosofia, la quale insegna a consolarsi in mezzo ad ogni disagio; così la natura, avendo costituito l’amore, il legame di tutte le cose create, lo ha reso la molla principale della società, ed il promotore delle cognizioni nostre e dei nostri diletti.

Paolo non fu gran fatto dilettato dallo studio della geografia, la quale, in luogo di descrivere la natura di ciascun paese, non ce ne dà altro che la partizione politica; nè gli piacque meglio la storia, la moderna specialmente. Egli non vi scorgeva entro che sciagure generali e periodiche, delle quali non intendeva la causa; guerre senza ragione e senza scopo; segreti artificii vilissimi; nazioni senza virtù, e principi senza umanità. Egli leggeva più volentieri i romanzi, i quali versando più di proposito intorno all’umano sentire ed intorno alle umane tendenze, gli mostravano alcuna volta certe condizioni somiglianti alla sua: e veramente nessun libro lo dilettò tanto quanto il Telemaco, a cagione di quelle sue dipinture della vita [p. 61 modifica]campestre, e delle passioni proprie del cuore umano. Qualche volta egli ne leggeva a sua madre ed alla signora De la Tour i passi che lo colpivano maggiormente; ed allora, intenerito da rimembranze commoventi, si soffocava la sua voce e gli occhi erano bagnati di pianto. Parevagli di vedere in Virginia la dignità ed il senno d’Antiope in un colle sventure e con tutta la tenerezza di Eucari. All’opposto, egli fu stomacato dalla lettura dei nostri moderni romanzi, infarciti di usanze e di massime licenziose; e come venne a conoscere che tali romanzi contenevano una pittura esatta della società europea, paventò, e non senza qualche ragionevolezza, che Virginia vi si guastasse e si scordasse di lui.

Era di fatti trascorso oltre un anno e mezzo, e la signora De la Tour non avea per anche avuto alcuna lettera nè di sua zia nè di sua figlia; era questa arrivata in Francia felicemente; ecco tutto ciò che per via indiretta potè saperne. Finalmente un vascello che viaggiava alle Indie, le recò un involto ed una lettera di Virginia. Ad onta delle espressioni circospette di quella amabile ed indulgente creatura, ella comprese che sua figlia era molto infelice. Quella lettera dipingeva sì bene la sua condizione ed il suo naturale, che io la tengo a memoria quasi parola per parola.


«Mia carissima ed amatissima mamma,

«Io vi ho già scritte molte lettere di mio carattere, e non vedendo alcuna vostra risposta, devo pensare che non vi siano arrivate. Spero che questa avrà miglior fortuna, attese le precauzioni che ho prese per darvi le mie nuove ed avere le vostre.

«Ho pur pianto assai da che sono lontana da voi, io che non aveva pianto quasi mai, tranne sulle sventure altrui! Al mio arrivo mia zia fu molto maravigliata, quando, interrogandomi su quello che io sapeva, conobbe ch’io non sapeva nè leggere nè scrivere. Mi domandò allora qual cosa dunque avessi imparata da che era al mondo, ed avendole io risposto che mi era sempre occupata delle cure domestiche e del fare il voler vostro, ella mi disse che ne sapeva altrettanto una serva. Il dì appresso fui messa in educazione in una grande badia, poco lontana da Parigi, dove ho un [p. 62 modifica]gran numero di maestri, i quali, fra le altre cose, m’insegnano la storia, la geografia, la grammatica, le matematiche e la cavallerizza; ma sento di avere sì poca attitudine a tutte queste scienze, che anderò poco avanti. Io m’accorgo che sono una povera creatura che ha poco ingegno, e già que’ signori me lo fanno capire; ma non cessa per questo la bontà di mia zia: ella mi dà abiti nuovi tutte le stagioni; mi ha posto intorno due cameriere che sono abbigliate al pari delle grandi signore; mi ha fatto assumere il titolo di contessa; ma mi ha tolto il mio nome De la Tour, il quale mi era caro quanto lo è a voi stessa per tutte le sciagure alle quali mio padre andò incontro sposandovi, come mi avete raccontato. Ella vi ha sostituito il nome della vostra famiglia, che mi è caro egualmente, avendolo portato voi da fanciulla. Vedendomi posta in uno stato così splendido, l’ho supplicata di mandare anche a voi qualche soccorso. Come farò a riferirvi quello che mi ha risposto? Ma voi mi avete raccomandato di dirvi la verità in ogni cosa. Mi disse ella dunque che il poco non vi gioverebbe a nulla, e che nel genere di vita semplice che voi menate, il molto vi sarebbe d’imbarazzo. Fin dai primi momenti cercai un qualcheduno che vi desse le mie nuove, non sapendo io ancora scrivere; ma, non conoscendo persona di cui potessi fidarmi, ho studiato dì e notte per imparare a leggere e scrivere, e Dio mi ha fatto la grazia che vi sono riuscita in poco tempo. Raccomandai la spedizione delle prime mie lettere alle signore che stanno presso di me; ma credo che le abbiano date a mia zia. Mando questa col mezzo di una mia amica che sta qui in educazione anche ella, e voi dirigerete a lei la vostra risposta, ponendovi la soprascritta che troverete qui unita. Mia zia mi ha interdetto ogni esterna corrispondenza, la quale potrebbe, com’ella dice, attraversare i grandi disegni che ha fatti sopra di me. Ella sola mi vede alla grata, e viene con lei un vecchio signore suo amico, il quale ha, dice ella, una grande inclinazione per me. A dire il vero, io non potrei averne nessuna affatto per lui, quand’anche fosse possibile ch’io ne sentissi per qualcheduno.

«Vivo in mezzo allo sfarzo ed alla ricchezza, senza [p. 63 modifica]poter disporre di un soldo. Dicono che se avessi danaro potrei farne mal uso.

«Fino i miei vestimenti appartengono alle mie cameriere, le quali se li contendono prima che io li smetta. Insomma, nel seno alla dovizia, io sono molto più povera che non lo era presso voi, perchè adesso io non posso donar nulla. Quando ho veduto che dalle grandi scienze che m’insegnavano non poteva cavare di che fare il minimo beneficio, mi sono volta all’ago, che per fortuna voi mi avete posto nelle mani. Vi mando adunque parecchie paja di calze che ho fatte per voi e per mamma Margherita, una berretta per Domingo, ed uno de’ miei fazzoletti rossi per Maria. Metto in quest’involto anche alcuni granelli e nocciuoli tolti dai frutti che mi danno a colazione, unitamente alle semenze di tutte le specie d’alberi che nelle ore di ricreazione ho raccolto nel giardino della badia. Vi ho anche aggiunto la semenza delle mammole, delle margherite, dei ranuncoli, dei papaveri, del garofano azzurro e della vedovella, che ho raccolto ne’ campi. Si trovano nei prati di questo paese fiori molto più belli che nei nostri, ma nessuno vi abbada. Io sono ben certa che tanto voi quanto mamma Margherita aggradirete più questo sacco di semenze che quel funesto sacco di piastre che è stato causa della nostra separazione e delle mie lagrime. Sarà pure il gran contento per me se voi potrete un giorno avere il diletto di vedere i pomi cresciuti a fianco ai banani, ed i faggi intrecciarsi coi nostri cocchi. Voi penserete allora d’essere in Normandia, di cui la memoria vi è tanto cara.

«Voi mi avete raccomandato che vi facessi conoscere le mie consolazioni e le mie pene. Quanto alle consolazioni, io non ne ho più alcuna lungi da voi; le mie pene poi io le vo raddolcendo col pensare che sono in una condizione nella quale mi avete posta voi pel volere di Dio; ma quello che mi dà maggior rammarico, è il non udirmi mai una volta parlare di voi, ed il non poterne parlare con nessuno. Se accade ch’io cerchi di porre il discorso sopra oggetti per me tanto cari, le mie cameriere, o, dirò meglio, quelle di mia zia, che sono più sue che mie, mi dicono: Signorina, ricordatevi che siete francese, e che bisogna che vi [p. 64 modifica]scordiate del paese de’ selvaggi. Ah! mi scorderò piuttosto di me stessa che del luogo dove sono nata, e dove voi vivete: ben piuttosto paese di selvaggi è questo per me, poichè vi passo una vita solitaria, non avendo alcuno a cui poter parlare dell’amore che vi porterò finchè avrò vita.

«O mia carissima e dilettissima mamma.

«La vostra ubbidientissima e tenera figlia

Virginia De la Tour.


«Io raccomando al vostro amore Maria e Domingo, i quali hanno avuto tanta cura di me fanciullina; fate carezze per me a Fedele che mi trovò nel bosco».

Paolo rimase meravigliato fuor di modo, vedendo che Virginia non avea posta neppure una parola per lui, ella che si era ricordata di tutti, perfino del cane; ma egli non sapeva che per quanto lunga sia la lettera di una donna, il pensiero suo più caro si trova sempre in fine.

In un poscritto Virginia raccomandava a Paolo particolarmente due specie di semenze, quella delle mammole e quella delle vedovelle. Ella gli dava alcune istruzioni relative alla natura di questi fiori, ed al sito che bisognava scegliere per collocarli. «La mammola, diceva, dà un fiorellino di color violetto oscuro, ed ama nascondersi sotto i cespugli; ma la deliziosa sua fragranza la palesa sempre». Gli commetteva dunque di seminarla sulla sponda della fontana al piede del suo cocco. «La vedovella, continuava ella, dà un bel fiore d’un turchino languido, con un fondo nero, punteggiato di bianco, pare quasi ch’ella sia vestita a lutto, ed è appunto per questo che la chiamano fior di vedova: le piace di stare ne’ luoghi aspri ed esposti ai venti». Lo pregava quindi di porla sulla rupe dove ella gli avea parlato quell’ultima notte, e di porre per amor di lei a quella rupe il nome di Rupe dell’addio.

Ella avea posto queste due semenze in un borsellino d’un tessuto semplicissimo, ma d’un valore immenso agli occhi di Paolo, chè vi scorse un P ed un V legati insieme e formati di capegli, che per la grande bellezza loro conobbe dover essere di Virginia.

La lettera di quella sensibile e virtuosa fanciulla [p. 65 modifica]fece piangere tutta la famiglia. Sua madre le rispose in nome di tutti ch’ella rimanesse o tornasse a suo piacimento, assicurandola che la sua partenza avea quasi interamente bandita la gioja dalla loro famiglia, e quanto poi a lei, ella trovavasi affatto priva d’ogni consolazione.

Paolo le scrisse anch’egli una lettera molto lunga, in cui l’assicurava che voleva rendere il giardino degno di lei, e volea frammettere le piante d’Europa alle africane, così com’ella aveva intrecciati i loro nomi nel suo lavoro; le mandava alcuni frutti dei cocchi della sua fontana, arrivati a perfetta maturità, e soggiungeva che non volea mandarle alcun’altra semenza dell’isola, affinchè il desiderio di rivederne i frutti le facesse prender consiglio di tornare prontamente. La pregava di secondare il più tosto che le fosse possibile i voti ardenti di tutta la famiglia, ed i suoi in ispecial modo, giacchè egli non poteva oggimai più gustare un filo di gioja lungi da lei.

Paolo seminò con quella maggior diligenza che potè i grani europei e sopratutto quelli delle mammole e delle vedovelle, i quali fiori, descritti com’ella li aveva, pareva che tenessero qualche somiglianza col carattere e collo stato di Virginia, che li aveva sì premurosamente raccomandati; ma sia che quelle semenze si fossero guastate nel tragitto, o sia piuttosto che il clima di quest’angolo dell’Africa non convenga troppo alla loro natura, non ne spuntò che un piccol numero, e non vennero nemmeno a perfezione.

Ma l’invidia, che vede gli uomini molto più felici di quel che sono, specialmente nelle colonie francesi, sparse nell’isola certe voci onde Paolo era inquieto molto. La gente del bastimento che aveva recato la lettera di Virginia, narrava come ella era sul punto di maritarsi: si nominava il grande di corte che dovea essere suo sposo; v’era persino chi affermava essere questo un fatto compiuto e d’esservisi trovato presente. Alla prima Paolo disprezzò una nuova seminata da cotali legni mercantili, che ne spargono di molte false là dove fanno passaggio; ma siccome vari abitanti dell’isola, sotto l’apparenza mentita di pietà, si davano crudelmente cura di fargli condoglianze per quest’accidente, cominciò egli a darvi qualche [p. 66 modifica]credenza; tanto più che in qualche romanzo avea veduto prendersi a gioco il tradimento, e come che sapeva che tali libri contenevano quadri molto fedeli de’ costumi europei, temette non forse la figlia della signora De la Tour vi si fosse guasta a punto di porre sotto i piedi i suoi antichi impegni. Le cognizioni ch’egli aveva acquistate, lo facevano ormai infelice, e s’accrebbero molto più i suoi sospetti al vedere arrivati qui dall’Europa molti legni nello spazio di sei mesi, senza che alcuno avesse recata novella di Virginia.

Quel giovinetto infelice veniva spesso da me col cuor fra le spine, cercando che io colla mia sperienza del mondo confermassi o distruggessi i suoi sospetti.

Io abito, ve l’ho già detto, lontano di qui quattro miglia circa in riva ad un fiumicello che scorre a fianco del monte Lungo. Passo colà i miei giorni senza moglie, senza figli e senza servi. Dopo la rara fortuna di trovare una buona compagna, lo star solo è la vita meno infelice. Chiunque ha avuto grandi ragioni di dolersi degli uomini tende a star solo, ed è cosa che merita riflessione il vedere che tutti i popoli infelici per le loro opinioni, pei loro costumi, ovvero pei loro governi hanno dato numerose classi di cittadini al celibato ed alla solitudine. Questo si vide tra i Greci del basso impero, e vediam questo a’ di nostri tra gli Indiani, i Chinesi, i Greci moderni, gl’Italiani e la maggior parte dei popoli orientali e meridionali dell’Europa.

La solitudine rimette in parte l’uomo nel felice stato di natura, staccandolo dalle sciagure della società. In mezzo ai tanti pregiudizi del mondo l’anima nostra non ha mai posa, ella è agitata continuamente da cento opinioni torbide e fra loro ripugnanti, le quali, nel vortice di una società miserabile ed ambiziosa, servono agli uni per sovrastare agli altri; ma nella solitudine ella mette giù tutte quelle illusioni straniere che la offuscano, e ripiglia il sentimento semplice di sè medesima, della natura e del suo autore. Così quando l’acqua fangosa d’un torrente devastatore delle campagne si arresta in qualche bacino fuor della sua corrente, depone tutta la melma, ripiglia la sua limpidezza, e fatta di nuovo trasparente, riflette le sponde, la verdura e la luce del cielo. La solitudine è proficua al corpo egualmente che allo spirito; gli esempi [p. 67 modifica]maggiori di lunga vita si trovano fra i solitari, e molti ne danno i brami delle Indie. Io credo infine che anche a chi vuol viver bene nel mondo, sia tanto necessaria la solitudine, che mi pare impossibile che si possa gustare a lungo il sentimento di alcun diletto, e porre alcun modo regolare al proprio vivere, se non si procura nell’interno nostro un solitario ricetto, che non lasci uscir fuori quasi mai la nostra opinione e l’altrui non riceva giammai. Io non intendo per questo di sostenere che l’uomo abbia a vivere affatto solo, i suoi bisogni lo legano a tutto il genere umano, deve anch’egli dunque far qualche cosa ad utilità degli uomini, e deve se non altro sè stesso alla natura; ma siccome Iddio ha formato il corpo nostro di varie parti adatte perfettamente ai vari elementi del globo su cui viviamo, ne ha dati piedi per la terra, polmoni per l’aria, occhi per la luce, senza permetterne di mutare a nessuna di dette parti la propria destinazione; ha riservato per sè unicamente, come autore della vita, il cuore, che ne è l’organo primo.

Io passo dunque i miei giorni lontano dagli uomini, ai quali ho cercato di giovare, e mi hanno perseguitato. Dopo aver cercato una gran parte dell’Europa, e qualche angolo dell’Africa, io mi sono stabilito in quest’isola mezzo abbandonata, allettatovi dal suo cielo mite e dalle sue solitudini. Una capanna che ho fabbricata nel bosco a piè di un albero, un campetto che ho dissodato colle mie mani, un fiumicello che scorre davanti la mia porta, mi somministrano il mio bisogno ed i miei diletti, ai quali aggiungo quello di alcuni buoni libri che m’insegnano a vivere meglio: essi mettono a mio profitto quello stesso mondo che ho abbandonato, mi mettono sott’occhio i quadri di quelle passioni che fanno l’uomo sì miserabile fra la gente, e facendo io il confronto di quel vivere col mio, sento un vantaggio negativo. Stando io nella mia solitudine, osservo le tempeste frementi nel mondo, come fa chi scampato dal naufragio siede sopra uno scoglio, ed il sentimento della mia quiete diventa più dolce all’udire lo strepito della tempesta lontana. Dappoichè ho pigliato una strada dove gli uomini non vengono a contendermi il passo, io non li odio più, ma li compiango. Se per caso mi abbatto in qualche infelice, cerco di [p. 68 modifica]correrlo co’ miei consigli, a quella guisa che il passeggiere tende la mano ad uno sciagurato che affoga in un torrente, ma, tranne l’innocenza, io non ho mai trovato chi ascolti le mie parole, invano la natura richiama a sè l’uomo; ognuno se la raffigura consentanea alle proprie passioni, e corre tutta la vita dietro a questa falsa immagine, e si smarrisce, attribuendo poi al cielo quell’inganno che da sè stesso si è fabbricato. Fra i molti infelici che ho tentato qualche volta di ricondurre alla natura, io non ne ho trovato pur uno che non considerasse con grandissima affezione le proprie miserie. Davano tutti dapprima attentissimo orecchio alle mie parole, aspettandone ajuto per venire in fama o per acquistare ricchezza; ma quando s’avvedevano che io non voleva altro mostrar loro fuor che la via di farne senza, pareva ad essi che io stesso fossi un miserabile, non procacciando la sciagurata loro felicità; disapprovavano il mio vivere solitario; affermavano d’essere essi soli apportatori di utilità all’uman genere e facevano ogni potere per ravvolgermi nel vortice loro.

Ma sebbene io mi offra a tutti, non mi abbandono però a nessuno.

Sovente io servo d’istruzione a me medesimo, scorro coll’occhio, ora quieto, quelle vanità che a’ dì passati tennero in agitazione la mia vita, e che ho apprezzato cotanto; la protezione, la ricchezza, la rinomanza, i piaceri e quelle opinioni che sono sempre fra loro a battaglia su tutta la terra. Ho veduto tanti uomini contendersi da furibondi cotali chimere, i quali ora non sono più: io gli assomiglio alle onde del mio fiumicello che rompono e spumano incontro ai sassi che stanno sul fondo, e svaniscono sul momento per non tornare indietro più mai. Quanto a me, lascio portarmi in pace dalla corrente del tempo all’oceano di quell’avvenire che non ha più confine di sponda; e dallo spettacolo che mi offre l’armonia della natura, mi fo scala al mio autore, sperando in un altro mondo una miglior sorte.

Sebbene dal mio romitaggio, posto nel mezzo d’un bosco, non si veda quella quantità di oggetti che appare nel luogo elevato dove ora noi siamo, vi sono tuttavia certe combinazioni ben care ad un uomo qual [p. 69 modifica]sono io, che si piace più nel raccoglimento che nella dissipazione. Il fiume che scorre innanzi alla mia porta, attraversa in diritta linea tutto il bosco, dimodochè egli offre all’occhio mio un lungo canale coperto d’alberi di cento specie, vi sono tatamacchi, vi è il legno d’ebano e vi sono gli alberi che qui son detti legno di pomo, legno d’oliva e legno di cannella; alcuni boschetti di palmizii spingono qua e là in alto i loro fusti lisci ed alti più di cento piedi: su quelli sta un mazzo di fogliami, onde pajono un bosco che si alzi sopra un altro bosco. Le pervinche d’ogni colore si arrampicano ovunque framezzo ai tronchi, e fanno una meravigliosa comparsa, formando qui un arco fiorito e colà un festone verdeggiante; la maggior parte di quegli alberi manda un olezzo aromatico, e la loro fragranza è tale che fino le vesti se ne imbevono, sì che si può qui conoscere se un uomo ha attraversato un bosco anche un’ora dopo che egli n’è uscito. Nella stagione della fioritura sembrano quegli alberi mezzo nevicati. E verso il fine della state, varie specie di uccelli forestieri partono, per forza di un inconcepibile istinto, da paesi sconosciuti, al di là di mari immensi, e qui vengono a fare la ricolta de’ grani e de’ vegetabili di quest’isola; bello è allora a vedere con che vivi colori fanno contrasto alla verdura degli alberi imbruniti dal sole; e fra i molti sono osservabili varie specie di pappagalli, ed il colombo turchino che qui è detto colombo olandese. Le scimmie paesane di questi boschi scherzano framezzo alle folte frasche, per entro alle quali campeggia il verde grigio del loro pelo ed il nero de’ loro musi; alcune appiccate per la coda, stanno penzolanti in aria, altre saltano di ramo in ramo, portando in braccio i loro figliuolini. Giammai lo schioppo traditore ha spaventati questi pacifici figli della natura. Colà non si odono che liete grida, e ripetuto di lontano dall’eco dei boschi il garrire ed il cantare sconosciuto di qualche uccello proveniente dalle terre australi. Il fiume che scorre gorgogliando sul suo letto sassoso framezzo alle piante, riflette qua e là nelle sue acque limpide le masse venerande d’antiche ombre e di verzura, e riflette ancora i trastulli di que’ felici abitatori: più lunge mille passi quel fiumicello cade giù per una scala di scogli, formando un velo di cristallo, [p. 70 modifica]rotto a mano a mano dai sassi e convertito in spuma. In quel luogo il tumulto delle acque manda mille suoni confusi, che, portati dal vento nel bosco, ora si perdono in lontananza, ed ora avvicinandosi rapidamente, vengono ad assordare, somiglianti al frastuono di molte campane. L’aria messa continuamente in moto dall’impeto della corrente, mantiene sulla sponda di quel fiume, ad onta degli ardori estivi, un verde ed una frescura tale, che il simile non si può godere quasi mai in quest’isola nemmeno salendo sulle cime dei monti.

Poco quindi lontano è una rupe discosta sì dalla caduta di quelle acque, che il grande romore non vi aggiugne, è sì vicina che se ne può godere la vista, il fresco ed un grato susurro. Qualche volta ne’ dì caldissimi noi andavamo a desinare all’ombra di quella rupe, la signora De la Tour, Margherita, Virginia, Paolo ed io. E siccome Virginia volgeva sempre al bene altrui le sue azioni anche più comuni, ella non mangiava un frutto ne’ campi senza piantar quindi il suo nocciolo od i granelli. «Ne verrà, diceva ella, una pianta, che darà i suoi frutti a qualche viaggiatore, o se non altro ad un uccello». Un giorno dunque, avendo ella mangiato una papaja al piè di quella rupe, pose ivi in terra la semente di quel frutto; poco appresso vi spuntarono molte papaje, fra le quali ve n’avea una femmina, vale a dire di quelle che danno frutto. Quell’albero non arrivava al ginocchio di Virginia quando ella partì; ma siccome egli viene rapidamente, due anni dopo erasi levato da terra venti piedi, ed il suo fusto mostrava sulla cima più giri di frutti maturi. Paolo, essendo passato per colà a caso, fu tutto lieto di vedere quel grande albero uscito da un granello, piantato, come egli aveva veduto, dalla sua cara; ma nello stesso tempo lo colse una fiera malinconia, alla vista di quel testimonio della lunga di lei lontananza. Gli oggetti che ci stanno sempre sott’occhio non ci danno punto a conoscere la rapidità del viver nostro, essi invecchiano con esso noi d’un tenore insensibile. Ma se alcuno all’improvviso ne rivediamo che da qualche anno non si fosse veduto, quel ne avverte della prestezza con cui scorre la corrente de’ nostri giorni. Paolo fu tanto meravigliato e tanto contristato al vedere quella grande [p. 71 modifica]papaja carica di frutti, quanto lo è un viaggiatore, il quale, dopo una lunga assenza dalla sua patria, non vi trova più al suo tornare i suoi coetanei, ma véde, in vece di quelli, i loro figliuoli, ch’egli avea lasciati in fasce, divenuti già padri. Talora egli voleva atterrarla, chè troppo chiaramente vedevasi in essa notato il lungo tempo trascorso dopo la partenza di Virginia, e talora, guardandola come un monumento della beneficenza di lei, ne baciava il tronco, e le diceva parole piene d’amore e di desiderio. «Oh pianta, di cui la progenie non è ancora spenta, io ti ho veduto con maggiore affetto, e con più venerazione che i romani archi trionfali. Deh faccia la natura, la quale dissolve ed abbassa i monumenti della regale superbia, che crescano ed esultino in questi boschi quelli della beneficenza di una povera fanciulla!»

Io era dunque sicuro di ritrovar Paolo al piede di quella papaja allorchè egli veniva ne’ miei dintorni. Un giorno ve lo trovai oppresso da una grande mestizia. E fu allora tenuto da noi un ragionamento che vi dirò, se pure non vi ho già nojato colle mie lunghe digressioni, condonabili all’età mia ed alla cara ricordanza di quegli ultimi miei amici. Io vi sporrò quel nostro ragionamento in forma di dialogo, perchè voi abbiate campo di avvertire quanto senno era naturalmente in quel giovine; e potrete di leggieri distinguere gli interlocutori, dal senso delle sue domande e delle mie risposte.

Egli mi disse: «Io sono accorato assai; sono passati due anni e due mesi dal giorno che partì la giovinetta De la Tour, e noi non ne sappiamo niente da otto mesi e mezzo. Ella è ricca, io sono povero; ella mi ha dimenticato. Penso d’imbarcarmi: anderò in Francia, servirò il re, mi procaccerò ricchezza, diventerò un gran signore, ed allora la zia della signora De la Tour mi concederà che prenda in moglie la sua nipote.

il vecchio

Deh! mio caro amico!... Non mi diceste voi che non avete nobiltà di natali?

paolo

Questo è ciò che dice mia madre; quanto a me non [p. 72 modifica]so che cosa sia nobiltà di natali. Io non mi sono mai accorto d’averne meno di un altro, nè che gli altri ne abbiano più di me.

il vecchio

In Francia la mancanza della nobiltà vi chiude il passo alle alte cariche. Non basta; voi non potete nemmeno essere ammesso in alcun corpo scelto.

paolo

Voi mi avete detto più volte che in Francia qualunque persona della infima condizione poteva aspirare a tutto; da ciò deriva, dicevate voi, la grandezza della Francia; e mi avete anche nominati molti uomini celebri, i quali vennero di basso stato, e fecero niente di meno onore alla patria. Voi volevate dunque fare inganno al mio coraggio.

il vecchio

A Dio non piaccia, figliuol mio, ch’io abbatta mai il coraggio vostro. Io vi ho detto la verità parlando dei tempi andati; ma le cose sono ben cangiate a’ dì presenti: tutto è ora posto a prezzo in Francia. Le cariche tutte sono patrimonio spettante ad un piccol numero di famiglie, ovvero appartengono agli ordini nobili. Il re è un sole cui fanno cerchio attorno a guisa di nebbia densa i grandi e tutte le elette congreghe, sì che è cosa quasi impossibile che venga a cadere sopra di voi uno de’ suoi raggi. In altri tempi, stando un governo meno complicato, si videro benissimo di que’ fenomeni de’ quali vi ho parlato: sorsero allora l’ingegno ed il merito da ogni banda, come sorgono belle le biade da un terreno dissodato di fresco. Ma i grandi re, ai quali è dato di conoscere gli uomini, sono ben pochi. Il volgo dei re non si muove che a seconda dell’urto ricevuto dal gran cerchio de’ grandi e degli ordini illustri.

paolo

Ma io potrò forse trovare in uno di que’ grandi un protettore.

il vecchio

Per avere la protezione de’ grandi bisogna o pascere [p. 73 modifica]la loro ambizione o farsi strumento de’ loro piaceri: voi non ne fareste nulla, chè non siete nobile e sentite l’onore.

paolo

Ma io farò azioni sì coraggiose, terrò la mia parola con tanta fermezza, sarò sì esatto nell’adempiere il mio dovere, sì caldo e sì costante nell’amicizia, che arriverò a meritarmi d’essere adottato da qualcuno di que’ grandi, come ho veduto che si usava ai dì passati nelle istorie che mi avete fatto leggere.

il vecchio

Ah! mio caro, appresso i Greci ed appresso i Romani anche a’ di del loro decadimento, i grandi veneravano la virtù; ma fra i molti uomini celebri che noi abbiamo veduto uscire dall’ordine popolare, io non ne so pur uno che sia stato adottato da una gran casa. Se mancassero i nostri re, la virtù in Francia sarebbe condannata a rimanersi plebea in eterno: essi, dove giungono ad iscoprirla, la pongono, come vi dissi, in onoranza; ma a questi di sono posti a prezzo anche quegli onorati contrassegni che erano riservati alla virtù sola.

paolo

Se non potrò ottener nulla presso un grande, io cercherò di farmi caro a qualcuno degli ordini distinti, abbraccerò tutto il suo pensare, le sue opinioni e procurerò di essere amato.

il vecchio

Voi seguirete dunque l’usanza generale, facendo tacere la coscienza, per salire in alto.

paolo

Oh! non mai! io non seguirò altro che il vero.

il vecchio

Invece dunque di farvi amare vi farete odiare di certo. Eppoi, che preme agli ordini de’ potenti lo scoprire la verità? L’ambizioso non si travaglia punto delle opinioni della gente: a lui basta di tenere il governo. [p. 74 modifica]

paolo

Quanto sono disfortunato! Tutto mi è avverso. Io sono dunque condannato a strascinare la vita lavorando bassamente lungi da Virginia! e qui mandò un alto sospiro.

il vecchio

Iddio sia il vostro unico protettore, l’uman genere sia la vostra nobiltà, a questi siate fermamente affezionato. I grandi, i nobili, i popoli, i re hanno i loro pregiudizj e le loro passioni; per servirli bisogna molte volte darsi al vizio: ma Iddio, ma il genere umano non domandano altro che virtù.

Ma ditemi, di grazia, e perchè volete voi essere distinto dal restante degli uomini? Questo desiderio non è consentaneo alla natura, giacchè se lo avesse ogni uomo, ogni uomo sarebbe in guerra col suo vicino: contentatevi di adempiere il vostro dovere nella condizione in cui la provvidenza ha voluto porvi; benedite la fortuna che vi concede d’essere indipendente dal pensare altrui, più felice de’ grandi ai quali è forza riporre la loro felicità nell’opinione de’ piccoli, e più felice di questi che sono destinati a strisciare sotto i grandi per guadagnarsi il pane. Voi siete posto in una terra ed in uno stato, in cui potete procurarvi sostentamento senza essere costretto nè ad ingannare, nè ad adulare, nè ad avvilirvi, come fanno in Europa quasi tutti quelli che vogliono far fortuna; la vostra condizione non vi rende impossibile nessuna virtù; voi potete impunemente essere buono, veritiero, franco istrutto, paziente, temperante, casto, indulgente, pio; qui non v’è chi metta in derisione la vostra fiorente saviezza. Il cielo vi ha dato libertà, salute, una coscienza netta, ed amici. I re, de’ quali ambite il favore, sono, credete a me, meno felici di voi.

paolo

Ah! mi manca Virginia! e senza lei io non ho nulla, con lei io avrei tutto. In lei sta la mia nobiltà, la mia gloria e la mia ricchezza. Ma, in conclusione, poichè sua zia non vuol maritarla che ad un uomo di gran nome, collo studio e coi libri si acquista sapere e [p. 75 modifica]celebrità; io mi do subito a studiare, diverrò dotto, gioverò alla patria coi miei lumi, senza far danno a nessuno, e senza dipendere da chicchessia; verrò in grande fama, e la mia gloria almeno sarà tutta mia.

il vecchio

Figliuol mio, la dote dell’ingegno è ancor più rara che la nobiltà e le ricchezze, ed è anche un bene oltre ogni comparazione maggiore, giacchè nessuno può toglierlo e dappertutto ci procaccia la pubblica stima: ma questo bene si compera a caro prezzo: egli si acquista col sopportare privazioni d’ogni specie, e deriva da un sentire dilicato che ci fa soffrire internamente, e di fuori eziandio per le persecuzioni de’ nostri contemporanei. L’uomo togato in Francia non invidia la gloria del campo, nè il soldato porta invidia all’uomo di mare; ma dove vogliate farvi valere coll’ingegno avrete rivale ognuno, chè ognuno si picca d’avere ingegno. Voi dite che gioverete alla patria; ma quegli per cui il terreno frutta una spica di più, non le reca forse maggior vantaggio di chỉ le dà un libro?

paolo

Ah! certamente colei che piantò questa papaja fece agli abitatori di questi boschi un dono utile e soave ben più che se avesse loro data una biblioteca, dicendo questo abbracciò quella pianta e la baciò affettuosamente.

il vecchio

Il migliore fra tutti i libri, quello che altro non raccomanda tranne l’uguaglianza, la benevolenza, l’umanità e la concordia, l’Evangelo, non servì esso per molti secoli di pretesto a mille crudeltà fra gli Europei? Quanti atti tirannici si fanno tuttora in nome di quello sulla terra e solennemente e di cheto? Dopo ciò chi oserà sperare di apportar giovamento agli uomini con un libro? Vi sovvenga qual sorte ebbero quasi tutti i filosofi che vollero mostrare all’uomo la sapienza; Omero, che la rivestì di sì bei versi, andò limosinando fin che visse. Socrate, che la insegnò agli Ateniesi sì dolcemente co’ suoi ragionari e co’ suoi costumi, fu da quelli giuridicamente avvelenato. Il [p. 76 modifica]sublime suo scolaro Platone fu cacciato in bando da quello stesso principe che lo proteggeva: e prima di quelli, Pitagora, umano fin verso gli animali, fu arso vivo dai Crotoniati. Ma che vo’ io narrando? La fama stessa di quasi tutti quegli uomini illustri è arrivata a noi macchiata da qualche tratto satirico, onde vengono caratterizzati, poichè l’umana ingratitudine gode di riconoscerli a tali vergognosi contrassegni; che se la gloria di qualcheduno fra i molti è giunta fin qui chiara e pura, ciò è avvenuto per aver que’ tali passata la vita fuori dal consorzio de’ loro coetanei, a quella guisa che in Grecia ed in Italia si traggono dal terreno intatte le statue, perchè stando sotterra hanno potuto sottrarsi al furore de’ barbari.

Voi vedete dunque che per fare acquisto della procellosa fama letteraria bisogna avere un gran capitale di virtù, ed essere anche presti a sagrificare la propria vita. E dopo tutto ciò, credete voi che i ricchi facciano stima di questa fama? Essi non volgono neppure lo sguardo all’uomo di lettere, a cui la dottrina non arreca nè dignità, nè governo, nè accesso a corte. Tutto si vede con occhio indifferente in questo secolo, la fortuna sola ed i piaceri sono cercati avidamente, ma i lumi e la virtù non conducono a nessuna onoranza, perchè lo stato ha posto a prezzo d’oro ogni cosa. A’ passati tempi le cariche ecclesiastiche, gli offici della magistratura e quei del governo erano premio delle scienze; oggi esse non possono che fare libri. Ma questa facoltà, tuttochè disprezzata dal mondo, è niente meno degna della sua origine celeste. Egli è officio speciale di quei libri medesimi il porre in onore la virtù celata, il consolare gl’infelici, l’illuminare le nazioni, ed il dire il vero perfino ai re; è questo, senza dubbio, il più augusto incarico con cui possa il cielo onorare un mortale sulla terra. Qual sarà lo scrittore che, ingiustamente trascurato da coloro che hanno in mano i beni della fortuna, non si consoli, pensando che l’opera sua anderà di secolo in secolo e di nazione in nazione a muovere guerra eterna all’errore ed alla tirannia, e che dall’oscuro luogo ove menò la vita, uscirà tal nome, presso cui saranno un nulla quelli di quasi tutti i re, dei quali i monumenti cadono nell’obblio, ad onta degli adulatori che li hanno levati al cielo con ogni lode? [p. 77 modifica]

paolo

Ah! non vorrei avere una tal gloria che per farne partecipe Virginia e renderla cara a tutto il mondo. Ma voi, a cui sono note tante cose, ditemi se arriverò a sposarla. Io vorrei acquistar dottrina almeno per poter vedere l’avvenire.

il vecchio

Ah! figliuol mio, chi sopporterebbe più la vita dove si conoscesse l’avvenire? Se un solo guajo preveduto ne dà sì vani affanni, la vista di un guajo certo avvelenerebbe tutti i giorni che lo precederebbero. Non bisogna neppure indagare troppo addentro i beni ed i mali che ci stanno attorno, ed il cielo, che ne ha dato una mente per prevedere i nostri bisogni, ci ha poi collocati in mezzo a mille bisogni per mettere un freno alla mente medesima.

paolo

Voi dite che col danaro si acquistano in Europa dignità ed onori. Io anderò dunque a farmi ricco al Bengala, per poter quindi sposare Virginia a Parigi; corro a pormi in mare.

il vecchio

E che voi potreste abbandonare sua madre e la Vostra?

paolo

Me l’avete suggerito voi stesso di andare alle Indie.

il vecchio

Allora Virginia era qui; ma adesso vostra madre e la sua non hanno altro sostegno che voi solo...

paolo

Virginia manderà loro soccorso; ella ha una zia tanto ricca!

il vecchio

I ricchi non fanno quasi mai del bene che a quelli che fan loro onore; essi hanno altri parenti ben più miseri che la signora De la Tour, i quali per [p. 78 modifica]mancanza d’ogni soccorso si procacciano pane col sagrifizio della loro libertà, e traggono una vita miserabile rinchiusi nei monasteri.

paolo

Oh, qual terra è ella mai questa vostra Europa! Ah! bisogna assolutamente che Virginia torni qui: qual necessità ha essa di una parente ricca? Ella era sì contenta in queste nostre capanne, sì bella e sì bene ornata con un fazzoletto rosso in testa o con un mazzo di fiori! Ah! torna, Virginia, lascia i tuoi palagi e quelle grandezze tue! torna fra queste rupi, all’ombra di questi boschi e de’ nostri cocchi! Ahimè, forse in questo momento tu sei infelice!... e qui piangeva. Ah! padre mio, non mi nascondete nulla: se voi non sapete dirmi se io la sposerò, ditemi almeno se ella mi ama ancora, sebbene circondata da quei grandi signori che parlano col re.

il vecchio

Mio caro amico, io sono certo che ella vi ama, per molte ragioni, ma sopratutto perchè è virtuosa. Udendo egli questo mi balzò al collo, e mi abbracciò lietissimamente.

paolo

Ma pensate voi veramente che le donne europee siano piene d’inganni come vengono dipinte nelle commedie ed in quegli altri libri che mi avete dato a leggere?

il vecchio

Le donne sono ingannatrici ne’ paesi dove gli uomini sono tiranni; dappertutto la violenza fa nascere l’astuzia.

paolo

Come mai si può essere tiranni delle donne?

il vecchio

Maritandole senza badar punto alla loro inclinazione, una giovinetta con un vecchio, una donna sensibile con un uomo freddo. [p. 79 modifica]

paolo

E perchè non maritare piuttosto fra loro quelli che stanno bene insieme? I giovani colle giovani, gli amanti colle amanti.

il vecchio

Perchè in Francia quasi tutti i giovani hanno facoltà troppo ristrette per potere accasarsi, e quando si sono procacciato un avere, sono già vecchi. Da giovani dunque seducono le mogli del loro prossimo; e fatti vecchi, sono incapaci di farsi amare dalle loro spose; hanno tesi inganni essendo giovani, il giuoco si cambia e rimangono ingannati da vecchi: è questa una delle rappresaglie di quella giustizia universale che regge il mondo: un eccesso ne contrappesa un altro. Per tal modo la maggior parte degli Europei mena la vita in questo doppio stato di disordinatezza, la quale cresce in una società quanto cresce la ricchezza di pochi e la miseria dei più. Lo stato somiglia un giardino, in cui le tenere pianticelle non possono venir su dove siano ombrate da altre troppo alte; ma il caso è poi differente, chè la bellezza del giardino può consistere benissimo in un piccol numero di alti alberi, laddove la prosperità dello stato risulta sempre da un gran numero di sudditi uguali, e non già da un piccol numero di ricchi.

paolo

Ma qual bisogno vi è d’essere ricchi per ammogliarsi?

il vecchio

Per poter vivere agiatamente senza far nulla.

paolo

Perchè non si deve lavorare? io lavoro pure!

il vecchio

Perchè in Europa il lavoro delle braccia reca disonore, chiamasi colà opera meccanica; fino il lavoro de’ campi vi è in dispregio, anzi, quel più d’ogni altro. Un artigiano è tenuto molto da più che un contadino. [p. 80 modifica]

paolo

E che l’arte che dà a mangiare agli uomini è disprezzata in Europa? ah! io non vi capisco.

il vecchio

E veramente non è possibile che un uomo allevato in uno stato naturale arrivi a comprendere le depravazioni della società. Si può ben formarsi un’idea chiara dell’ordine, ma del disordine non mai. La bellezza, la virtù, la felicità, hanno certe loro proporzioni; ma la deformità, il vizio e la sciagura non ne hanno alcuna.

paolo

Ella è dunque ben grande la fortuna dei ricchi! nessun ostacolo ai loro desiderii, essi possono colmare di felicità gli oggetti da loro amati.

il vecchio

Quasi tutti hanno fatto il callo nei piaceri, e più non li gustano, per ciò appunto che li ottengono senza pena. Non avete voi sperimentato che il piacere del riposo vien dopo la fatica, quel del mangiare vien dalla fame e quello del bere dalla sete? Or bene, anche quello dell’amare e dell’essere riamati si acquista per forza di una infinità di privazioni e di sagrifici. Ma le ricchezze privano i ricchi di tutti questi piaceri coll’impedir loro di sentire alcun bisogno. Mettete ancora la noja che conseguita le loro sazietà, e mettete l’orgoglio che loro dà l’opulenza, il quale s’irrita per la più piccola privazione anche allorquando si è reso indifferente al possesso di più gran cose. La fragranza di mille rose piace per un momento, ma la puntura d’una spina duole più a lungo. Un male framezzo ai diletti è una spina tra i fiori per l’uomo ricco. Laddove per i poveri un piacere in mezzo ai mali è un fiore framezzo alle spine del quale godono in un modo squisito. Ogni forza si fa maggiore nel contrasto. La natura ha posto ogni cosa in bilancia. Ponderando bene tutto, vorreste voi non avere quasi niente a sperare e tutto a temere, ovvero non aver quasi nulla a temere e tutto a sperare? il primo partito è quello dei [p. 81 modifica]ricchi, il secondo è quello de’ poveri. Ma cotali estremi sono egualmente troppi, l’uomo non vi regge, chè il suo ben essere consiste nella mediocrità e nella virtù.

paolo

Che cosa vuol dire virtù?

il vecchio

O figliuol mio! voi che sostentate la vostra famiglia colle vostre fatiche non avete bisogno di saperne la definizione. La virtù è quello sforzo che facciamo contro di noi stessi pel bene altrui e coll’intenzione di piacere a Dio solo.

paolo

Oh quanto mai è virtuosa Virginia! Per virtù soltanto ella è andata a cercare ricchezza, soltanto per poter far del bene. Per virtù ella è partita da quest’isola, la virtù ve la ricondurrà.

L’idea del vicino ritorno di lei riscaldava l’immaginazione di quel giovine, e tutti i suoi timori si dileguavano. Virginia non aveva scritto; questo era un segno evidente del suo prossimo ritorno! Il viaggio d’Europa si poteva far così presto col favore di un buon vento! E qui andava accennando tutti i vascelli che avean fatto questo tragitto di quattromila e cinquecento leghe in meno di tre mesi; ma il vascello sul quale era Virginia non dovea impiegarne che due al più. I carpentieri sono cotanto periti nell’arte di costruire un vascello, ed i marinai ne sanno tanto! Egli ragionava dei preparativi che voleva fare per riceverla, della nuova abitazione che intendeva di fabbricare, dei diletti sempre variati che voleva procurarle quando fosse divenuta sua moglie. Sua moglie!!! Questo pensiero lo trasportava fuor di sè: «Allora vedete, padre mio, mi diceva egli, voi non lavorerete più se non quanto vorrete per vostro trastullo. Colle ricchezze di Virginia noi acquisteremo molti schiavi, essi lavoreranno per voi. Voi starete sempre con noi senza aver a pensare ad altro che a divertirvi.» E correva a portare in seno alla sua famiglia la gran gioja ond’era tutto pieno.

I grandi timori tengono dietro prontamente alle grandi [p. 82 modifica]speranze. Le passioni calde spingono sempre l’anima agli estremi opposti. Il giorno appresso Paolo tornava da me, abbattuto dalla mestizia, e dicevami: «Virginia non iscrive... ma se ella fosse partita d’Europa mi avrebbe pure avvertito della sua partenza. Ah! le voci che abbiamo udite sono pur troppo veraci! Sua zia l’ha sposata ad un gran signore, l’amore della ricchezza l’ha guasta come le altre. In que’ libri che dipingono così al vivo le donne di colà, la virtù non è altro che fola da romanzi. Ah! se Virginia fosse stata virtuosa non avrebbe abbandonata sua madre e me; mentre io mi struggo pensando a lei, ella mi ha già dimenticato. Io mi accoro, ed ella si diverte: ah! questo pensiero mi mette alla disperazione. Ogni lavoro mi viene a noja, ogni società m’infastidisce. Ah! volesse il cielo che vi fosse guerra alle Indie: io anderei colà a morire.

— Deh, figliuol mio! io gli risposi, il coraggio che ci spinge a morire è coraggio d’un momento, riscaldato spesse volte dal vano applauso degli uomini. Ve n’ha uno più bello e necessario, che ci fa sopportare tuttodì senza testimoni e senza elogio le avversità della vita: esso è la pazienza; questa non è fondata nell’opinione altrui, o sull’impulso delle nostre passioni, ma nella volontà di Dio. La pazienza è il coraggio dell’uomo che ha virtù.

— Ah! esclamò egli, io sono dunque senza virtù affatto, perchè tutto mi costerna, tutto mi dispera.

Io ripigliai: «Una virtù sempre uguale, costante, invariabile non è umana dote. In mezzo alle tante passioni onde siamo combattuti, la nostra ragione vacilla qualche volta e si spegne; ma vi sono certi fari ove noi possiamo riaccenderla, e sono le lettere. Le lettere, figliuol mio, sono un soccorso del cielo. Esse sono raggi di quella sapienza che governa l’universo, e l’uomo, ispirato da un’arte celeste, ha trovato modo di arrestare questi raggi sulla terra. Come i raggi del sole danno esse lume, calore ed allegrezza: sono esse un fuoco divino, ed a guisa del fuoco assoggettano la natura tutta al nostro uso. Per loro noi chiamiamo d’intorno a noi medesimi le cose, i luoghi, gli uomini ed i tempi esse ne richiamano ad una vita ordinata, esse calmano le passioni, reprimono i vizii, e rincorano la virtù cogli esempi chiari degli uomini che l’hanno [p. 83 modifica]praticata, ai quali esse rendono il dovuto onore. Sono figlie del cielo che scendono sulla terra per addolcire le sciagure dell’umano lignaggio. I grandi scrittori che esse ispirarono, comparvero sempre ne’ tempi più duri per l’umana società, quelli della barbarie e della generale depravazione. Le lettere, figliuol mio, hanno dato conforto a molti uomini ben più infelici di voi: n’ebbe consolazione Senofonte, esiliato dalla sua patria dove aveva condotto a salvamento diecimila suoi concittadini; ricorse a quelle Scipione l’Africano, stanco delle calunnie dei Romani; Lucullo, infastidito dai loro brogli, e Catinat stomacato dalla ingratitudine della corte. I Greci, ingegnosi in tutte le cose, avevano affidato a ciascuna delle muse una delle nostre facoltà intellettuali, affinchè ne tenesse il governo, e noi dobbiamo porre sotto al loro reggimento le nostre passioni, acciocchè elle vi mettano freno e giogo: devono esse reggere le potenze dell’anima nostra sì come le Ore reggevano cavalli del Sole. Leggete, figliuol mio, i saggi che ci hanno lasciato i loro scritti, sono viaggiatori che hanno battuto prima di noi il sentiero della sventura, e ci dan mano, offerendone la loro compagnia, quando il mondo tutto ne abbandona. Un buon libro è un buon amico.»

— Oimè! sclamava Paolo, che io faceva senza lettere quando aveva meco Virginia; ella non ne sapeva nulla più di me; ma quando mi dava un’occhiata, chiamandomi suo amico, non era possibile che rimanesse in me ombra di tristezza.

— Egli è indubitato, io gli diceva, che non vi è amicizia più soave di quella d’una donna che ci ama. La donna possiede inoltre un’allegrezza leggiera che fa svanire la mestizia dell’uomo; al brillare delle sue grazie spariscono le nere fantasime del nostro pensiero grave: le attrattive del suo volto ispirano la confidenza, la sua gioja avviva ogni altra gioja: qual fronte al suo sorriso non si fa serena? Qual furore non disarmano le sue lagrime? Tornerà Virginia più saggia che voi non siete, stupirà molto al vedere che non si è ancor data l’ultima mano al giardino, mentre ella colà, lontana da sua madre e da voi, perseguitata da sua zia, ciò nondimeno ad altro non pensa che a farlo più gajo. [p. 84 modifica]

Il pensiero che Virginia doveva tornar presto gli dava nuova lena, e lo riconduceva alle campestri sue occupazioni, consolando le sue pene col porgli innanzi agli occhi lo scopo soave del suo lavoro.

Una mattina, al far del giorno (era il 24 dicembre 1744), Paolo, all’alzarsi, vide sventolare una bandiera bianca sul monte della Scoperta. Questo segno voleva dire che si vedeva un vascello in mare. Egli corse alla città per vedere se mai arrivassero nuove di Virginia. Rimase colà aspettando che tornasse il piloto del porto, il quale era andato a riconoscere il legno, com’è l’usanza. Tornò il piloto verso sera, e riferì al governatore che il vascello arrivato era il Saint-Geran, avente la portata di settecento tonnellate e comandato da un capitano, per nome Aubin: che era discosto quattro leghe, e che non verrebbe a dar fondo a Porto-Luigi che il dì vegnente, dopo desinare, quando il vento lo permettesse, giacchè in quel momento non ve n’era niente affatto; consegnò al governatore le lettere che quel vascello recava di Francia, fra le quali ve n’aveva una per la signora De la Tour della mano di Virginia. Paolo l’afferrò prontamente, la baciò con trasporto di allegrezza, se la pose in seno, e volò a casa. Appena potè scorgere la famiglia che lo aspettava sulla rupe dell’Addio, egli levò in alto la lettera, senza poter proferire parola; si radunarono subito tutti nella casa della signora De la Tour per udirne la lettura. Virginia partecipava a sua madre d’avere sofferti molti cattivi trattamenti da sua zia, la quale aveva tentato di maritarla per forza, poscia l’aveva diseredata, e finalmente l’aveva cacciata via in un tempo da non poter arrivare nell’isola di Francia se non nella stagione delle burrasche; ch’ella aveva fatto ogni suo potere per muoverla a pietà, mettendole innanzi il debito che aveva di osservare la soggezione verso sua madre, e la forza delle inclinazioni formate dalla tenera età, ma che tutto fu invano: che le fu dato della pazza, guasta il capo dai romanzi; ch’ella non aveva ora altro sentimento toltone quello del piacere ch’era per provare rivedendo ed abbracciando la sua cara famiglia, della qual cosa ella aveva un grandissimo desiderio, e lo avrebbe appagato in quel dì medesimo, se il capitano le avesse [p. 85 modifica]dato licenza di porsi nel battello del piloto; ma che egli non aveva voluto permettere ch’ella partisse, per essere troppo lungo il tragitto, e per esservi in alto una grande ondosità, ad onta che non regnasse alcun vento.

Finita la lettura di quella lettera, tutta la famiglia piena di gioïa gridò: «Virginia è arrivata!» Padrone e servi si abbracciavano per tenerezza. La signora De la Tour disse a Paolo: «Figlio, andate ad avvertire il nostro vicino che Virginia è arrivata.» Allora Domingo accese prontamente una fiaccola di legno-tondo, e con lui venne Paolo a casa mia.

Erano forse le dieci ore della sera, ed avendo io spento in quel punto la mia lucerna, mi era posto a letto, quando vidi fuori delle fessure dell’uscio una luce nel bosco poco appresso intesi chiamarmi, e conobbi la voce di Paolo. Mi alzo, mi rivesto in fretta, ed ecco che Paolo fuor di sè e tutto ansante mi balza al collo, dicendo: «Su, su, andiamo, è arrivata Virginia! Andiamo al porto, chè all’alba il vascello vi darà fondo.»

C’incamminammo senza più, ed al passare i boschi del monte Lungo, avendo noi già presa la strada che dai Pamplemussi conduce al porto, udii il calpestìo di qualcuno che veniva dietro di noi. Era un moro che andava frettolosamente; quando arrivò a noi, io lo richiesi d’onde venisse e dove andasse con sì gran fretta: «Vengo, mi rispose, dal quartiere della Polvere d’Oro; sono spedito al porto per dare avviso al governatore che un vascello francese ha dato fondo presso l’isola d’Ambra, e che dà segno col cannone d’aver bisogno di soccorso perchè il mare è perverso assai.» Ciò detto, quell’uomo seguitò premurosamente il suo cammino. Io dissi a Paolo: «Andiamo ad incontrarla al quartiere della Polvere d’Oro; quel luogo non è lontano di qui altro che tre leghe.» Volgemmo dunque i passi verso il nord dell’isola. Il caldo era soffocante, tre grandi cerchi neri stavano intorno alla luna, levata allora; il resto del cielo orrendamente fosco. Al lume degli stessi lampi si vedevano lunghe file di nuvole nere e densissime occupare tutta l’isola, venendo via basse e con un moto rapidissimo, sebbene a terra non facesse alcun vento. Nell’andare ci parve di udire strepito di tuono lontano; ma, dando attento orecchio, si [p. 86 modifica]riconobbe essere il cannone ripetuto dall’eco; que’ colpi di cannone e l’aspetto di un cielo procelloso, mi fecero rabbrividire. Io intendeva essere quelli il segnale sicuro di un vascello ridotto all’estremo: mezz’ora dopo il cannone tacque affatto, e quel silenzio mi diede uno spavento maggiore.

Noi andavamo innanzi con grande fretta senza proferire parola, chè nissuno ardiva parlare di quello che temeva; finalmente, sudando da capo ai piedi, fummo verso mezzanotte alla spiaggia della Polvere d’Oro; era spaventevole il romore delle onde che vi si frangevano, le quali andavano tratto tratto a ricoprire gli scogli e la sabbia di una schiuma bianca abbagliante, dentro alla quale apparivano scintille di fuoco: quella luce fosforica ci fece notare, ad onta del gran bujo, le barchette de’ pescatori, ch’essi avevano a lor potere allontanate dal mare.

Poco quindi lontano vedemmo nel bosco un fuoco, intorno al quale eransi radunate molte persone, e noi vi ci avvicinammo per pigliarvi un po’ di riposo, mentre aspettavamo il dì chiaro. Stando noi colà seduti, uno di quella gente ci raccontò come il dì innanzi, dopo desinare, avea veduto un vascello che dall’alto mare veniva con grande impeto verso l’isola spintovi dalle onde; che attesa l’oscurità della notte lo aveva perduto di vista, che due ore dopo il tramonto del sole lo aveva udito chiamare ajuto col cannone; ma che il mare era sì tristo, che non era stato fattibile porre in acqua alcuna barca per andare a lui; che dopo un istante gli era parso di ravvisare i suoi fanali, lo che posto, aveva una grande paura che quel vascello che si era avvicinato cotanto al lido, non fosse per avventura passato fra la terra e l’isoletta d’Ambra, scambiando questa per la punta di mira presso alla quale passano i vascelli che vanno a dar fondo a Porto-Luigi; che dove ciò fosse realmente, non potendolo egli affermare, quel vascello sarebbe in un grandissimo pericolo. Un altro prese a dire, e ci assicurò d’avere attraversato molte volte il canale che separa l’isola d’Ambra dalla costa, che lo aveva minutamente scandagliato, che vi era un fondo eccellente, e che il vascello poteva rimanervi al sicuro come in un buon porto. «Io vi porrei, aggiunse egli, tutto quello che [p. 87 modifica]posseggo, e vorrei dormirvi tranquillamente nè più nè meno che stando a terra.» Un terzo sostenne essere impossibile che quel vascello avesse potuto penetrare in quel canale dove non potevano pescare abbastanza nemmeno i battelli; affermò di averlo veduto dar fondo al di là dell’isola d’Ambra, di modo che se la mattina facesse vento starebbe in sua mano il trarsi in alto o l’entrare in porto; altri dissero altro, e mentre quella gente così cicalava alla maniera de’ creoli sfaccendati, Paolo ed io ce ne stavamo taciti affatto. Rimanemmo colà fino al primo albeggiare; ma il cielo era ancora fosco sì, che niuna cosa si poteva discernere in mezzo all’acqua tutta coperta di nebbia: vedemmo soltanto una specie di nube oscura, che ci fu detto essere l’isola d’Ambra, la quale sta discosta dalla terra qualche mezza lega. In quel luogo tenebroso non si vedeva altro che la punta del lido, su cui eravamo, ed alcuna delle vette de’ monti posti dentro l’isola, le quali si travedevano a quando a quando framezzo alle nuvole ond’erano attorniate. Intorno alle sette del mattino si udì nel bosco un suono di tamburo; era il governatore monsignor De la Bourdonnais che veniva a cavallo, accompagnato da una mano di soldati, e seguito da un gran numero di abitanti e di mori. Egli collocò i suoi soldati sulla spiaggia, ed ordinò che sparassero tutti a un tratto i loro fucili. Fatto appena questo sparo si vide sul mare una luce, e quasi nel tempo stesso s’udì un colpo di cannone. Si conobbe allora che il vascello era poco lontano, e corse ognuno a quella volta: colà apparve per entro alla nebbia il corpo di un gran vascello colle sue antenne; ed eravamo sì presso a lui, che, non ostante il gran romore delle onde, si udiva il fischio del comandante, e la voce de’ marinari che tutti insieme gridarono per tre volte: Viva il re! Perciocchè questo è il grido de’ Francesi tanto negli estremi pericoli, quanto nella grande esultanza: pare che in mezzo ai pericoli vogliano chiamare in soccorso il loro principe, ovvero, che annuncino d’essere vicini a morire per lui. Dall’istante, in cui il Saint-Geran s’avvide che noi eravamo in situazione da poterlo soccorrere, continuò lo sparo del cannone di tre in tre minuti. Il signor De la Bourdonnais ordinò che fossero accesi grandi fuochi [p. 88 modifica]qua e là sulla spiaggia, e mandò in tutte le case vicine a pigliare viveri, tavole, corde e botti vuote. Si affollarono colà tosto gli abitanti de’ quartieri della Polvere d’Oro, del quartiere di Flaque e del fiume del Bastione, e dietro a loro venivano gli schiavi recando vettovaglie ed attrezzi d’ogni maniera. Da quella gente uscì un vecchio il quale, accostatosi al governatore, gli disse: «Signore, il monte ha mandato orrendi rumori tutta la notte, nel bosco tremano le foglie, sebbene non vi spiri vento; gli uccelli marini si riparano a terra, questi sono certamente tutti segni d’una tempesta. — Pazienza! amici cari, rispose il governatore, noi ce l’aspettiamo e senza dubbio anche il vascello se l’aspetta.»

Ed in vero ogni cosa dava a vedere essere imminente la tempesta. Le nubi che ci stavano sul capo erano negre in guisa spaventosa nel mezzo, tenendo all’intorno il color del rame, l’aria risuonava delle grida dei colombi di mare, delle fregate, dei fendiacqua e di cento altri uccelli marini, i quali ad onta del gran bujo, venivano da ogni banda a ricoverarsi nell’isola.

Intorno alle nove ore del mattino vennero dal mare mugghii spaventevoli somiglianti allo scrollo del tuono ed al rovinio d’un torrente. «Ecco la tempesta!» gridò allora ognuno; ed in quel punto un turbine violento portò via la nebbia che ricopriva l’isola d’Ambra ed il suo canale, sì che apparve netto il Saint-Geran. Vedevasi la sua coverta tutta piena di gente, abbassate tutte le antenne, e l’albero di gabbia, la bandiera ripiegata, quattro gomene lo tenevano da prora, ed una da poppa; egli avea dato fondo tra l’isola d’Ambra e la terra al di qua del cordone di scogli che circonda l’isola di Francia, attraversato da lui in un luogo dove niuno era passato in prima. La sua prora era rivolta al mare, ed a mano a mano che venivano le ondate ella si levava alto per modo che stava tutta in aria la carena, e nel tempo stesso la poppa si tuffava fino all’ultima fascia. Collocato il vascello in tale posizione dove il mare ed il vento lo spingevano verso terra, era grande fatalità, che non solo egli non potesse dare indietro, ma nemmeno, tagliate le gomene, lasciarsi gittare in secco, attesi gli scogli che lo tenevano disgiunto dal lido. Ogni onda che veniva a rompersi [p. 89 modifica]contro terra s’avanzava ruggendo per mezzo alle roccie, lanciando lungi la ghiaja; quindi al suo ritirarsi lasciava asciutta una gran parte del letto, rotolando seco i ciottoli con orrendo suono. Fra gli scogli si ammassava la schiuma dove era alta più di sei piedi, e, spazzata via a mano a mano dal vento, andava a spargersi lontano mezza lega sino alle falde dei monti. Quei fiocchi bianchi cacciati orizzontalmente pareano neve che uscisse dal mare. L’orizzonte dava tutti i segni di una lunga burrasca; vi si vedeva confuso il mare col cielo, donde staccandosi incessantemente certe nuvole d’orrenda forma, passavano sul nostro capo veloci quanto gli uccelli, nel mentre che alcune altre stavano immobili a guisa di grandi roccie. In niun angolo appariva l’azzurro del cielo, il quale non mandava altra luce che olivastra e pallida, di che tutto si tingeva ciò che appariva in terra, in mare ed in aria.

Nell’ondeggiare del vascello accadde, appunto come si temeva, che le gomene si ruppero, sicchè non avendo più ritegno, toltone un’ancora di sponda, fu lanciato sugli scogli discosto mezzo tratto d’ancora dalla riva: allora si levò fra noi un doloroso strido universale. Paolo volea gittarsi in mare; ma afferrandolo io per un braccio: «Figlio mio, gli dissi, volete lasciarvi la vita? Ah, lasciate, esclamò egli, lasciate che vada ad ajutarla o che muoja.» Vedendo noi che un affanno disperato lo acciecava, per tor via il pericolo che andasse a male, fu pensato di annodargli una corda ai fianchi, della quale Domingo ed io agguantammo un capo: egli si avanzò verso il Saint-Geran ora nuotando ed ora camminando su per gli scogli. Alcuna volta gli parve di poterlo raggiungere, chè il mare disordinato negl’impeti suoi lasciava di quando in quando il vascello quasi in secco, talchè uno avria potuto camminargli attorno, ma in quel che si avanzava Paolo pieno di speranza, l’onda ritornava più furente che mai ad investire co’ suoi cavalloni immensi tutto il vascello, levando in alto la carena, e gittando lo sciagurato Paolo sulla spiaggia colle gambe scorticate, col petto tutto livido e mezzo affogato.

Appena quel misero giovine potea riavere i sensi smarriti, si levava di nuovo, e con grandissimo ardore spingevasi alla volta del vascello; ma esso cominciava [p. 90 modifica]già a mostrare spaventevoli spaccature: allora la gente che stava là sopra, non vedendo altra via di salvezza, pose in acqua antenne, assi, gabbie di polli, tavole e botti, e su quelle lanciatosi ognuno, fu il vascello abbandonato. Videsi in quel punto un oggetto degno di una eterna compassione: apparve sul palco di poppa del Saint-Geran una giovinetta che allungava le braccia verso colui che faceva tanti sforzi per giungere a lei. Ella era Virginia, la quale aveva conosciuto il suo amante alla sua intrepidezza. La vista di quell’amabile fanciulla esposta ad un tanto pericolo ci riempì di dolore e di desolazione. Ella pur conservando la nobiltà e la quiete del suo portamento, ne dava colla mano un eterno addio. Eransi i marinari tutti gittati all’acqua, un solo ne restava sulla coverta ignudo e nerboruto quanto un Ercole; questi si avvicinò rispettosamente a Virginia, e noi lo vedemmo prostrarsi innanzi a lei, e tentare in ultimo di levarle d’attorno l’impaccio delle vesti; ma ella respingendo contegnosa volse altrove lo sguardo. «Salvatela!» gridarono allora tutti. «Salvatela! replicarono: non l’abbandonate!» Ma in quell’istante un’orribile ondata alta come un monte, fosca ne’ fianchi, biancheggiante di schiuma sulla cima s’ingolfò tra l’isola d’Ambra e la terra, e s’avanzò ruggendo verso il vascello: a quella vista tremenda il marinajo balzò solo in mare: e Virginia vedendo inevitabile la morte pose una mano sulle vesti, l’altra sul cuore, e levato l’occhio suo sereno parve un angelo che spiegasse il volo verso il cielo.

O giorno orrendo! Aimè! Ogni cosa fu ingojata. La frangente cacciò molto indietro sulla spiaggia una parte degli spettatori che l’umanità avea tirati avanti verso Virginia, e lanciò sul lido quel marinajo che avea voluto trarla, nuotando, a salvamento; egli, campato da certa morte, s’inginocchiò sull’arena, e: «Mio Dio, disse, voi mi avete salvato la vita; ma io l’avrei data di cuore perchè fosse salva quella degna fanciulla che non ha mai voluto spogliarsi.» Domingo ed io trassimo dalle onde l’infelice Paolo tramortito, a cui usciva il sangue dalla bocca e dalle orecchie. Il governatore lo affidò ai chirurghi, e noi ci diemmo a scorrere la spiaggia per vedere se mai il mare vi gittasse il corpo di Virginia; ma, essendosi repentinamente mutato il [p. 91 modifica]vento, siccome avviene nelle tempeste, ci avvedemmo, non senza un grande rammarico, che ne sarebbe tolto perfino il conforto di poter dare sepoltura a quella sventurata fanciulla. Abbandonammo dunque quel luogo cogli animi costernati ed avviliti, querelandosi ogni persona di una perdita sola, dove grande era il numero dei morti per quel naufragio, e molti vedendo qual fine funesto era toccato ad una sì virtuosa giovinetta, dubitaron quasi della Provvidenza, perciocchè accadono alle volte sciagure sì orrende e sì immeritate, che fino il saggio sente vacillare la sua speranza.

Paolo cominciava a riaversi, ma non essendo ancora in istato di poter esser trasportato quassù, lo lasciammo in una casa di quei dintorni. Io me ne tornai con Domingo per disporre la madre di Virginia e la sua amica a questo caso atroce. Arrivati là dove ha fine la vallata del fiume dei Latanieri, alcuni mori ci dissero che il mare gittava molti avanzi del vascello nell’opposto seno: scendemmo tosto colà, e prima d’ogni altra cosa mi si parò davanti il corpo di Virginia. Era mezzo coperto di sabbia, e conservava l’atteggiamento in cui l’avevamo veduta morire; quasi niuna alterazione era nella sua faccia, chiusi erano gli occhi; ma la fronte nulla avea perduto del suo sereno, se non che si vedevano nelle sue guance mescolate le pallide viole di morte alle rose del pudore. Stava una mano sulle vesti, l’altra sul cuore, ed era questa serrata fortemente ed intirizzita: dischiusala a stento, io ne trassi fuori una scatoletta: vi lascio pensare se rimasi attonito, trovando rinchiuso in quella il ritratto di Paolo, ch’ella avea conservato fino alla morte, siccome gli aveva promesso. Quest’ultimo contrassegno della costanza e dell’amore di quella giovinetta sventurata mi fece da capo piangere amaramente. Il povero Domingo battevasi il petto ed empiva l’aria di strida pietose. Trasportammo quel corpo in una capanna di pescatori, ove alcune povere donne del Malabar tolsero impegno di lavarlo e di guardarlo. Lasciatele in quel mesto officio, noi salimmo, tremando, quassù, e trovammo la signora De la Tour e Margherita, le quali stavano facendo orazione per la salvezza del vascello. Al vedermi, la signora De la Tour gridò: «Dov’è mia figlia, la mia cara figlia, il sangue mio?» E perchè il mio silenzio [p. 92 modifica]e le mie lagrime non la lasciarono più dubitare della sua disgrazia, sentissi incontanente affogata da un dolore angoscioso, che toltale in tutto la voce, non le permise altro sfogo che di frequenti singhiozzi; Margherita sclamò anch’ella: «Dov’è mio figlio? Ahi! non vedo il figliuol mio!» e svenne. Noi le demmo soccorso, e come si risentì, io l’accertai che Paolo viveva, e che il governatore pensava a lui; la si diede dunque tutta a sovvenire la sua amica, la quale cadeva di tratto in tratto in lunghe sincopi, e tanto ebbe a soffrire tutta la notte, che io congetturai che nessun dolore può stare a petto a quel di una madre. Allorchè riprendeva ella fo smarrito sentimento, alzava lo sguardo al cielo e vel tenea immoto, nè valeva che noi le stringessimo affettuosamente le mani, e la chiamassimo coi nomi più teneri, chè nessun sentore dava mai d’avvedersi di quei segni dell’antica nostra amicizia, nè dal suo petto soffocato usciva altro fuor che gemiti profondi.

La mattina fu portato in un palanchino Paolo, il quale aveva ricuperati i sensi; ma non poteva ancora proferire una parola: il trovarsi egli insieme con sua madre e colla signora De la Tour, di che io temetti in prima potesse avvenir male, giovò anzi molto più che non aveva fatto tutto lo studio mio fin allora, chè videsi tosto apparire un raggio di consolazione sul volto di quelle madri sventurate, le quali, fattesi intorno al rimasto figliuolo, ed abbracciatolo e baciatolo tenerissimamente, cominciarono a dare sfogo di lagrime a quel dolore che fatalmente aveano tenuto serrato fino allora nel seno. Pianse anch’egli Paolo indi a poco, sì che dopo tale sfogo sollevati in qualche modo quei tre infelici dal dolore convulsivo, rimasero a lungo sopiti, ed ebbero per questa via un riposo, o, diciam meglio, un letargo poco dissimile, per vero dire, da quel della morte.

Il signor De la Bourdonnais mandò di cheto ad avvertirmi che il corpo di Virginia era stato trasportato d’ordine suo alla città, donde doveva essere portato a processione fino alla chiesa dei Pamplemussi. Scesi subitamente a Porto-Luigi, dove io vidi radunata una grande quantità di gente accorsa da tutte la bande per assistere a questo funerale, come se l’isola avesse [p. 93 modifica]perduto in quella giovinetta tutto quanto essa aveva di più caro. Nel porto i vascelli avevano posto le antenne in croce, ripiegate le bandiere, e sparavano di tratto in tratto il cannone. Al suono lugubre di tamburi coperti di velo nero andava innanzi alla processione una compagnia di granatieri, i quali portavano gli archibusi abbassati, e si vedevano tutti conturbati in viso per questa disgrazia quegli stessi guerrieri che intrepidi avevano già affrontata la morte nelle battaglie. Otto giovinette delle primarie case dell’isola, vestite di bianco, con in mano rami di palma, portavano il corpo della loro virtuosa compagna su d’una bara tutta coperta di fiori. Venivano appresso molti fanciulli cantando inni a coro; seguivano quelli tutte le persone graduate dell’isola, tanto nell’ordine civile, quanto nel militare, ultimo veniva il governatore, e dietro a lui il popolo in folla.

Ecco in qual modo fu ordinato quel funerale dal governo dell’isola per onorare in qualche maniera la virtù di quella giovinetta. Ma quando la bara giunse alle falde di questo monte, rimpetto a queste capanne, già liete della presenza di quella giovinetta, e desolate quindi per la sua morte, tutta l’ordinanza del funerale fu scomposta: il canto funebre cessò, e le orazioni furono interrotte, nè più altro s’udì che sospiri, singhiozzi e lamenti. Vedevansi accorrere dai dintorni le giovinette, le quali, affollandosi intorno alla bara, facevano toccare a quella fazzoletti, rosari e corone di fiori, raccomandandosi a Virginia non altrimenti che ad una santa. Le madri domandavano a Dio una figlia uguale a lei: i giovani un’amante così costante, i poveri una amica sì pietosa, gli schiavi una padrona cotanto umana. Giunto il corpo al luogo della sepoltura, si avvicinarono alcune more del Madagascar ed alcuni cafri del Mosambic, e secondo l’usanza delle loro contrade, chi depose intorno alla fossa canestri di frutti, e chi appese lembi di drappo agli alberi circostanti; si videro indiane del Bengala e delle coste del Malabar recare gabbie piene di uccelli, ai quali diedero la libertà sul corpo di Virginia; tanto duole ad ogni nazione la perdita di un amabile oggetto! e tanto può la virtù sventurata che tutte le religioni s’accordano ad onorare la sua tomba. [p. 94 modifica]

Furono sull’orlo della fossa a spargere dirotto pianto alcune miserabili fanciulle, e si disperato era il loro dolore, che bisognò staccarle di là a forza, poichè volevano in ogni modo gittarvisi dentro, affermando che per loro non vi era più speranza di consolazione sulla terra, e che voleano quindi morire coll’unica loro benefattrice.

Fu sepolta presso la chiesa dei Pamplemussi, dal lato occidentale, vicino ad un boschetto di bambù, dove, quando veniva a messa con sua madre e con Margherita, godeva di riposare seduta a fianco di colui che soleva chiamare suo fratello.

Dopo quel funerale il signor De la Bourdonnais venne qui a cavallo, accompagnato da una parte del suo corteggio; offerì alla signora De la Tour ed alla sua amica di sovvenirle per quanto poteva. Disse poche parole, ma piene d’indignazione contro quella snaturata sua zia, ed avvicinatosi a Paolo gli parlò nel modo che gli parve più acconcio per confortarlo: «Io volli fare, gli disse, la felicità vostra e quella della vostra famiglia. Iddio lo sa se questo fu il mio desiderio. Mio caro amico, voi dovete assolutamente andare in Francia, io vi farò avere colà una carica, e nella vostra assenza io avrò cura della madre vostra come della mia»; ed in questo gli offrì la mano; ma Paolo ritirò la sua, e torse il capo per non vederlo.

Io rimasi presso le sventurate mie amiche, affine di porgere a loro ed a Paolo quei soccorsi che stavano in me. In capo a tre settimane Paolo potè reggersi in piedi, ma pareva che il suo affanno divenisse maggiore quanto più andava ricuperando le forze. Era insensibile ed indifferente ad ogni cosa; l’occhio suo era torbido; nè si poteva mai trarne alcuna risposta per quante domande a lui si facessero. La signora De la Tour, che era mezzo spirante, gli diceva: «Figlio caro, fintantochè potrò veder voi m’immaginerò di vedere la mia cara Virginia». A questo nome egli era scosso da un moto convulsivo, e quindi fuggiva immantinente lontano da lei, nè voleva più accostarsele, sebbene sua madre lo invitasse e lo pregasse di trattenersi a consolare l’amica. Solo ritiravasi nel giardino, sedeva a piè del cocco di Virginia, e tenea fissi gli occhi nella sua fontana. Il medico del governatore, che avea posto [p. 95 modifica]ogni studio intorno a lui ed intorno a quelle donne, ci disse che per cavarle da quella nera malinconia bisognava lasciar che facesse tutto quello che gli talentava senza contrariarlo mai, non essendovi, come egli affermava, che quest’unico mezzo per vincere quel suo ostinato silenzio.

Risolsi d’abbracciare questo consiglio, e siccome appena quel misero si sentì in forza si tolse via tosto della casa, non levandogli io mai l’occhio d’addosso, mi posi a seguirlo, ordinando a Domingo di portar seco qualche cosa da mangiare e di tenerci dietro. A mano a mano che scendeva da questo monte pareva che tornasse in lui la gioja ed il vigore. S’avviò primamente verso la chiesa dei Pamplemussi, e come fu al viale dei bambù si dirizzò al luogo dove la terra era smossa di fresco; ivi s’inginocchiò, ed alzati gli occhi al cielo, fece orazione un pezzo. Da questo passo io pronosticai bene della sua guarigione, poiché questo contrassegno di fidanza in Dio dava a vedere che le sue idee andavano ripigliando il loro ordine naturale. Levatosi di là, s’incamminò alla volta del nord dell’isola senza badare a noi. Sapendo io ch’egli ignorava non solo il luogo dove era stata sotterrata Virginia, ma persino se l’avessero o no tratta dal mare, volli domandar perchè avesse fatto orazione colà fra quelle piante. Rispose: «Vi andavamo sì spesso!» Proseguì il suo cammino fino al bosco, dove ci fu addosso la notte. Io mi posi a mangiare per indurlo a fare lo stesso, ed ottenuto il mio fine, ci ponemmo a dormire sull’erba al piè d’un albero. La mattina vegnente io sperava che tornasse indietro. Tenne in fatti l’occhio fisso alquanto verso la pianura, ed osservando la chiesa dei Pamplemussi ed i suoi lunghi viali di bambù: accennò con un certo moto di voler tornare laggiù; ma tutto a un tratto si cacciò invece nel bosco, volgendo i passi verso il nord. Conobbi il suo pensiero, e mi forzai di levarglielo dal capo, ma invano: arrivammo dunque verso il mezzodì al quartiere della Polvere d’Oro, ivi egli calò giù precipitosamente fino alla riva del mare, rimpetto al luogo dove fu sommerso il Saint-Geran, ed al vedere l’isola d’Ambra ed il suo canale quieto allora e liscio come uno specchio, gridò: «Virginia! o mia Virginia!» e cadde svenuto. Lo portammo [p. 96 modifica]nel bosco, dove, non senza una grande fatica, potemmo richiamarlo in sè. Volle allora tornare alla riva del mare; ma tanto io lo pregai di lasciar andare quelle amarissime rimembranze onde esacerbava il suo ed il nostro dolore, che lo indussi a volgere i passi altrove; e correndo tutto il dì visitò nello spazio di otto giorni tutti i luoghi dove già era stato colla compagna della sua fanciullezza. Volle battere tutto quel sentiero che già fecero quando ricondussero quella schiava al fiume Nero. Fu appresso sulle sponde del fiume delle Tre Mammelle, dove ella si assise per non poter più andar innanzi, si aggirò in quel bosco dove la si smarrì. Tutti, tutti andò cercando que’ luoghi che richiamavano alla sua memoria le cure fanciullesche, i giuochi e le beneficenze della sua cara: volle rivedere il fiume del monte Lungo, la mia casetta, la vicina caduta, il papajo piantato da lei, l’erba dove ella godeva di correre, que’ siti del bosco dove ella soleva fermarsi a cantare, e dappertutto spargeva un gran pianto, gridando dolorosamente: «Virginia! mia cara Virginia!» e Virginia! ripeteva in tuono dolente quell’eco stessa, che soleva in prima ripetere le loro grida giulive.

Per siffatta vita selvatica e vagabonda la sua salute peggiorò molto, tantochè facevano spavento quegli occhi suoi incavernati e quel suo viso ingiallito. Allora, considerando io che gli affanni nostri si fanno più acuti quando ci sta presente la memoria dei passati piaceri, e che ogni passione dell’animo ingagliardisce nella solitudine, determinai di portar via lo sventurato mio amico da quei luoghi che gli tenevano sempre sott’occhio l’idea della grande sua perdita, e di condurlo in alcuna delle parti più abitate di quest’isola: lo trassi quindi sulle alture abitate del quartiere di Williams, dove egli non era mai stato in prima. Ivi l’agricoltura ed il commercio danno movimento e varietà ad ogni cosa. Si vedevano molti falegnami occupati a riquadrare legni, ovvero a segarli: le strade piene di carri andanti e vegnenti erano un via vai che frastornava: la fertilità del luogo appariva per le vaste praterie e per le numerose mandre di buoi e di cavalli, e per le spesse case onde erano seminate le campagne, il cui terreno elevato sosteneva varie specie di frutti europei. Qui ondeggiava una messe, [p. 97 modifica]colà rosseggiava il terreno tutto coperto di fragole, e lungo le strade sorgean siepi di rose. Ivi la freschezza dell’aria tiene in distensione i nervi, ed è però molto confacente alla salute dei bianchi. Da quelle alture poste verso il mezzo dell’isola, e cinte di spaziose foreste, non vedevamo nè il mare, nè il Porto-Luigi, nè la chiesa dei Pamplemussi, nè alcun’altra cosa che lo potesse invitare al pensier di Virginia; perfin quei monti che veduti dal Porto-Luigi compariscono spartiti in diversi rami, altro non pajono, stando sulle pianure di Williams, che un lungo e diritto promontorio, sul quale torreggiano alcune piramidi circondate di nuvole.

Colà io lo condussi e lo teneva continuamente in moto, andando seco dì e notte, al sole ed alla pioggia, facendolo smarrire a bello studio per mezzo a’ boschi ed ai seminati affine di tener distratta la sua mente colla corporale fatica e per isviare il suo pensiero colla novità del sito e colla dubbiezza dello smarrito cammino; ma un’anima amante è sempre diretta verso l’amato oggetto: nulla potè togliere a quell’infelice quella sua idea fatale, nè la notte, nè il dì, nè la calma della solitudine, nè il romore de’ luoghi abitati, nè il tempo che porta via con sè tante rimembranze; così indarno tenterebbe alcuno di togliere la naturale sua tendenza all’ago calamitato coll’agitarlo, chè appena avrà posa tornerà sempre a volgersi al polo. Allorchè essendo noi smarriti nelle pianure di Williams, io diceva a Paolo: «Da qual parte ci volgerem noi adesso?» egli si voltava verso il nord, e diceva: «Ecco i nostri monti, torniamo colà».

M’accorsi essere vani affatto tutti i mezzi che io adoperava per cavargli quella spina dal cuore, vidi di non potere ormai più altro fare che combattere di fronte la sua passione, mettendo in opera tutta la forza della mia debole ragione. Io gli risposi adunque: «Sì bene; quelli sono appunto i monti ove dimorava la vostra cara Virginia, ed è questo il ritratto che voi le avevate donato, e che morendo tenne stretto al suo cuore, il quale palpitò per voi fino all’estremo»; e gli presentava il ritrattino ch’egli aveva donato a Virginia in riva al fonte dei cocchi. A quella vista brillò una gioja funesta negli occhi suoi, afferrò avidamente quella [p. 98 modifica]scatoletta, e se l’accostò alla bocca; ma nella piena degli affetti rimase affogato il suo cuore, e l’occhio suo sanguigno non potè aver lagrime per piangere; ed io a lui: Deh, figliuol mio! date retta all’amico vostro, il quale fu anche amico di Virginia, a quegli che in mezzo alle vostre speranze ha tentato spesse volte di esercitare la vostra ragione a sostenersi incontro alle avversità della vita. Da che deriva questo vostro dolore inconsolabile, amarissimo? Dalla disgrazia vostra forse, ovvero da quella di Virginia?

«La disgrazia vostra?... Ah sì! essa è immensa, non v’ha dubbio. Voi avete perduto la più amabile fra le fanciulle, che doveva essere la più degna infra le spose. Aveva abbandonato l’essere suo per abbracciare il vostro, ed aveva calpestate le ricchezze per venire a voi, chè in voi solo ella vedeva un premio degno della sua virtù. Ma, chi vi assicura che quella donna, da cui pareva pur che doveste aspettare una grande felicità non fosse destinata piuttosto a riuscirvi una fonte di mille guai? Povera e diseredata, che le restava a fare se non inchinarsi al lavoro con voi? e nel lavoro l’avreste veduta venir meno, resa delicata dall’educazione, quantunque incoraggiata dalle sciagure. Poi, divenuta madre, eccovi stretti ambidue da mille cure affannose: da una parte la cadente famiglia, dall’altra la nascente, tutti chiedenti sostentamento.

«Voi mi direte: Il governatore ci avrebbe dato soccorso; ma pensate voi che negli spessi cambiamenti di governo che nascono in questa colonia, sia per toccarne sempre un De la Bourdonnais? Non potrebbe egli capitar qui un governatore ingiusto e scostumato? Figuratevi un po’ la sposa vostra costretta a corteggiar questo tale per averne qualche ajuto: in quel frangente supponetela debole, eccovi infelice; vogliatela savia, sareste rimasto povero.... e per lo meno, chè forse la bellezza e la virtù della moglie vostra avrebbero potuto tirarvi addosso persecuzioni in luogo degli sperati soccorsi. Ma voi replicate: Nessuna disgrazia avrebbe avuto il potere di togliermi la consolazione d’essere io stesso il protettore della mia cara moglie, tanto maggiormente stretta a me quanto più debole, di portare io tutto il suo affanno, [p. 99 modifica]di togliere sopra di me ogni grave pensiero, e di rinvigorire l’amor nostro colla comunanza dei guai. So che l’amore e la virtù si pascono di cotali amari diletti. Ma, poichè infine ella se n’è andata, pensate che vi ha lasciato ciò che amava più d’ogni altra cosa dopo voi, la madre sua e la vostra, le quali moriranno sicuramente anch’esse se voi più persisterete in queste straordinarie dimostrazioni d’inconsolabile affanno: ponete, siccome ella faceva, ogni vostro contento nel dar loro ajuto. La virtù, figliuol mio, non ha maggior diletto che quello del far bene altrui, ed è questa l’unica felicità vera sulla terra. Conviene egli forse all’uomo, che vi dimora un giorno, l’intrattenersi con vasti disegni di piaceri, di riposo, di delizie, d’abbondanza, di gloria? Osservate un po’ quanti disastri hanno rovinato addosso a voi, per avere soltanto concepito speranza di un prospero avvenire. Voi avete dissentito sempre, questo è il vero; ma chi avrebbe potuto immaginare che l’andata di Virginia non dovesse tornare in grandissimo pro di lei e di voi? L’invito di una parente ricca ed attempata, i consigli di un governatore discreto, il sentimento unanime di tutta la colonia, le esortazioni e l’autorità di un sacerdote, tutto concordò al danno di Virginia; così avviene spesso che fin la prudenza di chi ci governa manda le cose nostre a perdizione. Meglio era, senza dubbio, non dar retta a nessuno, e non riporre per niente fidanza negli inviti e nelle lusinghe di un mondo ingannatore. Ma, in conclusione, fra tanti uomini che noi vediamo affaccendarsi in questa pianura, fra tanti altri che navigano alle Indie per arricchire, fra tutti quelli che stando a casa traggono quietamente profitto dalle fatiche altrui, ve n’ha egli un solo per cui non debba arrivar quel dì fatale, in cui dovrà perdere in un attimo tutto quanto possiede di più caro, grandezza, dovizie, moglie, figli, amici? E quanti avranno per soprappeso una coscienza inquieta! Buon per voi che dal canto vostro non avete fatto nulla fin qui che possa cagionarvi rimorso. Avete serbata la fede; sul fiore degli anni avete adoperato con molta prudenza in ogni cosa, seguendo nientedimeno il dettame della natura. Voi solo aveste una mira legittima sopra Virginia, perchè la vedevate con occhio puro, semplice, [p. 100 modifica]disinteressato; quindi sacri erano i vostri diritti, nè vi poteva essere ricchezza niuna al mondo che li controbilanciasse. L’avete perduta; ma questo non è avvenuto nè per la vostra imprudenza, nè per avarizia, nè per un falso vedere. Iddio ve la toglie, servendosi per ciò delle altrui passioni: Iddio, dal quale vi è derivato ogni cosa, che vede quello che fa per voi: Iddio che vi fa ora franco dal pentimento e dalla desolazione che accompagnano la sciagura allorchè vi abbiamo avuto parte. Io non ho meritata questa disgrazia, ecco quello che voi potete dire.

«Ma è egli forse il duro infortunio di Virginia quel che vi tocca? commiserate forse la morte sua e l’essere suo presente? Ella non ha incontrato altro che la sorte destinata alla grandezza, alla beltà, agli imperi. La vita dell’uomo con tutte le sue macchinazioni sorge come una torre sul cui fastigio siede la morte. Non era Virginia condannata a morire fin dal suo nascere? E non fu a lei forse gran sorte l’uscir d’impaccio prima di sua madre, prima di Margherita, prima di voi, sfuggendo per tal modo molte morti, che avanti l’ultima avrebbe dovuto incontrare?

La morte, figliuol mio, è per tutti gli uomini un vero bene; dessa è la sera di questo giorno travagliato, che chiamano vita. Il sonno della morte mette fine per sempre alle malattie, ai dolori, agli affanni, ai timori, ond’è sempre combattuto lo sciagurato viver nostro. Ponete mente alla sorte di quelli che sono riputati felici; intenderete che cosa è quella loro felicità ed a che prezzo l’han comperata; per acquistar gli onori rinunciarono alla domestica pace, ammassarono ricchezze a costo della salute; il piacere rarissimo dell’essere amati sel procacciarono con grandi e continui sagrifizii e spesso sul finire di una vita tutta consacrata all’altrui utilità s’avvedono di non avere intorno altro che falsi amici e parenti ingrati. Ma quanto a Virginia, ella non fu mai altro che felice: lo fu stando qui con noi a godere dei beni della natura; lontano rendevala felice la sua virtù, e felice fu perfino nel terribile momento in cui la vedemmo perire, perciocchè o mirasse la colonia tutta crucciarsi per lei, o mirasse voi correre intrepido per darle ajuto, non potè vedere altro se non d’essere carissima ad ogni [p. 101 modifica]persona, pensò alla sua vita innocente, e potè mirarne arditamente la fine, chè Iddio le concedette un coraggio maggiore di ogni pericolo; premio questo spettante alla virtù sola, andò incontro alla morte con un viso sereno.

«Iddio, figlio caro, sottomette la virtù a tutti i traversi avvenimenti della vita per mostrare come essa sola sa cavarne giovamento, e farne scaturire gloria e felicità; quando egli la vuole far degna di plauso, la solleva sopra un vasto teatro, ed ivi la fa combattere colla morte; il suo valore serve quindi d’esempio, ed i posteri danno perpetuo onore di lagrime al suo travaglio. Ecco quale immortal monumento le vien eretto su questa terra dove tutto perisce, e dove casca in dimenticanza fin la memoria dei più gran re.

«Ma Virginia vive ancora. Osservate, mio caro, come ogni cosa sulla terra cambia di forma, nè per ciò va perduto un solo atomo. Non v’è accorgimento d’uomo che vaglia a ridurre in nulla la minima porzione d’insensata materia, e potrà essere annientato ciò che fu sensibile, ragionevole, amante, virtuoso, religioso, quando nissuno ha potestà di sperdere gli elementi che lo rivestivano? Ah! se Virginia fu felice con noi, lo è adesso ben più. V’ha un Dio, figliuolo diletto: la natura tutta quanta lo predica; non è mestieri di prove: la sola umana nequizia nega una giustizia di cui paventa: ma voi lo sentite nel cuore questo Iddio, sì come lo ravvisate nelle opere sue. E vorrete pensare ch’egli lasci senza premio la virtù di lei? Pensate voi che quella mano istessa, la quale formò per quell’anima sì nobile un corpo sì bello, che una divina maraviglia voi lo dicevate, non avesse possanza che basta per camparla dal naufragio? Dubitereste che quell’Intelletto infinito che ha posto ordine alla creata felicità umana con leggi a noi ignote possa con altre leggi, sconosciute egualmente, ordinare una felicità nuova per lei? Se fossimo stati capaci di pensiero quando eravam nulla, avremmo noi immaginato giammai la qualità di questa nostra esistenza? E mentre ora teniamo quest’essere tenebroso e fuggente, chi può prevedere che cosa vi sia oltre il passo della morte che abbiamo a varcare? Il picciol globo della nostra terra è forse teatro sul quale Iddio venga a cercare [p. 102 modifica]spettatori e plaudenti alle opere immense della bontà sua? Chi lo costringe a far iscaturire l’umana vita soltanto là dove ella è destinata ad essere preda della morte? Non ha l’oceano una sola goccia d’acqua, in cui non vi siano viventi destinati ad essere a mano a mano trasfusi in noi per infinite strade ignote, e per noi non vi sarà stanza alcuna fra i cotanti astri che si aggirano sul nostro capo? E che! vorrem noi credere che la suprema intelligenza creatrice e la reggitrice bontà stiano ristrette nel cantuccio dell’universo dove siam noi? Ed in que’ globi raggianti e senza numero, in quei campi immensi di luce, non oscurata mai nè da notti nè da procelle, non vi sarà altro che uno spazio vano, un nulla eterno, infinito? Se noi, che niente abbiamo del nostro, volessimo così por limiti alla potenza dalla quale teniamo ogni cosa, potremmo anche pensare d’essere collocati sul confine del suo impero, dove la vita da lui donata è tolta dalla morte che da lui non dipende, e dove una straniera tirannia può, contro la volontà di lui, oppressare l’innocenza.

«Non è a dubitare dell’esistenza di un luogo dove abbia suo premio la virtù. Virginia è ora felice. Ah! se dal soggiorno degli angeli potesse farvi arrivar la sua voce, vi direbbe, come sulla rupe dell’Addio: O Paolo! La vita non è altro che una prova. Io sono stata giudicata fedele alle leggi della natura, dell’amore e della virtù; ho passati i mari per ubbidienza, ho rinunciate le ricchezze per guardare la fede dei miei giuramenti, ed ho voluto prima essere morta che violare il pudore. Il cielo ha pronunziato avere io sufficientemente adempiuto al mio debito. Io sono campata, e per sempre, dalla povertà, dalla calunnia, dalle tempeste, dalla vista penosa degli altrui patimenti. Niuno fra i tanti mali che dànno spavento agli uomini potrà aggiugnermi mai più, e voi mi commiserate? Son fatta pura ed immutabile come la luce, e voi mi vorreste ancora fra le tenebre di cotesta vostra vita? O Paolo, o mio caro! rammenta quei dì fortunati in cui sorgendo l’aurora noi godevamo quella soavità inesprimibile che veniva da un ciel sereno, ed in compagnia dei raggi del sole si spandeva intorno alle roccie, nei prati, nel seno dei boschi. Noi sentivamo allora un diletto grandissimo, e non sapevamo da che derivasse: [p. 103 modifica]fra le innocenti nostre brame noi abbiamo qualche volta desiderato di non aver che occhi per goder meglio i colori ricchissimi dell’aurora, di non avere altro senso che l’odorato per gustare d’avvantaggio la fragranza mattutina delle nostre piante; di non aver che l’udito per sentir meglio i soavi canti de’ nostri uccelli, e di non essere altro che cuore per consacrarlo alla riconoscenza verso il datore di tanti beni: ma adesso l’anima mia posta alla sorgente da cui deriva tutto quanto giugne di bello e di piacevole sulla terra vostra, vede, gusta, intende e tocca immediatamente ciò che essa non poteva allora sentire che per mezzo degli organi suoi debolissimi. Ah! chi potria descrivere queste eterne piagge orientali, onde sono abitatrice per sempre? Noi godiamo qui un sentimento puro ed aperto di tutte le consolazioni create dalla potenza infinita, dalla bontà celeste per conforto dei cuori: noi gustiamo tutta l’armonia che può derivare dalla fervida corrispondenza di mille esseri amanti e felici. Fa cuore dunque, o mio Paolo, sostieni la prova che ti è data a fine di accrescere la felicità della tua Virginia con un amore che non avrà fine più mai, con immortali nozze, delle quali non vedremo mai spente le faci. Allora io consolerò le tue pene, allora io asciugherò il tuo pianto. O mio caro! O mio giovinetto marito! Volgi la tua mente all’Eterno e ti sarà facile il sopportare i guai d’un minuto.»

Qui la mia commozione pose fine al mio discorso; e Paolo, mirandomi fisamente sclamò: «Aimè! ch’io l’ho perduta! Io l’ho perduta!» e dopo questo doloroso grido cadde in un lungo svenimento, dal quale, come fu rinvenuto, disse: «Poichè la morte è un bene, e che Virginia è felice, voglio morire anch’io ed unirmi a lei.» Per tal modo tutto quello ch’io avea detto per confortarlo non valse che a fomentare il suo disperato talento. Io somigliava ad uno che si affatica per trarre dai gorghi di un torrente un uomo che vuole abbandonarvisi in ogni modo: il dolore lo avea vinto. Infelice! egli non aveva provata niuna di quelle disgrazie della prima età che dispongono l’uomo ad entrare nella carriera della vita.

Lo ricondussi finalmente a casa sua, dove trovai sua madre e la signora De la Tour più rifinita che mai: [p. 104 modifica]Margherita era a peggior partito dell’altra. Le persone d’uno spirito vivace, che nulla soffrono per i piccoli guai, rimangono costernate affatto dai grandi. Ella disse a me: «Oh non sapete, o nostro buon vicino, la gran visione che ho avuto stanotte! Mi pareva veder Virginia vestita di bianco stare in mezzo a boschetti e giardini deliziosi, e pareva ch’ella mi dicesse: Io tengo una felicità degna d’invidia. Ciò detto, si accostò a Paolo tutta festosa, e sel portò via; mentre io stendeva le braccia come per trattenere il figliuol mio, m’accorsi che anch’io mi levava su dalla terra, e li seguiva con un grandissimo diletto; mi rivolsi per dire addio alla mia amica, e vidi che anch’ella mi teneva dietro con Maria e Domingo. Ma quel che più mi stordisce, si è che l’amica mia ha fatto stanotte istessa un sogno eguale. Amica, io le risposi, io penso che tutti gli accidenti di quaggiù vengano da un divino ordinamento. I sogni annunciano qualche volta ciò che veramente deve accadere.» La signora De la Tour mi raccontò un sogno affatto somigliante, e perchè io non aveva mai scôrto in quelle donne tendenza niuna alla superstizione, la concordanza dei loro sogni mi diede una grande meraviglia, e dentro me dissi: Queste cose s’hanno a verificare assolutamente. Tutti i popoli della terra portano opinione che alcuna volta i sogni vengano forieri dei futuri avvenimenti, e tale sentenza fu tenuta da più grandi uomini dei passati tempi; fra gli altri Alessandro, Cesare, gli Scipioni, i due Catoni e Bruto, i quali erano tutt’altro che deboli spiriti; e mille esempi di sogni annunziatori di vere cose stanno registrati nel Testamento antico e nel nuovo. Quanto a me non cerco altre prove di questo, chè la mia sperienza mi è assai, avendo più d’una volta veduto essere i sogni veri avvisi che ne dà un qualche intelletto che piglia cura di noi. Che se uno volesse o combattere o sostenere a punta di ragione la verità di tutte le cose, alle quali l’occhio nostro non giugne, gitterebbe le parole: certo che, ponendo la ragione umana quale immagine di quella del nostro creatore, e vedendo come l’uomo può spingere il suo pensiero in capo al mondo, non è meraviglia che altrettanto possa operare l’Intelletto che governa l’universo. L’amico manda consolazione all’amico col mezzo d’una [p. 105 modifica]lettera, la quale, attraversando i regni, passando per entro agli odii ed al furibondo parteggiare dei popoli, arriva finalmente al suo destino apportatrice di gioja e di speranza ad un sol uomo, e non potrà il sovrano protettore dell’innocenza giugnere per istrade segrete a dare ajuto ad un’anima virtuosa che tutta ripone in lui la propria fidanza? Che mestiere è a lui per ciò di mezzi visibili, mentre tutto muove con una mano non veduta? Finalmente perchè vorrem noi combattere i sogni quando la vita nostra con tutti i suoi disegni vani e fugaci altra cosa non è fuor che un sogno?

Sia che può, la visione delle sventurate mie amiche venne prestissimo ad effetto. Paolo morì due mesi dopo il naufragio della sua cara Virginia, della quale aveva in bocca il nome continuamente; nel termine di otto giorni Margherita sentì morirsi con tal gioja che la virtù sola può far provare. Con che teneri modi pigliò commiato dalla signora De la Tour, sperando, come le diceva, di farsi poi tra loro una dolce ed eterna compagnia: «Bella cosa è la morte, diceva, io la bramo assai: se la vita è un castigo, chi non vorrà vederne presto il termine; e se l’è una prova, bisogna pregare Iddio ch’ella sia breve».

Il governo pigliò pensiero di Domingo e di Maria, i quali, resi già impotenti della persona, poco vissero più delle loro padrone; finì di vivere anche quel povero Fedele, credo il dì appresso che morì il suo padrone.

Io condussi a casa mia la signora De la Tour, la quale portava il peso di tante disgrazie con una straordinaria grandezza d’animo; fu un prodigio il vederla consolare Paolo e Margherita fino ai loro estremi, come se non avesse a piangere d’altro che della loro sciagura; e poichè ebbe perduto anche la loro compagnia, volgeva ad ogni momento le parole intorno a loro, non altrimenti che se que’ cari amici dimorassero nei dintorni: ma già non sopravvisse a loro che un mese, e allorchè cadeva il discorso sopra sua zia, si asteneva affatto dalle querele, e pregava invece Iddio che volesse perdonarle ogni cosa e concederle pace, poichè giunse la nuova che era stata assalita da un fiero turbamento d’animo, appena ebbe cacciata via con tanta crudeltà quella povera fanciulla. [p. 106 modifica]

Quella donna inumana fu in breve raggiunta dal meritato castigo. Molti vascelli arrivati di poi recarono che era agitata da tormentosi e fantastici mali, che le facevano avere in orrore la vita e la morte. Talora accusava sè stessa del fine immaturo di quella giovinetta e della conseguitata morte della madre, e talora invece lodava il proprio divisamento di ributtare due sciagurate che aveano, com’ella diceva, coperto d’infamia tutto il casato colle basse loro tendenze. Infuriava alcuna volta al vedere il gran numero de’ poveri onde formicola Parigi: — E perchè mai, gridava, non si cacciano tutti quanti cotesti oziosi a morire nelle colonie? Che mi vanno mai nojando con queste favole d’umanità, di virtù, di religione? Sono tutti i trovati della politica di chi governa. — Quindi abbandonandosi tutto ad un tratto all’eccesso contrario, davasi in preda a pensieri superstiziosi che la riempivano d’un mortale spavento. Mandava allora generose limosine a ricchi frati, che dirigevano la sua coscienza, pregando che volessero ottenerle il perdono di Dio mediante il sacrificio delle sue ricchezze, quasi che il padre degli infelici potesse aggradire ciò che a quelli ella aveva negato. Spesso il suo immaginare disordinato le metteva innanzi campi di fuoco immensi, montagne coperte di fiamme, per entro alle quali orridi spettri s’aggiravano, e la chiamavano a sè con urli orribili: correva allora a gittarsi ai piedi de’ suoi spirituali direttori, nè ad altro poteva pensare che a mostri, a fuoco, a tormenti, imperciocchè il cielo, il giusto cielo ingiugne ai cuori duri religioni piene di spavento.

Così trasse quella triste femmina gli ultimi anni suoi ora empia ed ora superstiziosa, avendo in orrore del pari la morte e la vita; ma lasciò finalmente un vivere sì misero, e le fu tolto dalla sua durezza medesima. Crucciata al vivo dal pensiero che le sue ricchezze doveano andare, dopo la sua morte, a far felici certi parenti ch’ella odiava, tenne modo di deluderli con una vendita di quasi tutto il suo avere: ma quelli, mettendo in campo certe stravaganze cagionate in lei da’ suoi fantastici mali, la fecero giudicar pazza, e, rinchiusa come tale, fu l’aver suo tutto posto sotto custodia. Così venne tradita dalle sue ricchezze medesime, [p. 107 modifica]il desiderio delle quali, avendo indurito contro lei i suoi parenti, videsi condotta all’estremo del disagio, sì che morendo sentì tutto il rammarico d’essere spogliata e dell’essere quindi disprezzata da quelle persone medesime che guidarono tutti i passi della sua vita.

A fianco della sepoltura di Virginia, all’ombra delle medesime canne, fu collocato il suo caro Paolo, ed ivi presso le loro tenere madri e que’ due buoni servitori. Quegli umili sepolcri non sono contrassegnati che da mucchi di terreno senza pietra alcuna, e senza iscrizione che predichi le virtù di chi vi sta dentro; ma sta la memoria di loro indelebile nel cuore di quelli che n’ebbero benefizii. Chi amò in vita la modestia e la solitudine non ha bisogno di cercar fama e rumore dopo la morte. Che se quelle anime pie si curano ancormò delle cose di quaggiù, godono certamente d’aggirarsi sotto i tetti di paglia abitati dalla virtù laboriosa, ed ivi consolano la povertà che mal comporta l’essere suo, accendono fiamme costanti ne’ giovani cuori, inspirano amore pei beni della natura, mantengono l’affezione al lavoro ed il timore delle ricchezze.

La voce del popolo che tace quando l’adulazione innalza superbi monumenti alla gloria dei re, ha voluto eternare la rimembranza della perdita di Virginia, con dare ad alcuni punti di quest’isola certi nomi analoghi ai fieri suoi casi. Vedesi colaggiù, presso l’isola d’Ambra, un sito denominato il canale del Saint-Geran, dal nome del vascello che vi fece naufragio nel ricondurla dall’Europa. L’estremità di quella lingua di terra che mirate colà, distante di qui tre leghe, mezzo coperta dalle onde del mare, è quella stessa intorno alla quale non potè volgersi il Saint-Geran per entrare nel porto il dì innanzi alla tempesta, e perciò chiamasi volgarmente il capo Infelice; e colà in faccia voi vedete il seno della Tomba dove trovammo Virginia coperta di sabbia, chè forse il mare nel rendere quel caro corpo a’ suoi, volle anche in quel modo onorare il suo bel pudore su questi lidi già onorati dalla sua innocenza.

O giovinetti, che foste uniti da un amore sì tenero, madri infelici, cara famiglia, questi boschi grati un tempo a voi delle loro fresche ombre, queste fonti che scorrevano per voi, questi poggi dove prendevate [p. 108 modifica]riposo, sono tuttavia contristati per avervi perduto. Nessuno dopo la vostra partenza ha osato coltivare questo terreno deserto, nè ristorare queste desolate capanne. Le vostre capre si sono inselvatichite; i vostri uccelli si sono dispersi, nè altro più qui si ascolta fuorchè le strida dei falchi, che vanno ruotando intorno alle cime di queste roccie.

Quanto a me, da che mi è tolto il vedervi, sono come un infelice che non ha più alcun amico, come un padre che ha perduti tutti i suoi figli, come un pellegrino che va errando sulla terra dove sono rimasto solo.


Così dicendo, quel buon vecchio si partì piangendo, e piansi anch’io più volte nell’ascoltare il suo pietoso racconto.





fine.

Note

  1. Pianta che dà un frutto somigliante all’arancio (aurantium decumanium).